martedì 31 marzo 2009

I 60 anni della NATO

Il prossimo 4 Aprile si svolgerà a Strasburgo l'annuale Vertice NATO che quest'anno però riveste una particolare importanza dovuta non solo al 60esimo anniversario della sua nascita ma anche al fatto che si dovranno affrontare i suoi futuri assetti, alla luce anche del cambio di Amministrazione USA e della crisi economica globale in corso con i conseguenti e mutati rapporti di forza che ben presto ne deriveranno.

Se ne parla qui di seguito.



La NATO compie sessant’anni e flirta con la UE
di Antonio Mazzeo - Megachip - 31 Marzo 2009

È divisa un po’ su tutto: sui tempi e le modalità di una sua ulteriore espansione ad est; sull’atteggiamento da assumere nei confronti di Russia, Cina ed Iran; sul programma di escalation militare dell’amministrazione Obama in Afghanistan e Pakistan; sui futuri piani di ammodernamento dei sistemi militari, ritenuti fortemente pregiudiziali per le industrie europee. Ma quando poi si decide d’intervenire e bombardare - così com’è stato nei Balcani o in Medio oriente - o d’intraprendere nuove avventure nucleari e spaziali, le frizioni interne scompaiono e si confermano unità d’intenti e di azione tra i paesi membri. Si presenta così la NATO alla vigilia del suo sessantesimo compleanno: con qualche ruga di troppo ma comunque entusiasta di affrontare le nuove sfide del XXI secolo, forte del ritorno del figliol prodigo francese e delle solide partnership con Giappone, Corea del Sud e Australia e con i paesi-prigione stile Colombia ed Israele.

Abbattute le barriere ideologiche che dalla sua fondazione avevano relegato l’azione alla mera “difesa” della regione nord-atlantica, la NATO ha fatto dell’intervento “out-of-area” l’asse strategico su cui re-inventare operazioni, esercitazioni, logistica, sistemi d’arma, centri di comando, controllo e comunicazioni. Dopo i massacri di civili in Kosovo, Serbia e Montenegro e la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan, la NATO aspira a penetrare in Pakistan e a seguire le avventure nel continente africano del nuovo comando delle forze armate USA “Africom”. In Africa, del resto, l’alleanza militare due piedi ce li ha messi già: unità militari NATO operano a sostegno dell’ambigua missione dell’Unione Africana in Darfur o nel pattugliamento delle coste somale in funzione anti-pirati.

Ma tutto questo non basta, i governi che contano chiedono sempre di più. “ La NATO ha bisogno di adeguare le sue strategie alle nuove sfide”, ha dichiarato la prima ministra tedesca Angela Markel. “Dobbiamo sviluppare un nuovo concetto strategico a partire dal summit che si terrà il 3 e 4 aprile 2009, per dare risposta alle odierne e future minacce. In quest’ottica la NATO ha bisogno di definire e rafforzare le sue relazioni con le organizzazioni partner, come le Nazioni Unite, l’Unione Africana e le organizzazioni non governative, e di cooperare più strettamente con l’Unione europea”. Una NATO che sia sempre più “organismo politico” oltre che militare e che “proietti stabilità” in aree di crisi, “favorisca il dialogo, promuova la democrazia e contribuisca alla ricostruzione e al consolidamento istituzionale”, come aggiungono i massimi vertici dell’alleanza da Bruxelles.

Un’organizzazione dunque estremamente flessibile e capace di affrontare qualsivoglia minaccia che possa minare la “sicurezza” dei paesi membri e dei liberi mercati.
Le sfide che saranno affrontate dalla “nuova” NATO sono elencate dal Segretario generale, Jaap de Hoop Scheffer: all’antico ritornello sul terrorismo internazionale, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e gli stati “canaglia”, si aggiungono adesso le guerre cibernetiche, il crimine organizzato, le carenze di fonti energetiche, il degrado ambientale, le calamità naturali, gli attacchi bio-terroristici e le pandemie.

L’Hague Centre for Strategic Studies, centro ultraconservatore olandese di studi strategici, prevede “sfide” ancora più complesse per la NATO. “I paesi dell’Alleanza dovranno riconciliare il loro ruolo tradizionale con le necessità strategiche rappresentate dalle crisi economiche, dalla competizione per le risorse dell’Artico e dal risorgere di Russia e Cina”, scrive in un rapporto presentato il 27 marzo a Bruxelles nel corso di un incontro con oltre 300 ricercatori e studiosi sui temi della “sicurezza transatlantica”. “Una possibile dissoluzione della zona euro, un grande evento speculativo nei circoli finanziari, potrebbero avere un impatto significativo sulla sicurezza e la difesa europea”.

Fronteggiare queste minacce “globali” richiederà partenariati di vasta portata ed una forte sinergia tra la NATO e l’Unione Europea, conclude il centro di studi olandese. E la posta in gioco non permetterà né tentennamenti né astensioni di sorta. Per questo a Bruxelles si lavora per emendare la Carta costitutiva dell’Alleanza Atlantica che ha consentito sino ad oggi agli stati membri di dissociarsi dal partecipare alle guerre con cui si è in disaccordo.

La decisione di festeggiare il sessantesimo anniversario dell’organizzazione militare proprio a Strasburgo, sede del Parlamento europeo, punta a simbolizzare la conclusione del primo atto del processo di condivisione di programmi, strategie ed interventi in campo politico e militare della NATO e dell’Unione europea. Quello che è stato sino ad oggi un fidanzamento, il 4 aprile 2009 si trasformerà in vero e proprio matrimonio, ospiti d’onore gli alti comandi di Washington e Bruxelles e buona parte dei capi di stato dei 27 paesi dell’Unione, 21 dei quali fanno già parte della NATO, mentre cinque dei sei che ne restano fuori (Austria, Finlandia, Irlanda, Malta e Svezia) sono membri del programma “Partenariato per la Pace ” dell’Alleanza Atlantica.

Per il secondo atto del connubio NATO-UE è già pronta una sceneggiatura. “ La NATO e l’Unione europea dovrebbero focalizzarsi sul rafforzamento delle loro capacità fondamentali, sull’incremento dell’interoperabilità e sul coordinamento di dottrina, pianificazione, tecnologie, equipaggiamento e addestramento”, scrive su Nato Review, Adrian Pop, decente della National School for Political Studies di Bucarest, Romania. Per il professore Pop la cooperazione NATO-UE deve divenire “la spina dorsale di una forte comunità euro-atlantica”, per “combattere il crimine organizzato, il traffico di droga, delle armi leggere e di piccolo calibro, come pure quello di esseri umani”.

I Balcani possono essere il teatro dove sperimentare nuove pratiche interattive. Del resto è questa la regione dove è più antica la partnership NATO-UE. Nel febbraio 2001, al culmine del conflitto scoppiato nella ex repubblica jugoslava di Macedonia tra la comunità albanese e le forze di sicurezza interne, furono proprio la NATO e l’Unione a coordinare i negoziati tra le parti che sei mesi più tardi sfociarono nell’accordo di Ohrid. Contemporaneamente la NATO avviò una vasta operazione per disarmare gli insorti albanesi che si protrasse sino al marzo 2003, quando le truppe dell’alleanza militare furono sostituite da una task force battente bandiera UE (“Operazione Concordia”). A Skopje continuò ad operare un piccolo quartier generale della NATO per assistere le autorità macedoni e i militari dell’Unione.

Nel dicembre 2004, un passaggio di consegne similare si è verificato nella vicina Bosnia Erzegovina: dopo nove anni di presenza IFOR-SFOR, la NATO passò il testimone all’Unione europea, che immediatamente dette avvio all’operazione Althea, forte di 6.000 uomini. Lo stesso sta accadendo in questi ultimi mesi nel Kosovo tutt’altro che pacificato: la Kosovo Force (KFOR), la sola autorizzata dalle Nazioni Unite con la risoluzione 1244 del 1999, sta trasferendo il comando delle fallimentari operazioni di controllo del territorio alla missione europea denominata EULEX.

Altra area geografica dove NATO ed UE fanno coppia fissa e si scambiano le flotte armate è il Golfo di Aden, nell’ambito della crociata mondiale contro i pirati che minacciano mercantili e petroliere (per la task force “EUNAVFOR Atalanta”, si tratta del primo intervento “out-of-area” dell’Unione).

“Anche l’Afghanistan rappresenta un’opportunità per un’accresciuta cooperazione NATO-UE”, scrive ancora il rumeno Adrian Pop. “Il paese ha disperatamente bisogno di più polizia, giudici, ingegneri, operatori umanitari, consulenti per lo sviluppo ed amministratori. L’Unione europea dispone di tutte queste risorse, non altrettanto avviene per i soldati della pace della NATO”.

Nel novembre 2006 la Commissione europea ha approvato 10,6 milioni di euro per favorire la distribuzione in Afghanistan di “servizi e una migliorata governabilità attraverso i Gruppi di ricostruzione provinciale (PRT), guidati dalla NATO”. Analoghe forme collaborative starebbero per essere avviate in Iraq, paese dove la NATO è l’attore principale nella gestione dei “programmi di formazione” delle nuove forze armate locali, avvalendosi in particolare del “Defence College” di Roma.

Il 12 giugno 2008, l’ex ministro della difesa britannico e Segretario generale della NATO dal 1999 al 2004, George Robertson, e l’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina dal 2002 al 2006 ed oggi braccio destro di Javier Solana alle Politiche estere e di difesa dell’Unione Europea, Paddy Ashdown, dalle colonne del Times hanno chiesto un colpo di acceleratore in vista della formazione di “gruppi di combattimento” e di pronto intervento UE, che siano “compatibili con la forza di risposta rapida della NATO” e facciano da base “di una nuova struttura europea di contro-guerriglia capace di operare negli Stati in dissoluzione ed in teatri post-bellici”.

La NATO Response Force (NRF) - con più di 25.000 uomini appartenenti alle forze terrestri, di mare e aree dell’Alleanza - è stata attivata per la prima volta a fine 2005 per intervenire “umanitariamente” in Pakistan dopo un violento terremoto. Nell’estate 2006, d’avanti agli osservatori di mezzo mondo, la NRF ha realizzato la prima grande esercitazione di dispiegamento a Capo Verde ( Africa occidentale). Oggi uno dei suoi maggiori centri operativi funziona da Solbiate Olona (Varese).

A Bruxelles si lavora adesso per rendere il più possibile complementari l’organizzazione e le azioni delle due grandi forze di pronto intervento e “first strike”. Il primo passo sarà quello di standardizzare tecnologie e apparati di guerra di NATO e UE, tema all’ordine del giorno del summit di Strasburgo che però potrebbe generare causare nuove tensioni tra gli Stati partner.

Una insanabile frattura si è consumata in ambito NATO solo qualche mese fa con la scelta d’insediare nella base siciliana di Sigonella il centro di comando AGS (Alliance Ground Surveillance), il nuovo sistema di sorveglianza terrestre alleato che per imposizione di Washington vedrà l’utilizzo di aerei senza pilota Global Hawk di esclusiva produzione USA.




Il grande gioco geopolitico: la Turchia e la Russia si avvicinano
di F. William Engdahl - www.globalresearch.ca - 26 Febbraio 2009
Traduzione di Manuel Zanarini

Nonostante i problemi del rublo e il ribasso del prezzo del petrolio, che hanno colpito l’economia russa nei mesi scorsi, il governo russo continua a essere molto attivo nell’attuare strategie di politica estera. I suoi sforzi sono concentrati nel controbattere i tentativi della NATO di accerchiamento, strategia centrale nella politica di Washington, attraverso operazioni diplomatiche attorno ai confini europei della Russia. Approfittando del raffreddamento delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Turchia, storico membro della NATO, Mosca ha invitato il presidente turco, Abdullah Gul, a un incontro di quattro giorni per discutere di future cooperazioni strategiche, sia economiche che politiche, tra i due paesi.

In aggiunta alle aperture verso la Turchia, una zona di transito cruciale per il gas naturale diretto verso l’Europa Occidentale, la Russia sta anche lavorando alla firma di un accordo economico con la Bielorussia e altre ex repubbliche sovietiche, per rinforzare l’alleanza tra le parti. Mosca aveva già inflitto un grosso colpo al tentativo di accerchiamento militare, messo in atto da parte degli Stati Uniti in Asia Centrale, quando, all’inizio di febbraio, ha convinto il Kirghizistan, dietro l’erogazione di ingenti aiuti finanziari, a chiudere la base militare statunitense nel Manas, cosa che ha inciso pesantemente sui piani di Washingotn per l’espansione del conflitto in Afghanistan. In pratica, Mosca si sta mostrando molto attiva nel nuovo “grande gioco geopolitico” in atto per il controllo dell’Eurasia.

Relazioni più strette con la Turchia


Il governo del Primo Ministro Recep Erdogan ha mostrato una crescente insoddisfazione non solo nei confronti della politica di Washington nel Medio Oriente, ma anche verso i continui ritardi da parte dell’Unione Europea di considerare seriamente l’adesione ad essa della Turchia. In questa situazione, è ovvio che la Turchia cerchi di trovare un contrappeso all’influenza che gli Stati Uniti hanno esercitato sulla sua politica, fin dai tempi della Guerra Fredda. La Russia di Putin e Medvedev non ha alcun problema a intavolare trattative a riguardo, tra la preoccupazione di Washington.


Il Presidente turco Abdullah Gul ha effettuato un viaggio di 4 giorni nella Federazione Russa, tra il 12 e il 15 febbraio scorso, nel corso del quale si è incontrato col Presidente russo Dmitry Medvedev e col Primo Ministro Vladimir Putin; inoltre, si è recato anche a Kazan, la capitale della Repubblica russa del Tatarstan, per discutere di affari da realizzare in quella zona. Il presidente Gul era accompagnato dal Sottosegretario al commercio estero, dal Ministro dell’energia e da un’ ampia delegazione di uomini d’affari turchi. Successivamente, si è unito alla delegazione anche il Ministro degli Esteri, Ali Babacan.

Visita allo Tatarstan


Il fatto che il viaggio di Gul a Mosca abbia incluso una tappa nello Tatarstan, la più estesa repubblica autonoma della Federazione Russa, la cui popolazione è composta per la maggior parte da Tartari turchi musulmani, è un segnale di quanto le relazioni tra Ankara e Mosca si siano fatte più strette negli ultimi mesi, in corrispondenza del raffreddamento di quelle con Washington. Negli anni passati, Mosca era convinta che la Turchia volesse diffondere il “panturanismo” nel Caucaso, nell’Asia Centrale, e all’interno dei confini della Federazione Russa, cosa che le creava grosse preoccupazioni. Oggi, evidentemente, le relazioni tra la Turchia e le popolazioni di origine turche che si trovano all’interno della Federazione Russa, non sono più viste con sospetto, come prima, dato che conferma un nuovo sentimento di fiducia reciproca.
La Russia ha elevato lo status del viaggio di Gul da “visita ufficiale” a “visita di stato”, il grado più alto del protocollo ufficiale, indicando la nuova considerazione che Mosca riserva alla Turchia.

Gul e Medvedev hanno firmato una dichiarazione congiunta, con la quale si impegnano ad approfondire l’amicizia reciproca e la cooperazione multi-dimensionale tra i due paesi. La dichiarazione rispecchia una precedente “Dichiarazione unitaria di intensificazione di amicizia e collaborazione multidimensionale”, siglata nel 2004, durante una visita dell’allora Presidente Putin.
Le relazioni economica tra Russia e Turchia si sono molto espanse nel corso dei decenni passati, con un volume di affari che ha raggiunto i 32 miliardi di dollari nel 2008, facendo diventare la Russia il primo partner commerciale della Turchia.

Partendo da tali precedenti, l’intensificazione della collaborazione economica si trova al centro dell’agenda di Gul, ed entrambi i leaders hanno espresso soddisfazione per l’aumento degli scambi commerciali tra i due paesi.
La parte principale dei rapporti è rappresentata dalla collaborazione in tema energetico. Le importazioni turche di gas e di petrolio dalla Russia costituiscono la maggior parte degli scambi tra i due paesi.

La stampa russa riferisce che entrambe le parti sono interessate a intensificare la cooperazione per quanto riguarda il trasporto di gas russo verso i mercati europei, facendolo passare dalla Turchia, secondo il progetto denominato “Blue Stream-2”. Originariamente, Ankara era piuttosto fredda rispetto tale idea; ma il recente completamento del gasdotto russo “Blue Stream”, che corre sotto il Mar Nero, ha aumentato la dipendenza della Turchia dal gas naturale russo, portandola dal 66% al 80%; inoltre, la Russia sta cominciando a guardare alla Turchia come a una zona di transito per le proprie risorse energetiche, piuttosto che solo come a un mercato dove esportare prodotti, e da qui nasce la volontà di realizzare il progetto “Blue Stream-2”.


Alla Russia preme anche svolgere un ruolo importante nella politica turca volta a diversificare i suoi approvvigionamenti energetici. Un consorzio a guida russa ha recentemente vinto un appalto per la costruzione della prima centrale nucleare in Turchia; ma, dato che il prezzo offerto fosse più alto di quelli standard a livello mondiale, il destino del progetto, in attesa dell’approvazione parlamentare, resta oscuro. Prima del viaggio di Gul in Russia, il consorzio aveva presentato una nuova offerta, abbassando la cifra del 30%. Se la nuova proposta fosse considerata valida, a norma del bando di appalto, questo significherebbe che il governo turco ha ora la volontà di procedere col progetto.

Il mercato russo, inoltre, svolge un ruolo molto importante per gli investimenti e le esportazione turche oltremare; infatti, la Russia rappresenta il mercato principale per le aziende costruttrici e per le esportazioni turche. Al contempo, milioni di turisti russi portano annualmente denaro fresco nelle casse turche. Cosa ancora più importante, i due paesi potrebbero decidere di cominciare a usare la “lira turca” e il “rublo russo” per i commerci tra di loro, riducendo fortemente la loro dipendenza dal dollaro.

Ridotte le tensioni post-Guerra Fredda


Il messaggio principale lanciato dalla visita di Gul è stato la volontà di intensificare le relazioni politiche tra i due paesi; infatti, entrambi i leaders hanno dichiarato che essendo la Turchia e la Russia i maggiori paesi della regione, una cooperazione tra loro è fondamentale per la pace e la stabilità dell’intera area. Questo nuovo atteggiamento segna una svolta notevole rispetto alla situazione degli anni ’90, successivamente al collasso dell’Unione Sovietica, quando Washington faceva pressioni su Ankara affinché agisse sulle regioni storicamente appartenute all’Impero Ottomano dell’area, per contrastare l’influenza della Russia.

Durante gli anni ’90, in palese contrasto con la calma della Guerra Fredda, era normale parlare di rivalità o di scontri regionali, rianimando il “Grande Gioco” in Eurasia, all’interno del Caucaso e dell’Asia Centrale.
La Turchia era diventata la naturale rivale geopolitica della Russia nel corso del XIX Secolo. La quasi alleanza tra Turchia, Ucraina, Azerbaijan e Georgia, spingeva Mosca, fino ai tempi recenti, a vedere Ankara come un formidabile avversario. L’equilibrio militare regionale volse a favore della Turchia nelle zone del Mar Nero e del Caucaso Meridionale; infatti, dopo la disintegrazione dell’ URSS, il Mar Nero divenne “de facto” un “lago della NATO”.

Come dimostra la soluzione della controversia tra Russia e Ucraina riguardo la divisione della flotta del Mar Nero e lo status di Sebastopoli, il Mar Nero è diventato una zona per le esercitazioni della “Alleanza per la Pace” della NATO.
Invece, al termine della sua ultima visita a Mosca, Gul ha dichiarato che “Russia e Turchia sono paesi vicini, i quali stanno sviluppando le reciproche relazioni sulla base della mutua fiducia. Spero che la mia visita contribuisca a instaurare questo genere di rapporto”; mentre, la Russia ha lodato le iniziative diplomatiche messe in atto dalla Turchia nella regione. Lo stesso Medvedev ha apprezzato la proposta della Turchia, durante la guerra russo-georgiana della scorsa estate, volta a dar vita ad un “Patto di stabilità e cooperazione per il Caucaso”.

Il Presidente russo ha detto che la crisi in Georgia ha mostrato che la situazione nell’area è già in grado di degenerare senza l’intromissione di forze esterne, riferendosi ovviamente a Washington. La Turchia ha proposto il “Patto” bypassando Washington, senza cercare il consenso transoceanico sulla questione russa; da allora, ha manifestato l’intenzione di perseguire una politica estera più indipendente.

L’obiettivo russo è di sfruttare le risorse energetiche per contrastare l’accerchiamento in atto da parte della NATO, partito dalla decisione di Washington di posizionare postazioni missilistiche e basi radar in Polonia e in Repubblica Ceca, minacciando Mosca.

Anche l’amministrazione Obama ha dichiarato di voler proseguire con la “politica difensiva missilistica” di Bush; tanto che Washington ha installato missili Patriot in Polonia, ovviamente non rivolti verso la Germania, ma verso la Russia.
Subito dopo il viaggio di Gul, alcuni giornali turchi hanno descritto la relazione russo-turche come una “collaborazione strategica”, termine solitamente usato per i rapporti tra Turchia e Stati Uniti.

Per ricambiare la visita di Gul, Medvedev si recherà in Turchia per proseguire concretamente sul percorso della cooperazione. Le nuove relazioni tra Russia e Turchia sono la dimostrazione che la maggior parte del peso degli Stati Uniti in Eurasia è stato perso a causa delle recenti scelte statunitensi in politica estera, riguardo quella regione.
Washington sta vivendo il “peggiore degli incubi” descritto da Sir Halford Mackinder. Il padre della geopolitica britannica del XX Secolo, ha più volte sottolineato l’importanza per la Gran Bretagna, e per gli Stati Uniti dopo il 1945, di impedire la cooperazione strategica tra le grandi potenze dell'Eurasia.

lunedì 30 marzo 2009

Pdl: il solito unico uomo al comando


Ancora qualche commento sulla straziante tre giorni che ha visto la nascita del Pdl e sulle conseguenze che ne deriveranno per la politica italiana dei prossimi anni.



Italia: l’ombra del fascismo

dal Guardian – 30 Marzo 2009


L’obiettivo centrale di Silvio Berlusconi come primo ministro italiano e’ da tempo apparso essere chiaramente e spudoratamente evidente. Fin da quando ha riempito il vuoto politico creato nel 1993 dal simultaneo scandalo per la corruzione del governo a destra e dal crollo del comunismo italiano a sinistra, Berlusconi ha usato il suo potere politico per proteggere se stesso e il suo impero mediatico dalla legge.


Durante il più lungo dei suoi tre periodi come primo ministro, Berlusconi non solo aveva consolidato la sua già forte presa sull’industria italiana dei media - ora ne possiede circa la metà - ma aveva creato una norma per garantirsi l’immunità dai procedimenti giudiziari in corso contro di lui. Poi, quando tale provvedimento era stato dichiarato incostituzionale, il neo rieletto Berlusconi l’ha ripresentato di nuovo con una nuova veste lo scorso anno ed e’ riuscito a farselo firmare e tramutare in legge.

Berlusconi deve il suo successo un po’ alla sua audacia e molto alla sempre piu’ profonda debolezza dei suoi avversari. La sinistra italiana, in particolare, non è riuscita a fare un’efficace opposizione. Eppure l’ultima mossa di Berlusconi - la fusione, completata ieri, nel suo nuovo partito del Popolo della Libertà del suo partito Forza Italia con Alleanza Nazionale che deriva direttamente dalla tradizione fascista di Benito Mussolini - può lasciare un segno sulla vita politica italiana ancor piu’ duraturo di qualsiasi altra cosa abbia gia’ fatto il magnate populista.

A differenza della Germania del dopoguerra, l'Italia del dopoguerra non ha mai affrontato adeguatamente la propria eredità fascista. Come risultato, mentre il neofascismo non e’ mai seriamente riemerso in Germania, in Italia vi sono state importanti continuità – tra queste, le leggi e i funzionari pubblici ereditati dal periodo di Mussolini e la rinascita nel dopoguerra del ribattezzato partito fascista – nonostante la cultura pubblica nominalmente antifascista dell’Italia. Queste continuità sono solo diventate più forti. E 'un giorno di vergogna per l'Italia.

Tuttavia, AN ha percorso una lunga strada in 60 anni. Il suo leader, Gianfranco Fini, ha gettato i vecchi indumenti politici ed ha portato il suo partito verso il centro. Ha lavorato per più di 15 anni come alleato di Berlusconi. Parla della necessità del dialogo con l'Islam, denuncia l'antisemitismo e auspica un’Italia multietnica – posizioni che Berlusconi, con le sue campagne populiste anti-zingari e anti-immigrati e la sua predilezione per un razzismo soft, fatichera’ a sposare .

Nonostante le sue lontane origini liberali, l'Italia moderna è storicamente un paese di destra. Eppure è un pensiero molto scioccante che vi sia tra i 20 leader del mondo presenti a Londra per il vertice economico di questa settimana un capo di governo che ora ha ricostruito la sua base politica sulle fondamenta posate dai fascisti e che sostiene che la destra rischia di rimanere al potere per generazioni come risultato di cio’.



Berlusconi, prodotto di Cefis e Gelli

di Daniele Martinelli - www.danielemartinelli.it - 30 Marzo 2009


Forza Italia è la P2 evoluta. E’ il partito del golpe bianco che ha vinto il consenso politico dell’Italia grazie alla manipolazione e al controllo degli organi di informazione.
Forza Italia è il partito dopato dalle “bombe” che hanno eliminato anticorpi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Berlusconi ha eseguito il sogno di Eugenio Cefis, numero uno di Eni e Montedison degli anni ‘60 nell’era post Mattei, secondo il Sismi il fondatore della Loggia P2, il primo a capire che per godere incontrastati del consenso nazionale non era necessario spargere sangue come fece fare per il suo predecessore Enrico Mattei nel 1962. Non era necessario andare a segno col “Piano Solo” progettato dai Carabinieri nel 1964. Non era necessario attuare il “golpe borghese” come si tentò di fare con la regia di Licio Gelli nell’inverno del 1970.
Bastava, appunto, conquistare “democraticamente” il controllo dei giornali.

Eugenio Cefis non riuscì a mettere le mani sul Corriere della sera di Piero Ottone, il “sinistroide” che dava spazio in prima pagina agli editoriali del “frocio comunista” Pierpaolo Pasolini. Pestato a morte da un commando composto dai fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, fascisti militanti della sezione Msi del Tiburtino, come ha rivelato nel settembre scorso l’ex giovinetto marchettaro Pino Pelosi, l’unico ad aver pagato col carcere il violento omicidio di Pasolini, che con tutta probabilità, a 17 anni, magro e smilzo com’era, potrebbe non aver mai commesso. Pelosi sembra sia rimasto in galera dopo aver ceduto alle minacce che gli sarebbero state rivolte dai veri assassini del giornalista. I nomi dei fratelli Borsellino, Pelosi, li ha fatti soltanto ora che sono morti entrambi di aids, ma nel plotone di esecuzione potrebbe anche esserci stato Giuseppe Mastini, detto Jhonny lo Zingaro, (vivente) in una trappola premeditata. (Ansa) Omicidio che risale al 1975, periodo in cui Pasolini stava completando “Petrolio” che faceva luce sul ruolo di Eugenio Cefis, personaggio chiave per capire a che punto era già arrivata la degenerazione della politica italiana. Periodo in cui il Corriere era già diretto dal piduista Franco Di Bella (tessera 1887) e che accettò passivamente il teorema della brutta storia tra froci.

Pasolini fu il primo a collegare l’attentato all’aereo di Enrico Mattei, alla strage di piazza Fontana, e ad altre stragi misteriose dell’Italia degli anni di piombo. Con la complicità silenziosa dei Giulio Andreotti e degli Amintore Fanfani, Pasolini era un personaggio scomodo come il giornalista Mauro De Mauro, rapito a Palermo 5 anni prima, nel 1970 e mai più ritrovato. Stava scrivendo i dettagli dei movimenti degli ultimi 2 giorni di vita siciliani di Enrico Mattei, da consegnare al regista Francesco Rosi, che stava preparando un film sulla vicenda. Enrico Mattei, decollato il 27 ottobre 1962 col suo aereo privato dall’aeroporto di Catania, morì assieme al suo pilota e a un giornalista americano nell’aereo che esplose in volo e andò a schiantarsi in fiamme sui prati di Bascapè, a pochi chilometri dalla pista di atterraggio di Linate.

Attentato dietro il quale si nasconderebbe Eugenio Cefis, ex compagno di partigianeria dello stesso Mattei che volle al suo fianco alla guida di Eni. Lo stesso Cefis che, da numero 2 di Eni, fu licenziato in tronco da Mattei 9 mesi prima del disastro, dopo averlo colto in flagrante a sbirciare documenti aziendali riservati nel suo ufficio. Enrico Mattei era potente, era l’uomo del petrolio che stava indirizzando la politica del suo mercato col nord Africa e col Medioriente, in totale contrasto con l’alleata America tanto cara alla Democrazia cristiana. Che vedeva minacciato il suo dominio nell’Italia vaticana da un ricco industriale, poco docile ai ricatti e per nulla americanista.

Le inchieste sulla fine di Mattei sono finite tutte in nulla. Un rapporto della Guardia di Finanza citata dal pm di Pavia Vincenzo Calia, dice che una delle società accomodanti della Edilnord centri residenziali di Umberto Previti (papà del corruttore di giudici Cesare) già Edilnord Sas di Silvio Berlusconi & c. con sede a Lugano, si chiama Cefinvest. Eugenio Cefis, intanto, ha guidato l’Eni prima, e la Montedison poi. L’azienda che ha cavalcato le mire federaliste della Lega Lombarda di Gianfranco Miglio, caro amico di Cefis.

Da Cefis a Gelli, fino al Berlusconi odierno: espressione liftata della degenerazione istituzionale e democratica che ha raggiunto l’Italia. Le decine di milardi in tangenti versate sui conti svizzeri di Bottino Craxi, di cui i figli deputati godono ancora oggi la rendita, sono servite a creare le televisioni del consenso Fininvest, assieme al controllo della Rai.
L’ultima nomina alla sua guida di Paolo Garimberti “gradita a Berlusconi” che non crea né scandalo né rivolte fra gli italiani, è la dimostrazione che il Piano di rinascita piduista è andato a segno senza divise e senza armi. Assieme alle bugie che testate allineate come “Il Giornale” e il Corriere stesso continuano a sfornare quotidianamente. Ernesto Galli “della Loggia” oggi, in prima pagina, in merito al discorso di Berlusconi al suo congresso romano scrive che “Craxi, non a caso, è solo un amico personale del presidente del Consiglio che in pratica ha il solo merito di averlo anticipato nello sdoganamento della destra..” Galli della Loggia lo invito a un vaffanculo.

Intanto, alla luce di ciò che hanno scritto Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in “Profondo nero” edito da Chiarelettere, la criminologa Simona Ruffini e l’avvocato Stefano Maccioni hanno presentato al Procuratore della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara, una istanza per chiedere la riapertura delle indagini sulla morte di Pierpaolo Pasolini. Richiesta che giunge al termine di una loro inchiesta che combacia con le conclusioni del libro, in cui si ipotizza una connessione tra l’omicidio di Pasolini, Mauro De Mauro ed Enrico Mattei.
Gli accertamenti tecnici scientifici che si possono fare oggi, permetterebbero di far luce su tanti aspetti mai chiariti dell’omicidio di Pasolini. A cominciare dalle macchie di sangue (secche) rimaste sulla sua camicia, custodita ancora oggi al museo di criminologia di Firenze.

Non capisco cosa si sia atteso finora ma capisco che ora Berlusconi predica pieni poteri per arrivare al Quirinale. Non capisco che tipo di libertà e di liberalismo abbia raccontato da quel palco della fiera di Roma Silvio tessera Loggia P2 1816, ma capisco che il golpe bianco, per ora, è andato a segno ed è ormai rodato. L’Italia è tutta da rifare. Forza Italia!



Il golpe freddo

di Gianni Barbacetto - www.societacivile.it - 30 Marzo 2009


Convenscion
Nasce il Pdl. Non da un congresso, ma da una "convenscion" aziendale, siparietti, stacchi musicali, seguito di spot, interminabile telepromozione, evento per lanciare un nuovo prodotto. Senza discussione, senza dibattito, senza confronto. Alla fine, senza politica.

L'effetto Madia da eccezione diventato norma. Interventi preordinati, vallette e comparse invece che delegati (tanto che per tenere il pubblico in sala, in segreteria hanno dovuto appendere questo cartello: «La borsa del delegato verrà consegnata a fine lavori»). Se proprio congresso vogliamo chiamarlo, allora è un congresso nordcoreano, per applaudire la grandezza del caro leader e le sue opere. Un congresso all'incontrario, come l'Italia di oggi, un congresso che comincia dalla fine, cioè dall'annuncio trionfale che è nato il partito unico, il nuovo mirabolante prodotto da collocare sugli scaffali del supermarket della politica italiana. An si era già suicidata, i suoi colonnelli si erano già venduti al nuovo padrone.

La politica, assente dalla "convenscion", la fanno altrove: al governo, in tv. Un piano casa che è una truffa (piano casa era quello di Fanfani, che metteva soldi per costruire case popolari, questo invece è una sanatoria preventiva, un invito all'abuso urbanistico, un via libera alla cementificazione). E poi: una legge sul testamento biologico che è un'altra truffa, imposizione dell'etica vaticana diventata etica di Stato; un cambiamento della legge sulla sicurezza sul lavoro che rende impunite le cosiddette morti bianche; e le leggi razziali, le schedature dei rom, i medici che devono denunciare gli irregolari, le ronde... E poi arriveranno le intercettazioni a disarmare la legge e a mettere il bavaglio alla stampa. Ecco la destra che è nata alla "convenscion" di Roma: un partito P2 di massa, un populismo mediatico-aziendale costruito attorno al capo, dove il potere legislativo è svuotato (ma sì, possono votare solo i capigruppo, così si risparmia tempo), il potere giudiziario è disarmato, il controllo della stampa sulla politica è bloccato. La Costituzione? Un ferrovecchio da cambiare a piacimento. Un progetto autoritario ed eversivo, raccontato con stacchetti al posto giusto.

domenica 29 marzo 2009

Berlusconi e Pdl, il vecchio che avanza

E' nato ufficialmente il Pdl ma, calato il sipario sullo show/apoteosi durato tre giorni, alla fine tutto rimane immutato, a partire dalle solite trite e ritrite parole che Berlusconi ha pronunciato nel suo discorso di chiusura della kermesse e che continua a ripetere da 15 anni.

L'unico che in questi giorni ha parlato con un linguaggio nuovo e' stato il presidente della Camera Fini che oggi infatti non si e' presentato in sala per ascoltare il discorso di Berlusconi, a conferma del fatto che tra i due ormai e' sfida aperta per il controllo del partito e per la leadership della destra nel prossimo futuro.

Il tempo gioca comunque a favore di Fini e il countdown per l'eclissi di Silvio e' gia' iniziato.



Berlusconariato: quel che avanza della democrazia

di Franco Cardini - 28 Marzo 2009

Alba grigia su Firenze. Stanotte sono stato sveglio a lungo, seguendo su una delle reti di mediaset la versione quasi integrale del discorso ufficiale di Silvio Berlusconi al Congresso di fondazione del Popolo della Libertà. Su un’opinione pubblica e una società civile diverse dalla nostra, lo spettacolo di un livello d’intelligenza e di libertà degno della dirigenza bulgara degli Anni Cinquanta avrebbe fatto uno straordinario effetto-boomerang e oggi ci sarebbero i picchetti per le strade. Ma, siccome le cose stanno andando altrimenti, a questo punto s’imporrebbe una riflessione seria su come nel Bel Paese la gente viene informata a proposito di quanto accade.

Berlusconi ci ha informato tranquillamente del fatto che in fondo tutto va bene e che l’importante è continuar a investire e a produrre, come se la crisi non esistesse e come se nulla di quanto gli ha spiegato a non dir altro il suo ministro Tremonti fosse degno d’interesse. Ci ha illustrato bontà sua sinteticamente le sue strategie politico-protagoniste che presto lo porteranno a guadagnare il 51% dei consensi e quindi inaugurare la fase cruciale della Dittatura del Berlusconariato: ma la bassa cucina politicastra delle tattiche di alleanza e degli scambi di favore tese a procurarsi maggioranze stabili non apparteneva alla roba che un tempo i politici discutevano neppure in aula, ma nel “transatlantico” o alla buvette? All’opinione pubblica dovrebbero interessare le idee e i programmi, non i metodi parlamentari messi in atto al fine di perseguire un fine?

Ci ha comunicato che entreremo senz’ombra di esitazioni nell’ennesima campagna di collaborazionismo militare con gli Stati Uniti senza nemmeno un’ombra di sospetto sul nuovo “atto di terrorismo annunziato” che è recentissimamente purtroppo servito al presidente Obama come alibi per annunziare una nuova fase della sciagurata occupazione dell’Afghanistan. Ha reso omaggio ai nostri caduti di Nassiriyah dimenticando che la responsabilità prima per la fine della loro vita ricade non sui sia pur spregevoli individui che ne hanno offeso la memoria raffigurandoli sulle piazze come manichini, bensì sul governo da lui presieduto che li ha mandati a morire in una guerra ingiusta, fondata su una menzogna (quella della detenzione di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam Hussein), risolta in una destabilizzante aggressione di un paese membro dell’ONU ed estranea al reale interesse nazionale degli italiani (a parte qualche petroliere, alcuni speculatori, vari imprenditori-esportatori e parecchi mercenari armati in cerca di consistenti, redditizi ingaggi). Ci ha anche messi in guardia contro il persistente pericolo del comunismo.

Questa sequela di menzogne, di sciocchezze e d’infamie non ha provocato un brivido d’indignazione nell’assemblea di fanatici, di dipendenti partitico-aziendali e di astuti tattici politici pensosi del loro immediato “particulare” che lo attorniava e lo applaudiva: al contrario, ha suscitato un uragano di freneticamente bulgari applausi. E non ha procurato alcun contraccolpo in un’opinione pubblica ormai completamente narcotizzata. Ma fra i politici e l’opinione pubblica c’è un ceto professionale che dovrebbe far da mediatore di notizie: tutti quelli che lavorano, a qualunque titolo, nei mass media. In una “democrazia sana”, come si usa dire, giornalisti e opinion makers dovrebbero aver la funzione di una coscienza critica certo non monolitica, forse fatalmente non equidistante, ma quanto meno sveglia e ben conscia di dipendere senza dubbio dai datori di lavoro del singolo professionista dell’informazione, ma prima di tutto dall’opinione pubblica. E un pochino, diciamolo pure, dal fantasma della Liberta. E della Verita.

E allora: dove stiamo andando a finire, se non ci svegliamo? A che punto e la notte?

“Questa e la stampa, baby, e tu non puoi farci proprio nulla”. La conoscono tutti, questa battuta: una splendida stoccata dell’America di celluloide ancora in bianco-e-nero, quando si era convinti che i giornali fossero pieni di cavalieri senza macchia in lotta contro i draghi del potere e del danaro e che alla fine i buoni vincessero sempre.

Ebbene sì, babies, questa è la stampa: e non possiamo farci nulla. E anche la TV e tutto il resto dei mass media. E ancora nulla potremo farci in seguito, a meno che la crisi che ci sta arrivando addosso non sia davvero tanto seria da travolgere almeno alcuni degli equilibri ormai consolidati tra i “poteri forti”, la classe dirigente reale e i due principali ceti executives, cioe i “comitati d’affari” dei politici e i gestori dei mass media a cominciare dalle TV per finire alla carta stampata. Ma il nostro è un paese eccezionale: perchè, a parte la Paperopoli di Walt Disney che però è immaginaria, per quanto si sia da tempo cessato di ritenerla inverosimile, in nessun altra contrada del mondo, nemmeno nell’Africa centrale e in America latina, esiste un Presidente del Consiglio che sia proprietario anche di un grande network televisivo, di alcune case editrici e testate giornalistiche e addirittura padre-padrone di una squadra di calcio.

Forse in qualche emirato del Golfo persico esistono situazioni mutatis mutandis simili: ma nemmeno là il Presidente-Proprietario è al tempo stesso plurinquisito, multincriminato, polisospettato e maxichiacchierato e continua a governare, a sfornar battute di spirito e a far la primadonna in TV informandoci perfino delle sue performances sessuali come se nulla fosse, ben certo che l’opinione pubblica del suo e purtroppo anche nostro paese è ormai narcotizzata a un punto tale da non riuscir neppure a ricordarsi che in fondo, fino a tempi poi non troppo lontani, un politico sospettato di qualcosa – anche se e quando la sua innocenza era più che palese – usava tirarsi in disparte e dimettersi o autosospendersi, a seconda dei casi, finchè, come si usava dire, “piena luce non fosse stata fatta”. Macchè: Berlusconi farà perfino il capolista onnipresente alle prossime elezioni europee, alla faccia delle normative che vietano a chiare lettere a un Presidente del Consiglio in carica di venir eletto al Parlamento Europeo: e quindi è ovvio che chi non può essere eletto non ha il diritto di candidarsi.

Stando così le cose in un paese considerato “a democrazia avanzata”, viene davvero il sospetto che tale espressione vada intesa nel senso di “un paese nel quale vige ormai quel che avanza della democrazia”. Probabilmente, se a questo punto da qualche parte nascesse un forte movimento di protesta, il governo potrebbe reprimerlo senza sollevare speciali rimostranze: e magari trattando da “guerriglieri” chi si fosse azzardato a protestare. Ma non ce ne sarà bisogno: dal momento che la nostra società civile non è affatto migliore – e qui aveva ragione Romano Prodi, quando si esprimeva con amara sincerità alla fine del suo infelice mandato - della classe politica che riesce ad esprimere, utilizzando fra l’altro senza far una grinza una legge elettorale costituzionalmente parlando sospetta come l’attuale, che accorda praticamente alle segreterie dei partiti il diritto di designare i candidati ai due rami del Parlamento e relega l’elettorato attivo a un puro ruolo di legittimazione formale. La legge istitutiva della camera dei Fasci e delle Corporazioni del ’38, che quanto meno lasciava intatto il meccanismo delle preferenze, era un tantino piu democratica di questa: a parte che la segreteria del PNF era una sola, mentre oggi le segreterie sono una manciata (ma a quanto apre concordi quando si tratat di elaborar le regole di spartizione della torta).

Stando cosi le cose, mentre sappiamo bene – oltre a Berlusconi, ai partiti politici, alla Confindustria, a De Benedetti, a Caltagirone e a qualcun altro – da chi dipendano sia le TV sia la carta stampata, parlare dei rapporti tra mass media e democrazia diviene ozioso: a meno che non s’intenda far dell’umorismo macabro.

In effetti, di solito e nel parlar comune il termine “democrazia” si contrappone a “dittatura” e/o a “totalitarismo”. Può darsi che ai tempi di Hannah Arendt le cose sembrassero star più o meno così: ma ormai sappiamo che non è vero. Le dittature, e addirittura i sistemi totalitari, non si fondano – a differenza delle oligarchie e dei sistemi autoritari “classici”, a la Horty – sulla demobilitazione delle folle o delle masse (o della “gente”, come si preferisce dire oggi; o delle “moltitudini”, a dirla con Antonio Negri), bensì al contrario sulla loro continua mobilitazione e sull’esercizio di un consenso che soltanto lo schematico e manicheo ottimismo di certi “sinceri democratici” può finger di credere sia e/o sia stato sempre ottenuto con i mezzi dell’intimidazione e della repressione. Al contrario di quel che si crede, tra “democrazie” e “totalitarismi” ( diciamo pure tirannidi), esiste un continuum, sia pure imperfetto e fatto di continue grandi e piccole rotture.

Dopo alcuni mesi passati tra le dolci verdi colline e i boschi resinosi del Vermont. che somiglia tanto a certe contrade russe, Soljenitzin capì tutto di quell’Occidente che continua a essere incompreso a molti che ci sono nati e ci vivono “da sempre”: e non esitò a dichiarare che la differenza tra Unione Sovietica e beati Stati Uniti d’America (e con loro tutto il beato occidente) era che per far star zitto qualcuno la bisognava metterlo in galera, o spedirlo in manicomio, o ammazzarlo; mentre qua bastava staccargli il microfono. E tener ben attaccati, d’altronde, altri microfoni: quelli di chi ai bei tempi del “Questa e la stampa, baby” era o comunque dava l’impressione di essere (e spesso ci credevano essi per primi, e sinceramente) al servizio del pubblico, della “gente”, mentre oggi chi lavora in TV o nei giornali, anche se è megadirigente galattico (anzi, soprattutto in quel caso), sa benissimo di dover stare al servizio del suo datore di lavoro: e il peggio è che tutti accettiamo questa realta come se fosse ovvia, “normale”.

Al massimo, ci ripetiamo cinicamente che “è sempre successo”. No. Non è sempre successo; e anche se lo fosse, sarebbe giunta ormai l’ora di voltar pagina. Ma allora, dal momento che non possiamo aspettarci una democrazia garantita “dall’alto”, nella quale proprietari e padri-padroni graziosamente concedano ai loro subalterni di parlar alto e chiaro anche contro gli interessi di ditta o di bottega, non ci resta che sperare – “con disperata speranza”, come baroccamente si usa in questi casi dire – in una garanzia rivendicata e tutelata dal basso. E non è che non ce ne sia qualche segno. Dalla palude d’un popolo italiota i prevalenti interessi del quale – eterno calcio a parte – amano focalizzarsi su nobili obiettivi quali la mamma di Cogne, il delitto Meredith di Perugia, le vicende avvincenti dell’Isola dei Famosi e della Fattoria e i fini dibattiti moderati dalla signora Maria Filippi in Costanzo o del di lei consorte, con la domenica mattina gastronomica e il consueto Angelus da Piazza San Pietro, giunge qua e là qualche lontano brusio. Aumentano i sodalizi fondati sul volontariato, si muovono spontanei (o almeno auguriamoci lo siano) sodalizi di cittadini e, come dice Berlusconi, di “consumatori”, si registra un boom d’interesse fra gli studenti delle scuole medie per il problema della sete nel mondo e della commercializzazione dell’acqua potabile da parte di certe multinazionali. Si oserebbe affermare (e sperare?) che, nella misura in cui progredisce la crisi e la sua ombra si allunga inquietante sull’Europa, si riduce lo spazio del disinteresse, dell’alienazione, della tendenza a delegare senza esercitare un controllo sulla gestione delle deleghe accordate.

In Italia, molte cose non vanno. Promesse mai mantenute, lavori pubblici avviati e mai portati a compimento, grandi e piccoli drammi individuali e collettivi sui quali è caduto il generale disinteresse. Poi arriva un programma televisivo popolare e per giunta in una TV berlusconista, Striscia la Notizia. Le cose non vanno: Capitan Ventosa, pensaci tu. E l’avventuriero-reporter improbabilmente abbigliato piomba sugli Assessorati, plana sulle Sovrintendenze, si butta in picchiata sulle cosche di palazzinari e di usurai. Ma non c’è punto della penisola che non appartenga a una circoscrizione elettorale: non c’è metro quadro del Bel Paese sul quale arrivi Capitan Ventosa che non sia formalmente interessato dalla tutela di un parlamentare. Ebbene: dov’è l’onorevole, che cosa stanno facendo il senatore o la senatrice sul cui territorio c’è un ingorgo d’immondizia o le cui coste sono state invase da un’inattesa colata di cemento? Perchè lasciano l’avventuriero-reporter abbigliato da water a combattere da solo? Ecco: qua e là, un numero sempre piu alto di cittadini alza gli occhi dalla TV, stacca le orecchie dal telefonino, e se lo chiede. Chissà che la nuova democrazia partecipata non ricominci da qui.



Berlusconi: il carisma senza carisma
di Gianluca Bifolchi - www.
achtungbanditen.splinder.com - 29 Marzo 2009

Piero Sansonetti spiegava ieri in un dibattito televisivo che il principale vantaggio politico della destra oggi è l'aver trovato in Silvio Berlusconi un leader carismatico. La sinistra farebbe bene - diceva Sansonetti- a mettere da parte i principi astratti e a considerare questa possibilità, perché le democrazie attraversano fasi in cui certe esigenze pratiche possono prevalere su aspettative di natura più elevata ma teorica.

Se la sinistra è incline ad accettare l'idea di Sansonetti vorrei offrire qualche suggerimento.

In primo luogo è necessario superare la vecchia definizione di leader carismatico. Nei libri di storia questa etichetta è in genere assegnata a persone che hanno assimilato in maniera così profonda certi ideali e principi di natura politica o religiosa, da averli trasformati in un'energia che suscita potenti immagini mentali nelle masse. Attraverso la parola o l'azione il leader carismatico crea nuove e potenti correnti di opinione o aspettative nelle persone, e indirizzandole riesce ad attuare grandi progetti.

Silvio Berlusconi non soddisfa questa definizione, perché è un uomo volgare, cinico e opportunista, privo di una visione coerente. Ma in un paese culturalmente stagnante come l'Italia il suo potere sui media gli conferisce un vantaggio sul resto della classe dirigente che lo colloca in maniera assai stabile al centro degli equilibri politici.

Il suo carisma virtuale e costruito a tavolino, naturalmente, non cessa per questo di essere efficace. Nella società delle comunicazioni di massa, semmai, possiamo chiederci se abbia ancora senso credere che il carisma discenda da qualità personali. La vecchia definizione, al massimo, va bene in ambiti più ristretti di quelli della politica nazionale.

La storia sembra qui ripiegarsi su se stessa. Dai tempi degli antichi imperi egizi e mesopotamici il potere regale si ammanta di fastosità e sacralità allo scopo di sottrarre il sovrano al giudizio critico dei sudditi. E' un espediente reso necessario dal meccanismo della successione ereditaria, che rende altamente probabile l'arrivo al potere di un monarca mediocre. Ma lo stato deve sopravvivere alla pochezza dei suoi capi, e perciò costruisce attorno ad essi un apparato che colpisca la fantasia del popolo e agisca come una protesi di carisma.

Ronald Reagan ha preceduto Berlusconi in questo recupero moderno del carisma virtuale. Ai tempi delle sue due amministrazioni godeva di grande popolarità e le sue doti teatrali gli valsero il titolo di "Grande comunicatore". Uscito dalla scena politica statunitense venne presto dimenticato, e voci molto vicine a lui ce lo descrivono come un uomo poco intelligente e di scarsa energia nel lavoro. Ma ciò non costituiva un problema perché nessuno si aspettava da lui che prendesse decisioni. Il suo compito era solo quello di recitare davanti alle telecamere, e lo assolveva piuttosto bene. A riflettori spenti veniva spedito a giocare a golf.

Berlusconi non ha i limiti personali di Reagan, e di certo non è una marionetta in mani altrui, ma la sua presa sull'opinione pubblica italiana è dovuta agli stessi meccanismi. Per combatterlo con le sue stesse armi la sinistra non può nominare un leader carismatico per alzata di mano. I leader carismatici, se esistono, si fanno avanti da sé. Altrimenti occorre costruirli a tavolino attraverso un delicato e complesso processo di mitopoiesi virtuale, basato su un abile uso delle comunicazioni di massa.

Se la sinistra ha le risorse finanziarie, tecniche e organizzative per un compito così complesso proceda pure, altrimenti cerchi di capire cos'è una vera democrazia, e perché ci allontaniamo giorno dopo giorno da questo modello.



Italia imbavagliata
di Carlo Vulpio - www.carlovulpio.it - 28 Marzo 2009

Il Governo manovra per piazzare uomini di fiducia a capo dei giornali di maggior prestigio.
Il cataclisma finanziario, la crisi pubblicitaria, l’adattamento all’universo digitale e i licenziamenti dei giornalisti sono temi comuni a tutti i giornali del mondo.

Molti esperti, e non pochi lettori, temono che tale situazione incida sulla qualità della stampa. In Italia, forse il paese europeo insieme alla Russia in cui il controllo politico dei media è meno discutibile, l’inquietudine è doppia. Al duopolio televisivo, o più semplicemente monopolio assoluto, formato da Mediaset e RAI, potrebbe aggiungersi molto presto una sorta di rivoluzione della stampa.

Dietro a questo movimento tellurico in elaborazione risuona il solito nome: Silvio Berlusconi, magnate dei media e primo ministro, il cui nuovo obiettivo sono le due testate giornalistiche milanesi di maggior prestigio, Corriere della Sera, il più importante quotidiano italiano, e Il Sole 24 Ore, il principale giornale economico nazionale.

“Questa volta Berlusconi non farà prigionieri, vuole controllare tutto e lo farà”, dice Giancarlo Santalmassi, giornalista RAI dal 1962 al 1999 e direttore di Radio24 fino a quando, l’autunno scorso, fu allontanato dopo essere stato dichiarato nemico ufficiale del Governo del Cavaliere nel 2006.

Enzo Marzo, storico giornalista del Corriere, è pienamente d’accordo con Santalmassi; giovedì scorso, nel corso di un dibattito sulla libertà di stampa che si è svolto presso la sede della Commissione Europea a Roma, ha affermato che la battaglia per la direzione del giornale è già iniziata. Il nucleo dirigente del gruppo RCS (editore di Unedisa in Spagna) e proprietario del Corriere, spiega Marzo, ha ritirato la fiducia al direttore del quotidiano, Paolo Mieli, e sta valutando due sostituti: il primo, Carlo Rossella, sponsorizzato da Berlusconi e il secondo, Roberto Napoletano, direttore de Il Messaggero che, come ricorda Marzo, “divenne famoso durante l’ultima notte elettorale perchè fu pizzicato da una telecamera mentre concordava al telefono con il portavoce di Casini (leader dei democratici dell’UDC e genero dell’editore del quotidiano) il titolo principale che avrebbe piazzato il giorno dopo”.

Rossella è il presidente di Medusa, società di distribuzione cinematografica di Berlusconi, ed ha ricevuto la benedizione de Il Giornale, quotidiano della famiglia del magnate che ha ricordato che il Cavaliere “lo tiene particolarmente a cuore e gli ha già dato l’incarico di dirigere le sue due più grandi testate, Panorama e TG5.” All’interno del RCS, Rossella conta su altri importanti sostenitori: Diego della Valle, proprietario di Tod’s e della Fiorentina, e Luca Cordero di Montezemolo, patron della Fiat e del gruppo Ferrari e amministratore delegato de La Stampa.
Ma la parola di Berlusconi sarà quella decisiva, spiega senza ombra di pudore il quotidiano di suo fratello, perché mentre la crisi strangola i giornali, “l’intero sistema bancario dipende dal primo ministro”.

Napoletano ha le sue carte: non dispiace a Berlusconi ed è tra i pochi che comunicano telefonicamente con Giulio Tremonti, ministro dell’Economia ed editorialista de Il Messaggero.
Secondo Il Giornale il ministro “sa che il peggio della crisi economica sta per arrivare” e la sua idea è quella di piazzare Napoletano a Il Sole (proprietà, come Radio24, del patronato di Confindustria) e di passare al suo attuale direttore, Ferruccio de Bortoli, il timone del Corriere.
Se non parlassimo dell’Italia tutto questo affanno sarebbe inverosimile, degno al massimo di un articolo scandalistico. Ma tutte le fonti sono concordi nel segnalare che si tratta di “manovre serie e reali” il cui effetto causerà “un terremoto”.

Il malcontento del Governo nei confronti di un altro giornale, La Stampa di Torino, proprietà della Fiat è palese.
Secondo l’entourage berlusconiano, il suo direttore Giulio Anselmi sarà tentato con un’altra importante poltrona: quella di presidente dell’agenzia ufficiale Ansa. Se dovesse accettare, prenderebbe il suo posto un direttore meno ostile al Governo.

Mentre questo disegno politico prende corpo, i media italiani cercano, per quanto possibile, di tener testa a questa tempesta. Il presidente del RCS Piergaetano Marchetti, che ha visto nel 2008 scendere i profitti del gruppo a 38 milioni di euro rispetto ai 220 milioni del 2007, ha confermato che stanno soffrendo “tagli pubblicitari feroci ed immediati”.

E il suo amministratore delegato ha annunciato che l’andamento del gruppo dei primi mesi dell’anno obbligherà a “una riduzione del personale”. “Bisogna agire sui costi e sui modelli economici in Italia e all’estero”. Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, prevede anch’egli “tagli e cambiamenti”. Ironicamente Benedetto non è pessimista sul futuro del settore: “Tra una decina d’anni sarà splendido”.

Questo articolo non è uscito su un giornale italiano. Lo ha scritto un giornalista spagnolo, Miguel Mora, ed è uscito su un noto quotidiano spagnolo, El Pais.

Traduzione a cura di www.italiadallestero.info

sabato 28 marzo 2009

Il Piano Tossico di Geithner

Qui di seguito alcuni articoli di commento all'inutile quanto dannoso Piano Geithner di salvataggio delle assicurazioni (AIG in testa) e di "pulizia" dei bilanci bancari dai cosiddetti "asset tossici".


I Racconti del terrore nella Crisi
di Pino Cabras - Megachip - 27 Marzo 2009

I professionisti dell’ottimismo cercano di scorgere una ripresa, una luce in fondo al tunnel della Grande Crisi. Noi, che pure non siamo professionisti del pessimismo, ci limitiamo a osservare sgomenti l’inanità degli sforzi dell’amministrazione Obama, tesa a salvare il sistema senza avere soluzioni. Ancora dollari, migliaia di miliardi (ossia milioni di milioni) sono iniettati nel sistema finanziario in un’operazione disperata di costosissimo “mesmerismo”. Come il signor Valdemar descritto da Edgar Allan Poe, il sistema è morto ma la trance degli infiniti “salvataggi” in limine mortis ci fa giungere ancora le sue voci aspre e spezzate, mentre la decomposizione avanza. Il racconto di Poe si conclude così: «di fronte a tutti i presenti, non rimase che una massa quasi liquida di putridume ributtante, spaventoso». Chiameremo così anche l’inflazione?

Nel giro di pochi mesi, gli Stati Uniti hanno incenerito il denaro di un po’ di generazioni a venire. Il problema della solvibilità dell’Impero più potente della Storia si presenterà ormai con un rendiconto ineludibile. A breve.

L’economista Paul Krugman, ancora fresco di Nobel, è sempre più sconfortato, di fronte alla coazione a ripetere del Tesoro USA. Uno dopo l’altro, i “bailout” senza fondo vanno a beneficio delle banche e delle assicurazioni. I cinesi cominciano a porre come un’urgenza assoluta la questione della valuta di riferimento mondiale. Il dollaro così com’è non ha più credibilità. Gli USA non puntano nemmeno ai prestiti, come hanno fatto nell’ultimo scellerato decennio. Pensano solo a oliare bene le stampatrici della zecca.

Per la Grande Depressione degli anni trenta la soluzione adottata dagli USA fu il “New Deal”, che fece riacquistare fiducia e speranza al grande malato, con un forte ancoraggio a Main Street anziché a Wall Street. Oggi si punta sulla finanza, nell’idea che ripristinando il credito privato tutta la macchina economica ripartirà. Si tratterebbe di bonificare dai veleni i bilanci delle banche, sgonfiare fino in fondo la bolla dei debiti di chi vive al di sopra dei propri mezzi nella classe media, e lasciare però le banche così come sono, perché presto o tardi riattiveranno il credito. Una cifra pari al PIL degli USA è già stata stanziata allo scopo, un quarto di essa è già stato speso, eppure il credito non riparte. La strategia non serve dunque a questo scopo.

Non c’è più nulla che possa essere in grado di puntellare ideologicamente le dottrine del mercato in piedi fino a pochi mesi fa. Appare solo il potere della Superclasse finanziaria globale in tutta la sua brutalità. L’economia, la vita di miliardi di persone, è di fatto sotto gli effetti di una coercizione istantanea e violenta, «extraeconomica». Di norma nel capitalismo sviluppato la classe dominante usa queste brutalità come «stato di eccezione», mentre fu invece uno dei mezzi principali adottati nel periodo della «accumulazione originaria», per dirla con Marx.

Oggi c’è invece una sorta di «decumulazione originaria», un crollo che non tutti affronteranno con gli stessi mezzi. La Superclasse sta già profittando della sua forza extraeconomica per decidere chi salvare e chi sommergere.
Non si vuole salvare l’economia. Si vogliono strappare al tracollo – costi quel che costi – rapporti di forza e di potere. Come si tradurrà una parola come democrazia nel linguaggio delle locuste? Il verso che emettono, per ora, è sempre uno: “bonus”, a dispetto di tutto.
Continuano così la loro vita da nababbi a spese anche dei nostri futuri nipoti, in nome della legalità contrattuale, difesa da squadre di avvocati e da terrificanti giornalisti economici, proprio mentre moltitudini di lavoratori rivedono i contratti e accettano decurtazioni per la dura congiuntura. Per essi, per i loro contratti da onorare, i milioni di milioni non ci sono.

La Superclasse ha stracciato qualsiasi contratto sociale e parla ancora di legalità, intanto che giustifica lo scandalo del permanere dei propri folli status e stili di vita. Il prossimo passo sarà abbattere anche questo ultimo ridicolo paravento. È vero sì che ci sono già un po’ di rivolte. In Europa dell’Est (l’effimera Nuova Europa decantata da Rumsfeld) son già caduti i governi di tre paesi. Ma non è che si parli troppo di queste ribellioni. Il mainstream informativo tronca e sopisce, e comunque le agitazioni non sono ancora all’altezza della crisi. Di questa crisi.
Così come pochi sanno che i primi 25 manager di hedge fund del mondo, nel 2008, alla facciaccia di tutti, hanno incamerato profitti per oltre 11 miliardi di dollari scommettendo sui disastri di questa o quella economia nazionale. Fra gli scommettitori troviamo il solito George Soros, con 1,1 miliardi di profitti in un anno. Equivalgono a 35mila dollari al secondo, anche il sabato e la domenica, anche quando dorme. Buonanotte.

Lo scandalo dei bonus, però, è solo la bistecchina sapientemente usata per ammansire i frodati e sviare la questione vera. I sovrani della grassazione finanziaria, aggrappati al loro «diritto» ai premi e ululanti contro la “caccia alle streghe”, dovrebbero subire ben altro che la perdita dei bonus, perché gli impegni che avevano assunto non avevano copertura e quindi violavano eccome il diritto. Ma per ora in galera c’è solo il capro espiatorio, un caprone bello grosso per la verità, di nome Bernard Madoff.

Giusto scandalizzarci, insomma, ma non perdiamo di vista il fatto che il sistema non è stato riformato. Sebbene banche e assicurazioni importantissime siano ormai a tutti gli effetti nazionalizzate, sono tuttavia dominate dagli stessi soggetti privati che le avevano guidate fin qui e che continuano a ridistribuirsi cifre immani, lasciando che industrie e società intere vadano in malora.
La AIG – la grande assicurazione che prima dei tanti salvataggi consecutivi non aveva copertura per le scommesse perdute dalle banche - ha trasferito denaro pubblico per oltre 150 miliardi a banche del calibro di Goldman Sachs, Société Générale, Deutsche Bank, Barclays, HSBC e cosi via. Si tratta di rimborsi integrali, 100 centesimi per un dollaro.

Rendiamoci conto dell’abominio: quel che viene pagato a spese della collettività non sono attivi di bilancio, bensì debiti di gioco. Naturalmente molti hanno perso tutto. Ma non certe banche. AIG è il signor Valdemar dei nostri giorni, non muore ma è morto, perché Goldman Sachs non può morire. Si va oltre il mesmerismo.

Vi aspettereste che aumenti la velocità di circolazione della moneta, che si dia respiro alle industrie e ai mutuatari strangolati. Illusi. Ecco invece Goldman Sachs lanciarsi nelle scommesse del momento, speculazioni letali contro alcune monete, riassicurazioni contro il rischio paese di certe economie nazionali. Ecco i banchieri puntare su aspettative di crolli che si autoadempiono, tutto come prima, per spolpare ancora quel che c’è da spolpare.
Obama ha minacciato fuoco e fiamme contro i bonus. Ma non ha reso illegali i terribili meccanismi della speculazione. Quelli rimangono tutti. Per i pescecani della finanza è un’amnistia di fatto, e la festa continua.

Il senatore indipendente Bernie Sanders, del Vermont, si è accorto dell’assurdità di avere parlamenti che si scannano per giorni nel discutere provvedimenti da qualche decina di milioni, rispettando le delicatezze dei bilanciamenti dei poteri, quando invece la Federal Reserve si inventa in un baleno stanziamenti da trilioni di dollari senza far sapere i destinatari. Il sistema bancario ombra beneficia di un vero e proprio governo ombra con un budget di gran lunga superiore a quello amministrato dai poteri costituzionali, ed è gestito con poteri dittatoriali e meccanismi segreti.

Il collasso globale e i piani di salvataggio hanno gli effetti di un golpe rivoluzionario senza precedenti.
Sulle istituzioni si forma una banchisa polare che segue alla lentissima nevicata che pian piano, per decenni, ha tolto loro qualsiasi calore democratico: oggi – scrive Matt Taibbi su «Rolling Stone» - trova la sua consistenza finale «la conquista graduale del governo da parte di una ristretta classe di complici, che usavano il denaro per controllare le elezioni, comprare capacità d’influenza, e indebolire sistematicamente le regole e i limiti per la finanza». Il re è nudo, e se ne frega. L’usura sta compiendo la sua rivoluzione con ingordigia suicida. Edgar Allan Poe non avrebbe potuto immaginare un “personaggio” altrettanto inquietante, così avido, incapace, sconsiderato e criminale quanto il capitalismo terminale. Un capitalismo così mortifero e ghiacciato da non poterlo ancora fissare in un concetto di “normalizzazione”, perché ci introduce comunque a un’epoca di pericolosa instabilità.

In che mani siamo, dunque? Taibbi è drastico: « Queste persone non sono altro che tizi che trasformano i soldi in soldi, al fine di fare più soldi ancora; tutto sommato sono assimilabili alle persone assuefatte al crack o ai maniaci sessuali che ti entrano in casa per rubare le mutande. Eppure è questa la gente nelle cui mani ora riposa l’intero nostro futuro politico.»



Lo scandalo AIG produce un "effetto Pearl Harbor"
a cura di www.movisol.org - 27 Marzo 2009

Il recente scandalo dell'AIG, riguardante i premi multimilionari per i manager bancarottieri, pagati con i soldi del salvataggio pubblico, sta creando un "effetto Pearl Harbor" negli Stati Uniti. Nel dicembre 1941, quando fu bombardata Pearl Harbor, il popolo americano reagì con una mobilitazione che portò alla sconfitta del Giappone. Oggi, l'opinione pubblica americana è furiosa per le bombe finanziarie che l'hanno colpita, e resta da vedere se la rabbia popolare si dissiperà nella semplice protesta, o se sarà incanalata in un'azione costruttiva.

All'udienza della Commissione sui Servizi Finanziari della Camera il 18 marzo, l'amministratore di AIG Edward Liddy è stato messo sulla graticola dai deputati. Il democratico Gary Ackerman ha paragonato la pratica dei Credit Default Swaps (per intenderci, quelli che hanno comprato comuni e regioni italiani) di cui si è inebriata AIG a due uomini su una barca che affonda in una tempesta. Mentre sono circondati da pescecani e onde altissime, uno vende un'assicurazione all'altro.

Nel frattempo, gli uffici dell'AIG sono tempestati di telefonate di cittadini infuriati e di e-mail, e assediati dai dimostranti. I dirigenti hanno anche ricevuto minacce di morte. Lo scandalo di tali gratifiche catalizza la rabbia popolare, ma, come ha rilevato l'ex procuratore di New York Elliot Spitzer, non sono il vero scandalo.

Il vero scandalo sta nel fatto che l'AIG ha passato oltre 100 miliardi di dollari di denaro pubblico alle banche americane, inglesi ed europee, tra cui Goldman Sachs, Société Générale, Deutsche Bank, Barclays, HSBC e altre. "Non si tratta dei premi – ha scritto Spitzer sulla rivista Slate – ma del fatto che le controparti di AIG vengono rimborsate interamente. Perché mai Goldman Sachs deve ricevere 100 centesimi per dollaro? (...) L'impressione di essere di fronte a una consorteria è schiacciante. AIG non era altro che un canale per ingenti flussi di capitale verso i soliti sospetti, senza motivo e senza spiegazioni".

Lyndon LaRouche ha definito il salvataggio di AIG "una frode perpetrata ai danni del governo americano". Dato che oltre 100 miliardi di dollari di denaro pubblico sono andati a coprire scommesse in derivati, LaRouche si è chiesto: "Perché mai qualcuno deve pagare quella roba? Non è un attivo, è un debito di gioco! Dovremmo dire apertamente: stanno rubando! Impediamo loro di rubare!"



Un regalo di Obama alle banche
di Jeffrey D. Sachs - www.lavoce.info - 27 Marzo 2009

Il piano Geithner-Summers implica un enorme trasferimento di ricchezza, forse per centinaia di miliardi di dollari, dai contribuenti agli azionisti delle banche. Ne sono una prova i rialzi dei prezzi dei titoli bancari già nella settimana che ha preceduto l'annuncio. Il valore di questo salvataggio di massa è di gran lunga superiore al bonus destinato ad Aig e Merrill. Ma il meccanismo è molto meno ovvio e la reazione dell'opinione pubblica è stata debole, almeno finora. Per ripulire i bilanci delle banche esistono alternative molto più efficaci e più eque.

Timothy Geithner e Larry Summers hanno annunciato il loro piano: depreda la Federal Deposit Insurance Corporation e la Federal Reserve per garantire credito agli investitori che acquistano dalle banche attivi tossici a prezzi esagerati. Se il piano sarà attuato, il risultato sarà un enorme trasferimento di ricchezza, forse per centinaia di miliardi di dollari, dai contribuenti (su cui ricadranno le perdite di Fdic e Fed) agli azionisti delle banche. Il rialzo dei prezzi dei titoli bancari nella mattina dell'annuncio, e anche nella settimana di indiscrezioni e allusioni che l'ha preceduto, sono un'indicazione del salvataggio di massa in atto. Ci sono modi molto più equi e molto più efficaci per raggiungere l'obiettivo di ripulire i bilanci delle banche.

COME FUNZIONA

Ecco come funziona una parte importante del piano. Sarà creato un gigantesco fondo di investimento (o forse più di uno) per acquistare attivi tossici dalle banche. I bilancio dei fondi di investimento sarà così organizzato: per ogni dollaro di attivi tossici che acquistano dalle banche, la Fdic garantirà un prestito fino a 85,7 centesimi (i 6/7 di un dollaro), il Tesoro e gli investitori privati metteranno ciascuno 7,15 centesimi di capitale. Il prestito della Fdic sarà “non recourse”, ovvero se il valore degli attivi tossici acquistati dagli investitori privati scenderà al di sotto dell'ammontare del prestito Fdic, i fondi di investimento non lo restituiranno e la Fdic si ritroverà con gli attivi tossici.

IL REGALO DEL CONTRIBUENTE SPIEGATO CON UN ESEMPIO NUMERICO

Per comprendere come funziona il regalo agli azionisti bancari, è utile ricorrere a una spiegazione numerica.
Consideriamo un portafoglio di attivi tossici con un valore nominale di mille miliardi. Assumiamo che abbia il 20 per cento di probabilità di ripagare interamente il suo valore nominale e l'80 per cento di probabilità di ripagare soltanto 200 miliardi. Il valore attuale di mercato degli attivi tossici è dato dal loro rendimento atteso, che è il 20 per cento di mille miliardi più l'80 per cento di 200 miliardi, ovvero 360 miliardi. Di conseguenza, gli attivi si scambiano a un prezzo che è il 36 per cento del loro valore nominale.

I fondi di investimento dovranno fare un'offerta per questi attivi tossici. A prima vista, si direbbe che l'offerta dovrebbe essere di 360 miliardi, ma non è la risposta giusta. Gli investitori ne faranno una nettamente superiore a 360 miliardi, a causa del massiccio sussidio implicito nel prestito Fdic. In effetti, quello che la Fdic propone agli investitori privati è una scommessa del tipo “testa vinci tu, croce perde il contribuente”.

In particolare, la Fdic presta denaro a un basso tasso di interesse e sulla base della formula “non recourse” nonostante sia probabile una massiccia inadempienza degli impegni relativi ai prestiti da parte dei fondi di investimento. Il sussidio nascosto prende la forma di un prezzo di offerta per gli attivi tossici nettamente superiore ai 360 miliardi. In sintesi, la Fdic trasferisce centinaia di miliardi di dollari di ricchezza del contribuente alle banche.

CALCOLO SUL RETRO DELLA BUSTA: 276 MILIARDI

Basta un piccolo esercizio di aritmetica per calcolare l'entità del trasferimento. Nel nostro scenario gli investitori privati, che gestiscono il fondo di investimento, saranno pronti a offrire 636 miliardi per i 360 miliardi di reale valore di mercato degli attivi tossici, trasferendo così 276 miliardi in più dalla Fdic (i contribuenti) alle banche. Ecco perché.

Secondo le regole del piano Geithner-Summers, gli investitori e il Tarp mettono ciascuno il 7,5 per cento del prezzo di acquisto di 636 miliardi, pari a 45 miliardi. La Fdic darà un prestito di 546 miliardi (tutti i numeri sono arrotondati). Se gli attivi tossici ripagano interamente i mille miliardi, ci sarà un profitto di 454 miliardi, pari al pagamento dei mille miliardi meno il rimborso del prestito Fdic di 546 miliardi. Gli investitori privati e il Tarp prenderanno ciascuno metà del profitto, 227 miliardi di dollari.

Ma questo risultato si verifica solo nel 20 per cento dei casi, dunque i profitti attesi degli investitori privati sono il 20 per cento di 227 miliardi, ovvero 45 miliardi, esattamente quello che hanno investito. Anche per il Tarp i profitti sono esattamente uguali all'investimento. Così, sia il Tarp sia gli investitori privati sono in pareggio: come partecipanti all'asta, hanno offerto il prezzo massimo che consente loro di ottenerlo.
Gli azionisti delle banche, invece, chiudono il gioco con in tasca 276 miliardi in più, mentre la Fdic si sobbarca 276 miliardi di perdite attese.

Il trasferimento avviene a causa delle inadempienze sul prestito Fdic quando gli attivi tossici pagano solo 200 miliardi, un risultato che si verifica nell'80 per cento dei casi. Quando ciò accade il fondo di investimento si ritrova in rosso: ha più debito verso la Fdic di quanto abbia ricevuto dagli attivi tossici. Ma a quel punto, il fondo di investimento non ripaga il suo debito alla Fdic. E l'ente ottiene 200 miliardi invece della restituzione di 546 miliardi, con una perdita netta di 346 miliardi. E poiché questo risultato si verifica nell'80 per cento dei casi, la perdita attesa per il contribuente è l'80 per cento di 346 miliardi, ovvero 276 miliardi. Che corrisponde esattamente al guadagno in eccesso delle banche.

I prezzi alle stelle dei titoli bancari nella settimana che lo ha preceduto e nel giorno stesso dell'annuncio del piano svelano il salvataggio: tra il 9 e il 20 marzo l'indice bancario Kbw è salito del 33 per cento, mentre il Dow per l'industria solo dell'11 per cento, il che indica quanto fossero favorevoli alle banche le indiscrezioni sul piano. La mattina dell'annuncio, Citibank ha triplicato il suo valore rispetto al minimo dell'inizio di marzo. Il valore del salvataggio è di gran lunga superiore al bonus destinato ad Aig e Merrill, ma poiché il primo è molto meno ovvio del secondo, la reazione dell'opinione pubblica è stata debole, almeno all'inizio.

UN PIANO MIGLIORE

Il piano non dovrebbe andare avanti su queste basi così poco eque. Nel rispetto della legge, il Congresso dovrebbe applicare il Federal Credit Reform Act del 1990, che richiede un accantonamento di bilancio a copertura delle perdite attese nei programmi di prestito pubblico: si presume che le perdite attese della Fdic sulla base del piano Geithner-Summers dovrebbero rientrarvi. Con una corretta contabilità, l'intera operazione descritta nel nostro esempio richiederebbe un accantonamento di bilancio di 276 miliardi, pari alle perdite attese di Fdic e Tesoro.

Se l'amministrazione chiedesse al Congresso un accantonamento simile, la risposta sarebbe un secco “no”: l'opinione pubblica non accetterebbe un pagamento eccessivo degli attivi tossici a spese del contribuente. Così, è molto probabile che l'amministrazione cerchi di evitare un controllo del Congresso sul piano e faccia affidamento sulla confusione e sulla “buona notizia” dei rialzi dei corsi azionari per giustificare le proprie azioni.

I piani Geithner-Summers per la Fdic non sono gli unici trasferimenti fuori-bilancio agli azionisti delle banche. Altri punti del piano suffragano prestiti agevolati del Tesoro e ancor di più della Fed. La Fed sta già acquistando centinaia di miliardi di attivi tossici con scarso, se non nessun, controllo o accantonamento compensativo. E poiché alla fine guadagni e perdite della Fed sono iscritti a bilancio, anche l'acquisto degli attivi tossici dovrebbe ricadere sotto il Federal Credit Reform Act e dovrebbe essere esplicitamente finanziato.

Esistono innumerevoli alternative preferibili e più trasparenti. Gli attivi tossici potrebbero essere venduti a prezzi di mercato, non a prezzi esagerati, facendo sopportare agli azionisti delle banche i costi delle perdite. Se a quel punto le banche avessero bisogno di maggior capitale, il governo potrebbe acquistare direttamente le loro azioni: questo permetterebbe di salvare il sistema bancario senza salvare gli azionisti delle banche. Il processo sarebbe più corretto, meno costoso e più trasparente per il contribuente.

Nelle banche già ora insolventi dovrebbe intervenire direttamente la Fdic, in una forma di amministrazione controllata temporanea. Il ritorno per l'azionista sarebbe completamente cancellato, eccetto forse per qualche residuo diritto nel caso che gli attivi tossici superino largamente le loro attuali aspettative di mercato.

venerdì 27 marzo 2009

Sudan: tiro libero al bersaglio per gli aerei stranieri

Mentre ieri si registrava un altro appello del Consiglio di Sicurezza dell'Onu al Sudan per rivedere la decisione di espellere 13 grandi organizzazioni non governative internazionali operanti in Darfur - decisione presa il 4 marzo scorso in risposta al mandato d'arresto della Corte penale internazionale contro il presidente sudanese Omar el-Bashir - il ministro sudanese delle Infrastrutture Mabrouk Mubarak Saleem, in un'intervista rilasciata ad al-Jazeera, dichiarava che almeno 800 persone sarebbero morte in Sudan in due raid aerei condotti in febbraio dagli Stati Uniti contro i trafficanti di armi.

Il giorno prima pero' aveva detto che l'operazione militare era avvenuta in gennaio e aveva provocato quaranta morti. Inoltre non e' ancora certo chi ha effettivamente compiuto i raid. Infatti secondo alcune fonti si sarebbe trattato di cacciabombardieri USA, mentre secondo altre sarebbe stata l'aviazione israeliana a bombardare i convogli di trafficanti.

Le vittime sarebbero per la maggior parte eritrei, somali ed etiopi, in fuga dal proprio paese, che viaggiavano con il convoglio. Saleem ha comunque confermato "L'esistenza di un traffico d'armi dall'Africa [...] ma le armi non sono di fabbricazione sudanese e gli emigranti non hanno origini sudanesi. I contrabbandieri stavano solo attraversando il nostro Paese".

Resta pero' il fatto che il bombardamento da parte di aerei di un Paese ufficialmente non in guerra col Sudan c'e' stato e ha provocato numerose vittime innocenti.

Se ne parla qui di seguito.



Israele ha bombardato il Sudan

di Mazzetta - Altrenotizie - 26 Marzo 2009

Sembrano confermate le voci di un gravissimo bombardamento israeliano in territorio sudanese. Secondo Haaretz e altre fonti, in gennaio l'aviazione israeliana avrebbe bombardato un convoglio di automezzi che secondo i servizi israeliani era impegnato nel trasporto di armi per Gaza. L'attacco sarebbe avvenuto vicino a Port Sudan, provocando la morte di trentanove persone (sudanesi, etiopi ed eritrei) e la distruzione di diciassette veicoli e rappresenta un atto d'aggressione gravissimo nei confronti del Sudan e della sua sovranità. Port Sudan dista circa milletrecento chilometri dalla frontiera di Gaza e non sarebbe la prima volta che Israele prende una cantonata, denunciando e cercando di colpire quelli che definisce trasporti di armi per i palestinesi. Vista la distanza, c'è il sospetto che la squadra israeliana sia partita da Gibuti, sede di una grande base militare francese che ospita anche truppe americane.

Al di là della veridicità delle accuse israeliane, la questione ovviamente esula dal fatto che si trattasse veramente di un trasporto di armi. Resta evidente l'illegalità del bombardamento arbitrario di un paese con il quale Israele non è in guerra, una grave lesione del diritto internazionale e anche del buonsenso, visto che qualora si legittimasse l'azione israeliana, qualunque paese avrebbe diritto di bombardarne altri sulle base delle stesse possibili considerazioni. Sono le stesse premesse alla base di quel diritto alla "guerra preventiva" che non esiste nel diritto internazionale, ma solo nella mente di Stati Uniti ed Israele quando hanno cercato di legittimare le aggressioni a paesi sovrani, che non hanno e non avevano alcuna possibilità reale di offendere le due potenze militari.

Altrettanto evidente risalta il grado di sudditanza del governo sudanese, spesso spacciato per feroce e pericolosa dittatura ostile all'Occidente dai media compiacenti, ma che negli ultimi anni ha invece collaborato attivamente con gli Stati Uniti nella War on Terror e oggi si scopre riluttante nel denunciare il bombardamento del suo territorio per mano israeliana. Dalle parole di un ministro sudanese, il governo sarebbe rimasto "imbarazzato" dal bombardamento e incapace di articolare una reazione diversa dal consultarsi con il governo egiziano. Solo oggi sono trapelati i fatti, che risalgono ai giorni nei quali era ancora in corso la spedizione punitiva su Gaza. L'imbarazzo deriva dall'avvicinamento che in questi anni c'è stato tra il governo di al Bashir e quello di Bush, una vicinanza qui tradita in favore di un altro alleato di Washington.

Fatti che raccontano, oltre la propaganda, del potenziale intimidatorio che gli USA in particolare mantengono sul governo sudanese, troppo spesso presentato alle opinioni pubbliche come un mostro indomabile, ma che alla prova dei fatti si rivela servile e collaborativo fino all'omettere la denuncia di una violazione tanto grave della sua sovranità. Non è vero che in Darfur sia in corso un genocidio, ma non è nemmeno vero che l'Occidente si sia rifiutato di intervenire quando il massacro era in corso perché al Bashir minacciava sfracelli. Dopo l’11 Settembre il regime sudanese è stato tra i più veloci e volenterosi nell'allinearsi alle pretese di Washington, che infatti non ha mai fatto pressioni ufficiali per attacchi o interventi contro il governo di al Bashir, limitandosi a lasciare la briglia sciolta a ONG, telepredicatori e starlette.

La notizia dimostra quindi che il Sudan è assolutamente sottomesso alle esigenze del Dipartimento di Stato, circostanza peraltro già dimostrata dal sostanziale sostegno che il governo sudanese ha ottenuto negli ultimi anni dal governo Bush. Regime al quale peraltro gli Stati Uniti hanno affidato l'interrogatorio e la tortura di decine di militanti “islamici” per conto della CIA. Nemmeno in questo caso si tratta di voci, visto che numerosi ufficiali governativi americani hanno ringraziato i servizi segreti sudanesi pubblicamente.

Accanto a questa considerazione c'è da registrare ancor una volta un'aggressione illegale e una strage compiuta da Israele nei confronti di paesi e persone che non sono in guerra con Israele. Un atto di guerra evitabile affidando la cattura del convoglio alle autorità egiziane, alle quali non poteva certo sfuggire, ma anche l’ennesimo rifiuto di ricorrere a una normale operazione di polizia per impedire la commissione del presunto crimine, preferendo ancora una volta il metodo dell'esecuzione arbitraria, senza alcun processo, senza alcun discernimento tra i criminali consapevolmente impegnati nel traffico e i lavoratori innocenti addetti al trasporto o ancora alle possibili “vittime collaterali” di un bombardamento aereo su una strada aperta al traffico.

Non resta che attendere per verificare quanti governi “democratici” si dimenticheranno di denunciare quest’atto di guerra israeliano e la conseguente e grave violazione della sovranità sudanese, c'è da scommettere che all'appello si sottrarrà gran parte di quei sostenitori della “legalità internazionale” che hanno continuato ad esercitarsi nel “tiro al Sudan” fuori tempo massimo.



Darfur, lo zampino d'Israele

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 23 Marzo 2009

Il mandato di arresto per crimini di guerra e contro l'umanità in Darfur emanato il 4 marzo dalla Corte penale internazionale dell'Aja nei confronti del presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir ha riportato l'attenzione mediatica mondiale sul Paese africano, ricchissimo di petrolio ma ostile all'Occidente. Un'attenzione che però sembra non riguardare i legami tra i ribelli sudanesi del Darfur (anch'essi accusati di crimini di guerra dalla Cpi) e Israele.

Abdel Wahid al-Nur e il Mossad. Poche settimane prima del clamoroso annuncio della Cpi, Abdel Wahid al-Nur, leader del Movimento di Liberazione del Sudan (Slm) - uno dei due principali gruppi ribelli darfurini - era in Israele per partecipare all'annuale Conferenza di Herzliya sulla sicurezza d'Israele e per incontrare due alti ufficiali del Mossad, i servizi segreti dello Stato ebraico. Oggetto della riunione riservata, secondo il Jerusalem Post, sarebbe stato il contributo dell'Slm alla lotta al contrabbando di armi verso la Striscia di Gaza che, a detta del Mossad, passerebbe proprio dal Sudan. Secondo quotidiano Haaretz, invece, le autorità israeliane si sono rifiutate di rivelare il contenuto della discussione.

Ufficio Slm a Tel Aviv da un anno. Abdel Wahid al-Nur, che dal 2007 vive in esilio a Parigi, era già venuto in Israele esattamente un anno fa, nel marzo 2008, per inaugurare un ufficio di rappresentanza del suo movimento ribelle a Tel Aviv per aiutare le centinaia di rifugiati politici che hanno trovato protezione in Israele. "Dobbiamo forgiare nuove alleanze, non più basate sulla razza o la religione, bensì sui valori condivisi di libertà e democrazia", dichiarò in quell'occasione Al-Nour. "Il Sudan che sognamo consentirà l'apertura di un'ambasciata d'Israele a Khartoum".

Armi israeliane al Jem via Francia-Ciad? Negli stessi giorni di febbraio in cui il leader dell'Slm era a colloquio con il Mossad, l'altro gruppo ribelle del Darfur, il Movimento per la Giustizia e l'Eguaglianza (Jem), veniva accusato dal governo sudanese di aver ricevuto ingenti quantitivi di armi da Israele attraverso il governo di Parigi e il contingente militare francese schierato in Ciad (Eufor). Secondo Khartoum, solo grazie alle armi israeliane i ribelli del Jem sono stati in grado di conquistare a gennaio la città di Muhageriya.

L'altro fronte caldo: il Sud Sudan. Ma la guerra in Darfur, che dal 2003 ha provocato quasi mezzo milione di morti, non è l'unico problema interno del Sudan.
Sotto la cenere cova anche il conflitto in Sud Sudan, finito nel 2005 dopo ventidue anni e quasi due milioni di morti, ma che rischia di riesplodere in occasione del referendum indipendentista del 2011. In vista di questa eventualità, gli ex ribelli cristiani dell'Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla) che oggi governano la regione di Juba ma non i suoi giacimenti petroliferi (l'85 percento di quelli sudanesi), si stanno riarmando.

Armi della 'Faina' agli indipendentisti. A loro, secondo la Bbc, era destinato il carico d'armi (33 carri armati, 150 lanciarazzi e 6 sistemi missilistici antiaerei) che il 12 febbraio la nave cargo ‘MV Faina' ha scaricato al porto di Mombasa, in Kenya, dopo essere stata sotto sequestro da parte dei pirati somali per quattro mesi. Il carico era stato riscattato con il pagamento di 3,2 milioni di dollari da parte del proprietario della nave: l'imprenditore ucraino-israeliano Vadim Alperin, sospettato di essere un ex agente del Mossad.
Attraverso questo stesso canale, il Governo del Sud Sudan (Goss) avrebbe ricevuto altri rifornimenti bellici negli ultimi mesi. Il che non costituisce una novità rispetto al passato: durante la guerra civile lo Spla, oltre ad essere assistito dalle forze speciali Usa, veniva rifornito di armi da Israele, via Etiopia e Uganda.

La corsa all'oro nero del Sudan. Non è un mistero che l'Occidente punti a un cambio di regime a Khartoum per avere un governo sudanese ‘amico' che riveda i contratti petroliferi con la Cina firmati dal presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashir. Le leve che Stati Uniti, Europa e Israele stanno usando per rovesciare il suo regime sono il Darfur e il Sud Sudan, le regioni dove si concentrano i principali giacimenti petroliferi.