domenica 28 febbraio 2010

Afghanistan: nessuna via di uscita per la NATO, ma per l'eroina tante...

Un aggiornamento sulla guerra in corso in Afghanistan, dove oggi è morto il 101esimo soldato della NATO dall'inizio del 2010.

Niente male come media in due soli mesi...


"Lasciateci in pace"
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 26 Febbraio 2010

LASHKARGAH - In una guerra è sempre difficile raccontare la verità, riuscire a separare la realtà dei fatti dalla propaganda dell'una e dell'altra parte.

L'unico modo per tentare di capire cosa stia veramente succedendo in questi giorni qui in Helmand, nel sud dell'Afghanistan, teatro della più grande offensiva militare dall'inizio di questa guerra, è quello di parlare con la popolazione civile, con la gente di Marjah che riesce ad arrivare qui a Lashkargah per mettersi in salvo o portare nel capoluogo i parenti feriti nei combattimenti.

Molti di loro sono ricoverati all'ospedale di Emergency: unica struttura sanitaria di alta qualità (e gratuita) di questa polverosa città rurale e dell'intera provincia di Helmand, divenuta ormai l'epicentro del conflitto tra le forze d'occupazione straniere e la resistenza talebana.

Oggi è giornata di visite. I familiari dei feriti ricoverati affollano le corsie, il porticato d'ingresso e i giardini, dove decine di uomini in turbante siedono in capannelli riscaldandosi al tepore del sole e chiacchierando a bassa voce. Ogni tanto un boato lontano interrompe i loro discorsi e li fa voltare verso l'orizzonte, al di là del quale i caccia alleati che sibilano in cielo senza sosta continuano a bombardare i loro villaggi.

Sad Maluk, 60 anni, turbante bianco e barba grigia, è appena arrivato da Marjah per far visita al nipote ricoverato con una brutta ferita da pallottola. "Non so chi gli ha sparato, ma poco importa. Questa nuova operazione sta causando tante vittime innocenti, troppe. Dicono che hanno ucciso per errore solo pochi civili, ma la verità è che hanno ucciso pochi talebani. Io vivo vicino al bazar di Marjah, e vi posso assicurare che nei primi giorni le bombe sganciate dagli aerei e i missili lanciati dagli elicotteri hanno distrutto molte abitazioni. Da sotto le macerie abbiamo tirato fuori finora circa duecento cadaveri di civili, ma ci sono ancora un centinaio di dispersi sepolti sotto i resti delle case colpite. Ieri ne abbiamo trovati altri cinque. Queste cose non le racconta nessuno, ma vi giuro che è così perché l'ho visto con i miei occhi. Lo abbiamo visto tutti". Gli uomini intorno a lui scuotono silenziosamente il turbante in segno di assenso.

"Da un paio di giorni a Marjah non si spara più - continua Sad Maluk - ma questo non significa che i talebani se ne siano andati o siano stati sconfitti: hanno solo smesso di combattere, per ora. I talebani sono ancora a Marjah perché i talebani sono anche gente del posto. Non sono forestieri venuti da fuori come si vuol far credere: ci sono anche tanti di noi che stanno con i talebani. E sapete perché? Perché in questi ultimi anni con loro non abbiamo mai avuto problemi: finché a Marjah comandavano loro, tutto andava bene, tutto era tranquillo. Non vogliamo altro, non vogliamo intrusioni da parte degli stranieri o del governo. Vogliamo solo essere lasciati in pace, così come siamo".

Mormorii di consenso percorrono il pubblico di curiosi che si è formato attorno a noi. Uno di loro, un giovane di Marjah di nome Zia Ulaq, interviene per spiegare le parole del 'baba', come vengono chiamati gli anziani in segno di affettuoso rispetto.

"Ora a Marjah è tornata a comandare la polizia afgana, come prima che arrivassero i talebani. Noi più che degli americani abbiamo paura dei poliziotti afgani, di questi criminali che girano con i fuoristrada verdi e si comportano da padroni: rubano le nostre cose, ci estorcono denaro e chi si ribella viene arrestato e denunciato come talebano. E fanno anche di peggio, come rapire i nostri bambini per poi abusare di loro".

"Da quando, oltre due anni fa, Marjah è passata sotto il controllo dei talebani - prosegue Zia Ulaq - tutto questo non è più successo. Loro ci rispettavano e rispettavano le nostre proprietà e le nostre usanze. Garantivano la sicurezza, amministravano la giustizia con i 'qazi' (i giudici delle corti islamiche, ndr) e facevano rispettare le nostre leggi islamiche. E noi stavamo bene perché ci sentivamo sicuri: non subivamo più i furti e gli abusi di quei banditi in divisa. Se i nuovi governanti di Marjah faranno altrettanto, se rispetteranno la nostra gente e la nostra religione lasciandoci vivere e lavorare in pace, a noi andrà benissimo. Ma ora che sono tornati gli uomini sui fuoristrada verdi abbiamo molta paura".


Dentro Marjah

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 23 Febbraio 2010

Qais Azimy è un giornalista televisivo afgano che lavora per Al Jazeera che in questi giorni si trova in Helmand per seguire l'operazione militare Moshatarak.
Nei giorni scorsi è riuscito a entrare nella città di Marjah, epicentro dell'offenisva.
Peacereporter lo ha intervistato.

Come è arrivato a Marjah e cosa ha visto in città?
Sono arrivato a Marjah a bordo di un elicottero governativo, accompagnato da ufficiali dei Marines e dell'esercito afgano, oltre che dal governatore di Helmand, Gulab Mangal.
Siamo atterrati a poche centinaia di metri dal bazar di Marjah, che abbiamo raggiunto percorrendo a bordo di un blindato una strada che costeggia il canale. Sul bordo di questa strada un ufficiale dei Marines mi ha indicato delle buche: le trincee degli insorti. Poi abbiamo attraversato il canale su un ponte di ferro posato dai Marines durante l'attacco: quello vero è minato, troppo pericoloso.

Come le apparsa la città? Cosa ha visto?
Il bazar di Marjah consiste in una lunga fila di edifici diroccati, semidistrutti, che costeggiano su ambo i lati la strada che corre lungo il canale. Quasi tutte botteghe vuote e evidentemente abbandonate in fretta e furia da chi ci lavorava. I Marines mi hanno detto che la distruzione che vedevo non è stata causata da loro, ma dai bombardamenti dell'artiglieria britannica durante l'offensiva dell'estate scorsa.

E che aria tira in città? Le truppe Usa la controllano come dicono?
Non abbiamo fatto molta strada nel bazar. I soldati si muovevano con molta circospezione: non si fidano. Si sentivano continue sparatorie, molto vicine. E' evidente che, nonostante i proclami, nemmeno il bazar è sotto il pieno controllo delle forze americane e governative.

E la gente? La popolazione civile?
Siamo stati avvicinati da alcuni abitanti che supplicavano il governatore di fare qualcosa per loro, per la popolazione civile rimasta intrappolata a Marjah. Hanno detto che in città non c'è più niente da mangiare, che i soldati obbligano tutti a stare chiusi in casa e impediscono a chiunque di entrare e uscire dalla città e quindi non c'è modo di procurarsi provviste. Il governatore ha promesso loro che nei prossimi giorni arriveranno aiuti alimentari.
Il personale locale della Croce Rossa Internazionale mi ha riferito che i civili sono bloccati a Marjah sono tra i 40 e i 50 mila.

E per quanto riguarda le vittime civili di questa operazione?
Gli ufficiali americani mi hanno spiegato che il problema fondamentale di questa operazione militare - e non solo di questa - è distinguere tra civili e insorti, perché gran parte di questi ultimi coincidono con la popolazione, sono gente di qui, gente di Marjah. Il rischio di confonderli e commettere errori è molto alto, come dimostrano le testimonianze che abbiamo raccolto tra gli sfollati rifugiatisi a Lashkargah, che ormai sono circa 3.500 famiglie (oltre 20 mila persone, ndr). Alcuni di loro ci hanno raccontato di contadini uccisi nei campi perché scambiati per insorti.


Italia, il partito della guerra

da Peacereporter - 24 Febbraio 2010

Approvato in Senato il rifinanziamento alla missione militare in Afghanistan. Coi voti dell'opposizione

Il Senato ha convertito poco fa in legge il decreto 1° gennaio 2010, contenente il rifinanziamento del primo semestre 2010 della missione italiana in Afghanistan.

Nel precedente passaggio del provvedimento legislativo alla Camera di pochi giorni fa vi era stata una assoluta unita' d'intenti tra maggioranza e opposizione. Il 'partito unico della guerra' aveva scelto in blocco (con l'eccezione di otto parlamentari) di legittimare quella che avrebbe dovuto essere una missione di pace e ricostruzione e che oggi ha rivelato in pieno il suo carattere incostituzionale.

A favore hanno votato tutti i gruppi parlamentari tranne l'Idv che si e' astenuto, cosi' come si sono astenuti i senatori radicali Marco Perduca e Donatella Poretti. Il provvedimento torna ora alla Camera dei Deputati per la terza lettura. Tra le modifiche introdotte l'invio di 130 carabinieri ad Haiti.

Il ministro della Difesa Ignazio la Russa ha invece deciso di ritirare l'emendamento che avrebbe creato la mini naja (corsi di tre settimane nelle Forze Armate per giovani volontari.

Il gruppo dell'Italia dei Valori, diversamente da quanto avvenuto alla Camera, della seduta, si è astenuto. Contattato da PeaceReporter, Antonio di Pietro non ha spiegato il perche' del cambiamento di rotta, ma ha dichiarato che il suo partito "si e' trovato combattuto tra la necessita' di garantire protezione, assistenza ed equipaggiamento alle nostre truppe e l'incostituzionalita' della missione. Siamo contro questa spesa non tanto per i costi, seppur altissimi, dell'impresa ma per il rischio continuo di vite umane; uomini mandati lì per un obiettivo che è contrario alla nostra Costituzione. Quella in Afghanistan è una guerra a tutti gli effetti".

Per i primi sei mesi del 2010 sono stati stanziati 308 milioni di euro (51 milioni al mese) che serviranno per mantenere operativi sul fronte afgano 3.300 soldati, 750 mezzi terrestri (tra carri armati, blindati, camion e ruspe) e 30 velivoli (4 caccia-bombardieri, 8 elicotteri da attacco, 4 da sostegno al combattimento, 10 da trasporto truppe e 4 droni).

Il decreto in discussione stanzia fino al 31 giugno altri 4,3 milioni di euro per altre spese di carattere militare (2 milioni a sostegno dell'esercito afgano, altrettanti per l'addestramento della polizia afgana, e 367 mila euro per il personale militare della Croce Rossa Italiana che assiste le nostre truppe).

La cifra di 308 milioni non copre il preannunciato invio in Afghanistan di altri mille soldati che il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha ribadito oggi avverra' dopo l'estate e che riguarderà quindi il rifinanziamento del secondo semestre 2010.


Ecco la guerra afghana vista con gli occhi dei giovani talebani
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 27 Febbraio 2010


Prima della grande offensiva nell’Helmand, roccaforte talebana nel sud dell’Afghanistan, iniziata il 13 febbraio, il generale americano Stanley McChristal aveva annunciato in pompa magna la nuova strategia della Nato: "clear, hold, build", vale a dire ripulire il territorio cioè ammazzare più guerriglieri possibile, occuparlo stabilmente, ricostruire, facendovi un po’ di sano business, ciò che nell’offensiva era stato distrutto.

La strategia, chiamata "surge", aveva alcuni corollari: non fare vittime civili, proteggere la popolazione (non si capisce bene da chi), coinvolgerla nel "progetto di costruzione del futuro Afghanistan".

Bene, in una sola settimana, i bombardieri e i missili americani hanno ucciso, il 14 febbraio a Mariah, 12 civili, tutti membri della stessa famiglia, e pochi giorni dopo altri ventisette, cioè alcune famiglie che con tre minibus cercavano di fuggire dalla regione messa a ferro e fuoco dalla Nato.

Gli americani li avevano scambiati per talebani. Come ciò sia stato possibile è difficile da capire: non si sono mai visti guerriglieri talebani viaggiare in minibus come delle tranquille famigliole afghane in gita di piacere.

Questo è il "proteggere la popolazione" secondo il generale McChristal e i suoi alleati, fra cui ci siamo anche noi italiani, sia pur trincerati in una zona relativamente più sicura perché abitata da hazara e non da pashtun.

Nel frattempo, in un’altra regione, nei pressi di Kunduz, i missili americani avevano centrato un convoglio che trasportava del militari afghani loro alleati, uccidendone sette, notizia che non è passata sui media occidentali come mille altre che riguardano le nefandezze che gli occupanti stanno perpetrando in quel Paese.

Qualche giorno fa una piccola rete televisiva americana ha mandato in onda un servizio in cui, per la prima volta, si è guardata questa tragedia "con gli occhi dell’altra parte". Un giornalista afghano è stato per due settimane con i Talebani.

Ciò che si vede, si sente e si ricava è che si tratta di ragazzi giovanissimi (ma essere giovani e rivoltosi a quanto pare non è un titolo di merito in Afghanistan, a differenza, poniamo, dell’Iran), che si muovono tranquillamente fra la popolazione, che evidentemente li conosce, li protegge e li condivide, che non sono, come sempre vengono descritti, delle bestie feroci, ma dei ragazzi che sognano per il loro Paese un futuro diverso da quello progettato per loro, e in nome loro, dall’Occidente.

Non vogliono fare nessuna "guerra santa", wahabita, terrorista, al mondo occidentale, vogliono solo reimpadronirsi del proprio Paese e del proprio destino.

Sono tutte cose che, isolati, abbiamo scritto tante volte, ma che non possono non essere note a chi abbia seguito con un minimo di attenzione le vicende afghane e, naturalmente, agli inviati occidentali.

Ma nei nostri media non se ne parla. Deve prevalere la vulgata che noi siamo là solo per aiutare amorevolmente gli afghani e che i Talebani sono solo dei criminali.
Col Vietnam era diverso. Allora esisteva l’Unione Sovietica e, di conseguenza, un’intellighenzia europea di sinistra (all’epoca l’intellighenzia era solo di sinistra) che protestava contro quella guerra.

Ma gli afghani non appartengono nè alla sinistra nè alla destra, sono un antico popolo tradizionale, come i curdi, e hanno il torto di non essere nè cristiani, nè ebrei e nemmeno arabi.

E così si può fare di loro carne di porco, in una guerra vigliacca come poche, macchina contro uomini, che non ha alcuna ragion d’essere se non nella nostra arrogante e sanguinaria pretesa di omologare l’intero esistente a noi stessi.



Afghanistan: operazione impossibile
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 24 Febbraio 2010

Lo slogan della nuova strategia Usa è “Clear, Hold, Build”: liberare, mantenere, costruire. Ma in Afghanistan il massiccio coinvolgimento delle truppe occidentali e il crescente numero di vittime civili rivelano le difficoltà di un conflitto sempre più complesso e la cui fine appare ogni giorno più lontana.

L’ennesima dimostrazione arriva dalla zona di confine tra le province di Uruzgan e Dai Kondi - dove domenica scorsa trentatre civili hanno perso la vita a causa di un missile sparato aereo Nato - e dalle difficoltà incontrate dai militari della coalizione nell’operazione Moshtarak, la campagna militare intrapresa a metà febbraio nella provincia meridionale di Helmand.

Per cercare di domare la resistenza dei circa 800 talebani rimasti a guardia della città di Marjah, principale centro urbano del distretto di Nad Ali dove vivono 120 mila persone abbandonate al loro destino, l’Isaf (International Security Assistance Force) ha infatti schierato 15 mila soldati; militari americani, afgani, britannici e canadesi che hanno operato con il supporto ravvicinato dell’aviazione, di elicotteri da combattimento e di droni equipaggiati per azioni di attacco.

Vero è che dopo una settimana di combattimenti le forze alleate sono riuscite ad assumere il controllo di gran parte della città e questo a permesso il rischieramento di circa 600 poliziotti della Gendarmeria afgana che ora sorvegliano il centro e le vie di accesso al capoluogo, ma l’operazione si sta rivelando più complessa e lunga del previsto e in molte zone della provincia si continua ancora a combattere.

Nonostante i talebani abbiano deciso di arretrare, la tensione rimane infatti altissima e, anche se non si può parlare di strage, il numero dei così detti “danni collaterali” continua a crescere.

Proseguite per alcuni giorni, le deflagrazioni delle bombe sganciate dagli aerei ed dagli elicotteri della coalizione si sono sentite fino a Lashkar-gah, a 30 km di distanza, e dall’inizio dell’operazione tra i civili si contano già più di 20 vittime e decine di feriti, incluso l’uomo ucciso da una pattuglia dell’Isaf per non essersi fermato all’alt dei militari che si erano insospettiti per la presenza di una scatola lasciata sul bordo della strada, involucro che al contrario non è risultato essere un ordigno, e il ragazzo di 9 anni ferito gravemente alla testa mentre da dietro la finestra guardava incuriosito i mezzi blindati che passavano davanti casa.

La morte di civili è uno dei temi più delicati nei rapporti tra Kabul e le truppe Isaf e il bombardamento di Uruzgan, nel quale sono stati colpiti tre minibus a bordo dei quali viaggiavano solo donne e bambini, non fa altro che esacerbare l’animo di una popolazione ormai esasperata.

Sabato scorso il presidente Hamid Karzai aveva affermato che «le iniziative militari creano ancora troppe vittime civili» e, mostrando la foto di una bambina di 8 anni, aveva esclamato: «Questa è l'unica persona rimasta a raccogliere i cadaveri dei suoi familiari, uccisi da un missile della Nato che giorni fa ha sbagliato il bersaglio».

E le stesse frasi sono state ripetute lunedì, dopo che i generali americani si erano scusati dicendo che il convoglio di civili era stato colpito per un errore di mira. Parole che suonano beffarde per chi vive tutti i giorni il dramma della guerra e si vede uccidere la famiglia da chi dovrebbe portare pace e stabilità.

Annunciata come la più grande offensiva militare dai tempi del rovesciamento del regime talebano, l’operazione Moshtarak va considerata come un test fondamentale della nuova strategia Usa, una condotta volta a stanare e cacciare i guerriglieri da quelle roccaforti che fino ad ora sembrano essere inaccessibili.

Ma l’assalto a Marjah, che il capo del comando centrale Usa, Generale David Petraeus, considera coma la prima fase di una campagna che durerà tra i 12 e i 18 mesi, viene anche utilizzato dall’amministrazione Obama per guadagnare il consenso dell’opinione pubblica americana verso la decisione della Casa Bianca di aumentare in Afghanistan il livello delle truppe Usa fino a quasi 100 mila unità.

L’obiettivo è dimostrare, prima del 2011, data prevista per il definitivo ritiro, che le forze Isaf sono in grado di riprendere il controllo del territorio, soprattutto nelle provincie più densamente abitate, e che il governo afgano è in condizione di affermare e mantenere la sua autorità: proteggere la popolazione locale ed ottenere il suo sostegno in cambio di infrastrutture e servizi quali strade, acqua potabile, elettricità, sanità, istruzione e giustizia.

Come ogni piano, anche quello militare in Afghanistan ha però i suoi punti deboli. Innanzitutto, come sostiene il Generale Nick Carter, comandante Nato nel sud del Paese, «non è tanto la fase della liberazione che è decisiva. Lo è invece la fase del mantenimento delle posizioni».

Le truppe della coalizione possono infatti allentare la morsa talebana nel sud del Paese, dove i ribelli godono comunque del sostegno della comunità pashtun, ma devono continuare a mantenere anche una sostanziale presenza nelle aree dove i fondamentalisti sono ancora temuti.

In secondo luogo, le vere roccaforti talebane non si trovano in Afghanistan ma appena al di là del confine pakistano e la perdita di posizioni quali Marjah potrebbe essere considerata una sconfitta accettabile, soprattutto in vista del ritiro americano che dovrebbe avvenire entro la fine del prossimo anno.

C’è poi un problema legato alla capacità delle autorità afgane di far fronte alle profonde divisioni etniche e settarie che dividono i pashtun dai tagiki, così come gli uzbeki dagli hazara e dai turcomanni.

E vanno infine prese in considerazione le reali difficoltà incontrate fino ad ora nell’assicurare la presenza sul terreno di funzionari incorruttibili e competenti, strada che fino ad ora si è dimostrata praticamente impercorribile, e nell’organizzare una forza armata addestrata e ben equipaggiata.

L’Afghanistan è un paese fondamentalmente povero e il bilancio del governo dipende dagli aiuti stranieri, cosa che di fatto rende difficile organizzare una struttura efficiente ed affidabile: pur essendo particolarmente temuta, la polizia afgana è infatti considerata dai civili come un’organizzazione corrotta e violenta.



Afghanistan: “nuovo modello di guerra” per l’offensiva Nato nella provincia di Helmand
di Alessio Stilo - www.eurasia-rivista.org - 24 Febbraio 2010

L’offensiva militare delle truppe Nato prosegue nell’Helmand, provincia meridionale dell’Afghanistan confinante con il Pakistan, considerata una roccaforte talebana.

L’operazione, denominata Moshtarak – “insieme” in lingua dari – è concentrata nel distretto di Marja ed è volta, a detta dei vertici Nato, a “permettere al governo afghano di affermare la propria autorità sul territorio ed impedire che Helmand diventi un paradiso per gli insorti”.

L’offensiva, a guida anglo-americana, costituisce una nuova fase del disegno statunitense di coinvolgere il limitrofo Pakistan nel tentativo di impedire il ritorno dei Talebani. Questi ultimi, per la verità, hanno risposto picche alle reiterate proposte del presidente Karzai di entrare a far parte di un governo di coalizione, ritenendo altresì impraticabile il cammino per la soluzione della crisi tracciato nella Conferenza di Londra, ovvero lo stanziamento di 500 milioni di dollari da offrire all’opposizione afghana, una sorta di “contentino” per spingere i ribelli a trattare.

L’operazione, sebbene sia sostenuta dai reparti Usa e britannici dell’Isaf, coinvolge le truppe di Kabul e impiega 15 mila uomini (dei quali 3500 marines, 2000 soldati britannici, 1500 afghani, dotati di 500 IAV Stryker, più 7500 militari coinvolti in manovre di sostegno e logistica) con il dichiarato intento di fare “pulizia” dei bastioni talebani al confine col Pakistan.

L’intervento era stato preceduto dall’invito, rivolto agli oltre 100 mila abitanti del luogo, a rifiutarsi di dare rifugio ai talebani. La nuova offensiva, tuttavia, segna l’avvento di un “nuovo modello di guerra” – come riferisce il New York Times – basato non soltanto sulla conquista del territorio, ma con lo scopo prioritario di ottenere il sostegno della popolazione locale e conseguentemente insediare un’amministrazione afghana stabile.

I marines sono sbarcati nella zona limitrofa alla cittadina di Marja, supportati dall’avanzata dei reggimenti britannici, i quali hanno attaccato la zona settentrionale del circostante distretto di Nad Alì.

Gli analisti valutano le battaglie nell’Helmand come le più decisive per gli sviluppi del conflitto, oltreché le più grandi dall’inizio delle attività belliche. Il tutto prevede, nelle intenzioni dei vertici del Pentagono, la disfatta della resistenza talebana e l’ottenimento di una evidente vittoria militare tale da indurre gli insorti a deporre le armi e accettare il dialogo con il governo.

Nonostante i comandanti dell’Isaf confermino la “grande riuscita”, l’attacco ha trovato una ferrea opposizione talebana che ha provocato la perdita di un numero imprecisato – nell’ordine della decina – di militari Nato.

I generali atlantisti hanno afferrato la complessità delle operazioni in una zona geograficamente impervia, la cui popolazione è sempre più riluttante all’idea di doversi sottomettere agli invasori, ancorché sarebbe opportuno – nell’ottica Nato – sottrarre ai talebani l’appoggio tacito degli autoctoni locali. “La popolazione non è il nostro nemico, è il nostro premio”, sintetizza il generale Larry Nicholson, comandante dei marines americani nell’Afghanistan meridionale.

A suggellare la nuova strategia americana sono pronti, nelle retrovie, numerosi funzionari amministrativi e 1900 poliziotti afghani, preparati ad insediarsi ed assumere in pieno le funzioni una volta cessate le ostilità.

Il fatto che l’offensiva ad ampio raggio stia incontrando parecchie resistenze ha spinto il generale Petraeus, comandante delle forze Usa in Iraq e Afghanistan, a puntualizzare che l’operazione Moshtarak è solo “l’inizio di una campagna che durerà 12-18 mesi”, ribadendo la necessità di ottenere l’appoggio della popolazione per sottrarla al raggio degli insorti e dei signori della guerra locali, se necessario “conquistandoli” col denaro.

In questo quadro si nota come la situazione stia volgendo a sfavore delle forze alleate, considerando l’incremento della ribellione agli attacchi aerei che colpiscono i civili, con il conseguente ecumenico rancore – se non vera e propria ostilità – verso la presenza straniera.

La scelta di inviare in Afghanistan un ulteriore contingente di 40.000 soldati è da inquadrare nella dottrina obamiana, che l’ha fatta propria dal suo mentore Brzezinski, secondo la quale è di vitale importanza effettuare il massimo sforzo bellico nell’Asia Centro-Meridionale piuttosto che nel Vicino Oriente – congelando momentaneamente la questione israelo-palestinese – con l’obiettivo di assicurarsi l’importante corridoio geostrategico nella prospettiva di un accerchiamento della Russia, vero spauracchio di Brzezinski.

Se la strategia si dovesse rivelare inefficace sarebbe dunque un grosso smacco per la presidenza Obama che, in politica estera, ha puntato tutte le proprie carte sull’enclave sud-asiatica.

Il complesso scacchiere asiatico è pregno di una composita schiera di “nemici” o potenziali tali, quantomeno nella visione statunitense: vi sono i Pashtun talebani (divisi in fazioni), i “signori della guerra”, come Abdul Rashid Dostum (momentaneamente al soldo della Nato) o Gulbuddin Hekmatyar, i Tagiki, gli Hazara, gli Uzbeki, gli Aimak, i Turkmeni, i Baluci, i clan del Waziristan pakistano, i qaedisti di Bin Laden e via dicendo.

Il punto cruciale, secondo gli analisti atlantici, è l’incapacità degli Alleati di rompere il circolo vizioso tra i talebani, i contadini e le piantagioni di papavero da oppio. Lo stesso distretto di Marja, teatro dell’ultima offensiva su larga scala, è stato a lungo una zona di reclutamento per talebani nonché un’area di coltivazione del papavero da oppio, indi per cui gli strateghi di Washington stanno pensando di controllare le rotte del narcotraffico afghano e colpire i nascondigli dei ribelli al confine col Pakistan.

La politica di Islamabad, alleato di Washington, è alquanto ambigua: nonostante riceva i finanziamenti da oltreoceano per stanare le ridotte talebane, parte dei suoi servizi segreti (ISI) proteggono tacitamente i ribelli afghani, considerandoli una risorsa per contrastare l’influenza dell’arcinemica India in Afghanistan. Peraltro il focolaio al confine pakistano comporta la consequenziale strategia attendista di Islamabad, legata al mantenimento della propria stabilità interna.


Gli americani sono profondamente coinvolti nel commercio di droga afghano
di Glen Ford - www.blackagendareport.com - 24 Novembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Andrea B.

Gli Stati Uniti hanno preparato il terreno per la guerra afghana (e pakistana) otto anni fa, quando permisero il traffico di droga ai signori della guerra sul libro paga di Washington. Ora gli americani, agendo come il Capo dei Capi, hanno compilato liste nere dei rivali, i signori della guerra “talebani”. “È un’occupazione di bande, nella quale i trafficanti di droga alleati degli Stati Uniti sono incaricati di svolgere le attività di polizia e controllo dei confini”.

“I trafficanti di droga alleati degli Stati Uniti sono incaricati di svolgere attività di polizia e di controllo dei confini, mentre i loro rivali sono stati inseriti in liste nere americane”.


Se state cercando il capo del traffico di eroina in Afghanistan, esso è rappresentato dagli Stati Uniti. La missione americana si è evoluta in un’organizzazione di tipo mafioso che avvelena ogni alleanza militare e politica introdotta dagli USA e dal proprio governo fantoccio di Kabul.

È un’occupazione di bande, in cui i trafficanti di droga alleati degli Stati Uniti sono incaricati di svolgere attività di polizia e di controllo dei confini, mentre i loro rivali sono stati inseriti in liste nere americane, destinati alla morte o alla cattura. Come risultato di ciò, l’Afghanistan è stato trasformato in una piantagione di oppio che fornisce il 90 percento dell’eroina mondiale.

Un articolo nel numero attuale di Harper’s magazine esplora i meccanismi profondi dell’occupazione statunitense infestata dalla droga, si tratta di una dipendenza quasi totale sulle alleanze costruite con gli attori del traffico di eroina. L’articolo si focalizza sulla città di Spin Boldak, al confine sudorientale con il Pakistan, porta d’accesso ai campi di oppio delle province di Kandahar ed Helmand.

Il signore della guerra afghano è inoltre a capo dei controlli ai confini e della milizia locale. L’autore è un giornalista infiltrato residente negli USA, che è stato assistito dai più importanti collaboratori del signore della droga ed ha incontrato i funzionari statunitensi e canadesi che collaborano quotidianamente con il trafficante di droga.

L’alleanza è stata costruita dalle forze americane durante l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, ed è perdurata e cresciuta sin da allora. Il signore della droga, ed altri come lui in tutto il paese, non è solo immune da serie interferenze americane, ma è stato rafforzato attraverso denaro ed armi di origine statunitense per consolidare i propri affari nel settore della droga a spese degli altri trafficanti rivali delle altre tribù, costringendo alcuni di loro ad allearsi con i Talebani.

Nell’Afghanistan di lingua Pashtun, la guerra è in gran parte tra eserciti guidati da trafficanti di eroina, alcuni schierati con gli americani, altri con i Talebani. Sembra che i Talebani stiano avendo il sopravvento in questa guerra tra bande mafiose, le cui origini trovano le proprie radici direttamente nelle politiche degli Stati Uniti.

“È una guerra il cui ordine di battaglia è ampiamente definito dal commercio di droga”.

C’è da sorprendersi, quindi, se gli Stati Uniti compiono così spesso attacchi aerei contro le feste di nozze dei civili, cancellando gran parte delle numerose famiglie dello sposo e della sposa? I trafficanti di droga alleati dell’America hanno spiato i clan e le tribù rivali utilizzando gli americani come supporto tecnologico nei loro feudi mortali.

Ora gli americani ed i loro alleati occupanti europei hanno istituzionalizzato le regole della guerra tra bande con liste nere di trafficanti di droga da uccidere o catturare a vista, liste compilate da altri signori della droga affiliati con le forze di occupazione.

Questa è la “guerra di necessità” che il Presidente Barack Obama ha abbracciato come propria. È una guerra il cui ordine di battaglia è largamente definito dal commercio di droga. I generali di Obama fanno richiesta di decine di migliaia di nuove truppe nella speranza di diminuire la loro dipendenza dalle milizie e dalle forze di polizia attualmente controllate dai trafficanti di droga alleati degli americani.

Ma, naturalmente, questo spingerà gli alleati afghani dell’America tra le braccia dei Talebani, che otterranno un accordo più vantaggioso. Allora i generali sosterranno di aver bisogno di ulteriori truppe statunitensi.

Gli americani hanno creato questo inferno saturo di droga, e la loro occupazione è ora dominata da quest’ultimo. Sfortunatamente, nel frattempo hanno anche dominato milioni di afghani.

sabato 27 febbraio 2010

USA-Cina: un futuro interdipendente

Un paio di articoli su due Paesi, le cui relazioni segneranno il cammino futuro dell'umanità.


Pensando l'impensabile: che succederà se la Cina svaluta il renminbi?
di Marshall Auerback* - www.nakedcapitalism.com - 18 Febbraio 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri

Secondo il luogo comune per i Cinesi sarebbe ora (ovvero lo è già da tempo) di rivalutare la loro moneta, il Renminbi. Per esempio, una recente relazione della Goldman sostiene che la Cina aumenterà il valore del RMB contro il dollaro del 5% quest’anno. La teoria è che questa mossa sarebbe necessaria a rallentare un surriscaldamento dell’economia.

Ma in grande misura, essere o meno d’accordo se questo è un rimedio, dipende dall’interpretazione individuale non solo delle statistiche notoriamente fuorvianti della Cina, ma delle dinamiche fondamentali della crescita, che sono fuori da qualsiasi altro schema precedente, e non in modo positivo.

Ci domandiamo se una rivalutazione sia la risposta giusta per la Cina, e più importante, se gli stessi Cinesi vedano una rivalutazione come una cosa positiva. Il governo ha ingegnerizzato un enorme aumento del denaro [in circolazione] e del credito nell’anno passato. Infatti, sembra che ammonti ad una crescita di credito pari a 5 anni di crescita nella precedente “bolla” cinese. L’aumento del denaro e del credito è talmente grande e improvviso che si tende ad avere un aumento dell’inflazione piuttosto rapidamente, persino se ci sono risorse sottoutilizzate. Si aggiunga a questo il fatto che la Cina sta dando simultaneamente un impulso fiscale massiccio.

Questa combinazione è la ricetta per una situazione molto confusa. Se la Cina cerca di sostenere la domanda attraverso una politica fiscale, il risultato sarà probabilmente un grosso problema di inflazione. I numerosi studenti cinesi che fanno ritorno in patria imbevuti della teoria monetaria della scuola di Chicago e che assumono posizioni di autorità, potrebbero fare pressione in favore di uno sforzo aggressivo, stile Paul Volcker, per fermare l’inflazione.

E se non lo facessero? L’inflazione può decollare e poi iniziare ad ERODERE la competitività delle esportazioni cinesi. Nouriel Rubini ha indicato questa questione nel 2007: se la Cina non rivalutasse la propria moneta, l’inflazione produrrebbe comunque lo stesso effetto. Un tasso di inflazione persistentemente alto in relazione ai suoi partner commerciali spingerebbe il prezzo della merce a salire in termini di valuta nazionale, cosa che a sua volta, si tradurrebbe in prezzi di esportazione più alti.

Questa potrebbe essere la vera ragione per cui la Cina è così reticente a rivalutare la propria valuta. Gli Americani potrebbero diventare pazzi se i Cinesi svalutassero [la propria moneta], ma se l’inflazione fosse abbastanza elevata, potrebbero essere costretti a farlo, dato che eroderebbe gravemente i loro termini di vendita, causando il crollo del settore dei beni di scambio.

Oppure [sarebbe] il trionfo dei monetaristi di linea dura contro l’inflazione, e il risultato sarebbero le sommosse mentre aumenta la disoccupazione.

La situazione potrebbe farsi davvero brutta.

Questo potrebbe succedere ora in Cina, anche se è l’opposto delle opinioni che prevalgono. Il consenso è che l’inflazione sia intorno al due per cento e che persino questo è dovuto in gran parte ai prezzi più alti della carne di maiale, grazie ad un pessimo raccolto di mais.

Tuttavia, gli economisti come quelli di Lombard Street, nel Regno Unito, Jim Walzer, Simon Hunt e via dicendo, cercano di comprendere i cambiamenti di trimestre in trimestre del PIL nominale cinese, che viene riportato solo di anno in anno. E hanno calcolato tassi di crescita giganteschi a due cifre per la seconda parte dello scorso anno.

Ora questo è complicato dal fatto che i Cinesi hanno rivisto e corretto le loro cifre sul PIL, e mettono tutte le revisioni nel trimestre finale dell’anno. Ma [anche] quando questi analisti cercano di aggiustare un tale casino statistico calcolano aumenti giganteschi del PIL nominale. Lombard Street crede che fosse intorno al venticinque per cento nella seconda metà dell’anno scorso. Credono che fosse venti per cento reale, e cinque per cento inflazione.

Le economie di qualunque dimensione non crescono mai ad un tasso reale del venti per cento. E Simon Hunt dice che se si considerano le variabili sostitutive come la produzione energetica e il traffico ferroviario non si ottengono quei generi di cifre per la crescita reale, cosa che suggerirebbe che l’inflazione debba essere più alta del quattro o cinque per cento. In generale, se una cifra di PIL reale sembra sospetta, la prima cifra che si esamina criticamente è il deflatore del PIL.

Ma alcune prove suggeriscono che l’inflazione cinese potrebbe già essere a livelli di numeri a due cifre. Difficile da dirsi. Ma se è così alta, allora l’inflazione risultante causerà una reale rivalutazione dei tassi di cambio commerciali ponderati.

E ancor di più se si riprendesse il dollaro. Ciò potrebbe facilmente schiacciare il volume delle esportazioni e la redditività del settore industriale dei prodotti di scambio.

Le esportazioni sono l’unica area in cui la Cina faccia alcun profitto, perché possono vendere questi prodotti ad un prezzo 10 volte maggiore di quello che otterrebbero per un simile prodotto nell’economia nazionale (dove i profitti sono letteralmente zero).

Il settore delle esportazioni contribuisce fortemente al generale investimento fisso super-eccessivo in Cina. Una rivalutazione del dollaro vuol dire che l’investimento diretto estero andrà allo zero netto.

Ci saranno forti pressioni per una riduzione dell’investimento fisso in questo grande settore. Pertanto ci sono buone probabilità che persino senza contrazioni monetarie da parte delle autorità cinesi, il generale “boom” dell’investimento fisso in Cina si ridurrà.

Nessuno pensa a questo scenario, ma è una reale possibilità. E con l’investimento fisso ora al cinquanta per cento del PIL (senza precedenti in nessuna economia) e le esportazioni a oltre il trenta, abbiamo a che fare con rapporti mai raggiunti prima in combinazione.

Prima che i lettori controbattano che la Cina può sostenere un tale livello di investimento, consideriamo le opinioni del professor Yu Yongding, considerato da alcuni analisti come il miglior macroeconomista cinese. Come riportato dal Sydney Morning Herald:

Yu, ex direttore recentemente andato in pensione dell’Istituto di Economia e Politica Mondiale presso l’Accademia Cinese di Scienze Sociali, non ha detto espressamente che stessi parlando come un pazzo. Ma la sua e-mail continuava così: “quando un paese ha un tasso di investimento superiore al 50 per cento del PIL, e in crescita, dici che tale paese non soffre di sovreccedenza della capacità produttiva! … dici sul serio? per giudicare se c’è o meno una sovreccedenza della capacità produttiva non si può fare solo un resoconto delle teste. Con una popolazione di 1,3 miliardi [di persone] e l’avidità umana, le necessità della Cina sono illimitate, si potrebbe dire che la Cina non soffrirà mai di sovreccedenza produttiva!”

La e-mail notava che secondo la mia logica, nessun paese in via di sviluppo potrebbe mai soffrire di sovreccedenza della capacità produttiva finché non diventasse ricco e che il mondo non avrebbe mai dovuto avere la Grande Depressione del 1929.

Da quella salutare critica, Yu ha ulteriormente elaborato le sue vedute.

Crede che la Cina sia intrappolata in un circolo in cui la crescita costantemente in aumento dell’investimento accresce costantemente la produzione cinese, ma in modo spiccato il consumo non è cresciuto abbastanza velocemente da assorbirla. Quindi la Cina è costretta ad aumentare l’investimento per poter fornire una domanda sufficiente per assorbire il precedente aumento dell’offerta, creando quindi circoli sempre più grandi di offerta eccedente.

In questa maniera la quota dell’investimento del prodotto interno lordo è aumentata da un quarto del PIL nel 2001 ad almeno la metà. “C’è una specie di rincorsa – la domanda che rincorre l’offerta e poi più domanda è necessaria per tener testa a più offerta,” dice “questo ovviamente è un processo insostenibile”.

A partire dal 2005 il problema della capacità produttiva sovreccedente della Cina è stato “mascherato” incrementando come mai prima le esportazioni nette – ma questa strategia è stata interrotta dalla crisi finanziaria. Poi è arrivata l’abbuffata senza precedenti al mondo di investimento-stimolato dell’anno scorso, che non sarebbe poi stata così preoccupante se avesse portato le cose di cui la gente ha bisogno. Ma la mano del governo nella destinazione delle risorse si è fatta più pesante dal momento della crisi senza riforme che rendano i funzionari più responsabili per quello che spendono.

“Come risultato delle disposizioni istituzionali in Cina, i governi locali hanno un appetito insaziabile per i grandiosi progetti di investimento e per la destinazione subottimale delle risorse,” come ha detto in precedenza Yu nella sua Richard Snape lecture per la Productivity Commission di novembre.

Quindi ci sono ora aeroporti senza città, autostrade e ferrovie ad alta velocità che corrono parallele e città dove i contadini costruiscono case per nessun altra ragione se non per demolirle nuovamente, perché sanno che riceveranno un risarcimento superiore quando il governo locale inevitabilmente esproprierà i loro terreni.


La riduzione dell’investimento e delle esportazioni potrebbe creare una grave recessione in Cina. La Cina è andata troppo oltre questa volta. Sembrano essere dentro una scatola che nessun altro riesce a vedere. L’evento stile “cigno nero” quest’anno, per quanto concerne i veri credenti della Cina, potrebbe essere una svalutazione del renminbi. Se ciò dovesse accadere, le conseguenze politiche sarebbero altrettanto importanti di quelle economiche.


*
Marshall Auerback è un fund manager e stratega degli investimenti che scrive per New Deal 2.0 e Yves Smith.



Cina o Usa: quale delle due sarà l'ultima nazione a restare in piedi?
di Richard Heinberg - www.postcarbon.org - 3 Febbraio 2010
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da Oriana Bonan

Che scemo. Pensavo che i leader mondiali volessero impedire il collasso delle proprie nazioni. Di sicuro sono intenti a lavorare sodo per evitare il collasso della valuta, il collasso del sistema finanziario, il collasso del sistema alimentare, il collasso sociale, il collasso ambientale e l’insorgenza di una miseria generale e travolgente… Giusto? No.

L’evidenza ci suggerisce tutt’altro. Sempre di più, sono costretto a concludere che lo scopo del gioco giocato dai leader del mondo in realtà è non evitare il collasso; ovvero, ritardarlo per un po’, in modo che la propria nazione sia l’ultima ad affondare e la propria parte abbia l’opportunità di depredare le carcasse altrui prima di andare incontro allo stesso destino.

Lo so, suona insopportabilmente cinico. Ed infatti è possibile che questa non sia una descrizione accurata dell’atteggiamento conscio dei leader delle nazioni più piccole. Ma per gli U.S.A. e la Cina – i due Paesi che più probabilmente apriranno strada al resto del mondo – le azioni parlano più forte delle parole. (Avviso per la sanità mentale dei lettori: chi ha scarsa tolleranza alle cattive notizie dovrebbero fermarsi ora; ci sono un sacco di articoli più allegri su internet; potrebbe essere un buon momento per trovarne uno e goderselo.)

Per queste due nazioni, evitare il collasso richiederebbe la risoluzione di una serie di problemi enormi, di cui almeno quattro sono non negoziabili: il cambiamento climatico, il picco dei combustibili fossili (stagnazione e, presto, declino degli approvvigionamenti energetici), l’inerente instabilità di sistemi finanziari basati sulla crescita, e la vulnerabilità dei sistemi alimentari rispetto a fattori quali la scarsità di acqua dolce e l’erosione del suolo (in aggiunta al riscaldamento globale e alla scarsità di combustibile).

Se non si riesce a risolvere anche uno solo di questi problemi, il collasso societale sarà inevitabile, di sicuro nel giro di qualche decennio, ma forse anche solo entro pochi anni.

Allora, come vanno le cose per i nostri due concorrenti? Non molto viene detto a proposito del clima, solo vaghe promesse di azioni future. Quindi, è evidente che la strategia in questo campo è ritardare (attenzione, non ritardare gli impatti, ma piuttosto gli sforzi per affrontare il problema).

Allo stesso modo, sono poche le azioni concrete intraprese a riguardo dei sistemi alimentari: l’assunto sembra essere che l’agricoltura industriale convenzionale – responsabile della maggior parte delle enormi e crescenti vulnerabilità del sistema alimentare globale – in qualche modo si accollerà il compito di nutrire da sette a nove miliardi di essere umani.

Basta continuare a fare ciò che stiamo già facendo, ma su scala più grande e utilizzando un maggior numero di coltivazioni geneticamente modificate.

Quanto al picco di energia, esso non è riconosciuto ufficialmente, quindi la strategia adottata è la negazione del problema. Vedremo con che risultati.

E che dire del caos finanziario? Per questo aspetto, la situazione diversissima di U.S.A. e Cina giustifica una trattazione più estesa.

La Cina sale al comando!

Gli U.S.A. sono indebitati fino al collo e, per salvare banche “troppo grandi per fallire”, hanno ipotecato il salario delle generazioni future, più o meno fino a quando l’inferno non si sarà congelato.

Al contrario, la Cina ha pile e pile di danaro liquido (risultato dei suoi enormi surplus commerciali) e, per evitare che la valuta dei suo principale cliente perdesse valore, si è comprata una bella fetta del debito statunitense.

In questo ambito, sembra proprio che una nazione sia sul punto di scemare, mentre l’altra è pronta fare un balzo per raggiungere il primo posto come superpotenza economica mondiale.

Si dà il caso che questo sia un giudizio convenzionale sull’argomento. Non è difficile trovare commentatori che affermino che gli Stati Uniti, per diverse ragioni, sono una potenza del passato.

Oltre all’enorme fardello del debito, soffrono di una progressiva riduzione della base manifatturiera, di un notevole disavanzo commerciale, dell’erosione della qualità dell’educazione, e di una politica estera che, mentre serve gli interessi dei produttori di armamenti, mina gli interessi a lungo termine di tutta la nazione.

A questo proposito, un sondaggio di opinione condotto da World Public Opinion nel 2006 ha evidenziato che, in quattro importanti nazioni alleate (Egitto, Marocco, Pakistan e Indonesia) che insieme rappresentano un terzo dei musulmani del mondo, la maggior parte della popolazione ritiene che gli U.S.A. siano decisi ad insidiare o distruggere l’Islam.

In questi Paesi, la maggioranza degli intervistati appoggia eventuali attacchi a bersagli americani. E si dà il caso che la maggior parte dei futuri approvvigionamenti di petrolio proverrà da nazioni musulmane. Fantastico.

Al contrario, la Cina sta vivendo una primavera anfetaminica. Attualmente è il maggiore produttore di automobili del mondo. E, secondo quanto affermato daStuart Staniford in un recente articolo zeppo di dati, “se continuano i trend attuali, entro un paio d’anni il sistema di autostrade cinesi probabilmente sarà più vasto del sistema di strade interstatali degli Stati Uniti, mentre il numero di automobili in Cina supererà quello degli U.S.A. entro il 2017”.

Oggi, nel 2010, la Cina è il maggiore produttore di energia idroelettrica e solare ed entro il 2011 sarà anche il maggiore produttore di energia eolica. L’intelligente rete di investimenti della Cina fa apparire insignificante quella statunitense, con un rapporto di 200 a 1. I Cinesi stanno investendo pesantemente anche nell’energia nucleare. Staniford prosegue scrivendo: “Semplificando moltissimo, è come se gli U.S.A. avessero preso a prestito una montagna di soldi dalla Cina per combattere una guerra il cui scopo era liberare il petrolio iracheno in modo che la Cina potesse diventare la più grande potenza industriale che il mondo abbia mai visto”.

La politica estera della Cina consiste principalmente nel comprarsi gli amici acquistando diritti su petrolio, gas, carbone e altre risorse (in Canada, Australia, Venezuela, Iraq, Kazakistan e nell’Africa intera); gli U.S.A., invece, spendono denaro che non hanno per estirpare furfanti e, nel mentre, si fanno nuovi nemici.

In una conferenza tenuta nell’ottobre 2009, George Soros ha ostentato un candore rincuorante circa la gravità della crisi finanziaria globale in corso: “La differenza [tra la recente crisi economica] e la Grande Depressione è che questa volta al sistema finanziario non è stato permesso di collassare, e lo si è messo in cura intensiva. Infatti [comunque] il problema del credito e dell’indebitamento che abbiamo oggi è di entità persino maggiore che negli anni Trenta”. Soros poi ha proseguito parlando delle rispettive posizioni di U.S.A. e Cina:

“Tutti i Paesi, nel breve termine, hanno subito conseguenze negative, ma, nel lungo termine, ci saranno vincitori e vinti. (…) Per dirla senza mezzi termini, gli U.S.A. soffriranno la perdita maggiore mentre la Cina è sul punto di emergere come il principale vincitore. (…) La Cina è stata la principale beneficiaria della globalizzazione e si è trovata in larga misura isolata rispetto alla crisi finanziaria. Per l’Occidente – e per gli U.S.A. in particolare – la crisi è stata un evento che si è generato all’interno portando al collasso del sistema finanziario. Per la Cina, invece, si è trattato di un urto proveniente dall’esterno, che, pur avendo danneggiato le esportazioni, ha lasciato incolume il sistema finanziario, politico ed economico”.

La Cina incespica!

Ma ricordate: se non si trovano soluzioni al cambiamento climatico, al picco energetico e all’incombente crisi alimentare, vincere la gara finanziaria sarà solo un’effimera consolazione. Prendiamo in considerazione anche solo l’enigma dell’energia: la Cina è in grado di costruire centrali nucleari e generatori eoloelettrici, ma non potrà mantenere a lungo un tasso di crescita annuale dell’8% se l’energia derivante dal carbone rimane invariata o diminuisce.

Sommando i progetti di Cina e India, i due Paesi hanno attualmente in programma di costruire ben 800 centrali elettriche a carbone entro il 2020. Ma dove reperiranno il combustibile? La produzione domestica di entrambi i Paesi è già deficitaria e le importazioni sono già cominciate. Ma i Paesi esportatori di carbone non saranno in grado di tenere il passo con la crescente domanda di Cina e India.

Inoltre, esiste una scuola di pensiero secondo cui l’apparentemente irrefrenabile miracolo economico della Cina non è che una bolla che sta per scoppiare. Il mercato dei beni immobili di Beijing è surriscaldato, come quello di Las Vegas attorno al 2006. L’anno scorso, il PIL cinese è cresciuto del 9%… sulla carta.

Ma per raggiungere quell’obiettivo, il governo e le banche hanno dovuto concedere prestiti per un importo pari al 30% del PIL (il tasso di crescita nei prestiti è accelerato nell’ultima parte dell’anno; ai tassi registrati alla fine dell’anno, le banche avrebbero dato a prestito una somma pari all’intero PIL nazionale previsto per il 2010). In ogni caso, probabilmente molta parte di tale crescita si è verificata attraverso speculazioni su beni immobili e azioni dubbie.

In generale, la Cina è ad uno stadio di sviluppo economico da selvaggio West: è un’accozzaglia di influenti basi di potere capitalistico locali che non devono rendere conto a nessuno, tutte intente a destreggiarsi per creare e inflazionare patrimoni e credito. Di recente, il governo centrale ha esercitato un certo controllo sulle banche, ma la sua abilità di fermare gli schemi Ponzi a livello locale è ancora limitata.

In gennaio, la commissione regolatoria bancaria cinese ha tentato di mettere un freno ai prestiti per rallentare il rapido incremento di valore dei beni immobili e del mercato delle azioni. (C’è da dire però che nello stesso mese il gabinetto cinese ha deciso di permettere operazioni di margin trading e vendite allo scoperto per lanciare un indice di futures.)

Comunque, è significativo che ci siano prove del fatto che i tentativi della banca centrale della Cina volti a deflazionare in modo innocuo le bolle dei mercati immobiliari e della borsa probabilmente non stiano funzionando.

Secondo Joe Weisenthal di Business Insider , l’improvvisa sospensione dei prestiti "ha colto di sorpresa gli importatori e molte altre società, e potrebbe causare turbolenze negli ordini di importazione della Cina. Le lettere di credito sono improvvisamente divenute indisponibili nonostante gli accordi pregressi. Crediamo che questo porterà inevitabilmente a ritardi o cancellazioni nelle importazioni della Cina.

È probabile che l’impatto maggiore riguarderà gli ordini relativi a beni di consumo e macchinari". Traduzione: il governo si è trovato di fronte ad una scelta: lasciar scoppiare una bolla in rapida crescita, affossando il mercato, oppure deflazionare deliberatamente la bolla, rischiando di affossare l’economia per un’altra strada. La banca centrale ha scelto la seconda opzione ed è possibile che tale azzardato affossamento si stia palesando ora.

Nel frattempo, Google e l’Amministrazione Obama esercitano pressioni esterne sulla Cina al fine di allentarne la censura sulle comunicazioni elettroniche; secondo alcuni, queste mosse sono da interpretare come una riduzione delle opzioni del governo centrale per controllare sia il flusso delle informazioni che l’economia.

In un recente controeditoriale, il rubricista del New York Times Tom Friedman ha ribattuto alle espressioni di preoccupazione circa l’esplosione della bolla cinese con una robusta manifestazione di fiducia nell’irrefrenabile spinta espansionistica di Beijing. Considerando il passato di Friedman (ricordate le sue rubriche nel 2003, in cui celebrava i benefici di cui l’America avrebbe goduto con un’invasione dell’Iraq?), questo è sufficiente a generare dubbi in merito ai tempi più o meno brevi del deragliamento della locomotiva cinese.

Cosa significa "Vincere"?

Nel suo Reinventing Collapse: The Soviet Example and American Prospects (‘La reinvenzione del collasso: l’esempio sovietico e le prospettive americane’), Dmitry Orlov tratta il “gap di collasso” tra Stati Uniti e vecchia Unione Sovietica: questa, egli sostiene, in effetti era molto meglio preparata alla crisi economica e alla caduta del proprio governo centrale; quando gli U.S.A., prima o poi, seguiranno la strada dell’U.R.S.S., il dolore e la sofferenza dei cittadini sarà di gran lunga maggiore. (Qui non posso riassumere in maniera adeguata le prove e i ragionamenti di Orlov, ma sono convincenti; se non avete ancora letto il libro, fatevi un regalo.)

Quindi: qual è l’attuale situazione degli U.S.A. in termini di preparazione al collasso rispetto alla Cina?

Dopo sessant’anni di crescita economica quasi ininterrotta, gli Americani hanno sviluppato aspettative per il futuro che non sono realistiche. Sono consumatori urbanizzati la cui capacità di produzione si è raggrinzita e le cui abilità pratiche di sopravvivenza sono, nella maggior parte dei casi, rudimentali.

Al contrario, i Cinesi si affacciano su un baratro molto meno ripido. La maggior parte vive ancora in campagna, e molti di quelli che vivono in città distano una sola generazione dall’agricoltura di sussistenza e sono ancora in grado di affidarsi alle competenze pratiche, proprie o dei propri genitori, acquisite durante decenni di povertà e di immersione in una cultura agricola tradizionale.

Entrambe le nazioni si trovano di fronte a feroci sfide politiche. Negli U.S.A., il governo centrale è ormai quasi completamente paralizzato: è evidentemente incapace di risolvere persino problemi relativamente minori e la fiducia risposta in esso dalla maggioranza dei cittadini è in larga misura evaporata. I leader politici sono riusciti a polarizzare geograficamente la gente con questioni che stimolano l’emotività, poche delle quali hanno a che fare con i fattori che attualmente minano la capacità di sopravvivenza della nazione.

Il governo centrale cinese sembra molto più capace di agire in modo deciso e strategico, ma deve affrontare spinose questioni geografiche e storiche: il divario economico e sociale tra le ricche città costiere e l’interno povero e rurale è estremo e crescente; ed esiste uno scisma demografico tra chi ha meno di 40 anni ed elevate aspettative economiche, e le generazioni più anziane cresciute sotto Mao, la cui etica è fondata su collettivismo e abnegazione.

I giovani, specialmente, hanno accettato lo scambio tra libertà civili e prosperità economica. Ma questa non sarà data, le prime saranno richieste con forza. Se le aspettative dovessero essere disattese, la profondità di queste divisioni sarebbe sufficiente a lacerare la società, e i leader lo sanno bene.

Quindi, nell’eventualità di un collasso, entrambe le nazioni si troverebbero di fronte alla possibilità di un crollo dei sistemi politici con conseguenti violenze diffuse (rivolte e repressioni).

La Cina continua ad essere in vantaggio in un’area cruciale: il sistema alimentare. Nonostante i recenti trend di rapida urbanizzazione, molti cittadini coltivano ancora il proprio cibo (negli U.S.A., i coltivatori a tempo pieno si aggirano attorno al 2% della popolazione e il coltivatore medio si sta avvicinando all’età pensionabile).

Ciò non implica che la Cina sarà capace di dar da mangiare a tutta la sua popolazione; sta già diventando uno dei principali importatori di prodotti alimentari. Nel frattempo, gli U.S.A. sono ancora un importante esportatore di alimenti. La principale differenza sta nella resilienza dei rispettivi sistemi: quello degli U.S.A. è più centralizzato e più dipendente dagli idrocarburi e, quindi, probabilmente più vulnerabile.

La geopolitica del collasso

è facile capire perché la preparazione al collasso è un vantaggio per la cittadinanza: meglio si è preparati e più persone sopravvivranno. Tuttavia, c’è da chiedersi se un tasso più elevato di sopravvivenza, durante e dopo il collasso, si traduca in un vantaggio geopolitico.

Il processo del collasso sarà determinato da molti fattori, alcuni dei quali difficili da prevedere, e quindi è arduo anticipare l’entità o la portata della struttura del potere politico che eventualmente riemergerà nell’uno e nell’altro Paese.

È possibile che una o entrambe le nazioni si trasformino in una serie di unità politiche più piccole in conflitto tra loro e incapaci di impegnarsi più di tanto nelle manovre globali per l’approvvigionamento delle risorse. Le nuove unità politiche emergenti all’interno degli attuali territori della Cina e degli U.S.A. sarebbero immediatamente assalite da enormi problemi pratici, tra cui povertà, fame, disastri ambientali e migrazioni di massa.

è presumibile che rimarranno intatti ed utilizzabili dei potenti armamenti dell’era della guerra globale. Quindi, in teoria, è possibile che una di queste entità politiche più piccole possa affermarsi sul palcoscenico mondiale come impero contingente e di breve durata, con una portata geografica limitata. Ma anche in quel caso “vincere” la gara del collasso sarebbe solo una piccola consolazione.

La possibilità di un conflitto armato tra le due potenze prima del collasso non può essere completamente esclusa, ad esempio, se gli sforzi statunitensi di contenere le ambizioni nucleari dell’Iran faranno scattare una mortale reazione a catena di attacchi e contrattacchi, in cui magari sia coinvolto Israele, e che costringeranno le potenze mondiali a scegliere un campo; oppure se gli U.S.A. persisteranno nell’armare Taiwan. Ma né gli U.S.A. né la Cina vogliono un confronto militare diretto, ed entrambe le nazioni sono molto motivate ad evitarlo.

Di conseguenza, fortunatamente una guerra nucleare senza esclusione di colpi – che è ancora il peggior scenario immaginabile per l’homo sapiens e il pianeta Terra – sembra improbabile, sebbene sia possibile che, in qualche caso, l’una o l’altra nazione usi queste armi nei prossimi decenni.

Le guerre commerciali sono un’altra questione e, secondo Michael Pettis (Financial Times) , potremmo persino assistere ad una di queste guerre nel corso di quest’anno:

“(…) gli squilibri commerciali sono più necessari che mai a giustificare l’aumento degli investimenti in Paesi con surplus [cioè la Cina], ma la crescente disoccupazione li rende politicamente ed economicamente inaccettabili nei Paesi in deficit [cioè gli U.S.A.]. L’aumento del risparmio negli U.S.A. si scontrerà con il risparmio ostinatamente alto in Cina. A meno che non si elabori immediatamente una soluzione congiunta a lungo termine, il conflitto commerciale peggiorerà e sarà sempre più difficile invertire le politiche offensive. Aspetto ancora più importante, se i Paesi deficitari esigeranno un cambiamento strutturale più veloce di quanto i Paesi in surplus possano gestire, finiremo quasi certamente con un’orrenda controversia commerciale che (…) avvelenerà le relazioni per anni”.

Quanto probabile è la prospettiva che l’ultima nazione in piedi possa – come mi sono espresso nel primo paragrafo – “depredare le carcasse” dei propri concorrenti? Un simile scenario presuppone che tale nazione possa rimanere in piedi per almeno qualche anno dopo la caduta delle altre. Ma forse questo non è possibile. Si ricordino le parole profetiche di Joseph Tainter in The Collapse of Complex Societies (‘Il collasso delle società complesse’, 1988):

"Una nazione oggi non può più collassare in maniera unilaterale perché se un qualsiasi governo nazionale si disintegra, la sua popolazione e il suo territorio sono assorbiti da un'altra nazione [o sono salvati da agenzie internazioni] (…) Questa volta il collasso, se e quando si verificherà di nuovo, sarà globale. Non è più possibile che una qualsiasi nazione singola collassi."

Quando l’U.R.S.S. è crollata, gli U.S.A. e diverse multinazionali hanno potuto fare incursioni e divorare un po’ dei tesori rimasti in giro. Un esempio: da molti anni il combustibile usato dalle centrali nucleari statunitensi è uranio cannibalizzato dalle vecchie testate missilistiche sovietiche.

Subito dopo, alcuni istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale contribuirono presto ad organizzare nuove strutture finanziarie in Russia, Ucraina, Bielorussia, Lituania, Estonia e negli altri Paesi sorti dalla disintegrazione politica ed economica sovietica, così da limitare e invertire il processo di disintegrazione sociale che era già cominciato.

Ma ora il gioco è cambiato. Un collasso degli U.S.A. devasterebbe la Cina. Beijing perderebbe il suo cliente principale. Non solo. I buoni del tesoro accumulati per centinaia di miliardi di dollari diverrebbero privi di valore.

Se la Cina fosse stabile internamente, sarebbe possibile assorbire un tale urto, seppure con qualche difficoltà. Ma alla luce dei problemi sociali e finanziari che ribollono in Cina, un collasso degli U.S.A. sarebbe quasi certamente sufficiente a gettare l’economia di Beijing in un vortice che originerebbe crisi sia sociali sia politiche.

Un collasso della Cina devasterebbe gli U.S.A. in modo simile. Ovviamente, la perdita di una fonte di prodotti di consumo a basso prezzo sconcerterebbe i clienti di WalMart, ma lo shock andrebbe molto più a fondo. Il Tesoro perderebbe il principale acquirente straniero del debito governativo, per cui la FED sarebbe costretta ad intervenire monetizzando il debito (in parole povere, dovrebbe “accendere le stampatrici della zecca”), compromettendo quindi il valore del dollaro.

Il risultato: un crollo economico iperinflazionario. Un tale crollo, comunque, è probabilmente inevitabile a un certo punto, ma sarebbe velocizzato e aggravato da un eventuale collasso del sistema cinese.

In ogni caso, le istituzioni internazionali mondiali non sarebbero capaci di prevenire le sostanziali ricadute sociali e politiche. E l’ultima nazione a restare in piedi non resterebbe in piedi a lungo. Abbiamo raggiunto la fase in cui, come afferma Tainter, “la civiltà mondiale si disintegrerà nella sua totalità".

La maratona della transizione
Ok. I leader statunitensi e cinesi non stanno facendo nessun serio sforzo per evitare il collasso nel lungo termine (vale a dire, nei prossimi 10-20 anni). Forse la ragione è che sono giunti alla conclusione che sia un’impresa impossibile; troppi trend portano nella stessa direzione, e in effetti gestirne di petto uno qualsiasi comporterebbe enormi rischi politici nell’immediato.

In realtà, comunque, è molto più probabile che i leader stiano semplicemente rifiutando l’idea di riflettere seriamente su questi trend e sulle loro implicazioni, perché dispongono di un’alternativa: posporre il collasso mediante spesa in disavanzo, salvataggi, e ulteriori bolle finanziarie, mentre recitano la propria parte nel teatrino kabuki delle politiche sul clima e si dedicano alla geopolitica delle risorse.

In questo modo, almeno, il biasimo cadrà sulla prossima generazione di leader. Posticipare il collasso è di per sé un grosso lavoro, sufficiente a far sì che tutta l’attenzione sia dirottata altrove rispetto alla contemplazione della natura terribile e inevitabile di ciò che si sta posticipando.

Ma il rischio di dissoluzione è in qualche modo ridotto da questi sforzi a breve termine? Mhm, difficile che sia così. Infatti, più si ritarda la resa dei conti, e peggiore sarà.

Piuttosto che tentare di ritardare l’inevitabile, avrebbe più senso, semplicemente, costruire resilienza in tutta la società e rilocalizzare i sistemi sociali essenziali concernenti il cibo, la produzione e la finanza.

Non c’è bisogno di ripetere il discorso corrente su questa strategia: i lettori che non lo conoscono possono trovare consigli in abbondanza su www.transitiontowns.org , o nei libri e negli articoli di autori quali Rob Hopkins, Albert Bates, David Holmgren, Pat Murphy, e Sharon Astyk (e anche in qualche mio scritto, ad esempio Museletter #192 ).

Comprensibilmente, per i politici nazionali è difficile pensare lungo queste linee. Costruire la resilienza societale significa trascurare i dettami dell’efficienza economica; significa ridurre sistematicamente il governo centrale e le istituzioni commerciali nazionali/globali (banche e corporation). Significa anche mettere in discussione il dogma centrale del nostro mondo moderno: l’efficacia e possibilità di una crescita economica senza fine.

Quindi, l’esito migliore risiede in una strategia di resilienza e rilocalizzazione, ma i nostri leader nazionali non possono neppure contemplare una tale strategia, il che significa che quei leader sono, almeno in un certo senso, irrilevanti per il nostro futuro.

Alcuni lettori sono così in sintonia con questa linea di pensiero da ritenere che non abbia più senso prestare attenzione alla scena globale. È persino possibile che ritengano che questo articolo sia una perdita di tempo (mi aspetto di ricevere un paio di e-mail in tal senso).

Ma seguire gli eventi mondiali è più che una questione di informazione-intrattenimento: quando e come la Cina e gli U.S.A. si sfasceranno è un problema con conseguenze molto maggiori che se il Superbowl sarà vinto dai Saints di New Orleans o dai Colts di Indianapolis.

La realtà è che nessuna nazione, nessuna comunità, sarà in grado di proteggere se stessa dai venti improvvisi e violenti che riempiranno rapidamente il vuoto lasciato dall’implosione dell’una o dell’altra superpotenza.

A proposito, mi scuso con le altre 190 nazioni circa del mondo, grandi e piccole: il fatto che in questa discussione mi concentri su U.S.A. e Cina non significa che gli altri Paesi siano privi di importanza, o che i loro destini non saranno unici quanto le loro culture e le loro geografie; è solo che, probabilmente, i loro destini si dispiegheranno nel contesto del collasso globale che si diffonderà dalle due nazioni di cui stiamo parlando.

Per qualsiasi nazione – l’India, la Bolivia, la Russia, il Brasile, il Sudafrica – e per qualsiasi comunità o famiglia, la sopravvivenza richiederà un certo grado di comprensione della direzione presa dai grandi eventi, per riuscire a togliersi di mezzo quando voleranno i detriti e saper individuare in anticipo le opportunità per riorganizzarsi.

Quindi, prestate attenzione ai bollettini meteorologici da Washington e Beijing e nel frattempo costruite la resilienza locale ovunque vi troviate. Se il tetto ha bisogno di essere riparato, non cincischiate.

Nel frattempo, dopo una lunga giornata trascorsa ad organizzare gli orti collettivi della Transizione, potreste voler pregustare l’America del post-collasso leggendo A World Made by Hand (‘Un mondo fatto a mano’) di James Howard Kunstler; o assaporare trattazioni piacevolmente erudite del collasso visto come un processo esteso (come probabilmente sarà) o come evento improvviso ed estremo, leggendo i libri di John Michael Greer The Long Descent (‘La lunga discesa’) e The Ecotechnic Future (‘Il futuro ecotecnico’).

Anche se il cielo sta per caderci sulla testa, non vuol dire che sia ora di smettere di pensare.

venerdì 26 febbraio 2010

Update italiota

Un altro update sulle vomitevoli vicende italiote.


Di Girolamo, il politico portato dai boss
di Monica Centofante - www.antimafiaduemila.com - 25 Febbraio 2010

E' uno scandalo pieno di precedenti quello del senatore Nicola Di Girolamo. Non certo il primo ad essere eletto grazie ai voti della criminalità organizzata, non certo l'ultimo che dopo la conquista del seggio è stato chiamato a restituire il “favore”. E a non dimenticare mai le proprie “origini” e quelle di chi lo ha “costruito”.

Per Gennaro Mokbel, trait d'union tra ambienti politico-mafiosi, massoneria, servizi segreti ed eversione nera, il senatore del Pdl era “una creatura sua e dei suoi amici della 'Ndrangheta”.

Modellato su misura per soddisfare le necessità di un'organizzazione fatta di criminali e colletti bianchi uniti dall'obiettivo comune di riciclare i proventi di quella che il gip di Roma, nelle 1800 pagine di ordinanza di custodia cautelare sfociata negli arresti di martedì, definisce la “più colossale truffa del secolo”.

Uno dei più grandi business nella remunerativa galassia del riciclaggio che secondo il Fondo Monetario Internazionale varrebbe, solo in Italia, non meno di 118 miliardi di Euro e nelle economie occidentali assorbirebbe tra il 5 e il 10% del Pil.

Cifre immense che in fede al sacrosanto principio del “Pecunia non olet” rendono sempre più labile il confine tra criminalità e imprenditoria e finanza e politica e servizi di sicurezza.
“Gli affari si fanno meglio in Parlamento” erano sicuri gli organizzatori della maxi-truffa che di nuovo sta portando sul banco degli imputati i vertici di compagnie telefoniche, questa volta Fastweb e Telecom Italia Sparkle.

E quando nel 2008, caduto il governo Prodi, c'era bisogno di un referente politico preferibilmente eletto in Europa la scelta era caduta su di lui: già organico all'associazione e già dimostratosi affidabile in quanto “organizzatore di società di comodo” e “consulente legale e finanziario dell'associazione criminale per conto della quale aveva effettuato viaggi all'estero per operare su diversi conti correnti accesi presso istituti di credito internazionali”.

Mokbel aveva così proposto la candidatura di Di Girolamo al senatore Marcello Dell'Utri, che aveva poi declinato l'offerta, ma si era preso qualche giorno per pensarci. Perché il braccio destro di Silvio Berlusconi Mokbel lo conosceva, e non lo nega.

Così come mai, negli anni passati, ha negato di essersi sentito al telefono con Aldo Micciché, il faccendiere legato ai capi della potente cosca calabrese dei Piromalli. Che secondo un'indagine si sarebbe attivata per raccogliere in America Latina i voti da dirottare al Pdl utilizzando lo stesso metodo delle schede bianche e facendo guadagnare al partito più di 50 mila consensi.

Un gioco da ragazzi per il Micciché, che dal senatore avrebbe ricevuto anche la richiesta di impegnarsi pure per il voto in Calabria sentendosi rispondere: “Nessun problema”.

Su Di Girolamo Dell'Utri non se la sarebbe però sentita di puntare e Mokbel, uomo dalle mille conoscenze - risultato anche in contatto con personaggi dei servizi segreti, con “finanzieri affittati”, con appartenenti al Nucleo di Polizia valutaria - si sarebbe rivolto altrove.

Più precisamente all'avvocato Paolo Colosimo, difensore di alcuni boss” della famiglia Arena di Isola di Capo Rizzuto e poi a Stefano Indrieri, ex segretario del ministro Tremaglia che avrebbe fatto ottenere al nuovo “cavallo” dell'organizzazione una falsa residenza a Bruxelles, necessaria per la candidatura nella circoscrizione Estero-Europa. La falsa residenza, si legge nel documento, “sarà l'abitazione in uso a un giovane borsista pugliese presso il Parlamento europeo, amico di Andrini”.

Per quanto riguarda i voti ci avrebbero pensato le conoscenze dell'avvocato Colosimo. E in particolare il boss Franco Pugliese, amante delle barche (che in cambio avrebbe preteso che fosse individuata una persona fisica o giuridica alla quale intestare un'imbarcazione che lo stesso stava acquistando), che in Germania risulterebbe proprietario di 146 ristoranti e che avrebbe dimostrato di avere un controllo capillare, insieme alla cosca Arena, anche di larghe fette di territorio estero.

La banda di Mokbel, aggiungono i giudici, utilizzava anche alcuni poliziotti come autisti e ad altri veniva affidata la sicurezza della gioielleria romana in via Chelini, dove venivano venduti diamanti”, una delle attività utilizzate per riciclare i proventi illeciti.

Mentre il faccendiere romano sarebbe stato in contatto anche con Gianfranco Fini. “Fratello mio, tutto a posto – si sente dire nel corso di un colloquio telefonico intercorso tra lo stesso Mokbel e il boss Pugliese -, ma tu non sai... poi ti spiego. Mo ha chiamato Fini, Gianfranco Fini”, che “ha chiamato Nicola (Di Girolamo) e l'ha convocato non se sa quando esce questo e io sto qui come un cojone. Ma nun te preoccupà ogni promessa è debito”.

E infatti la promessa sarà esaudita e il politico verrà eletto in quota An nelle fila del Popolo della Libertà a garantire gli interessi del sodalizio.

Anche per questo il gip Aldo Morgigni ha chiesto che Di Girolamo venga arrestato, e perché, ha spiegato, “sussiste il rischio concreto che fruendo dell'immunità propria di tale carica egli possa fuggire all'estero, dove dispone di un patrimonio illecito di notevolissima entità”. In parte confermato anche dal commercialista Fabrizio Rubini che avrebbe parlato di “somme rilevanti” versate in favore del senatore.

Ieri, in conferenza stampa, Di Girolamo si è difeso: “Non c'entro non questi personaggi”, “mai conosciuti”. Ma a smentirlo c'è la prova delle prove: una foto che lo ritrae mentre festeggia la vittoria elettorale proprio con il boss Pugliese.

E mentre al Governo si parla di nuovi disegni di legge contro la corruzione, i personaggi come Di Girolamo, nelle aule del Parlamento e del Senato sembrano essere sempre più in buona compagnia.


Lacrime di coccodrillo
di Marcello Sorgi - La Stampa - 26 Febbraio 2010

Passeranno alla storia come le più classiche lacrime di coccodrillo, le dichiarazioni indignate con cui ieri il presidente del Senato Schifani si è impegnato ad espellere al più presto da Palazzo Madama, facendolo decadere dalla carica, il senatore Nicola Di Girolamo.

Parlava, appunto, come se il caso che riguarda il parlamentare truffatore - che, fingendo di aver residenza in Belgio, era riuscito ad essere inserito in lista con una raccomandazione del suo amico nazista Gennaro Mokbel, già in rapporti con la Banda della Magliana e con il potente clan calabrese Arena, e si era poi fatto eleggere come rappresentante degli italiani all’estero grazie a un’attiva collaborazione del ramo tedesco della ’ndrangheta -, non fosse già noto, nelle sue grandi linee, e rubricato dagli uffici del Senato da un anno e mezzo.

Come se un altro esponente del Pdl, il senatore Augello, non avesse cercato, fin da agosto 2008, di convincere i suoi colleghi a intervenire. E come se la questione non fosse tornata all’ordine del giorno una seconda volta, quando appunto fu reiterata dal Senato la decisione di proteggere dalle sue ignominiose responsabilità il suddetto Di Girolamo.

Ora è tutto uno scaricabarile. Il presidente della Camera Fini, in aperta polemica con i senatori della sua stessa parte, dice che voterebbe per l’arresto di Di Girolamo. Il capogruppo Gasparri, che si è battuto per evitarlo, sostiene che la responsabilità è di chi accettò che un simile campione fosse messo in lista. E fa il nome di Marco Zacchera, pure lui ex An, che ha riconosciuto che la scelta fu sua.

Zacchera non è certo uno sconosciuto per Fini. E poi, andiamo, è possibile che il partito che più s’era battuto per concedere il diritto di voto agli emigrati italiani - una storica battaglia condotta per decenni, fin dall'epoca del Msi, da Mirko Tremaglia -, alla seconda occasione in cui questo genere di elezione veniva messa in pratica, non avesse un candidato migliore da proporre?

Ed è credibile che un qualsiasi candidato, non solo quello da presentare all’estero, sia entrato in lista, con buone probabilità di essere eletto, senza che i leader del partito lo conoscessero e sapessero qualcosa delle ombre che si portava dietro?

Diciamo la verità, è impossibile crederlo. Ma anche ammesso che Di Girolamo, in buona o cattiva fede, fosse stato garantito al limone ai vertici del Pdl - o più precisamente dai vertici dell’ex An a Berlusconi -, con le carte che sono arrivate al Senato dopo la sua elezione, ce n’era abbastanza per capire che aveva voluto farsi eleggere per ragioni inconfessabili, forse proprio per evitare di finire in carcere. E di conseguenza, per sbatterlo fuori prima ancora che la sua vita da parlamentare cominciasse.

Invece, è andata come è andata, e adesso c'è la rincorsa a metterci una pezza. Sono tempi difficili per la Seconda Repubblica, non passa giorno che non salti fuori una storia di corruzione o di rapporti obliqui tra politici e criminalità organizzata.

Combinazione, alla fine di questa settimana, dovranno anche essere presentate le liste per le regionali. Vediamo cosa s’inventano, stavolta, per convincerci che è impossibile che salti fuori un altro Di Girolamo.


La prova delle menzogne
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 26 Febbraio 2010

David Mills è stato corrotto. È quel che conta anche se la manipolazione delle norme sulla prescrizione, che Berlusconi si è affatturato a partita in corso, lo salva dalla condanna e lo obbliga soltanto a risarcire il danno per il pregiudizio arrecato all'immagine dello Stato.

Questa è la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Per comprenderla bisogna sapere che la corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è corrotto, il presidente del Consiglio è il corruttore.

Per apprezzare la decisione, si deve ricordare che cosa ha detto, nel corso del tempo, Silvio Berlusconi di David Mills e di All Iberian, l'arcipelago di società off-shore creato dall'avvocato inglese. "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario" (Ansa, 23 novembre 1999). "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008). Bisogna cominciare dalle parole - e dagli impegni pubblici - del capo del governo per intendere il significato della sentenza della Cassazione.

Perché l'interesse pubblico della decisione non è soltanto nella forma giuridica che qualifica gli atti, ma nei fatti che convalida; nella responsabilità che svela; nell'obbligo che oggi incombe sul presidente del Consiglio, se fosse un uomo che tiene fede alle sue promesse.

Dunque, Berlusconi ha conosciuto Mills e, come il processo ha dimostrato e la Cassazione ha confermato (il fatto sussiste e il reato c'è stato), All Iberian è stata sempre nella sua disponibilità. Sono i due punti fermi e fattuali della sentenza (altro è l'aspetto formale, come si è detto).

Da oggi, quindi, il capitolo più importante della storia del presidente del consiglio lo si può raccontare così. Con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, David Mills dà vita alle "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest".

Le gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio "somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali" che lo ricompensano della testimonianza truccata.

Questa conclusione rivela fatti decisivi: chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi; che cosa è stato nascosto dalla testimonianza alterata dell'avvocato inglese. Si comprende definitivamente come è nato, e con quali pratiche, l'impero del Biscione; con quali menzogne Berlusconi ha avvelenato il Paese.

Torniamo agli eventi che oggi la Cassazione autentica. Le società offshore che per brevità chiamiamo All Iberian sono state uno strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo e della sua avventura imprenditoriale.

Anche qui bisogna rianimare qualche ricordo. Lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi mentre, in parlamento, è in discussione la legge Mammì.

In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche.

Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente.

Dunque, l'atto conclusivo del processo Mills documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c'è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la sua imprenditorialità, l'efficienza, la mitologia dell'homo faber, l'intero corpo mistico dell'ideologia berlusconiana ha il suo fondamento nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

E' la connessione con il peggiore passato della nostra storia recente che, durante gli interminabili dibattimenti del processo Mills, il capo del governo deve recidere. La radice del suo magnificato talento non può allungarsi in quel fondo fangoso perché, nell'ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese.

Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell'infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della "società dell'incanto" che lo beatifica. Per scavare un solco tra sé e il suo passato e farsi alfiere credibile e antipolitico del nuovo, deve allontanare da sé l'ombra di quell'avvocato inglese, il peso di All Iberian. È la scommessa che Berlusconi decide di giocare in pubblico.

Così intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, responsabile di fronte agli elettori, e il suo passato di imprenditore di successo. Se quel passato risulta opaco perché legato a All Iberian, di cui non conosce l'esistenza, o di David Mills, che non ha mai incontrato, egli è disposto a lasciare la politica e addirittura il Paese.

Oggi dovrebbe farlo davvero perché la decisione della Cassazione conferma che ha corrotto Mills (lo conosceva) per nascondere il dominio diretto su quella macchina d'illegalità e abusi che è stata All Iberian (la governava). Il capo del governo non lo farà, naturalmente, aggrappandosi come un naufrago al legno della prescrizione che egli stesso si è approvato.

Non lascerà l'Italia, ma l'affliggerà con nuove leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento), utili forse a metterlo al sicuro da una sentenza, ma non dal giudizio degli italiani che da oggi potranno giudicarlo corruttore, bugiardo, spergiuro anche quando fa voto della "testa dei suoi figli".


Il bivio del premier
di Luigi Ferrarella - Il Corriere della Sera - 26 Febbraio 2010

La Cassazione mette il timbro definitivo sulla corruzione del testimone David Mills in due processi a Silvio Berlusconi, commessa a fine 1999 nell’interesse del premier-coimputato che all’epoca era già in politica da 5 anni, e coperta oggi da prescrizione grazie alla legge Cirielli approvata nel 2005 proprio dalla maggioranza del presidente del Consiglio.

Ma — imprevisto per il premier — quella legge, che tagliava i termini massimi di prescrizione, produce immediatamente i propri effetti liberatori soltanto per Mills: Berlusconi, a causa dello scudo Alfano che dal 26 settembre 2008 ne congelò la posizione fin quando la Consulta lo dichiarò incostituzionale nel 2009, ora deve affrontare l’alea di udienze in Tribunale almeno sino a primavera 2011 prima di approdare alla medesima prescrizione.

È il mondo alla rovescia nella storia dei processi a Berlusconi, dove per la prima volta non succede che il suo coimputato di turno resti incastrato e il premier invece no: dopo Berlusconi prescritto e Previti condannato per la corruzione Fininvest del giudice Metta nel lodo Mondadori, dopo Berlusconi assolto e il suo manager Sciascia condannato per le tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza, stavolta accade infatti il contrario.

È il corrotto teste Mills a cavarsela subito con la prescrizione del reato, ed è invece Berlusconi, indicato dal capo di imputazione come corruttore, a restare con il cerino in mano nel suo processo in Tribunale, che riprende domani a Milano dopo lo stop determinato dall’incostituzionale legge Alfano.

Cerino acceso per quanto? Almeno per i tempi supplementari da aggiungere ai 10 anni di prescrizione del reato, che ieri la Cassazione ha stabilito vadano calcolati dal novembre 1999: e cioè i 14 mesi di sospensione del processo a Berlusconi per il lodo Alfano, alcune settimane di pausa per un turno elettorale, qualche legittimo impedimento, gli ultimi 45 giorni di stop in attesa della Cassazione.

Tutti sommati al novembre 2009, queste frazioni spostano l’orizzonte della prescrizione per Berlusconi alla primavera del 2011, quando è improbabile che tutti e tre i gradi di giudizio abbiano fatto in tempo ad essere celebrati.

Già quattro volte tra il 1999 e il 2003 Berlusconi ha evitato, per la prescrizione dei reati, le conseguenze della corruzione con soldi Fininvest di un giudice (nel lodo Mondadori), dell’illecito finanziamento di un partito (il Psi di Craxi in All Iberian), delle falsità da 1.500 miliardi di lire nei bilanci consolidati Fininvest, e delle falsità di bilancio nell’acquisto di un calciatore del Milan (Lentini).

Ma ora Berlusconi ribadisce di non aver corrotto con 600.000 dollari Mills affinchè l’avvocato inglese tacesse la verità sulle società offshore architettate all’inizio degli anni ’90 per la Fininvest.

Dunque domani, nel suo processo, Berlusconi potrebbe scegliere di rinunciare alla prescrizione per puntare in Tribunale al riconoscimento dell’estraneità che rivendica: in questo caso ulteriori iniziative legislative in tema di giustizia verrebbero sottratte al sospetto che a dettarle di volta in volta siano contingenti esigenze processuali del premier, e guadagnerebbe in credibilità anche l’annunciata intenzione di voler introdurre norme più severe proprio contro la corruzione.

Se invece il presidente del Consiglio preferirà aspettare, l’annullamento della condanna di Mills gli prefigura la certezza di analoga prescrizione nel 2011, sempre per effetto della legge ex Cirielli che nel 2005 ridusse da 15 a 10 anni i termini massimi.

Un bivio di scelte destinato a influenzare anche tempi e modi dell’eventuale approvazione definitiva di due leggi votate sinora rispettivamente dalla Camera e dal Senato: il «legittimo impedimento» automatico per 18 mesi, e il cosiddetto «processo breve» che avrebbe (tra gli altri) l’effetto di estinguere subito sia il processo-Mills di Berlusconi sia l’altro dibattimento in cui è imputato di frode fiscale sui diritti tv Mediaset.


Vincitori e vinti della banda larga
di Massimo Giannini - La Repubblica - 26 Febbraio 2010

Lo scandalo dei furbetti del telefonino, come quello dei furbetti del quartierino del 2005, avrà effetti pesanti sul sistema economico e sugli assetti di potere.

Il terremoto giudiziario ha un epicentro visibile nelle telecomunicazioni, ma i danni collaterali si abbatteranno sull'industria, la finanza, la politica, incidendo su alcune partite strategiche nelle più importanti aziende del Paese.

Quali sono le "vittime" finali dell'inchiesta che, tra il carosello delle frodi, la girandola delle fatture false e il riciclaggio del denaro sporco ad opera del nuovo operatore criminal-telefonico già ribattezzato "'Ndranghetel", ha disvelato un'altra, inguardabile faccia del capitalismo italiano?

L'effetto principale dell'operazione Telefoni Puliti riguarda il futuro prossimo delle telecomunicazioni. E qui a subire un contraccolpo è l'asse Berlusconi-Letta-Geronzi. Fino a pochi giorni fa il destino di Telecom Italia sembrava segnato.

Gravato da 35 miliardi di debiti, con un ebitda in calo costante, ricavi da telefonia fissa e mobile in progressivo deterioramento, margini di espansione sui mercati esteri ridotti quasi a zero, il non più glorioso marchio delle tlc italiane era avviato verso un matrimonio forzoso con Telefonica. Per due motivi.

Il primo motivo, più opinabile, era industrial-finanziario. Da mesi gli azionisti italiani del gruppo riuniti insieme agli spagnoli nella holding Telco (cioè Mediobanca, Intesa e Generali) chiedevano all'amministratore delegato Franco Bernabè un piano industriale "di sviluppo".

La risposta era sempre stata la stessa: "Dove volete che vada Telecom, che nelle condizioni date ha proprio nell'ingombrantissimo socio estero Telefonica uno dei principali fattori di freno alla crescita del business (vedi Sudamerica)"?

Delle due l'una: o il patto con gli spagnoli si rescinde, ma gli azionisti tricolori devono mettere in conto di perderci una barca di soldi, o si arriva all'integrazione totale, e allora si convola a nozze, lasciando il comando industriale agli spagnoli e il controllo della rete a una newco a prevalenza italiana. Mediobanca propendeva decisamente per la soluzione spagnola.

Intesa era più cauta: ancora domenica scorsa una fonte vicina a Cà de Sass ripeteva: "Si farà di tutto per evitare una svendita. C'è chi la vorrebbe, ma prima di arrivarci si possono tentare ancora molte strade...". Alle Generali parevano invece rassegnati alla fusione: "Non c'è entusiasmo, ma non c'è alternativa...", sosteneva una settimana fa una fonte vicina alla compagnia triestina.

Il secondo motivo, più cogente, era politico-affaristico. La fusione con gli spagnoli la voleva fortemente Berlusconi. "Non ci occupiamo di queste cose, siamo un governo liberale", aveva detto il 4 febbraio scorso: in realtà, nonostante queste grottesche rassicurazioni, il premier ha lavorato sodo per assecondarla.

Già nel luglio 2008 aveva ricevuto il ceo di Telefonica Cesar Alierta, portato ad Arcore grazie alla mediazione di Alejandro Agag, genero di Aznar. Insieme avevano concordato un percorso a tappe, che in due anni avrebbe portato Telecom nelle braccia degli spagnoli, con una ricca contropartita per il presidente del Consiglio.

Nel settembre successivo Alierta era venuto a Roma, per mettere a punto i dettagli con il Cavaliere e Letta a Palazzo Chigi, e poi con Cesare Geronzi nella sede romana di Mediobanca, in piazza di Spagna.

Si trattava solo di chiudere il cerchio con Zapatero, nei mesi successivi. Cosa che era avvenuta nella seconda metà del 2009. Prima al vertice italo-spagnolo della Maddalena, il 10 settembre 2009. Poi alla fine dell'anno: il 15 dicembre Zapatero aveva telefonato a Berlusconi, per augurargli pronta guarigione dopo l'aggressione di Piazza Duomo, e il premier aveva approfittato per annunciargli la visita a Madrid del figlio Piersilvio.

Così il 17 dicembre il secondogenito del premier, insieme all'inseparabile Fedele Confalonieri, erano stati ricevuti alla Moncloa, per pattuire la famosa "contropartita": il governo italiano dava via libera agli spagnoli su Telecom, e il governo spagnolo dava via libera al Cavaliere sulle tv spagnole.

Per 1 miliardo di euro Mediaset avrebbe comprato dal gruppo editoriale Prisa, sfiancato dai debiti, la controllata Tv Cuatro, più il 22% della tv satellitare Digital Plus (partecipata, guarda caso, proprio con Telefonica titolare del 21%). Così, insieme a Telecinco (controllata con il 50,1%) il Biscione diventava il primo gruppo europeo nella televisione commerciale.

L'annuncio ufficiale è arrivato infatti il giorno dopo l'incontro alla Moncloa, poi suggellato da un'intervista di Piersilvio al Corriere della Sera, il 21 dicembre: "In questa operazione la politica non c'entra nulla, ma certo la Spagna si è dimostrata molto moderna...", aveva detto il figlio del Cavaliere. Tutto sembrava fatto. Ai primi di febbraio Palazzo Chigi manifestava l'intenzione di concludere l'accordo con Telefonica, che Repubblica registrava in anteprima.

Ma a questo punto, dopo la scoperta della "madre di tutte le truffe", la fusione finisce in frigorifero. Come sostiene un autorevole esponente dell'establishment del Nord, "solo un illuso può pensare che Telefonica faccia un'Ops su un gruppo oggetto di indagini così pesanti, costretto addirittura a rinviare la presentazione del bilancio". Risultato: le telecomunicazioni italiane resteranno ancora a lungo in un limbo indefinito, mentre i valori di Borsa continuano a svaporare.

L'effetto secondario dell'inchiesta romana riguarda gli assetti futuri della Galassia del Nord e dei suoi satelliti. Ed anche in questo caso a subire un contraccolpo è di nuovo la filiera Berlusconi-Letta-Geronzi. Per altri due motivi. Il primo motivo riguarda l'organigramma di Piazzetta Cuccia.

Lo scandalo telefonico può diventare una pietra tombale definitiva sulle ambizioni di Marco Tronchetti Provera. Il patron della Pirelli, anche se ha smentito l'ipotesi, era in corsa per salire sul trono di Mediobanca, secondo i piani originari di Geronzi, prossimo al trasloco alle Generali.

Ma anche l'inchiesta su Sparkle, che parte dal 2003 e si aggiunge a quella sullo spionaggio fatta esplodere da Tavaroli e Cipriani, chiama in causa proprio gli anni della gestione Tronchetti dentro Telecom.

Quell'inciso dell'ordinanza del gip di Roma pesa come un macigno: "C'è con evidenza solare il problema della responsabilità dei dirigenti della capogruppo Telecom: c'è stata totale omissione di controllo oppure piena consapevolezza". A questo punto la "pazza idea" di Cesarone, per la sua successione, non è più percorribile. Dovrà insistere con le alternative: Lamberto Cardia o Vittorio Grilli. Con piena soddisfazione di Alessandro Profumo, pronto a dare battaglia su Mediobanca.

Il secondo motivo riguarda di nuovo Telecom Italia: per le ragioni che abbiamo visto, Geronzi ha ingaggiato da mesi un braccio di ferro sotterraneo con Bernabè. Lo considera troppo ostinato nella strategia dello "stand alone" e troppo pignolo su certe partecipazioni (proprio il caso Sparkle, che Bernabè aveva messo tra le prossime dismissioni necessarie per il gruppo, è una di queste).

Ecco perché, secondo i ben informati, l'erede di Cuccia auspicava da tempo un ribaltone ai vertici Telecom: via Bernabè, testardo nella difesa della Telecom attuale, e al suo posto Stefano Parisi, pronto ad aprire la porta agli spagnoli. Anche in questo caso, un avvicendamento studiato con la benedizione del Cavaliere e del suo scudiero Letta, che apprezzano da sempre Parisi, già uomo della presidenza del Consiglio a capo dei dipartimenti Affari economici prima, editoria poi.

Ora, per uno strano scherzo del destino, anche l'amministratore delegato di Fastweb, insieme a Scaglia e Ruggiero, è finito nel tritacarne dell'inchiesta sui furbetti del telefonino. Da indagato, è vero, che oltre tutto si dichiara "parte lesa".

Ma anche in questo caso le sue aspirazioni, e quelle di chi lo sosteneva nella sua corsa, risultano momentaneamente vanificate. Con parziale soddisfazione di Bernabè, che a questo punto può riprendere fiato nella sua guerriglia interna all'azienda.

E di Corrado Passera, che in Telco è il più convinto sostenitore di un "piano B" per Telecom, analogo a quello che Intesa costruì per Alitalia. Ma fino a quando reggeranno, tra queste macerie, le telecomunicazioni italiane? Aspettavamo da tanto tempo la "banda larga". Ma non era quella scoperta dalla Procura di Roma.


Il Capo del Governo
di Roberto Deidda - www.aprileonline.info - 25 Febbraio 2010

"Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo.

Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?

Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale.

La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto.

Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto.

Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei.

Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo.

Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.

Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare".

Il testo è di Elsa Morante, una tra le più importanti autrici di romanzi del dopoguerra, nata nel 1912 e morta nel 1985. Lo scritto risale al 1945, è intitolato Il Capo del Governo ed è contenuto in Pagine autobiografiche postume, pubblicato in "Paragone Letteratura" n.456 del febbraio 1988.

Dalla lettura dello scritto viene spontaneo osservare, con stupore, come la Morante abbia avuto una straordinaria capacità di vedere nel futuro, di descrivere il presente dal passato. E' infatti sbalorditivo riscontrare in un testo scritto da diverse decine d'anni una totale aderenza alla realtà della nostra vita quotidiana, con la descrizione di dinamiche che sembrano scorrere, oggi, davanti ai nostri occhi.

Elsa Morante aveva quindi il dono della preveggenza? No, l'autrice si riferiva Benito Mussolini nello scrivere, nel maggio 1945, Il Capo del Governo.

E' L'Italia che da allora è poco cambiata e molti, troppi italiani, traggono ancora esempio da "un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto".