sabato 30 gennaio 2010

USA-Cina: è iniziata la sfida del XXI secolo

Una serie di articoli sulle recenti tensioni nei rapporti tra USA e Cina, di cui la vicenda Google rappresenta solo uno dei vari aspetti.

La vera sfida del XXI secolo è ufficialmente cominciata e i due giocatori stanno mettendo in campo strategie completamente diverse per arrivare primi al traguardo.


Google attacca la Cina mentre si intensifica l'ostilità tra Washington e Pechino
di Webster G. Tarpley* - www.voltairenet.org - 21 Gennaio 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Oriana Bonan

Nel regolamento dei conti tra Google e il governo cinese, i mezzi di comunicazione dipingono Google come un difensore della libertà su internet e un sostenitore dei diritti umani del popolo cinese.

Una totale ipocrisia, se si considera che Google fa parte di un cartello di società operanti in internet, che complottano assieme all’apparato d’intelligence statunitense, anche per la destabilizzazione di governi stranieri.

Ci si può stupire, allora, se le autorità cinesi percepiscono Google come un canale di propaganda nera? Comunque sia, l’attuale alterco non è altro che un elemento in un più ampio tiro alla fune geopolitico ed economico tra i due Paesi, in cui la Cina sembra avere la meglio.

L’escalation nel conflitto tra Google e la Repubblica Popolare Cinese interviene nel contesto del rapido deterioramento delle relazioni tra i due Paesi su molti fronti. Google fa parte di un cartello di società operanti in internet che, notoriamente, lavorano a stretto contatto con l’intelligence statunitense per scopi politici, ivi inclusi sovversione e rovesciamento di governi stranieri. Basta ricordare il ruolo centrale di Twitter nel tentato colpo di stato della CIA in Iran la scorsa estate [1].

La manipolazione politica per mezzo di Internet è una componente indispensabile della ricetta della CIA per condurre rivoluzioni colorate, rivoluzioni di velluto, golpe popolari e golpe postmoderni [2].

Quando internet viene introdotto in Paesi precedentemente autoritari, è spesso possibile abbindolare, manipolare e fomentare un gran numero di giovani entusiasti e politicamente poco sofisticati. I risultati sono spesso disastrosi.

In Georgia, una rivoluzione colorata ha portato al potere quel pazzo di Sakaashvili, che ha già dato inizio ad una guerra [3]. Yushenko, beneficiario della Rivoluzione Arancione del 2004, è appena stato pesantemente ripudiato dagli elettori dopo una presidenza catastrofica.

I postumi della sbornia e la disillusione che circondano Obama sono legati al fatto che egli, in un certo senso, ha preso il potere nella stessa maniera. Per queste ragioni, il governo cinese ritiene che ci siano validi motivi per cui è necessario impedire che le agenzie di intelligence occidentali iniettino enormi quantità di propaganda nera in Cina attraverso internet.

In ogni caso, questa questione riguarda puramente gli affari interni cinesi e gli Americani in particolare dovrebbero mettere ordine a casa propria prima di fare prediche al resto del mondo.

La mattina del 4 gennaio, il Los Angeles Times ha riferito che la Grande Firewall con cui il governo cinese filtra i contenuti online era momentaneamente venuta a mancare. Era opera degli Stati Uniti?

O forse la Cina credeva che fosse opera degli Stati Uniti? Circa dieci giorni dopo, Google, Adobe, e Northrop Grumman hanno accusato hacker cinesi di accesso ai propri siti per raccogliere informazioni.

Il governo cinese ha informato Google che, se avesse insistito nel violare la legge cinese, la società non avrebbe potuto continuare ad operare e Google ha annunciato la propria imminente dipartita dal mercato cinese. Negli uffici di Google in Cina girano voci di spionaggio.

Molti resoconti giornalistici asseriscono che Google si oppone alla censura per principio. Balle allo stato puro. Google sostiene la censura nella misura in cui essa è dettata dall’intelligence degli Stati Uniti.

Gli analisti e ricercatori che hanno esaminato a fondo le questioni relative agli attacchi dell’11 settembre e agli attentati del 7 luglio 2005 a Londra conoscono bene i molti modi in cui Google ha tentato di ostacolare l’accesso pubblico a dati ed analisi che non erano in linea con la narrazione ufficiale.

Google è stata fondamentalmente ostile nei confronti di chiunque criticasse le versioni ufficiali del governo statunitense in merito a queste provocazioni terroristiche sotto falsa bandiera. Dire che Google sia contraria alla censura è quindi un atto di ipocrisia monumentale.

Le relazioni sino-statunitensi si stanno deteriorando rapidamente verso una nuova Guerra Fredda o qualcosa di ancora peggiore. L’intera politica estera degli Stati Uniti è fortemente motivata da fattori anti-cinesi. Il Pakistan è fatto bersaglio di distruzione principalmente perché potrebbe costituire un corridoio energetico tra Iran e Cina a beneficio di quest’ultima [4].

Le azioni degli Stati Uniti in Yemen [5], Somalia, Sudan, Zimbabwe, Birmania, e in molti altri punti del pianeta sono fondamentalmente dettate dal desiderio di dare scacco matto alla Cina. Fatto sta che la Cina sta contrastando tutto questo in modo molto più efficace.

Alla recente conferenza di Copenhagen sul clima, la strategia di U.S.A. e Gran Bretagna si è basata sulla grande menzogna del riscaldamento globale per istituire una dittatura mondiale degli idrocarburi da usare poi per strangolare lo sviluppo economico di Cina, India e altre nazioni in via di sviluppo.

Come segnalato da resoconti sul Guardian britannico, il primo ministro cinese Wen ha diretto con successo un’operazione di bloccaggio con l’aiuto di Paesi come Sudan, Venezuela, Cuba, Bolivia e altri ancora, e nel mentre ha personalmente snobbato Obama diverse volte. In merito alle sanzioni contro l’Iran, i Cinesi avvertono che le bloccheranno nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e le stanno anche eludendo in vari modi.

Ora la Cina ha superato la Germania diventando il maggiore esportatore del mondo, e si stima che possieda circa 2,5 trilioni di dollari in valuta estera, gran parte della quale denominata in dollari. Una guerra commerciale tra Cina e U.S.A. su questioni come pneumatici e acciaio è divenuta una chiara possibilità.

Gli Stati Uniti continuano con l’incessante lagna sulla presunta fluttuazione sporca della valuta cinese, il renminbi. Gli Stati Uniti sono sull’orlo di un’imponente vendita di armi alla Repubblica di Cina (Taiwan), cosa cui Beijing non potrà non opporsi.

Persino peggiore sarà la visita del Dalai Lama alla Casa Bianca di Obama, che viene ora data come imminente. Sebbene sia idoleggiato da un branco di degenerati holliwoodiani, il Dalai Lama è in realtà un famigerato asset dell’intelligence occidentale, nonché il simbolo di un brutale regime di oppressione feudale che teneva la maggior parte della popolazione in stato di servitù della gleba e una significativa minoranza in schiavitù.

Il governo statunitense continua a trasferire significative somme di denaro alla sinistra Rebiya Kadeer e al suo World Uighur Congress, che il governo Cinese accusa di essere responsabili dei bagordi omicidi avvenuti in Xinjiang (Turkestan cinese) nel luglio del 2009 [6], per cui sono state ora pronunciate due dozzine di condanne a morte.

Un cittadino britannico accusato di essere uno spacciatore di droga è appena stato giustiziato dai Cinesi, che non hanno dimenticato le tre Guerre dell’Oppio dichiarate contro di loro da Londra allo scopo di introdurre con la forza nel mercato cinese narcotici letali.

Più importante, forse, di qualsiasi altro singolo disaccordo su questioni concrete, è stato il nuovo senso di sicurezza, fiducia in sé e autoaffermazione del governo cinese, emerso dopo la bancarotta dei sistemi bancari statunitense e britannico nell’autunno del 2008. Per molti decenni, la diplomazia cinese è stata tipicamente molto cauta, mantenendo un bassissimo profilo e un approccio moderato.

Il successo delle operazioni del primo ministro Wen a Copenhagen è una chiara indicazione dei grandi cambiamenti in corso in questo ambito. Evidentemente i Cinesi vedono Google come un simbolo di arroganza ed egemonismo che non sono più disposti a tollerare.


* Webster G. Tarpley è scrittore, giornalista, conferenziere e critico delle politiche estere ed interne statunitensi(www.tarpley.net ). Tra i suoi libri più recenti: Obama, The Postmodern Coup, The Making of a Manchurian Candidate , Barack Obama: The Unauthorized Biography e 9/11 Synthetic Terror . È un componente della conferenza Axis for Peace.


Note:

[1 ] The CIA and the Iranian experiment , di Thierry Meyssan, Voltaire Network; 19 giugno 2009.
[2 ] The Technique of a Coup d’État , di John Laughland, Voltaire Network; 5 gennaio 2010.
[3] The Secrets of the Georgian Coup, an ex-Soviet Republic , di Paul Labarique, Voltaire Network; 7 gennaio 2004.
[4 ] Obama dichiara guerra al Pakistan , di Webster G. Tarpley, rense.com; 15 dicembre 2009.
[5] Yemen: Behind Al-Qaeda Scenarios, a Geopolitical Oil Chokepoint to Eurasia , di F. William Engdahl, Voltaire Network; 6 gennaio 2010.
[6] Washington is Playing a Deeper Game with China , di F. William Engdahl, Voltaire Network; 13 luglio 2009.


Energia, finanza e geopolitica: ecco dove si gioca la vera sfida
di Marcello Foa - www.ilgiornale.it - 28 Gennaio 2010

Google è soltanto un pretesto. Dietro c’è ben altro. L’avvio di una strategia americana per ridimensionare la nascente potenza cinese. Un’azione preventiva e finora ben condotta, perché inaspettata.

Fino a poche settimane fa la situazione appariva molto diversa. Gli Stati Uniti, azzoppati da un debito pubblico enorme, erano finanziariamente ostaggi di Pechino, che da tempo compra a mani basse Buoni del Tesoro statunitensi, al punto da essere costretti ad accettare un direttorio: il G2, come l’avevano chiamato Obama e Hu al vertice di Londra della scorsa primavera.

Da allora, e fino alla fine del 2009, Washington aveva dato l’impressione di essere addirittura succube di Pechino. Chi non ricorda le imbarazzanti missioni del ministro del Tesoro Geithner per rassicurare e blandire le autorità cinesi?

O il rifiuto di Obama di incontrare il Dalai Lama? E il vertice sul clima di Copenaghen saltato soprattutto per le impuntature della delegazione di Pechino, subito assecondate dagli americani?

Ora sorge il sospetto che Washington abbia accentuato volutamente le proprie debolezze e, specularmente, la forza di Pechino, per poterla meglio sorprendere. La manovra indubbiamente è riuscita: solo ora il governo cinese si accorge del vero significato della crisi innescata da Google e non sembra avere predisposto le difese necessarie. Perché l’attacco non è e non sarà mai militare, ma sarà condotto usando tecniche non convenzionali.

L’America vuole indebolire la Cina, innervosirla, incoraggiare i tanti movimenti di protesta sia religiosi (vedi Tibet e la minoranza musulmana degli uiguri), sia sociali. Da qualche giorno Stratfor, un centro di ricerca vicino alla Cia, enfatizza, nel bollettino China Security Memo, le numerose proteste che avvengono quotidianamente nella Repubblica Popolare e che invece fino all’anno scorso venivano ignorate o minimizzate.

E tra breve Obama incontrerà proprio il Dalai Lama. I segnali sono chiari. L’America rialza la testa e sfida Pechino.

Con quale obiettivo? Washington potrebbe accontentarsi di indebolire la Cina e costringerla a ripiegare sulle vicende interne, ridimensionando le sue ambizioni planetarie. Oppure potrebbe cercare di farla implodere, come accadde con l’Unione sovietica.

In entrambi i casi la figura dello stesso Obama, il presidente pacifista che abbraccia il mondo e si schiera con gli oppressi, è perfettamente funzionale a questi disegni.

E perché proprio adesso? Semplice: Washington ritiene che la Cina sia cresciuta molto più del previsto ed è consapevole che il tempo gioca a suo favore. Dunque deve approfittare ora della propria supremazia; tra qualche anno potrebbe essere troppo tardi o troppo rischioso.

La crisi di Google si innesta, peraltro, in uno scenario di forte rivalità planetaria. E non solo per Taiwan o per le note diatribe commerciali che hanno spinto Washington a imporre dazi sui pneumatici cinesi.

Nello scorso decennio, mentre gli Stati Uniti si impantanavano in Irak e in Afghanistan, la Cina ne ha approfittato per ampliare la propria influenza in tutto il mondo, riuscendo a erodere alcune zone di influenza statunitense e diventando un concorrente diretto per il controllo delle risorse energetiche.

Ha avviato relazioni strettissime con l’Iran (e infatti continua a ostacolare l’approvazione di nuove sanzioni all’Onu), ma ha stabilito eccellenti rapporti con l’Arabia Saudita, tradizionale alleata degli americani, e ha messo radici in Africa, soprattutto nei Paesi ricchi di materie prima come l’Angola, il Sudan, persino il Sud Africa e, più a Nord, Marocco ed Egitto, anche questi grandi amici degli Stati Uniti.

Pechino ha bisogno di crescenti quantitativi di petrolio per finanziare il suo sviluppo economico, ma deve controllare anche le rotte dell’approvvigionamento. Oggi quasi tutte le petroliere transitano per lo Stretto di Malacca, che però è presidiato dalla Marina americana.

E allora la Cina sta elaborando soluzioni alternative: due oleodotti, uno con l’Iran via Kazakistan, l’altro attraverso il Myanmar (l’ex Birmania) e una rotta, via mare, lungo il cosiddetto «filo di perle», in cui le perle sono composte dall’isola di Hainan, quella di Woody al largo del Vietnam, Chittagong in Bangladesh e Gwadar in Pakistan.

E ancora: Pechino contribuisce in maniera decisiva agli sforzi del «Bric» ovvero dell’asse dei quattro Paesi emergenti - Brasile, Russia, India, Cina - che, seppur timidamente, intende proporsi come alternativa allo strapotere degli Stati Uniti. I cinesi hanno stretto rapporti commerciali anche in America Latina innanzitutto con il Venezuela, ma anche con l’Ecuador e l’Argentina.

Nel Sud est asiatico è considerata sempre di più come la vera potenza regionale di riferimento, a scapito, ancora una volta, degli Usa. Tutto questo, mentre le sue aziende fanno shopping in Europa, con un’attenzione particolare per i porti, a cominciare da quello di Atene. E se si considerano i programmi di riarmo, il quadro appare completo.

La Cina sta conducendo con intelligenza e discrezione un programma di espansione planetaria, che non ha finalità ideologiche, né militari. Non intende imporre il comunismo, né creare un nuovo impero, ma più pragmaticamente controllare le materie prime per alimentare il proprio sviluppo.

E questo spiega perché molti Paesi, soprattutto quelli autoritari, siano sensibili alle sue lusinghe: sanno che non dovranno affrontare pressioni in tema di diritti umani e democrazia, né sottostare ad alleanze militari.

La leva dell’espansionismo cinese è soprattutto economica e commerciale. E finora ha avuto successo. Per questo Washington ha deciso di agire, scontando evidentemente, anche il rischio di qualche ritorsione finanziaria. Che succede se Pechino inizia a liberarsi dei Buoni del Tesoro Usa?

Altro elemento su cui riflettere. La partita è complessa e affascinante. Prepariamoci.


Obama sfida la Cina e vende armi a Taiwan. Pechino: "Danneggia i nostri rapporti"
da www.repubblica.it - 29 Gennaio 2010

Dopo la vicenda Google, i rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti subiscono un altro scossone. L'amministrazione Obama, sulla falsariga di quella di George W. Bush, si appresta a vendere armi a Taiwan per un valore di 6 miliardi di dollari.

Una mossa che non poteva non suscitare la reazione di Pechino che considera l'isola una provincia ribelle ma parte integrante della madrepatria, di cui più volte ha minacciato l'invasione. Siamo indignati", ha detto il viceministro degli esteri He Yafei, per una decisione che "avrà un impatto negativo" sulle relazioni fra le due potenze.

Il Pentagono ha notificato al Congresso la richiesta di autorizzazione per vendere a Taiwan materiale bellico per 6,4 miliardi di dollari. Del pacchetto fanno parte 114 missili intercettori Patriot (2,81 miliardi), 60 elicotteri Black Hawk (3,1 miliardi), equipaggiamento per le comunicazioni dei cacciabombardieri F-16 di Taipei (340 milioni), 2 cacciamine classe Osprey (105 milioni) e 12 missili antinave Harpoon (37 milioni).

Si tratta della prima comunicazione di questo tipo fatta dall'amministrazione Obama. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, aveva spiegato che "si tratta di una chiara dimostrazione dell'impegno dell'amministrazione di fornire a Taiwan gli armamenti difensivi di cui ha bisogno", precisando che gli Usa non avevano hanno ancora comunicato alla Cina in via ufficiale questa loro decisione.

Ma la Cina non ci sta. He Yafai ha inoltrato protesta formale all'ambasciatore americano a Pechino, Jon Huntsman. "I piani Usa mineranno definitivamente le relazioni sino-americane e avranno un impatto estremamente negativo sullo scambio e la cooperazione tra i due Paesi nei principali settori", si legge nel messaggio.

Pechino ha sospeso ormai da due anni ogni contatto di tipo militare con gli Stati Uniti dopo che l'allora presidente George W. Bush aveva presentato al Congresso, nell'ottobre del 2008, un progetto per vendere armi a Taiwan.

I rapporti tra Repubblica popolare e Stati Uniti non stanno attraversando un momento felice e anzi sono da tempo tesi su molti temi, tra cui i diritti umani, il Tibet e la sicurezza sui prodotti commerciali. Il viaggio in Cina in febbraio del segretario di Stato americano, Hillary Clinton, era parso aprire un nuovo capitolo nei rapporti tra i due paesi.

Nelle ultime settimane, invece, le relazioni sino-americane hanno conosciuto un ulteriore irrigidimento in seguito alla vicenda Google: gli Usa hanno apertamente accusato la Cina di "pirateria informatica" dopo che il motore di ricerca aveva reso noto che hacker cinesi erano entrati nelle caselle postali di dissidenti cinesi.

La Cina aveva respinto le accuse, e un portavoce del ministero dell'Informatica aveva definito "senza fondamento" le affermazioni di Google.


Google sfida la Cina
di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 15 Gennaio 2010

Di regola, certe operazioni di politica globale dovrebbero farle gli Stati, o le confederazioni e unioni di Stati. Ma, di fronte ad un colosso dell'economia come la Cina, gli stati occidentali chinano la testa, vuoi perché la Cina detiene il loro debito pubblico, vuoi per evitare un aggravarsi della crisi economica in cui versa attualmente il modello capitalista.

Così, succede che di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani dei suoi cittadini, a prendere posizione contro Pechino non sia l'ONU, o gli USA, o l'UE, ma un'azienda privata. Anzi, un colosso dell'industria informatica moderna: Google.

La società di Mountain View sostiene di avere le prove di svariati tentativi di violazione del suo sistema Gmail e di analoghi gesti ai danni di attivisti di movimenti a difesa dei diritti umani. Tutti casi di tentativi che, secondo i dirigenti di Google, sono caratterizzati da una chiara e inequivocabile matrice cinese. Governativa.

E la presa di posizione dell'azienda americana è talmente forte da essere, per la prima volta nel mondo, un ultimatum al governo cinese: Pechino non applicherà alcun filtro censorio, così come fatto finora, altrimenti Google lascerà del tutto il mercato cinese, nonostante sia uno di quelli in più rapida e significativa espansione.

"Abbiamo deciso", dichiarano sul blog ufficiale di Google, "che non abbiamo più intenzione di continuare a censurare i nostri risultati su Google.cn, per questo nelle prossime settimane incontreremo il Governo cinese per discutere le basi sulle quali potremo gestire un motore di ricerca senza filtri, nel rispetto delle leggi vigenti nel Paese. E siamo pienamente consapevoli che questo potrebbe portare alla chiusura di Google.cn e dei nostri uffici in Cina."

Immediate le reazioni, sia da parte degli utenti cinesi, sia a livello internazionale, a cominciare dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che ha avanzato richieste di spiegazioni direttamente al Governo Cinese.

In Cina c'è chi trova incomprensibile l'ipotesi prospettata da Google, sottolineando che l'uscita dal Paese, di fatto, è una ulteriore e ancor più drastica forma di censura.

E c'è anche chi non accetta le accuse al proprio Paese o, ancora, chi trova economicamente ingiustificabile che una multinazionale possa volontariamente tagliarsi fuori da un mercato con possibilità di crescita illimitate.

Molti, però, hanno salutato con favore l’ipotesi. Gli analisti economici, a livello internazionale, esprimono più di un dubbio sull’opportunità di escludersi da un mercato che sta al momento crescendo del 40% all'anno. Una tal scelta potrebbe avere degli effetti limitati sull'immediato, ma sul lungo periodo potrebbe rivelarsi disastrosa.

Probabilmente, la cosa migliore da fare, al momento, è prendere con le dovute cautele un annuncio che sembra una presa di posizione, prima che una decisione già presa. Infatti, sul piatto della bilancia ci sono due questioni che stanno molto a cuore a Google: da un lato il ritorno d’immagine negli Usa, acconsentendo alle rigide richieste della censura cinese; dall'altro l’effetto boomerang sulla reputazione dei propri servizi presso gli utenti, che in Cina hanno sistematicamente ben poca sicurezza e privacy.

In occasione del suo ingresso sul mercato cinese, nel gennaio 2006, Google aveva scatenato una protesta nella comunità internazionale. Il motore fu costretto a rispettare le leggi in vigore in Cina e dunque censurare i risultati contrari alla politica locale.

Lo scorso giugno, Pechino aveva negato per alcune ore l'accesso a Google e Gmail per costringere il motore di ricerca ad eliminare alcune parole chiave dal suo sistema di ricerca automatica.

Oggi, sottraendosi alle leggi cinesi, Google di fatto rompe il patto di neutralità politica rispettato fino ad oggi, con pesanti conseguenze nei prossimi mesi: il braccio di ferro è appena all'inizio.

La risposta cinese è naturalmente politica: "La Cina è favorevole alle attività sul suo territorio delle società Internet internazionali che siano conformi alla legge cinese", é la dichiarazione ufficiale del Governo di Pechino, rilasciata dalla portavoce del ministero degli Affari esteri, Jiang Yu, che prosegue dicendo: "Internet in Cina è aperto e il Governo cinese ne incoraggia lo sviluppo e si sforza di creare un contesto che sia favorevole a ciò".

Sul piano economico, gli esperti del settore ritengono probabile che Google e il Governo cinese possano trovare un compromesso. Già in passato il gruppo californiano ha assunto posizioni drastiche, ma solo come tattica nella trattativa. "Sono sicuro che saranno pragmatici. Google è una società molto dinamica. Dubito che se ne andranno dalla Cina. La presenza nel Paese è cruciale, perché è lì che ci sarà la prossima ondata di crescita", rileva Christopher Tang, professore della Ucla Anderson School of Management.

Non bisogna dimenticare infatti che la Cina da sola ha circa 360 milioni di utenti Internet e il suo mercato dei motori di ricerca ha toccato un miliardo di dollari lo scorso anno. Il Governo cinese tuttavia pone stretti limiti all'accesso dei cittadini al Web, operando una censura automatica sui siti sgraditi.

Non è stata solo la portavoce del governo a prendere posizione sulla vicenda. Anche il ministro dell'Ufficio informazioni del Consiglio di Stato, Wang Chen, ha detto che pornografia online, frodi e "rumours", le cosiddette "voci", termine con cui i dirigenti cinesi indicano il dissenso in rete, rappresentano una minaccia.

E ha aggiunto che i media su Internet devono contribuire a "guidare l'opinione pubblica" in Cina, brutta espressione con la quale ha voluto ricordare tra le righe che, contando il maggior numero al mondo di utenti, è un mercato importantissimo per gli operatori internazionali, a condizione che accettino la censura imposta dal governo.

Nelle sue dichiarazioni Wang non ha mai citato espressamente Google. Ma sono parole che pesano, soprattutto la pretesa di "guidare l'opinione pubblica", che si scontra con uno dei caposaldi della democrazia, ovvero la libertà di opinione.

Difficile dunque immaginare un'intesa attorno ad un qualsivoglia compromesso. A Washington, Barack Obama ha fatto sapere, proprio in concomitanza con il braccio di ferro avviato da Mountain View, che lui e la sua amministrazione sono "convinti sostenitori della libertà per internet".

Sempre negli USA, il New York Times cita "fonti vicine all'indagine" condotta da Google, e spiega che gli attacchi oggetto della presa di posizione sono stati condotti contro 34 compagnie o entità che si trovano nella Silicon Valley, in California, sede dei server di Google usati da molti cinesi che vogliono sfuggire alla censura.

Che non colpisce solo i motori di ricerca, ma anche social network e siti di condivisione come Youtube, Facebook e Twitter. Rebecca MacKinnon, esperta di Internet in Cina, afferma che "Google ha subito negli ultimi mesi ripetute prepotenze e rischia di non poter garantire agli utenti la sicurezza delle sue operazioni".

Intanto, Google ha deciso di mettere a disposizione il suo motore senza filtri a tutti gli internauti cinesi. Così, da oggi, in Cina, usando Google, si può vedere la celebre fotografia divenuta simbolo della rivolta degli studenti alle autorità cinesi nel 1989 in piazza Tien an men, fino ad ora censurata. Una vera e propria provocazione. Una risposta politica, a costo di perdere vantaggi economici, che non arriva dall'ONU, ma da un'azienda privata.

Anche su questo non c'è da meravigliarsi: mentre gli stati occidentali hanno debiti pubblici sempre più alti, e con quote detenute sempre più spesso proprio dalla Cina (USA in primis), Google è un'azienda con un bilancio solido - certamente più solido di quelli statali - e non ha debiti con nessuno. Neanche con la Cina.


Pechino rassicura l'Occidente "Trascineremo la ripresa"
di Federico Rampini - La Repubblica - 29 Gennaio 2010

DAVOS - La Cina rivendica il ruolo di locomotiva: ha salvato il mondo da una recessione che senza di lei sarebbe stata ancora più pesante. Promette che il suo "consumatore frugale" diventerà sempre più disponibile ad acquistare prodotti occidentali, sarà il mercato di sbocco del futuro. E' pronta a un giro di vite nella sua politica monetaria, se necessario per evitare una bolla speculativa.

Ma ammonisce l'Occidente: guai se cederà alla tentazione del protezionismo, rifarebbe gli stessi errori che portarono alla Grande Depressione degli anni Trenta. Sono i messaggi che ha portato al World Economic Forum l'astro nascente della nomenklatura di Pechino, il vicepremier Li Keqiang, destinato entro un biennio a incarichi ancora più elevati (è in corsa per la poltrona di presidente o primo ministro).

L'arrivo della maxidelegazione cinese a Davos quest'anno ha avuto tratti spettacolari, quasi un'Opa lanciata dalla Repubblica Popolare sul summit svizzero. Con duecento tra alti dirigenti governativi, imprenditori e banchieri, la rappresentanza di Pechino ha fatto ombra a quella americana e a tutte le altre nazionalità.

Una prestigiosa palazzina a pochi metri dal centro del summit, che negli anni passati ospitava il quartier generale della Cnn, quest'anno è diventata la China House: affittata dalla tv di Stato Cctv e usata dalla delegazione di Pechino per eventi speciali e relazioni pubbliche. Sparpagliati in diversi alberghi, gruppi di cinesi hanno esposto bandiere rosse e improvvisato concerti serali di tamburi per festeggiare anche in trasferta il loro Capodanno.

Al vicepremier gli organizzatori del vertice hanno riservato il secondo posto nella gerarchia dei discorsi ufficiali, subito dopo il presidente francese Nicolas Sarkozy. Ma a differenza del francese, Li Keqiang non ha fatto polemiche dirette. Ha evitato accuratamente temi tabù come la "guerra del cyberspionaggio" contro Google. Ha interpretato il ruolo della superpotenza sicura di sé.

Esattamente un anno fa, qui a Davos lo aveva preceduto il premier Wen Jiabao. Che nel momento più acuto della crisi mondiale lanciò dallo stesso palcoscenico una promessa solenne: "La Cina nel 2009 continuerà a crescere, con un aumento del Pil dell'8%". Il suo vice ieri ha potuto assaporare il trionfo: "Abbiamo fatto di più, l'anno scorso la crescita ha raggiunto l'8,7%".

Una perfomance inaudita, viste le circostanze, che mette la Repubblica Popolare in una posizione di forza. Li ne ha rivendicato il merito alla decisa azione del governo, che nel gennaio 2009 varò una manovra di spesa pubblica da 400 miliardi di euro, quasi dell'entità di quella americana ma partendo da una situazione ben più florida dei conti pubblici.

"Abbiamo agito con tempestività e determinazione - ha detto - e la spesa pubblica ha contribuito per sei punti di crescita del Pil. Abbiamo dato un contributo positivo alla crescita degli altri paesi: le nostre importazioni sono cresciute fino al secondo posto nella classifica mondiale".

Conoscendo le critiche verso i veti di Pechino che hanno contribuito al fiasco di Copenaghen, il vicepremier ha sottolineato che nella manovra di investimenti pubblici hanno avuto un peso rilevante le energie rinnovabili: "Dovranno soddisfare il 15% del fabbisogno nazionale entro il 2020".

Ha illustrato la strategia di sviluppo della nazione più popolosa del pianeta: "Vogliamo abbandonare i settori manifatturieri arretrati, puntando invece sull'innovazione e le attività produttive più avanzate".

Ma l'Occidente non deve avere paura, ha spiegato Li, perché il mercato cinese sarà ricco di opportunità. "Siamo ancora una nazione in via di sviluppo, per il reddito pro capite ci collochiamo solo al centesimo posto mondiale. Ogni anno dieci milioni di contadini emigrano dalle campagne nelle città. In passato il nostro popolo era famoso per la sua frugalità nei consumi, ma ora le aspettative di un tenore di vita migliore si diffondono, lo abbiamo visto con il successo ottenuto dai nostri incentivi per le vendite di elettrodomestici nelle regioni rurali".

Dunque è interesse dell'Occidente riprendere la via della liberalizzazione degli scambi mondiali. "Il protezionismo - ha ammonito Li - avrebbe come conseguenza quella di esasperare la crisi. A causa delle guerre commerciali dopo il 1929 il mondo sprofondò nella Grande Depressione". Nessun cenno alle accuse di Sarkozy, che il giorno prima aveva parlato di "manipolazione della moneta" e "concorrenza sleale".

Il vicepremier invece ha rivendicato una riforma delle istituzioni di governance globale, a cominciare dall'Fmi, per renderle più rappresentative delle nuove gerarchie tra le nazioni.


Lo Yen sconfigge Mao
di Giuseppe Zaccagni - Altrenotizie - 30 Gennaio 2010

La Cina è divenuta il primo Paese esportatore del mondo e la terza economia del pianeta; il livello del suo export ha raggiunto i 1.070 miliardi di dollari. E così un miliardo e 340 milioni di persone vivono, lavorano, producono, consumano, sognano, soffrono, mettono al mondo figli in un Paese che, mese dopo mese, guadagna nuovi e significativi record.

Ad esempio quello relativo al fatto che nel 2009 il suo mercato automobilistico ha superato quello americano, guadagnandosi con 13 milioni di vetture vendute, un nuovo primato.

Altro grande risultato della Cina d’oggi riguarda la costruzione di un aeroporto in una zona considerata la più alta del mondo, a 4.500 metri. I lavori per le piste e la stazione comincer?nno l’anno prossimo nella Regione Autonoma del Tibet, 230 chilometri a Nord di Lasha, la capitale. Con costi anch’essi da record: 180 milioni di euro.

Nell’elenco dei successi c’è poi quello che annuncia la Cina come secondo mercato mondiale dei diamanti, con la borsa di Shanghai cresciuta del 16,4 per cento, raggiungendo gli oltre 1,5 miliardi di dollari, dietro solo agli Stati Uniti. Secondo le più accreditate fonti ecomiche, tutto questo è il risultato della crescita del Paese (nel 2009 all'8,7 per cento), mentre il resto del mondo si dibatteva nella recessione.

Di conseguenza lo sviluppo stabile dell'economia e la domanda di gioielli è continuata a crescere, in special modo per i diamanti. Tanto da poter affermare che l’anno da poco concluso - lo scrive l’agenzia Xinhua - ha portato la Cina a superare il Giappone divenendo il secondo mercato di consumatori del mondo per diamanti dietro agli Stati Uniti.

Intanto, sempre sul fronte dell’economia nazionale, c’è da rilevare che la Cina ha diffuso i dati sul Pil che, nel 2009, ha toccato i 4.910 miliardi di dollari, mentre quello di Tokyo, secondo proiezioni, dovrebbero arrivare a 5.100 miliardi di dollari.

Quanto alla situazione strategico-militare, Pechino mette in mostra alcuni successi. Si fa forte dei passi avanti nel campo dei sistemi di difesa antimissile. Nelle settimane scorse, infatti, ha effettuato un test significativo, in risposta agli Usa che hanno dato via libera alla vendita a Taiwan di missili Patriot, capaci di respingere attacchi aerei e missilistici. «Il test - ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri cinese Jiang Yu - è di natura difensiva ed in linea con la politica di difesa non aggressiva della Cina».

E in un breve dispaccio dell’agenzia ufficiale, si sostiene che il missile antimissile «non ha lasciato detriti» nello spazio e «non ha messo in pericolo nessun velivolo spaziale in orbita».

Ma tutto questo sta anche a significare che la Cina punta sempre a mostrare i muscoli anche nei confronti di Taiwan, isola di fatto indipendente dal 1949, che la dirigenza di Pechino ritiene parte del suo territorio nazionale. Intanto gli osservatori diplomatici di Mosca, riferendosi anche alle posizioni di esperti taiwanesi e occidentali, ritengono che Pechino ha oltre mille missili puntati sull’isola.

Ma, a parte queste impennate di forte militarismo, c’è un bilancio positivo per l’economia generale del paese e per una serie di progressi sociali. Si consolida la ripresa, seppure con qualche segnale di surriscaldamento dell’economia.

Il colosso asiatico - lo afferma il South China Morning Post - ha chiuso il 2009 con una crescita del prodotto interno lordo dell’ 8,7%, e ormai il sorpasso sul rivale giapponese appare a un passo e con esso la palma di seconda economia planetaria dopo gli Stati Uniti d’America.

La crescita del Gdp nel 2009 vale 4.700 miliardi di dollari, pari a quello del Giappone per l’anno precedente. Il primato cinese sarà registrato ufficialmente quando, il mese prossimo, Tokyo certificherà la sua crescita per il 2009, probabilmente inferiore del 6% rispetto al 2008.

La ripresa - lo evidenzia il Time Asia - é soprattutto merito delle misure anticrisi del governo, che alla fine del 2008 ha varato un pacchetto di provvedimenti a sostegno dell’economia del valore di quasi 600 miliardi di dollari. L’obiettivo è raggiungere e superare il colosso nipponico.

Un aspetto, questo, che non figura direttamente nell’agenda del governo, ma che ha tuttavia un forte valore simbolico dati i rapporti storici tra le due nazioni estremo orientali e la diretta competizione sui mercati, sia come esportatori, sia come acquirenti di materie prime.

Sulla base di queste informazioni e note analitiche, Altrenotizie ha girato a vari politologi occidentali e russi la domanda di ordine sociologico che più circola negli ambienti degli ossevatori: “Cosa è avvenuto in Cina – nella realtà nazionale e nella situazione economica - nel giro degli ultimi anni?”. Le risposte sono di vario tipo, ma sempre concentrate sulle ripercussioni morali e sociali.

Com'era prevedibile – si sostiene – c’è stato e c’è un ritorno all'economia capitalistica che ha determinato, in seno alla società cinese, degli spostamenti interiori, dei rivolgimenti spirituali, che vanno in senso opposto a quelli che il comunismo avrebbe voluto operare.

La società cinese, quindi, imborghesisce? La risposta è che si era mirato a stabilire l'eguaglianza dei compensi, dei guadagni, del tenore di vita fra tutte le classi sociali. Ma ora le disuguaglianze ricompaiono e si accentuano. Nelle campagne rispuntano i grossi proprietari e le distanze, fra costoro e i contadini poveri, si allargano man mano.

Molti fra questi ultimi, privi di bestie da lavoro, di strumenti, di macchine agricole, danno in affitto il loro boccone di terra, paghi di ricevere una piccolissima parte del raccolto, e si collocano come salariati nelle campagne o nelle città, con compensi miserabili e con orari di lavoro esasperanti.

D'altra parte, ogni contadino che riesce ad estendere la sua proprietà, ha bisogno di mano d'opera salariata, e così il salariato agricolo da fenomeno temporaneo ritorna a figurare come una istituzione stabile della società.

Lo stesso accade nelle città. Lo sottolinea il China Daily (un quotidiano in lingua inglese che esce a Pechino) il quale precisa che nella capitale molti commercianti arricchiti sfoggiano il loro lusso e che, con i commercianti, ricompaiono gli intermediari, i sensali, che accumulano fortune che ora più che mai sembrano scandalose.

Ci sono, quindi, di nuovo, operai poveri e contadini ricchi, operai qualificati e operai non qualificati, artigiani, commercianti grossi e piccoli, alti e bassi funzionari dello Stato e del Partito, professori, liberi professionisti, tecnici specializzati: tutti si distinguono fra loro in ragione del danaro che guadagnano e della vita che conducono.

E così non solo cambia l'aspetto esteriore della società, cambia anche il suo spirito. Con le discriminazioni, economiche e sociali, che non sono soltanto un fatto; sono un nuovo criterio politico. Sembra proprio che i capi del governo abbiano abbandonato l'ideale dell'eguaglianza, materiale e morale, fra i cittadini: quella eguaglianza nel cui nome erano partiti in guerra contro la vecchia società.

E ai tecnici, che lo Stato chiama a dirigere le sue imprese, si concedono stipendi parecchie volte superiori al salario medio degli operai manuali, si assegnano alloggi più o meno lussuosi e si pongono a loro disposizione auto di servizio.

Si richiede, intanto, che gli operai obbediscano ai direttori, agli ingegneri, che nelle fabbriche la gerarchia venga assolutamente rispettata e che la disciplina sia ferreamente osservata.

Restano sulla scena del Paese, accanto ai grandi ed innegabili successi, ampie zone d’ombra. Con 150 milioni di cinesi che si trovano sotto la soglia di povertà. E per chi può, ora il governo ha deciso di riaprire i bordelli. Mao nel 1949 li aveva chiusi ed oggi i comunisti li riaprono. Sorgono come funghi a Dongguan, nel cuore industriale del Paese.

Qui sono già all’opera 300mila prostitute controllate e certificate. Si muovono in una rete di bar, saune, centri di massaggi e discoteche. E il partito e le strutture amministrative garantiscono, con 300 ispettori, l’ordine e la sanità. Le prostitute, al momento, sono oltre 300mila e il settore impiega stabilmente 800mila addetti.

Ma per Pechino non si tratta di “prostituzione” bensì di "sostegno umano". Prezzi modici, dicono gli occidentali che hanno visitato Dongguan: due ore standard, con "doppio amplesso su letto ad acqua", costano tra i 15 e gli 80 euro. Il capitalismo ci vede bene anche con gli occhi a mandorla.


Usa e Cina: uno perde, l'altro vince
di James Petras - www.rebelion.org - 6 Gennaio 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Marisa Cruzca

Introduzione

Il capitalismo asiatico, in particolare Cina e Corea del Sud, è in concorrenza con gli Stati Uniti per il potere mondiale. Il potere asiatico globale ha una crescita economica dinamica, mentre gli USA perseguono una strategia di costruzione di un impero con i mezzi militari.

Lettura di una edizione del Financial Times

Anche una lettura superficiale di un singolo numero del The Financial Times – come quella del 28 dicembre 2009-ci fa capire le diverse strategie di costruzione di un impero. In prima pagina, il principale articolo sugli Stati Uniti parla dei conflitti militari in atto e della “guerra contro il terrorismo”, sotto il titolo di “Obama chiede la revisione dell’elenco delle organizzazioni terroristiche”.

Paradossalmente ci sono due articoli nella stessa pagina, uno sulla Cina che parla della inaugurazione del treno passeggeri più veloce al mondo e della decisione di mantenere la loro moneta legata al dollaro USA per promuovere il loro settore di esportazioni.

Mentre Obama è focalizzato sulla creazione di un quarto fronte di battaglia (Yemen) nella “guerra al terrore” (dopo l’Iraq, Afghanistan e Pakistan), il Financial Times nella stessa pagina informa che un trust della Corea del Sud ha vinto un appalto di 20.400 milioni di dollari per sviluppare l’energia nucleare ad uso civile negli Emirati Arabi Uniti, battendo i suoi concorrenti americani ed europei.

A pagina due del FT c’è un lungo articolo sulla nuova rete ferroviaria cinese, sottolineando la sua superiorità nei confronti del servizio ferroviario degli Stati Uniti. Il treno cinese d’ultima generazione ad alta velocità unisce due importanti città distanti 1.100 km, in meno di tre ore, mentre “l’Espress” della compagnia Amtrack, nordamericana “impiega tre ore e mezza per coprire i 300 km da Boston a New York.”

Mentre le ferrovie statunitensi si logorano per mancanza di fondi e di manutenzione, la Cina investe 17.000 milioni di dollari nella costruzione delle sue linee.

Inoltre sono in preventivo la costruzione di altri 18.000 km di linee del suo sistema ultramoderno entro il 2012, mentre gli USA investiranno altrettanti soldi nel finanziamento dell'offensiva militare in Afghanistan e Pakistan, e nell’apertura del nuovo fronte bellico nello Yemen.

La Cina costruisce un sistema di trasporti che collega i produttori e i mercati del lavoro nelle province interne con i centri di produzione e porti situati sulla costa, mentre a pagina quattro del FT si legge come gli Stati Uniti sono ancora aggrappati alla politica di affrontare la “minaccia islamica” in una “infinita guerra al terrorismo”.

L’invasione e le guerre ai paesi musulmani hanno dirottato centinaia di milioni di dollari dei fondi pubblici verso una politica senza benefici per il paese, intanto la Cina modernizza la sua economia civile.

La Casa Bianca e il Congresso soddisfano e sovvenzionano lo Stato militarista e coloniale di Israele, con la sua base di insignificanti risorse di mercato, allontanandosi da 1.500 milioni di musulmani (FT , pag. 7), il Pil della Cina è aumentato di dieci volte negli ultimi 26 anni (FT , pag.9).

Mentre gli Stati Uniti hanno stanziato più di 1.400 miliardi di dollari a Wall Street e ai militari, aumentando il deficit fiscale e il deficit bancario, raddoppiando il tasso di disoccupazione e prolungando la recessione (FT , pag.12), il governo cinese ha lanciato un pacchetto di incentivi mirati ai settori interni del manifatturiero e della costruzione che ha prodotto una crescita dell’8% del PIL, una significativa riduzione della disoccupazione e “la ripresa delle economie coinvolte” in Asia, America del Sud e Africa (FT , pag12).

Mentre gli Stati Uniti sciupavano il loro tempo, le risorse e il personale nella organizzazione di “elezioni “ per conto dei suoi corrotti Stati satelliti in Afghanistan ed Iraq, e faceva da inutile mediatore fra il suo intransigente partner israeliano e il suo impotente cliente palestinese, il governo sudcoreano ha sostenuto un gruppo condotto dalla Kora Electric Power Corporation nella riuscita manovra di 20.400 milioni di dollari per l’installazione di centrali nucleari, aprendo così la strada a svariati altri contratti miliardari nella zona (FT , pag. 13).

Mentre gli USA spendono più di 60.000 milioni di dollari per il controllo interno nella crescita a dismisura dei suoi organismi interni di sicurezza in cerca di potenziali terroristi, la Cina investiva più di 25.000 milioni di dollari per consolidare i suoi scambi energetici con la Russia (FT , pag.13).

Quello che ci raccontano gli articoli e le notizie di una sola edizione, in un solo giorno, nel Financial Times , riflette una realtà più profonda che illustra la grande divisione del mondo d’oggi.

I paesi dell’Asia, con in testa la Cina, stanno raggiungendo lo status di potenze mondiali, a suon di grandi investimenti nazionali ed esteri nell’industria manifatturiera, nel trasporto, nelle tecnologie, nell’estrazione e lavorazione dei minerali.

Contrariamente, gli Stati Uniti sono una potenza in declino, con una società in caduta, risultato della costruzione dell’Impero con mezzi militari e della economia finanziaria speculativa:

1- Washington cerca clienti militari minoritari in Asia, mentre la Cina allarga i suoi accordi commerciali e di investimenti con importanti partner economici: la Russia, Giappone, Corea del Sud ed altri.

2- Washington prosciuga la sua economia nazionale per finanziare le guerre all’estero. La Cina estrae minerali e risorse energetiche per fomentare il suo mercato interno del lavoro e dell’industria.

3- Gli Stati Uniti investono in tecnologia militare per combattere contro i ribelli locali nei loro Stati satelliti, la Cina investe in scienza tecnologica per poter fare esportazioni competitive.

4- La Cina inizia a ristrutturare la sua economia per poter meglio sviluppare il paese all’interno, e conferisce maggiori spese sociali per correggere le disuguaglianze e i grandi squilibri, gli Stati Uniti riscattano e rinforzano il settore finanziario sfruttatore, che ha saccheggiato l’industria (riducendo i suoi attivi tramite fusioni e acquisizioni), e speculano su mete finanziarie senza impatto sul lavoro, sulla produttività e sulla competitività.

5- Gli Stati Uniti moltiplicano la guerra e l’ammasso di truppe in Medio Oriente, Asia meridionale, Corno d’Africa e nei Caribi. La Cina mette a disposizione investimenti e prestiti pari a 25.000 milioni di dollari per la costruzione di infrastrutture, estrazioni minerarie, produzione di energia e per le costruzione de impianti di assemblaggio in Africa.

6- La Cina firma accordi commerciali di migliaia di milioni di dollari con l’Iran, Venezuela, Brasile, Argentina, Cile, Perù e Bolivia, assicurando l’accesso all’energia strategica e alle risorse minerarie ed agricole; Washington offre 6.000 milioni di dollari di aiuti militari alla Colombia, ottiene dal presidente Uribe la cessione di sette basi militari (con le quali minacciare il Venezuela), appoggia un colpo militare nel Honduras, e denuncia il Brasile e la Bolivia perchè diversifichino le loro relazioni economiche con l’Iran.

7- La Cina incrementa le sue relazioni economiche con le economie dinamiche dell’America del Sud che rappresentano più dell’80% della popolazione del continente; gli Stati Uniti si associano con il fallito stato del Messico, che detiene il peggior ruolo economico dell’emisfero e nel quale potenti cartelli della droga controllano ampie regioni e sono profondamente infiltrati nel macchinario statale.

Conclusioni

Come paese capitalista la Cina non fa eccezione. Sotto il loro capitalismo vi è sfruttamento del lavoro, abbondano disuguaglianze di ricchezza e di accesso al benessere come altrove, i piccoli agricoltori si vedono sfollare a causa di progetti di megadighe, le aziende cinesi estirpano minerali ed altre risorse naturali nel Terzo Mondo senza troppi indugi.

Ma la Cina ha creato decine di milioni di posti di lavoro nell’industria ed ha ridotto la povertà molto più velocemente e per molte più persone nel lasso di tempo più breve della storia. Le sue banche finanziano soprattutto la produzione. La Cina non bombarda, non invade, non saccheggia altri paesi.

In compenso, il capitalismo statunitense è una mostruosa macchina militare mondiale che prosciuga l’economia nazionale e riduce il tenore di vita del paese pur di finanziare le sue interminabili guerre all’estero. I capitali finanziari, commerciali, immobiliari minano il settore manifatturiero, a beneficio della speculazione e delle importazioni a basso costo.

La Cina investe nei paesi ricchi di petrolio; gli Stati Uniti li attaccano. La Cina vende vassoi e ciotole per i matrimoni afghani, gli Stati Uniti bombardano le loro feste con i droni. La Cina investe in industrie estrattive, ma a differenza dei coloni europei costruisce ferrovie, porti, aeroporti e fornisce crediti a prezzi accessibili. La Cina non finanzia né arma guerre etniche, ne organizza “rivoluzioni colorate” come la CIA.

La Cina autofinanzia la propria crescita, il suo commercio ed il suo sistema di trasporto, nel frattempo gli USA stanno sprofondando sotto un debito di parecchi miliardi di dollari per finanziare guerre senza fine, per salvare le loro banche a Wall Street e appoggiare altri settori privi di produttività, mentre molti milioni di persone restano disoccupate.

La Cina crescerà ed eserciterà il suo potere attraverso i mercati economici, gli Stati Uniti entreranno in guerre senza fine verso il cammino del fallimento e del declino interno. La crescita diversificata della Cina è legata a partner economici dinamici; il militarismo degli Stati Uniti è vincolato ai narcostati, regimi sotto controllo dai signori della guerra, registi delle repubbliche delle banane e all’ultimo e peggiore regime razzista e coloniale dichiarato: Israele.

La Cina attira i consumatori del mondo; le guerre globali degli Stati Uniti producono terroristi nel proprio territorio e all’estero.

La Cina potrebbe trovarsi di fronte ad una crisi e anche alle agitazioni dei lavoratori, ma ha i mezzi finanziari per risolverli. Gli Stati Uniti sono in crisi e potrebbero dover affrontare una sommossa interna, ma hanno esaurito il loro credito e le loro fabbriche sono all’estero, mentre le loro basi ed installazioni militari portano conti passivi, non attivi.

Ci sono sempre meno fabbriche negli USA disposte a riassumere i loro disperati lavoratori: uno sconvolgimento sociale potrebbe mostrarci i lavoratori statunitensi occupando con i loro scheletri i vuoti delle loro vecchie fabbriche.

Per diventare uno Stato “normale” dobbiamo ripartire dall’inizio: chiudere tutte le banche e le basi militari all’estero, tornare in Nord America. Dobbiamo cominciare una lunga marcia verso la ricostruzione di una industria al servizio delle nostre necessità nazionali, dobbiamo vivere dentro il nostro proprio ambiente naturale e abbandonare la costruzione dell’impero a favore della costruzione di una repubblica socialista democratica.

Quando è che prendendo il Financial Times , o qualsiasi altro giornale, leggeremo che i nostri treni ad alta velocità ci portano in meno di un’ora da New York a Boston? Quando saranno le nostre fabbriche a fornire i nostri negozi di ferramenta?

Quando costruiremo generatori di energia eolica, solare o marina? Quando potremo abbandonare le nostre basi militari e far sì che i signori della guerra, i trafficanti di droga e i terroristi si trovino ad affrontare la giustizia della loro propria gente?

Arriveremo a leggere tutto questo sul Financial Times ?

In Cina tutto ebbe inizio con una rivoluzione.........


E' già "made in Cindia" la locomotiva del mondo
di Federico Rampini - La Repubblica - 29 Gennaio 2010

Un decennio è "un tempo infinito" per fare previsioni, dice l'economista Kenneth Rogoff rispondendo al sondaggio organizzato da Repubblica tra gli esperti riuniti al World Economic Forum.

Non sembrano dello stesso parere i dirigenti di Pechino e New Delhi. Per i ritmi di aumento degli investimenti nella ricerca scientifica, la Cina e l'India hanno superato di slancio gli Stati Uniti.

Intanto Barack Obama, alle prese con una destra populista che cavalca la rivolta anti-tasse e anti-Stato, è costretto a tagliare i fondi all'istruzione. La California, un tempo la punta avanzata dell'innovazione, riduce le borse di studio e l'offerta di corsi universitari. Se è vero che "il decennio si prepara adesso", come ci ha detto il commissario europeo Joaquin Almunia, l'Occidente è partito sul piede sbagliato.

E' indicativo il fatto che quest'anno a Davos i "malati" sotto osservazione sono Spagna, Grecia, Lettonia: tutti paesi dell'Unione europea, due dei quali sono membri anche dell'Eurozona. Lontani sembrano i tempi in cui la bancarotta di uno Stato sovrano poteva minacciare solo paesi emergenti, era un virus endemico in America latina o nel sudest asiatico.

Questo decennio si apre all'insegna di una crisi fiscale spaventosa che attanaglia gli Stati Uniti, l'Unione europea, il Giappone. L'Occidente è condannato a impiegare i prossimi anni a smaltire debiti pubblici colossali, accumulati per la verità solo in parte a causa della recessione del 2008-2009.

A Oriente invece si trovano oggi i giacimenti di risparmio, disponibili per finanziare gli investimenti produttivi e l'accesso alla conoscenza.

Se siamo arrivati in queste condizioni, così sfavorevoli per noi, la ragione non va cercata solo nella sfera dell'economia. Il declino dei paesi di antica industrializzazione chiama in causa i sistemi politici. Il Welfare State europeo, che poteva diventare un modello d'esportazione per curare le tensioni sociali nei paesi emergenti, ha perso credibilità perché si è rivelato incapace di dedicare risorse alle giovani generazioni.

In quanto agli Stati Uniti, un autorevole esponente del partito democratico, Barney Frank (presidente della commissione Finanze alla Camera) ha descritto lucidamente a Davos i risultati della lunga egemonia culturale della destra: "Prima hanno rovinato lo Stato depauperandolo di risorse. Ora dicono che non si possono alzare le tasse perché i soldi dei cittadini andrebbero agli stessi burocrati inefficienti che furono responsabili del disastro-Katrina, o che furono incapaci di regolare i derivati e la finanza tossica".

Decenni di abbandono degli investimenti pubblici hanno portato alla decadenza tutte le infrastrutture vitali dell'America, proprio mentre la Cina spingeva l'acceleratore sulla loro modernizzazione.

Nel cuore della liberaldemocrazia americana si sono incrostate oligarchie potenti. I veti della lobby assicurativa contro la riforma sanitaria; la guerra di trincea che Wall Street si ostina a combattere contro le nuove regole sulle banche; la sentenza della Corte suprema che toglie ogni limite alle campagne politiche finanziate dal Big Business.

Tutto ciò mette a repentaglio quella vitalità del sistema democratico che avrebbe dovuto dare all'Occidente una flessibilità superiore rispetto al grande rivale che è il modello autoritario cinese. Se un regime illiberale dovesse rivelarsi più adatto dei nostri a investire sul futuro, imprimerebbe un segno terribilmente regressivo agli anni Dieci del terzo millennio.

Una globalizzazione governata dal G2 America-Cina si preannuncia gravida di tensioni: alla vigilia di Davos la sfida sulla "sovranità nel cyber-spazio" messa a nudo dal caso Google è un segnale premonitore. La relazione privilegiata sino-americana oscillerà costantemente fra l'inevitabilità di compromessi sugli interessi e l'incompatibilità sui valori.

Lo scenario del prossimo decennio deve includere altre variabili. La demografia darà una marcia in più all'India: tra natalità e progresso economico, il ceto medio della più grande democrazia mondiale sarà decuplicato entro il 2030.

Ma anche gli Stati Uniti su questo fronte sono favoriti: con un tasso di fertilità superiore del 50% a Russia Germania e Giappone, e grazie all'immigrazione, ci saranno ben 100 milioni di americani in più nel 2050.

La concentrazione delle popolazioni più vaste in Asia esigerà da quelle potenze soluzioni innovative al problema delle risorse alimentari e della scarsità di acqua: una catastrofe ambientale potrebbe far deragliare le loro traiettorie di successo.

Un fattore determinante del progresso sociale nei paesi emergenti sarà l'accesso delle donne all'istruzione. La qualità della governance risulterà decisiva sotto ogni latitudine. Insieme con il miglioramento nel tenore di vita e nelle conoscenze, diventerà più visibile e sempre meno tollerabile la tassa occulta della corruzione.

Se questo Davos 2010 è attendibile nei suoi segnali premonitori, a fine decennio per tenere un summit circondato da altrettanta attenzione bisognerà farlo a Shanghai.

venerdì 29 gennaio 2010

Iran, Khamenei, Shoah e traduttori diabolici...

Nel Giorno della Memoria i vari media mainstream italioti si sono scatenati nel riportare le dichiarazioni della Guida Suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, durante un suo incontro avuto con il presidente della Mauritania.

Ma per l'ennesima volta la traduzione delle sue parole è stata volutamente manipolata per poter poi abbaiare a volontà contro il regime iraniano. Era successo lo stesso qualche anno fa con il presidente Ahmadinejad e il suo fantomatico "cancellare Israele dalle mappe geografiche".

Qui di seguito è riportato esattamente il testo che la redazione online del Corriere della Sera ha pubblicato in proposito due giorni fa.

Shoah, la provocazione di Teheran
«Un giorno vedremo Israele distrutta»

Khamenei rilancia l'appello di Ahmadinejad a «cancellare Israele dalla mappa del mondo»

MILANO - «Di sicuro verrà il giorno in cui le nazioni della regione vedranno la distruzione del regime sionista. I tempi di questa dipendono dal modo in cui le nazioni islamiche affronteranno il tema». Nel Giorno della Memoria la Guida Suprema dell'Iran, Ali Khamenei, invoca nuovamente la scomparsa di Israele, rilanciando l'appello del presidente Mahmoud Ahmadinejad a «cancellare Israele dalla mappa del mondo» e a interpretare l'Olocausto come un «mito».

INCONTRO CON IL PRESIDENTE DELLA MAURITANIA - Le frasi di Khamenei, sono riportate sul sito web della guida spirituale, impegnata con Ahmadinejad a compattare la Repubblica Islamica contro il nemico storico anche per superare le difficoltà politiche interne. Khamenei ha ricevuto il presidente della Mauritania Mohammed Ould Abdel Aziz e ha invitato lo Stato africano a troncare definitivamente le relazioni con Israele; una strada che Nouakchott aveva già cominciato a percorrere nel gennaio del 2009 con la sospensione delle relazioni diplomatiche.

PROCESSARE AHMADINEJAD» - Proprio all'Iran e ad Ahmadinejad ha fatto riferimento lo scrittore ebreo sopravvissuto all’Olocausto Elie Wiesel, parlando nell’aula di Montecitorio : «Come si può trattare con un presidente di nazione che non riconosce la Shoah né il diritto di Israele ad esistere? - ha chiesto Elie Wiesel -. Dovrebbe essere arrestato e tradotto davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja per incitazione a crimini contro l’umanità».

Questo quindi il breve articolo del Corriere della Sera, replicato negli stessi toni in quasi tutti gli altri quotidiani italioti e del resto del mondo.

Ma cosa ha detto esattamente l'Ayatollah Khamenei?

Se si va sul suo sito online (http://english.khamenei.ir//index.php) si legge la traduzione in inglese delle sue dichiarazioni rese durante l'incontro con il presidente della Mauritania. Ed è proprio da questo sito web che tutte le testate mainstream hanno attinto per fare poi quegli osceni articoli, di cui quello del Corriere della Sera rappresenta solo uno dei tanti esempi.

Sul sito web di Khamenei la fantomatica frase sulla distruzione d'Israele è questa:"Undoubtedly, the nations of the region will witness the collapse of the Zionist regime one day. The timing of this event will depend on the actions of Islamic countries."

Qualsiasi persona che mastica un po' l'inglese avrebbe facilmente tradotto la parola "collapse" con "collasso" o "crollo", termini dal significato completamente diverso rispetto a "distruzione".

Quindi due sono le cose: o tutti i traduttori delle redazioni dei quotidiani italioti sono degli emeriti imbecilli ignoranti oppure si è ancora una volta manipolato strumentalmente il significato delle parole del più alto esponente di un Paese inviso all'Occidente e soprattutto a Israele.

E' ovvio che la seconda ipotesi è quella vera e che...ci siamo rotti le palle!!


Khamenei, i gazzettieri e la "distruzione" dello stato sionista
da http://iononstoconoriana.blogspot.com - 27 Gennaio 2010

Secondo il Corriere della Sera l'ayatollah Khamenei (nella foto) avrebbe approfittato di un incontro con l'ambasciatore mauritano per rilanciare il cosiddetto "appello di Ahmadinejad a cancellare Israele dalla mappa del mondo" e per invitare la Mauritania a "troncare definitivamente le relazioni con Israele".

Più o meno con gli stessi vocaboli la notizia -o per meglio dire la ciancia- è presente in tutto il gazzettaio on line. Quanto segue è la traduzione del comunicato ufficiale presentato dal sito della Guida Suprema. Si tratta di un discorso di circostanza in cui abbondano essenzialmente i toni ed il vocabolario dell'anticolonialismo.

Nella versione inglese il vocabolo con cui Khamenei fa riferimento al destino dello stato sionista è collapse, "crollo", "collasso", "tracollo". Qualcosa che fa pensare con precisione a cause endogene di un certo fenomeno. I gazzettieri, ovviamente, hanno tradotto il vocabolo come se fosse destruction, "distruzione", qualcosa di dovuto essenzialmente ad azioni e fattori esterni.

Questo significa che mentre Khamenei esprime sul conto dello stato sionista le pesanti critiche che ognuno è libero di esprimere sul conto di qualunque governo e di qualunque assetto statale presti il fianco ad esse, le gazzette "occidentali" ammanniscono ai loro sudditi tutt'altra storia: una storia in cui i missili a lunga gittata sono pronti a partire per polverizzare Tel Aviv.

In altre parole la sedicente libera stampa non ha perso neanche stavolta l'occasione per presentare la Repubblica Islamica dell'Iran nell'unico modo per essa ammissibile, che consiste nel metterne in cattiva luce con ogni mezzo le istanze ed i rappresentanti a qualunque corrente di potere appartengano. E se il pretesto non si trova, si fa in modo di trovarlo.

Non è certo la prima volta che succede, proprio in quel ventisette gennaio in cui si ricorda l'arrivo ad Auschwitz dei soldati dell'Armata Rossa; c'è ragione di pensare che anche senza dover tirare in mezzo i comunicati stampa di Khamenei le gazzette avrebbero comunque trovato il modo di inchinarsi allo stato sionista, come se shoah e sionismo fossero in una inscindibile relazione diretta in cui l'una legittima l'altro, con particolare riferimento al comportamento più che disinvolto ostentato dal governo sionista nei confronti di qualunque interlocutore internazionale.

Lo stato che occupa la penisola italiana ha un interscambio commerciale con Tehran di assoluta rilevanza; se le gazzette adottassero un atteggiamento meno ipocrita entrambe le parti in causa avrebbero solo da guadagnarci.

L'ayatollah Khamenei, Guida Suprema della Rivoluzione Islamica, ha incontrato oggi Mohamed Ould Abdel Aziz e la delegazione che lo accompagnava. In questo incontro, Sua Eminenza ha detto che per quanto riguarda la politica estera stabilire rapporti diplomatici e cooperare con i paesi islamici sono i principi fondamentali della Repubblica Islamica. Ha inoltre espresso la speranza che la visita del presidente della Mauritania in Iran aiuterà ad espandere la cooperazione tra i due paesi.

L'ayatollah Khamenei ha fatto riferimento alla decisione di interrompere i rapporti diplomatici con il regime sionista presa dal governo mauritano, ed ha detto che "questo provvedimento rappresenta una lezione per alcuni governi arabi, perché il regime sionista rappresenta una grande minaccia per il mondo dell'Islam e cerca costantemente di incrementare il proprio predominio sulla regione".

Il Leader Supremo della Rivoluzione Islamica ha detto che i crimini commessi dal regime sionista a Gaza sono come una ferita inferta al corpo della comunità dei credenti ed ha espresso il proprio disappunto per la posizione assunta da alcuni governi islamici a questo proposito.

L'ayatollah Khamenei ha detto: "Senza dubbio, le nazioni della regione un giorno saranno testimoni del crollo del regime sionista. Il momento esatto in cui questo si verificherà dipende dalle azioni dei Paesi islamici".

Egli ha inoltre ricordato l'avidità e la brama di dominio dei paesi occidentali, e ha detto: "I paesi occidentali non hanno mai voluto collaborare con i paesi islamici, o aiutarli. Al contrario, hanno portato la corruzione e la distruzione ovunque abbiano calcato il passo".

L'ayatollah Khamenei ha detto che gli Stati Uniti stanno cercando di ottenere il controllo dell'Africa e ha dichiarato: "Gli Stati Uniti stanno tentando di creare in Africa una base per le loro forze armate, e questo rappresenta un grande pericolo. Le nazioni ed i governi africani non dovrebbero lasciare che la loro terra ed i loro paesi diventino una base per gli americani".

La Guida Suprema della Rivoluzione Islamica ha fatto poi riferimento alla necessità di promuovere il ruolo internazionale dei paesi islamici e ha dichiarato: "Se vuole raggiungere il prestigio che merita, la comunità dei credenti deve sviluppare una unità vera e la fratellanza tra i paesi islamici, e non fare affidamento su potenze interessate al dominio internazionale."

L'ayatollah Khamenei ha anche detto che l'Iran è pronto a condividere l'esperienza che ha acquisito nei vari settori scientifici ed industriali con i paesi islamici, tra cui la Mauritania.

In questo incontro, cui ha partecipato anche il presidente Mahmoud Ahmadinejad, il signor Mohamed Ould Abdel Aziz ha enumerato i progressi della Repubblica islamica nel campo scientifico, industriale e tecnologico ed ha detto che gli obiettivi raggiunti costituiscono un motivo d'orgoglio per tutti i paesi musulmani. Ha anche detto che i due paesi dovranno incrementare la loro collaborazione in diversi settori.

Il presidente della Mauritania ha ringraziato la Repubblica islamica dell'Iran per i suoi sforzi per promuovere la pace e la sicurezza nella regione e nel mondo.



Gli industriali dell'Olocausto
di Vittorio Arrigoni - http://guerrillaradio.iobloggo.com - 28 Gennaio 2010

"Sicuramente, verrà il giorno in cui i Paesi della regione saranno testimoni della distruzione del regime sionista", ha dichiarato il 27 gennaio 2010 la Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei.

Perfettamente d’accordo con le sue parole, e come me lo sono certamente molti israeliani ed ebrei antisionisti, potrebbe essere il contrario?

Il Sionismo è un movimento abominevole, razzista e coloniale, e come tutte le realtà coloniali e di apartheid deve essere interesse di tutti che venga spazzato via.

Rimpiazzarlo senza spargimenti di sangue con uno stato democratico, laico, secolare, magari sui confini della Palestina storica e che inglobi palestinesi e israeliani sotto eguale diritto di cittadinanza senza discriminazioni etniche e religiose, è un augurio che mi sento di auspicare diventi presto realtà.

Ai giornalisti prezzolati e ai nostri politicanti asserviti ai macellai israeliani, vorrei far notare quello che è lapallisiano nella dichiarazione di Ali Khamenei: non una sentenza di morte a Israele, ma una condanna al sionismo.

Ed essere contro Israele sionista non significa certo essere contro gli ebrei, ospiti graditi a Teheran (come da foto).

Identificare tutti gli ebrei del mondo con Israele sionista e ancora peggio con la tragedia della shoah significa fare il gioco di quello che Norman Filkenstein ha brillantemente battezzato l'industria dell'olocausto.

Al nostro caro capo di stato, il sionista Napolitano, vorrei ricordare che essere antisionisti non significa affatto essere antisraeliani, semmai significa volere il bene per gli israeliani, e contemporaneamente lottare per i diritti umani.

Proprio come i tanti che si unirono ai neri sudafricani in opposizione al colonialismo e all’Apartheid, non erano certo contro la totalità dei bianchi.

Restiamo Umani


Approfondimento proposto nel blog di Arrigoni:

La cattiva traduzione diventata senso comune è una pozione di veleno propagandistico che ci viene fatta bere ogni giorno. di Pino Cabras.


Nota aggiuntiva di Pino Cabras per Megachip:

Ringrazio il caro Vittorio Arrigoni per aver citato il mio articolo. Ogni tanto ne ho dovuto scrivere altri per segnalare importanti manipolazioni nelle traduzioni. Queste manipolazioni non finiscono mai. Perfino il discorso dell'ayatollah Ali Khamenei commentato da Arrigoni rientra in questa lunga serie di testi modificati dai media mainstream occidentali.

La versione in inglese del comunicato ufficiale apparso nel sito della Guida Suprema, un discorso uguale a decine di altri precedenti suoi e del predecessore Khomeyni, rivela un apparato ideologico convenzionale che usa molti arnesi dell'anticolonialismo. La parola chiave usata per riferirsi al futuro di Israele è "collapse".

Tutti hanno riportato la traduzione "distruzione", che richiama un atto esterno deliberato, un'aggressione diretta. La cosa porta acqua al mulino della "reductio ad Hitlerum", la demonizzazione dei politici iraniani. Ma la traduzione corretta sarebbe "crollo", "collasso", "implosione", "tracollo". La parola "distruzione" sarebbe stata giustificata solo da "destruction". Non è una distinzione trascurabile.

giovedì 28 gennaio 2010

Update italiota

Qualche articolo sulle ultime penose vicende italiote.


Tremonti e la possibile truffa agli italiani
di Attilio Folliero - www.folliero.it - 27 Gennaio 2010

Da anni trattiamo l’argomento “dollaro” e la sua possibile fine, come moneta di riferimento mondiale, ma in Italia, ancora oggi, la maggioranza degli italiani è convinta che gli Stati Uniti siano la superpotenza economica che fu.

I media italiani niente o poco hanno lasciato trapelare sulla reale situazione economica degli USA e della sua moneta, il dollaro, attraverso il quale, un tempo, hanno dominato il mondo. Il dollaro è destinato a svalutarsi e diventare carta straccia e gli italiani non si sono accorti di niente.

Per un approfondimento sul tema, rimandiamo ai nostri precedenti articoli (1) Quello che mi preme rilevare in questo scritto è il ruolo della sinistra (si fa per dire) nel nascondere tali tematiche.

Ancora oggi, i figliocci del PCI, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino, ecc. guardano al mito americano (che fu) e spesso nei loro discorsi che sanno di antico e cadaverico guardano estasiati agli USA e addirittura riprendono pari pari gli slogan dei politici statunitensi di turno, senza neppure tradurli all’italiano, tipo “yes, we can”.

I politici della presunta sinistra italiana non hanno capito assolutamente niente della realtà degli Stati Uniti. Il tramonto degli Stati Uniti è già iniziato e sicuramente ignorano anche la possibilità che possano arrivare ad un “default”, al fallimento e persino alla fine della stessa unione. Gli Stati Uniti potrebbero cessare di esistere come stato unitario e questi non si sono accorti di niente.

Un partito di sinistra (se fosse di sinistra) dovrebbe trattare temi economici in difesa dei cittadini, per il bene dei cittadini ed in particolare delle classi più povere, contro la destra conservatrice, che storicamente rappresenta gli interessi dell’oligarchia, delle classi dominanti, imprenditoriali e capitalistiche.

Non sarebbe compito dei politici di sinistra parlare della possibile truffa che sta architettando il signor Tremonti, ai danni degli ignari cittadini italiani? Invece ne parla principalmente una certa “destra” (2 ). Dove sono i sinistri politici italiani?

Il Signor Tremonti, il superministro dell’Economia, che si ritrova nella disperata situazione di trovare soldi liquidi per mandare avanti la “baracca italiana” ha pensato ad un tranello, una truffa bella e buona ai danni degli ignari cittadini italiani, orfani dell’informazione e della sinistra: emettere buoni del tesoro in dollari, a cinque anni; ovviamente con allettanti tassi di interesse, sicuramente ben superiori al misero 0,5%/1% che ripaga un buono in Euro.

Che cosa spera di ricavarne Tremonti?

Lui – ma non il popoli italiano, tenuto nella più completa ignoranza in materia, dai media e dai partiti, compresi quelli di sinistra – sa bene che il dollaro rischia una forte svalutazione.

Lui – ma non i Veltroni, i D’Alema, i Fassino, ecc. – conosce bene la situazione economica statunitense, con una disoccupazione crescente, una forte riduzione delle entrate fiscali, una bilancia commerciale sempre più negativa, un debito pubblico alle stelle ed un presidente, Barack Obama, spendaccione e guerrafondaio come nessun altro presidente USA. L’attuale presidente USA ha la necessità di grandi quantità di soldi, per finanziare le sue guerre in America Latina, in Asia e in Africa; soldi che appaiono magicamente, stampandoli!

E, infatti, il pacifista Obama in un solo anno alla guida degli USA è stato capace di incrementare il debito pubblico USA di 1.611 miliardi di dollari, in sostanza un terzo di tutto l’incremento che ha subito il debito pubblico statunitense durante gli otto anni di gestione del guerrafondaio Bush (3).

Lui, il Signor Tremonti - ma non i nostri sinistri politici – queste cose le conosce bene; anzi, sa che il pacifista Obama incrementando le spese ed estendendo le guerre al Pakistan, all’Iran, allo Yemen, al Corno d’Africa ed in America Latina, dove sono in atto ingenti spostamenti di truppe (circa 20.000 militari nell’occupazione di Haiti; migliaia nelle nuove basi in Colombia e nella Triplce Frontiera in America del Sud, in Honduras e tutto il centro America) avrà una crescente necessità di dollari, che appariranno magicamente facendoli fuoriuscire dal cilindro, ossia stampandoli, cosa che fa aumentare fortemente, da qua a cinque anni, il rischio di svalutazione.

E’ sbagliato dire che Tremonti starebbe pensando all'emissione di buoni del tesoro in dollari per finanziare le spese dello stato italiano perché spera che il dollaro possa svalutarsi, da qui a cinque anni, facendo fare un affare all’Italia, o meglio al politico di turno, ossia a lui stesso (che immaginiamo tra cinque anni sarà ancora al comando del ministero che dirige oggi, vista l’inconsistenza della classe politica che dovrebbe sostituirlo).

No, l’operazione non si baserebbe sulla speranza di veder svalutato il dollaro, da qui a cinque anni, ma su una certezza: il dollaro si svaluterà sicuramente; è solo questione di tempo e cinque anni sono un periodo sicuramente sufficiente per assistere alla sua svalutazione, e forse anche alla sua fine!

Dunque, Tremonti ben sapendo che il dollaro da qui a cinque anni si svaluterà ha pensato bene di orchestrare questa manovra, che ben possiamo definire truffa. Ammettiamo che con tale operazione riesca a raccogliere 1.000 milioni di dollari, da restituire con un interesse ad esempio del 5%, che porta il debito complessivo a 1.050 milioni di dollari.

Oggi, al cambio di 1,41 dollari per Euro, si ritroverebbe ad incassare circa 710 milioni di euro. Se il dollaro, in questi cinque anni si dovesse svalutare ad esempio del 50%, passando dagli attuali 1,41 a 2,11, lo stato italiano si ritroverebbe a dover pagare, per i 1.050 milioni di dollari ricevuti cinque anni prima, meno di 500 milioni di Euro. Un bell’affare per lo stato, una vera e propria truffa per i cittadini!

Il dollaro è da considerarsi carta straccia e lo sta salvando solamente il fatto che è la moneta di riferimento per le transazioni economiche, soprattutto del petrolio. Di conseguenza tutti gli stati sono costretti ad avere scorte di dollari (le famose riserve internazionali).

L'area di utilizzo del dollaro, però, è destinata a ridursi; infatti, in Africa, in America Latina ed in Medio oriente stanno nascendo o si cominciano ad utilizzare monete alternative, regionali. La Cina, al momento il più grande detentore di dollari, si sta liberando delle sue riserve in dollari, acquistando oro o investendoli in altri paesi asiatici, in Africa e in America Latina.

Se il principale prodotto del mondo, il petrolio, riuscisse a svincolarsi del dollaro, ossia si potesse commercializzare anche in Euro o altra moneta, allora arriverebbe veramente la fine per il dollaro. Tutti gli stati, che detengono dollari sarebbero costretti a liberarsi per acquistare la nuova moneta necessaria per acquistare il petrolio. Questa enorme quantità di dollari in vendita farebbe crollare il suo valore.

Certamente le cose non succederanno da un momento all’altro, ma succederanno. Il dollaro è destinato ad essere sostituito perché il paese emissore è in crisi profonda e non da più le garanzie che offriva una volta.

Di seguito, proponiamo una tabella (4 ) con la quantità, in percentuale, delle varie monete utilizzate come riserva dai vari stati del mondo, negli ultimi dieci anni (dal 1999 al 2008).



Il Dollaro, pur continuando ad essere largamente la principale moneta di riserva (nel 2008, il 64% delle riserve internazionali era costituita da dollari), mostra lievi ma inequivocabili segni di flessione. Sarà, però nei prossimi anni che si accelererà la caduta.

Il ministro Tremonti se sta pensando a buoni del tesoro in dollari, è perché pensa che si svaluterà. E’ dunque una truffa, di cui però i partiti di sinistra, oggi stampella del capitale, si guardano bene dal parlare.

Note:

1) Una serie di articoli sul dollaro, la crisi economica, le guerre statunitensi e l’ascesa di nuovi protagonisti:

Paul Harris, Traduzione di Tito Pulsinelli, 28/02/2003, Che succederebbe se l’Opec passasse all’Euro?,
Url: http://www.lapatriagrande.net/04_opiniones/tito_pulsinelli/pulsinelle_finedelldollaro.htm
Attilio Folliero e Cecilia Laya, 09/02/2004, Il dollaro, l'eruo, il petrolio e l'invasione nordamericana, Url:
http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2002-2005/2004_02_09_dollaro_euro_petrolio_usa.htm#inizio;
Attilio Folliero, 10/03/2006, La próxima guerra. Irán en la mira,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2006/2006_03_10_la_proxima_guerra.htm;
Attilio Folliero, 01/06/2006, Venezuela y Opep evaluan nuevas monedas para el intercambio del petroleo,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2006/2006_06_01_venezuela_opep_abandono_dolar.htm
Attilio Folliero e Cecilia Laya, 22/10/2008, Il destino del dollaro e dell'economia capitalistica statunitense,
URL: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2008/2008_10_22_destino_del_dollaro.htm;
Attilio Folliero, 21/02/2009, Las reservas internacionales para enfrentar la crisis económica,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2009/2009_02_21_reservas_internacionales.htm;
Attilio Folliero, 31/03/2009, La crisi economica attuale,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2009/2009_03_31_crack_dow_jones.htm;
Attilio Folliero, 24/04/2009, Nuove monete e segnali di una fine del dollaro come moneta internazionale,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2009/2009_04_24_nuove_monete.htm;
Tito Pulsinelli/Selvas, 06/05/2009, Fino a quando la Cina finanzierà gli USA? Selvas intervista Attilio Folliero,
Url: http://www.folliero.it/06_stampa_radio_tv_laya_folliero/stampa/2009_05_06_selvas_intervista_attilio_folliero_cina.htm;
Attilio Folliero, 23/05/2009, La Cina aumenta le riserve auree del 75%,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2009/2009_05_23_riserve_auree_cina.htm;
Attilio Folliero, 16/06/2009, Verso un mondo con nuovi protagonisti (BRIC e OCS),
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2009/2009_06_16_bric.htm;
Attilio Folliero, 23/06/2009, Iran: tra crescita economica e rivoluzione dei colori,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2009/2009_06_23_iran_musavi_rivoluzione_dei_colori.htm;
Tito Pulsinelli/Selvas, 19/07/2009, Il debito pubblico USA al massimo storico. Selvas intervista Attilio Folliero,
Url: http://www.folliero.it/06_stampa_radio_tv_laya_folliero/stampa/2009_07_19_selvas_intervista_attilio_folliero_debito_pubblico_usa.htm;
Attilio Folliero, 17/11/2009, Il debito pubblico USA oltre i 12.000 miliardi,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2009/2009_11_17_debito_pubblico_usa_oltre_12000_miliardi_us$.htm;
Attilio Folliero, 14/01/2010, Bilancio economico 2009: s'inasprisce la crisi, volano le borse!,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2010/2010_01_14_bilancio2009.htm;
Attilio Folliero e Cecilia Laya, 23/01/2010, La Cina prossimo leader dell'economia mondiale e la Russia leader in Europa,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2010/2010_01_23_cina_russia_pwc.htm;

2) Ne parla ad esempio Valerio Lo Monaco de “La Voce del Ribelle”, url, www.ilribelle.com, sito diretto da Massimo Fini, Bond in dollari? Si, come no, articolo leggibile liberamente all'Url: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=6706

3) Sulla crescita del debito pubblico Usa durante il primo anno di presidenza di Barack Obama vedasi Attilio Folliero, 14/01/2010, Bilancio economico 2009: s'inasprisce la crisi, volano le borse!,
Url: http://www.folliero.it/02_articoli_attilio_folliero/2010/2010_01_14_bilancio2009.htm

4) Tabella elaborata su dati di fonte wikipedia, Url: http://en.wikipedia.org/wiki/Reserve_currency


Il flop della Maddalena. Dal G8 all'abbandono di Paolo Berizzi e Fabio Tonacci - La Repubblica - 28 Gennaio 2010

Soffitti crollati, cavi a vista e infiltrazioni d'acqua
300 milioni buttati, zero posti di lavoro. Vuoti due hotel a cinque stelle, nessuno li vuole uno è costato 742 mila euro a stanza

C'era una volta l'isola che doveva essere e non è più. C'è ora la Maddalena usa e getta. Prima tirata a lucido in abito da festa e poi, dopo il G8 fantasma traslocato all'Aquila, lasciata sola con il suo sogno infranto e i suoi cocci da raccogliere.

Trecentotrenta milioni investiti - presi in larga parte dal bilancio e dai contributi per la Regione Sardegna - e neanche un posto di lavoro. A casa, da tre giorni, anche i 23 guardiani maddalenini che sorvegliavano le belle e incompiute cattedrali sul mare. Dove adesso regnano l'abbandono, l'incuria e il degrado. Di chi è la colpa del flop?

LE GRANDI INCOMPIUTE
Sono le due mega-opere costruite nell'ex Arsenale e nell'ex ospedale militare: una, la grande area dove si sarebbe dovuto svolgere il vertice dei grandi del mondo - andata in gestione per 40 anni a prezzo di saldo alla Mita Resort di Emma Marcegaglia, l'unica che da questa storia ci ha davvero guadagnato e guadagnerà - ; l'altra, l'hotel cinque stelle plus, costato, solo quello, 75 milioni, 742 mila euro a stanza e però nessun imprenditore ne vuole sapere. Uno scenario desolante che Repubblica ha documentato con un video esclusivo e con una serie di immagini.

Un viaggio dentro una delle più grosse "incompiute" nella storia delle opere pubbliche (progettata, appaltata, eseguita e consegnata in poco più di un anno). E sulla quale sono aperte due indagini.

Cosa ha lasciato in eredità alla Maddalena il G8 mancato? Quanto è costato? Chi ci ha speculato trasformando quello che doveva essere un volano per la stagnante economia dell'isola - già penalizzata da mezzo secolo di monocultura militare - in un affare per pochi? Quale futuro avranno le strutture tirate su in fretta e furia che ora languono nel silenzio generale e nell'imbarazzo di molti?

DOPO LA BEFFA I DANNI
Ci sono fantasmi che producono fantasmi. E i fantasmi costano. Anche solo per tenerli in vita. Era il 23 aprile 2009 quando Berlusconi annunciò lo spostamento del G8 nell'Abruzzo colpito dal terremoto. Nove mesi e 327 milioni dopo (tanto sono costati, stando ai dati della Protezione civile, i lavori alla Maddalena) la scena sull'isola "scippata" - come ripetono i 12mila abitanti e il sindaco Pd Angelo Comiti - è desolante.

Il problema non sono i cantieri ancora aperti (sul lato est dell'ex Arsenale) e le ruspe che lavorano per ampliare un'area che Berlusconi aveva candidato ad ospitare una decina di incontri internazionali (finora ci hanno fatto solo il vertice italo-spagnolo).

E nemmeno la nuova corsa contro il tempo per la Louis Vuitton Cup, a maggio, che tutti aspettano come un cerotto per curare le ferite. Il problema è che le strutture che dovevano accogliere Obama e gli altri sette capi di Stato versano, oggi, in condizioni penose. "Dopo il danno la beffa, e ora i danni", chiosa l'assessore provinciale all'ambiente Pierfranco Zanchetta.

TUTTO IN MALORA
Entri nella hall dell'albergo 2, quello che avrebbe ospitato Barack Obama e la delegazione americana. Cammini sul pavimento di marmo bianco intarsiato che i potenti della terra non hanno mai calpestato. Piove dentro. L'acqua scende dal tetto dove hanno costruito la piscina.

Il vento e le infiltrazioni hanno provocato danni: parti di soffitti crollati, tubi e cavi a vista perché i pannelli che li contenevano sono venuti giù. Dei tappeti disegnati da Antonio Marras - lo stilista sardo che ha curato tutti gli interni delle aree ospitalità dell'ex Arsenale militare - tra un po' si avrà traccia solo sull'ambizioso catalogo delle opere della struttura della missione G8 (affidata all'ingegner Mauro della Giovampaola).

Lo stesso vale per i quadri fotografici "navali" di Luca Cittadini. Pareti scrostate per l'umidità, calcinacci, attrezzi lasciati lì in attesa che qualcuno li riprenda in mano: così appare oggi la hall dell'hotel con vista sulla darsena che può ospitare 700 barche. "Lo stato di queste strutture è una delle tante vergogne e ora qualcuno dovrà risponderne" dice Pio Palazzolo, memoria storica dell'isola e già componente del Comitato paritetico per le servitù militari in Sardegna.

L'ARCHISTAR DELUSO
Accanto alla hall c'è un edificio che doveva essere un teatro. Le porte sono scardinate, così come quelle della "Casa sull'acqua" - o sala conferenze - la strabiliante scatola di vetro posata sul mare progettata dall'architetto Stefano Boeri. Il vero gioiello dell'ex Arsenale, costo, comprensivo dell'area delegati, 52 milioni e 100. "Gli edifici vanno usati, altrimenti deperiscono", ragiona Boeri.

Dice di aver lavorato - assieme a 1600 operai impiegati giorno e notte - "per garantire una doppia vita a queste strutture: per il G8 e per il dopo G8. Ma io non ci vado da un mese... Com'è la situazione adesso?". Magari quello che chiamano hotel Obama, al centro dell'Arsenale, in futuro ospiterà flussi ininterrotti di convegnisti e di ricconi che approderanno qui coi loro megayacht. Ora però ha un aspetto desolante.

Comunque lontano dall'aggettivo "affascinante" usato da Vasco De Cet, dirigente della Mita Resort. A piano terra la zona spa è completamente abbandonata: tutto, gli hammam, le saune, la grande vasca idromassaggio al centro della sala, parquet e vista mozzafiato sul mare, i lettini per i messaggi, quelli della zona relax, i bagni, gli spogliatoi, tutto è in balia del freddo e dell'umidità.

Poi c'è la "stecca", un edificio basso e lungo e stretto, tipo striscia. Dovevano essere piccoli appartamenti. Ma i pavimenti non ci sono ancora, un colpo di maestrale ha scoperchiato una parte del tetto e chissà con l'aria che tira che fine faranno gli intarsi in finto marmo - in realtà polistirolo - che decorano gli angoli delle pareti esterne.

CATTEDRALE NEL DESERTO
A che cosa servirà questo paradiso di cemento, pietra e vetro costruito alla velocità della luce? Centocinquantamila metri quadrati e un futuro incerto: la Louis Vuitton Cup a primavera, e poi? "Io spero che diventi un polo nautico e multifunzionale, così com'era stato pensato", dice ancora Boeri, "ottimista" ma forse non fino in fondo.

Il vero problema, però, l'opera che davvero preoccupa di più, è l'ex ospedale militare. Sedicimila e 800 metri quadri trasformati in un hotel di lusso. Facciata bianca che corre lungo la strada, con il mare di fronte ma non accessibile perché nessuno ha pensato di fare un accesso all'acqua cristallina, una banchina, una spiaggia. Un'opera da 75 milioni, 101 camere costate ognuna 742 mila euro. Spettrale.

Una scatola vuota - questa sì riscaldata tutto il giorno e illuminata di notte con livide luci violette che sbattono sulla facciata. Nessuno lo vuole l'hotel. Il bando di gara, il 23 settembre 2009, è andato deserto. "A quale imprenditore conviene prendersi una struttura così, con questi costi e con tutte le pecche che presenta? Bertolaso promise che sarebbe stata fatta una nuova gara - stringe le spalle l'assessore Zanchetta - e che c'era una catena alberghiera interessata. Ma, ad oggi, tutto tace".

Intanto è cresciuta l'erba davanti alla facciata che a prima vista ricorda un po' la Casa bianca. C'è un guardiano. Potrebbe restare lì a lungo. Se e fino a quando qualcosa si muoverà. Chi ha il dovere politico di prendere in mano il "pacco" dell'hotel e levare le castagne dal fuoco? "La proprietà è ancora della Marina militare (a differenza dell'ex Arsenale già ceduto alla Regione) - informa il sindaco Comiti - Potrebbero anche decidere di riprendersela loro e farci qualcosa. A meno che a breve diventi anche questo della Regione".

CONTI ALLE STELLE
I costi. Tutto iniziò il 28 maggio 2008 e tutto finì, con la bella favola spezzata, il 31 maggio 2009. "Volevamo rilanciare quest'isola, farla decollare come una Davos mediterranea - dice l'ex presidente della Regione Renato Soru - e invece, se va bene, ci ritroveremo con un grande villaggio turistico avulso dalla città". E se invece andasse male, visto che l'aria non sembra delle più elettrizzanti? "Non ci voglio nemmeno pensare. Siamo sardi e non permetteremo che queste opere, costate uno sproposito, molte anche inutili, rimangano lì a marcire dopo che il governo ha avuto la non brillante idea di dirci che eravamo su Scherzi a parte".

Il non-G8 alla Maddalena è costato 327 milioni (il conto finale era 377 ma 50 sono stati risparmiati dopo il trasferimento all'Aquila). 209 milioni sono stati spesi per demolire, bonificare (era pieno d'amianto, 22 milioni solo per questo) e ristrutturare l'Arsenale. Dice Soru: "Il colmo è che sono costruzioni compiute e inutilizzate. Nella fretta è stato speso più del necessario, e nella fretta è stato svenduto - praticamente regalandolo alla Mita Resort - l'Arsenale. La Regione, proprietaria della struttura, è stata tagliata fuori, e oggi è totalmente immobile".

CHI CI HA GUADAGNATO
La Mita Resort, dunque. Alla società di Emma Marcegaglia è andata di lusso. La base di gara per l'assegnazione della gestione dell'Arsenale prevedeva una quota minima una tantum di 40 milioni (da versare sul conto del soggetto attuatore, responsabile per conto di Bertolaso per contratti e pagamento dei lavori) e la proposta di un canone annuale di concessione destinato alla Regione Sardegna.

Si è presentata solo la Mita Resort: 41 milioni una tantum e canone da 600 mila euro l'anno alla Regione spalmato su 40 anni (50 mila euro al mese). In tutto 68 milioni. Niente male come affitto per 30 anni più 10 (indennizzo post-trasferimento all'Aquila). Che cosa ci faranno ancora all'Arsenale non è dato sapere (a parte la Louis Vuitton). "Questa struttura a regime potrà ospitare più di 5mila persone, sarà uno snodo cruciale per la nautica da diporto", promette il manager Vasco De Cet.

DUBBI DA CHIARIRE
C'è ancora molto da capire qui alla Maddalena. Come è andata davvero l'assegnazione degli appalti? Il carabinieri del Ros, su ordine della procura di Firenze, hanno avviato un'indagine ancora aperta. Un altro problema sono i soldi stanziati per lavori che non sono stati ancora eseguiti. Sugli isolotti di Razzoli e Santa Maria, che fanno parte dell'arcipelago-parco naturale, ci sono due fari della prima metà dell'800 che dovevano essere recuperati. Novecentomila euro di spesa ma i fari sono ancora lì come prima. Una storia su cui sta indagando la Guardia di Finanza di Olbia-Tempio Pausania.

ACCAMPATI IN TENDA
Chiarissima è invece la situazione per i maddalenini che speravano, con le opere del G8, di trovare un lavoro. A fronte del maxi-investimento, oggi, non c'è nemmeno un assunto. Gli unici che avevano avuto uno stipendio (molto precario) erano i 23 guardiani della Nautilus, una subappaltata per la sorveglianza dell'Arsenale. Domenica notte sono stati liquidati con una stretta di mano da De Cet della Mita Resort.

Che faranno, adesso? Sono ancora accampati fuori dai cancelli, al freddo e con le tende sollevate dalle raffiche di vento. Dicono che non se ne andranno. Ma il piatto resterà vuoto. "Con opere da 330 milioni, in proporzione, si dovevano creare almeno 500 posti di lavoro. E invece niente". Luigi Plastina, guardiano licenziato, dorme da una settimana in tenda con la moglie, un forno da campeggio e l'acqua sotto i piedi. "Questo è il mio G8".


Una nuova strategia della tensione?
di Giorgio Bongiovanni - antimafiaduemila.com - 25 Gennaio 2010

Che significato potrebbe avere oggi un attentato contro uno dei magistrati impegnati nelle delicate indagini sulle stragi e sulla trattativa che, piaccia o non piaccia, coinvolgono il Presidente del Consiglio o quanto meno il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri?
Come dovremmo leggerlo? In quale contesto dovremmo inserirlo?

La storia, più o meno recente, ci ha insegnato che eventi drammatici di questo genere hanno più di una finalità e che sono stati determinanti per le stabilizzazioni, le destabilizzazioni e la creazione di nuovi equilibri. Vanno quindi collocati nell’andamento generale del sistema Paese e anche del ben più vasto sistema Mondo.

Se da una parte è vero che il tempo concede il giusto distacco per le valutazioni e altrettanto certo che l’esperienza dovrebbe servire a prevenire e, per quanto possibile, evitare che certi traumi si ripercuotano nuovamente sulla coscienza collettiva, seppur in gran parte dormiente.

Quindi oggi eliminare Antonio Ingroia, sulla cui incolumità ridacchiavano allegramente gli avvoltoi che occupano il Senato, o Sergio Lari, o Domenico Gozzo, o Nino Di Matteo perché no persino il testimone chiave Massimo Ciancimino, quali scenari delineerebbe?

L’Italia è in questo momento provata da una forte crisi economica, continui scioperi e proteste dimostrano che la crisi non è affatto finita e che la ripresa, se è vero che ci sarà, è ancora lontana. La disoccupazione crescente inasprisce il clima generale e il malessere diffuso è impregnato di incertezze e paura del futuro.

Lo scontro politico non è fra maggioranza e opposizione, quasi del tutto inesistente e in balia dei plurimi ricatti trasversali, ma tra un potere arrogante e arroccato su se stesso e una società civile indignata che fatica a trovare una convincente rappresentanza in parlamento, una parte di magistratura assiepata a difesa della Costituzione e qualche isolata voce del giornalismo e degli intellettuali.

Il conflitto, poi, non riguarda le necessità del Paese o le riforme, ma la lotta per garantire i privilegi di casta, soprattutto del Presidente del Consiglio, e il tentativo di cittadini consapevoli che vedono sfilarsi di mano i propri diritti di dignità ed uguaglianza.

Gli episodi gravissimi di intolleranza e razzismo in terra di ‘ndrangheta legati allo sfruttamento barbaro e primordiale di poveri disgraziati, ridotti in miseria dalla grande chimera dello sviluppo senza limiti della minoranza opulenta del Pianeta, chiarifica lo stato di impoverimento umano e culturale verso cui sta precipitando anche il più semplice sentimento di compassione e solidarietà. Il primo mondo, ricco ed egoista, chiude le porte all’enorme massa di poveri e poverissimi che ci svergognano tutti, come razza, agli occhi della storia.

Pagano prima e più di tutti le conseguenze del lento e inesorabile crollare del grande impero degli Stati Uniti che affogato nei debiti si dimena tra l’immagine di un presidente a misura dei sogni dei popoli e la realtà dello spietato mercanteggiare degli interessi di lobby, famiglie e potentati che sulla cartina del mondo tirano i dadi.

Fantomatica guerra al terrore, dispiegamento di forze armate nel centro nevralgico della lotta per le risorse e per la supremazia e il terreno che scivola sotto i piedi di fronte all’incedere inquietante di Russia e Cina che, molto più abbienti, non intendono stare a guardare.

All’America in ginocchio la politica di Berlusconi non piace. Soprattutto per quella sua amicizia così stretta con Putin, il nuovo vero potente che avanza. E nemmeno l’Europa, Inghilterra in testa, si diverte più alle gag del ducetto megalomane che fa delle regole democratiche carta straccia. Pur tuttavia il nostro paese è sempre un avamposto strategico soprattutto nell’evenienza di scenari di guerra e avere un referente poco fedele e/o poco credibile in patria e fuori non è certo un vantaggio.

I famigerati poteri forti potrebbero già ravvisare l’esigenza di un cambio della guardia, la necessità di una “terza repubblica” e cosa di meglio di un lavoretto sporco affidato all’alleata di antica memoria, Cosa Nostra?

La mafia oggi sbaragliata sul cui nuovo equilibrio incombe la cugina americana, cosa avrebbe in fondo da perdere? Tradita e abbandonata nella sua componente conosciuta ed esposta potrebbe rendere servigio, come consuetudine, e trattare il suo nuovo volto, per ora sconosciuto e insospettabile, con una nuova classe politica.

Assassinare chi su di lui indaga o testimonia equivarrebbe a decretare per Berlusconi e i suoi la fine, così come l’omicidio Lima e la morte di Falcone costarono ad Andreotti la Presidenza della Repubblica.

Matteo Messina Denaro sembra ancora essere in grado di contrattare ma se non lo fosse la radicata borghesia mafiosa che gestisce le immense ricchezze accumulate negli anni lo è, eccome, pronta ad affidare lo scettro a qualche picciotto scaltro guidato nell’ombra dagli irriducibili ritornati in libertà, a pena scontata.

Riina e Provenzano? Forse non darebbero il loro consenso, ma indubbiamente, vecchi e ammalati, nell’isolamento delle loro celle, si godrebbero il tramonto.

Noi, pur detestando la politica del presidente del consiglio Berlusconi, respingiamo con forza l’idea che possa essere destituito dalla sua carica a suon di bombe; vorremmo che venisse sconfitto democraticamente, con legittime elezioni. Prego quindi, voi che mi leggete, se vorrete criticare anche aspramente queste mie modeste analisi, di farlo nel merito con logica uguale e contraria a quella con cui le ho esposte.


La portaerei Cavour verso Haiti: una decisione incomprensibile
da Antimafiaduemila.com - 27 Gennaio 2010

Appello della Tavola della pace e della Rete Italiana Disarmo

Il Ministro della Difesa e il Parlamento chiariscano subito obiettivi, modalità, tempi e costi della missione.

Mentre ad Haiti si continua a morire per la mancanza di medici ed equipaggiamenti e la macchina mondiale dei soccorsi è in grave ritardo, il governo italiano ha deciso di inviare oltreoceano la nave portaerei Cavour salpata martedì 19 gennaio dal molo di Fincantieri al Muggiano (La Spezia).

Una decisione incomprensibile che suscita numerosi interrogativi. Era proprio necessario mandare una nostra portaerei così lontano? Oppure dovevamo intervenire in altro modo, con altri mezzi?

Inviare ad Haiti la nostra più grande nave militare, la più imponente macchina di guerra galleggiante di cui disponiamo, non è una cosa da poco eppure l’intera operazione è circondata da scarsissime informazioni.

Trattandosi di un’operazione di notevole rilevanza nazionale e internazionale, ci saremmo aspettati una precisa informazione sia sull’effettiva necessità dell’impiego della portaerei e sulle modalità e tempistica della missione: affermare che lo scopo della missione è quello di “fornire una base d’appoggio per le squadre di operatori italiani e di altri Paesi partner presenti” ci appare infatti alquanto riduttivo.

Gli interrogativi sono tanti.

1. Sulla effettiva necessità della portaerei Cavour e l’approvazione della sua missione. Chiediamo, nello specifico, di sapere da quale organismo sia pervenuta all’Italia la richiesta di inviare una portaerei. E, in mancanza di tale richiesta specifica, perchè e da chi sia stato deciso l’impiego di una portaerei militare invece che di altri supporti militari o della Protezione Civile atti allo scopo. Finora il Ministro della Difesa, La Russa ha parlato solo di “operazione congiunta con il Ministero della Difesa brasiliano” senza specificare la necessità e l’origine di tale richiesta.

2. Sulle modalità d’impiego e la tempistica dell’operazione. Le dichiarazioni alla stampa del Ministro della Difesa in merito sono state alquanto vaghe: il Ministro La Russa ha parlato di “missione di aiuto a tutta la popolazione, ma in particolare i bambini orfani che sono tanti e che vanno supportati. Mi piacerebbe riempire la nave di questi bambini e - nel rispetto del diritto internazionale - portarli in Italia magari per dei progetti di affidamento” (Adnkronos 16 gennaio). Nessuna dichiarazione in merito alle effettive modalità operative e alla tempistica della missione.

3. Sui costi e il loro sostegno. Su questi punti il Ministro La Russa, interrogato dalla stampa, è stato più eloquente ma non esaustivo. E soprattutto ha svolto alcune dichiarazioni alquanto singolari sulle quali chiediamo siano necessari specifici chiarimenti.

Ci riferiamo - nello specifico - alle dichiarazioni rilasciate dal Ministro al Muggiano (La Spezia) dopo il saluto al contingente militare nelle quali ha dichiarato che “la missione ad Haiti si può svolgere grazie anche alla collaborazione di aziende che hanno contribuito a sostenere i costi alleviando anzi quasi annullando la necessità di risorse aggiuntive” (dichiarazione video ripresa da CDS disponibile sul sito www.cittadellaspezia.com/videogallery/Ministro-La-Russa-ai-microfoni-2-190.aspx).

Nel merito - ha aggiunto il Ministro - “Le aziende saranno in grado di coprire il 90% dei costi dell’operazione e si tratta di società come Finmeccanica, Fincantieri, Eni, molte di queste che lavorano con il militare e che hanno realizzato questa nave” (Agi, 19 gennaio). Si tratta di costi “di 200 mila euro al giorno quando l’unità è in navigazione, molto meno quando è ferma in porto”.

Il Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo La Rosa, ha aggiunto che “i costi dipenderanno dai tempi che via via verranno presi. Il 40% delle spese, comunque, riguarda il carburante”.

La rilevanza dell’argomento non è secondaria sia per la spesa sia, soprattutto, per la modalità: la copertura dei costi della missione da parte delle aziende.

Nello specifico chiediamo:
quali e quante sono le aziende che hanno ufficialmente formalizzato la disponibilità alla copertura dei costi della missione? Al riguardo rileviamo ad oggi non vi è comunicazione nel merito né alla stampa né sui siti delle aziende menzionate dal Ministro (Finmeccanica, Fincantieri, Eni).

A cosa si riferisce il Ministro quando parla di “coprire i costi”? Solo alle spese per la navigazione della portaerei? Per il materiale inviato? Per il contingente inviato? E le altre spese in che modo saranno coperte e da chi?

In merito a tutto questo chiediamo che venga prevista un dettagliato resoconto sia al Parlamento che alla cittadinanza.

Perchè e da chi è stata approvata la modalità di copertura dei costi da parte delle aziende? E’ stata fatta una qualche forma di bando pubblico o sarà fatto? E quali aziende potranno aderirvi? Solo quelle “che lavorano con il militare e che hanno realizzato la nave”?

La sponsorizzazione privata di una “missione umanitaria” promossa dal Ministero della Difesa che coinvolge mezzi e personale militare è una assoluta novità che necessita la massima trasparenza.

E’ possibile gestire una simile operazione senza un’adeguata comunicazione al Parlamento e alla cittadinanza?

Chiediamo al Ministro della Difesa e al Parlamento di fare immediata chiarezza sull’intera vicenda. Ad Haiti si continua a morire. E noi dobbiamo essere rapidi, concreti ed efficaci. Non possiamo immaginare che il governo italiano agisca in questa tragedia con altri fini.

Francesco Vignarca, Rete Italiana per il Disarmo Flavio Lotti, Coordinatore nazionale della Tavola della pace