martedì 8 febbraio 2011

Decrescere decrescere decrescere

Ritorniamo ancora sul tema della decrescita: l'unica vera risposta seria alla crisi sistemica del capitalismo.


La decrescita non è impoverimento

di Marino Badiale e Massimo Bontempelli - Alfabeta2 - 7 Febbraio 2011

L’idea (o slogan) della decrescita è una componente essenziale di un pensiero critico capace di confrontarsi con la situazione del mondo contemporaneo, e di interagire con una possibile nuova pratica politica adeguata ai gravissimi problemi attuali.

Il punto di partenza del pensiero della decrescita è la ritrovata consapevolezza, annullata nel senso comune da qualche secolo di capitalismo, che i concetti di bene economico e di merce non sono identici: beni (intesi anche come servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano determinati bisogni e necessità, merci sono, tra quei beni, quelli inseriti in un mercato monetario con un prezzo di vendita, e acquisibili, quindi, soltanto pagando quel prezzo. In termini logici, sono due concetti interconnessi, ma non coestensivi.

La distinzione chiaramente riecheggia quella, introdotta dagli economisti classici e ripresa da Marx, fra valore d’uso e valore di scambio. Quando si parla di crescita si intende la crescita della sfera della circolazione di merci, quindi della sfera di compravendita di beni e servizi dotati di un prezzo. Quando si parla di decrescita si intende la diminuzione del raggio di questa sfera.

La decrescita è necessaria per risparmiare all’umanità la gravissima crisi di civiltà alla quale ci sta portando l’attuale organizzazione economica e sociale, che ha nella crescita il dogma che non può essere messo in discussione.

C’è ormai una presa di coscienza sempre più diffusa del fatto che non ci può essere una crescita illimitata in un pianeta le cui risorse sono limitate, e che sono ormai stati raggiunti (e superati) i «limiti della crescita».

Ma oltre a questo, è necessario acquisire anche un altro livello di consapevolezza: la crescita economica degli ultimi trent’anni è stata ottenuta con la distruzione delle conquiste dello Stato sociale e con una tendenziale riduzione della logica di funzionamento della totalità sociale alla logica del profitto e del mercato.

In questo modo, lo sviluppo capitalistico non distrugge solo la natura, distrugge anche ogni forma di coesione sociale e lo stesso equilibrio mentale degli individui.

La decrescita, l’opposizione a questo sviluppo cancerogeno, è dunque un passaggio necessario per salvare la civiltà umana. Essa non deve però essere considerata una dura e sgradevole necessità. La decrescita non è impoverimento: essa è definita, come abbiamo ricordato sopra, nei termini della diminuzione delle merci e non necessariamente dei beni.

La decrescita non comporta, in linea di principio, la diminuzione di beni e di servizi fruiti dalla popolazione.

Comporta piuttosto un ripensamento e una riorganizzazione della produzione e del consumo, incentivando, per fare qualche esempio, i beni ottenuti con l’autoproduzione o con scambi non mercantili, le merci ottenute con produzioni locali, le merci programmate per durare a lungo e per essere facilmente riciclate alla fine del loro ciclo d’uso.

Questo comporta ovviamente un cambiamento profondo degli stili di vita delle popolazioni, ma non un loro impoverimento.

Per esempio, comporta un drastico ridimensionamento della dimensione della moda e della pubblicità che ci fanno considerare desueti oggetti ancora perfettamente funzionali, ma anche la diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro (inteso come lavoro salariato) per rendere possibile l’autoproduzione di una parte dei beni e la cura delle relazioni umane e dei rapporti di comunità, al cui interno possono avvenire scambi non mercantili di beni e servizi.

Per approfondire questo punto, il fatto cioè che la decrescita non è l’impoverimento, occorre riflettere sulla nozione di povertà. L’errore che viene commesso comunemente, a tutti i livelli, è di definire la povertà nei termini quantitativi di un livello di reddito monetario.

Un qualsiasi articolo giornalistico sulla povertà nel mondo conterrà sempre il richiamo al fatto che «al mondo ci sono x milioni di persone che vivono con meno di due dollari al giorno», dove appunto si intende che «povertà» sia definita quantitativamente dall’avere un reddito inferiore ai due dollari al giorno.

Si tratta, come dicevamo sopra, di un errore: la povertà va definita in termini qualitativi, sociali e storici, e non in termini quantitativi. Due persone ugualmente povere secondo la definizione quantitativa, cioè allo stesso (basso) livello di reddito monetario, possono vivere tale situazione in maniera completamente diversa a seconda del contesto sociale.

Per fare un esempio, ci possono essere, come in certe epoche del Medioevo, situazioni nelle quali il povero è rispettato, e soprattutto la povertà è considerata una delle possibili condizioni umane, non l’espressione di un fallimento personale come adesso.

Per cui il povero, economicamente aiutato da comportamenti caritativi non episodici e non umilianti, non è povero nel nostro senso della parola.

Ma per venire a considerazioni più vicine al tema della decrescita, pensiamo alla situazione di un contadino inglese di bassa condizione sociale nella fase in cui ha la possibilità di usufruire di una serie di beni comuni (boschi, pascoli), e confrontiamola con la fase successiva nella quale i beni comuni sono stati appropriati dai grandi proprietari terrieri (le famose enclosures sulle quali ha tanto insistito Marx).

È chiaro che, nelle due situazioni, lo stesso reddito monetario si coniuga a una situazione materiale ben diversa, perché nel primo caso il contadino ha la possibilità di integrare uno scarso reddito monetario con beni e servizi ai quali ha accesso senza passare per lo scambio monetario, mentre nel secondo caso questa possibilità non c’è più.

Per fare infine un ultimo esempio, pensiamo alla condizione in cui si trovavano un tempo i domestici che vivevano nella stessa casa dei padroni: essi avevo diritto a una casa, al cibo, spesso agli abiti, e a uno scarso reddito monetario.

Un tale scarso reddito, assieme alla condizione di servitore, implicava certamente l’essere in fondo alla gerarchia sociale, ma non una condizione di miseria, come lo sarebbe invece stato se lo stesso reddito monetario, o anche uno leggermente superiore, avesse dovuto essere utilizzato per l’acquisto del cibo e il pagamento di un affitto [1].

Possiamo allora adesso capire più facilmente l’errore del discorso comune sulla povertà, che la identifica con un reddito inferiore ai due dollari al giorno. Il punto è che due dollari al giorno possono indicare una situazione in cui è possibile vivere, oppure possono indicare la miseria più disperata, a seconda delle condizioni sociali.

Se le persone vivono all’interno di una economia di sussistenza, nella quale cibo e altri beni sono prodotti e scambiati al di fuori del meccanismo del mercato, la vita con meno di due dollari al giorno può essere possibile e può perfino essere ricca, non dal punto di vista materiale ma dal punto di vista delle relazioni umane.

Ma se le persone vivono con meno di due dollari al giorno in una situazione in cui l’accesso ai beni fondamentali come cibo e acqua è mediato dal denaro, allora davvero si trovano in una situazione di disperazione.

Il punto è che ciò che comunemente si chiama «sviluppo dei paesi poveri» consiste essenzialmente nel passaggio da economie non monetarie di sussistenza a economie monetarie: per quanto abbiamo appena detto, è allora assai probabile che l’effetto di questo sviluppo sia la creazione di povertà autentica, disperata, invivibile, al posto di una situazione in cui le persone e le comunità potevano sopravvivere (certamente con meno agi rispetto a quelli ai quali noi occidentali siamo abituati)[2].

Queste osservazioni rappresentano fra l’altro la risposta a una tesi che ricorre frequentemente, nelle discussioni sulla decrescita, la tesi cioè secondo la quale la decrescita potrebbe essere una buona idea per i paesi sviluppati ma è improponibile nei paesi poveri.

La risposta è dunque che la crescita è distruttiva sia nei paesi sviluppati che in quelli sottosviluppati, e la decrescita è una strategia di salvezza per l’intera umanità[3].

Un altro aspetto di cui tenere presente, quando si parla di povertà, sta nel fatto che la povertà ha sempre anche un aspetto comparativo: si è più o meno poveri in riferimento allo status medio della società nella quale si vive e alle merci che essa considera necessario possedere.

Spingendo all’acquisto di sempre nuovi oggetti, l’attuale sistema economico crea nuove povertà, perché non tutti sono in grado di acquistarli.

Oggi molte persone che definiremmo povere spendono parte del loro scarso reddito per acquisti come quello del telefono cellulare: bisogna averlo perché tutti ce l’hanno, lo usano e danno per scontato che tutti debbano essere attraverso di esso rintracciabili, quindi senza di esso ci si sente più poveri.

La società basata sulla crescita genera quindi povertà, da un lato perché genera bisogni cui non tutti possono accedere, dall’altro perché è organizzata in modo da rendere necessari certi acquisti.

Questo è ciò che capita se per esempio scompaiono i piccoli negozi e sono disponibili solo supermercati lontani da casa, rendendo così necessaria l’automobile, oppure se a poco a poco si trasferiscono su internet gran parte della transazioni della vita quotidiana, rendendo necessario l’acquisto del computer e il suo continuo aggiornamento.

L’identificazione di decrescita e impoverimento deriva quindi da un’idea sbagliata di povertà, un’idea nella quale si sono fatti scomparire tutti gli aspetti storicamente e socialmente determinati della povertà stessa.

Allo stesso modo, occorre distinguere fra decrescita e recessione economica. La recessione è la diminuzione del Pil in un quadro immutato di mercificazione dell’economia e, più in generale, di configurazione sociale.

Recessione significa allora che l’individuo ha sempre gli stessi bisogni di prima (ha bisogno dell’automobile, dell’asilo a pagamento per i figli, di cambiare continuamente il vestiario per seguire la moda e così via), ma non ha più il reddito monetario per soddisfare questi bisogni, quindi è più povero.

La decrescita, al contrario, è un mutamento qualitativo, non solo quantitativo. Decrescita significa che il Pil diminuisce per due ragioni. In primo luogo certi beni che prima venivano prodotti come merci vengono prodotti come beni non mercificati, oppure restano merci ma includono spese minori per il trasporto e la pubblicità (che andrebbe abolita).

In secondo luogo cambia la struttura dei bisogni: se ci sono presidi sanitari sparsi nel territorio che forniscono prestazioni gratuite di buon livello, non si sente il bisogno dell’assistenza sanitaria privata, e chi non ha i soldi per questa non si sente povero.

Se un quartiere viene attrezzato per avere una vita sociale autosufficiente, non si genera il bisogno di andare a cercare una discoteca a cento chilometri di distanza, e chi non ha la possibilità di farlo non si sente povero.

La scelta della decrescita è in sostanza la scelta di una vita sobria, nella quale una volta raggiunto il soddisfacimento di una serie di bisogni fondamentali non si cerca, come succede oggi, il consumo compulsivo e distruttivo di sempre nuovi oggetti, ma si ricerca la vera ricchezza che oggi ci manca: il tempo per costruire relazioni umane ricche e rapporti di comunità significativi.

La differenza fra decrescita e recessione si comprende anche dall’osservazione che la recessione è un automatismo dell’economia di mercato: interviene necessariamente, date certe condizioni iniziali. Al contrario la decrescita è un progetto che deve essere attivamente perseguito, e sicuramente non si instaurerà in modo automatico.

Se si è compreso tutto questo, è allora facile capire come la decrescita rappresenti un progetto rivoluzionario, l’unico autentico progetto rivoluzionario oggi disponibile.

Infatti, l’organizzazione economica capitalistica spinge alla mercificazione di ogni aspetto della realtà sociale e di quella naturale: si tratta di un meccanismo necessario alla riproduzione allargata della creazione di plusvalore.

Chi vuole la decrescita vuole bloccare e invertire questa tendenza, e quindi ha una posizione anticapitalistica, anche se la coscienza di questo non sembra essere pienamente chiara in coloro che la sostengono e neppure nei critici anticapitalisti della decrescita stessa.

La confusione fra decrescita e povertà, o fra decrescita e recessione, è in ultima analisi un prodotto dell’attuale egemonia del capitalismo. Si tratta del fatto che all’interno della società capitalistica appare del tutto inconcepibile una società che produca e consumi secondo una logica non mercantile.

La decrescita appare inconcepibile, oppure concepibile solo come una sventura, perché il nostro immaginario è dominato da un’idea di povertà e ricchezza, e in generale di vita e di umanità, forgiata dal capitalismo. La lotta anticapitalista deve oggi essere una lotta contro questo immaginario.


Note:


[1] A scanso di equivoci, precisiamo che non stiamo facendo propaganda alla condizione del domestico di famiglia, che era comunque una condizione di subalternità sociale e poteva accompagnarsi a freddezza o durezza nei rapporti umani. Stiamo semplicemente sottolineando come lo stesso livello quantitativo di reddito monetario sia compatibile con condizioni reali di vita molto diverse fra loro.

[2] Ovviamente la dinamica reale dello «sviluppo» nei paesi poveri può essere molto diversa a seconda delle diverse situazioni. Ci possono essere casi nei quali lo sviluppo non ha tutte le conseguenze negative che potenzialmente potrebbe avere. Non stiamo qui indagando casi determinati, stiamo facendo considerazioni generali sulla nozione di «povertà».

[3] Con queste osservazioni non intendiamo naturalmente dire che le economie di sussistenza, ancora largamente diffuse nei paesi «poveri», debbano essere conservate così come sono, ma semplicemente suggerire che un autentico progresso umano per quei paesi dovrebbe avvenire senza inseguire il modello di mercificazione universale tipico del capitalismo.


Due strade: una in salita l'altra in discesa

di Barbara Listinco - Megachip - 8 Febbraio 2011

Due ricerche prodotte recentemente da McKinsey e da Standard Chartered annunciano come sicuro e imminente un ciclo formidabile di crescita economica. I protagonisti di questo balzo in avanti saranno quei paesi che chiamavamo fino a dieci anni fa “sottosviluppati”, come Cina, India, ma anche America Latina e persino Africa.

Questa previsione, che sicuramente allieta i cultori dello sviluppo infinito e li convince della bontà dei loro presagi, suscita comprensibili preoccupazioni, soprattutto fra gli ecologisti.

Anche Vladimiro Giacchè su «Il Fatto Quotidiano» non perde l’occasione per manifestare apertamente i suoi dubbi, tuttavia lo fa in modo assai diverso da come lo farebbe chi nei conti del gioco economico inserirebbe anche i costi ambientali. Due estratti del suo articolo bastano per mettere a fuoco il vizio di fondo del suo ragionamento.

Eccoli:

«… i paesi emergenti continueranno a essere grandi esportatori, ma saranno sempre più importanti come consumatori; e non soltanto di materie prime, ma anche di prodotti finiti. Non si tratta di un futuro lontano: nel 2010 le importazioni della Cina sono cresciute di 400 miliardi di dollari, attestandosi a 1.400 miliardi. Insomma: la crescita di quello che una volta consideravamo il Terzo mondo rappresenta una gigantesca opportunità […] In questo nuovo scenario il successo dei Paesi più sviluppati dipenderà più che mai dalla ricerca, dalla tecnologia e dalla capacità di innovare».

È facile capire dove Giacchè voglia andare a parare. La ricetta per rimanere competitivi e cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione è quella di sollecitare il capitale ad investire seriamente nell’innovazione di prodotto e di processo, al fine di sommergere di beni ad alto tasso tecnologico (e di lusso, c’è da scommetterci) i nuovi mercati emergenti.

La prospettiva del noto economista – che pure è un eminente studioso che conosce Marx in dettaglio - rimane tutta nel solco “riformista e progressista”, essendo mirata a contestare il modo di fare impresa dei vari Marchionne, manager insensibili e poco lungimiranti, che non capiscono l’importanza di separare la produttività del lavoro (sacrosanta) dalle ore effettivamente lavorate.

Insomma: invece di massacrare la salute e la dignità dei lavoratori, il capitale investa per creare valore aggiunto sul versante della ricerca e dell’innovazione, magari sognando una sterminata classe media cinese che riproduca il nostro modello di mobilità urbana alla guida di una Cinquecento appena più moderna.

Questa logica ci avvisa che stiamo entrando nel deserto di una sinistra che ancora crede alla possibilità di conciliare “qualità del lavoro” e una certa “modernizzazione” (una di quelle parole che fregano). Su questa illusione hanno scritto pagine imprescindibili Marino Badiale e Massimo Bontempelli.

Ci chiediamo infatti come sia possibile pensare a un Occidente (intendendo con questo termine impreciso la Vecchia Europa e il Nord America) che continui a crescere, seppur indirettamente, approfittando dello sviluppo vertiginoso dei nuovi protagonisti mondiali.

L’inquinamento, l’erosione del suolo, il surriscaldamento globale e altri segnali di turbolenza che annunciano la transizione sono già numerosi, a volerli vedere. Per questo va affermato che alla crescita inarrestabile dei paesi emergenti – che non può ricalcare il nostro modello - deve affiancarsi una decrescita guidata del miliardo d’oro: una decrescita che, una volta governata in modo pacifico e democratico, ci restituirà il diritto di dialogare in modo franco e aperto con chi oggi si affaccia sul balcone dello sviluppo senza sapere che l’edificio sta per crollare.

Ciò è fondamentale poiché, piaccia o meno agli economisti progressisti, non si dà alcuna possibilità di riforma del capitalismo globale, nato per distruggere ogni principio di conservazione in nome dell’innovazione continua e della mercificazione di ogni relazione e creazione umana, una dinamica in sé mentecatta.

Per allontanarsi dal baratro autodistruttivo del capitalismo terminale occorrerà qualche spinta teorica più coraggiosa che immaginarci concessionari di chincaglierie tecnologiche nei paesi BRIC.


Governare la transizione
di Simone Olla - Centro Studi Opìfice - 7 Febbraio 2011

A Roma, il 21 novembre 2010, è stato firmato un documento che getta le basi di un nuovo soggetto politico, Uniti e diversi.

All'esperienza torinese della Rete provinciale dei Movimenti e delle Liste di cittadinanza, legata – forse come reazione, nella sua accezione più vasta e (pro)positiva – ad un luogo e ad un tempo condiviso, si uniscono altri soggetti di pensiero e azione – Movimento per la Decrescita Felice (Maurizio Pallante), Movimento Alternativa (Giulietto Chiesa), Per il Bene Comune (Monia Benini) e Movimento Zero (Massimo Fini) – la cui geografia d'azione – come si legge nel documento politico – è sovraregionale.

Questo indirizzo sovraregionale, non deve (?) annichilire le aspirazioni di sovranità popolare, le richiesta di sussidiarietà e la necessità quanto mai urgente di una dimensione locale da parte di quelle comunità che non si riconoscono più in una dimensione sovraregionale e che vedono nello Stato moderno un limite o un ostacolo. Si può quindi avere una approccio glocale per governare la transizione?

Al punto 8 del documento si legge: «Il nuovo soggetto politico, di cui c’è bisogno per sostenere a livello istituzionale proposte coerenti con un paradigma culturale che sostituisca il parametro quantitativo della crescita con parametri qualitativi finalizzati a superare la crisi economica creando occupazione in attività produttive in grado di attenuare la crisi ambientale, non può che collocarsi in uno spazio definito da coordinate diverse da quelle che definiscono lo spazio in cui da più di due secoli si svolge il confronto tra le opzioni politiche di destra e di sinistra.»

E ancora, al punto 9 del documento, si legge: «Il nuovo paradigma, i nuovi stili di vita, di produzione, di utilizzo-riutilizzo, di consumo devono diventare patrimonio di immense masse popolari. Ciò è non solo necessario perché la transizione verso una nuova società avvenga in modo pacifico, ma anche perché si realizzi un più alto livello di partecipazione e di democrazia. Noi viviamo però, da ormai due generazioni, in una società dove la democrazia è stata trasformata in un combattimento di tecnologie per manipolare la coscienza collettiva.»

Perché un nuovo paradigma culturale diventi patrimonio di immense masse popolari (sic!), ci sono – evidentemente – diverse strade; ma, prima di ipotizzare questo percorso metapolitico di azione sulle coscienze, risulta doveroso chiedersi quali e dove siano le immense masse popolari a cui ci si rivolge, e soprattutto con quali strumenti.

Si crede davvero che sostituendo i messaggi dei media tradizionali si possa modificare un paradigma culturale? Ammesso e non concesso che questo possa accadere, rimane la sudditanza dal mezzo e la sospensione del dialogo democratico. La democrazia deve salire dal basso e non dev'essere calata dall'alto.

Una rivoluzione nelle e delle coscienze è auspicabile, purché questo cortocircuito abbia un luogo in cui manifestarsi, un territorio nel quale la rete sia dialogo orizzontale e partecipato, una strada dove l'unico medium accettato sia l'uomo e la sua comunità di riferimento.

E da qui, da questo spazio e da questo tempo in comunione, il cortocircuito democratico deve salire verso l'alto attraverso successive cessioni di sovranità: la sovranità si cede dal basso, non può in nessun modo essere ceduta dall'alto.

La sussidiarietà di Althusius prevede che le decisioni politiche siano prese da coloro che ne subiranno le conseguenze più dirette: il potere che sale dal basso fino alla costruzione di diversi poteri politici sovraordinati rimane, ancora, un esempio fra i più lucidi.

Nel documento politico di Uniti e diversi, leggiamo ancora: «Un nuovo soggetto politico, quale noi intendiamo costruire, dovrà perciò porsi il compito cruciale di invertire il funzionamento della macchina dell'inganno e del frastuono, ovvero del rumore di fondo che obnubila e distrae. Tutto ciò per riportare l'uomo al centro di se stesso e della società, al posto di economia, tecnologia, virtuale, e per recuperare il suo bene più prezioso: il tempo. […]

Ecco, dunque, che occorre portare la battaglia sul campo della informazione comunicazione: dalla sua democratizzazione, al potenziamento dell'azione pubblica, come effetto della constatazione che le televisioni (e in generale i media di ogni tipo) hanno assunto un ruolo centrale e dominante nella formazione del tenore culturale e intellettuale di una intera nazione.

Tra le misure indispensabili per accompagnare una transizione consapevole occorrerà ridurre drasticamente la massa dei messaggi pubblicitari.»

Internet, nonostante tutti i limiti del mezzo, è l'unico strumento in grado (ancora) di riportarci dentro uno spazio e un tempo condiviso, di riportarci ad un luogo, al confronto, al dialogo qui e ora, liberato dalla stato quotidiano di dipendenza dal virtuale: torniamo all'odore della parola, al suono del significante.

È la geografia che dà confine all'oralità dell'uomo, al senso narrato, alla stratificazione di quel segno orale, al suo deposito dinamico che puntualmente, nello spazio e nel tempo, determina l'identico, l'altro da sé riconosciuto, le identità.

Il confine geografico è lì apposta per essere oltrepassato; il confine della parola è l'immaginazione.



Cosa possiamo imparare dalla Transilvania (veramente!)
di Jay Walljasper* - www.energybulletin.net - 24 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Claudia Filippi

La parola “comune” risale all’epoca medioevale e originariamente stava ad indicare un territorio condiviso da una comunità, secondo regole ben definite. Ai contadini era spesso concesso il diritto di cacciare e pescare in quelle terre, raccogliere erbe medicinali e andare in cerca di bacche o paglia per i propri tetti.

Quando, successivamente, questi privilegi furono revocati (dando la terra, che fino a quel momento era della comunità, ad uso esclusivo dei proprietari o dei nobili, in un processo chiamato “enclosure”) molti contadini cominciarono ad avere serie difficoltà a provvedere a se stessi. Alcuni furono costretti ad abbandonare le campagne e ad affrontare lunghe ore di duro lavoro nelle insalubri fabbriche che cominciavano a comparire in giro per il continente.

La tradizione di condivisione della proprietà esiste ancora nelle culture indigene e contadine del mondo in via di sviluppo, ma è sparito in tutto il resto d’ Europa ad eccezione di un angolo della Transilvania, dove alcune usanze tipiche dei comuni ancora resistono.

“E' l'unico posto in Europa dove ancora si può trovare la vita che esisteva nel XIII secolo," fa notare Krusche. “Sono le radici dell’ideale moderno di uno stile di vita biologico" - agricoltura e allevamento sostenibili, cibo locale, metodi di costruzione naturali ed una comunità molto compatta.

Con i loro appunti, le foto e i loro stessi vivi ricordi, gli studenti raccontano di uno stile di vita che è miracolosamente sopravvissuto all’avvento dei tempi moderni. Gli abitanti dei villaggi abitano splendide case antiche, dipinte di azzurro chiaro, verde e ocra - disseminate lungo tortuose strade di ciottoli, bordate di alberi di pere.

Le case sono molto vicine l’una all’altra, dando la possibilità di piacevoli passeggiate tra di esse, ma allo stesso tempo ogni famiglia può godere di uno spazio non trascurabile e un giardino privato nel retro delle propria casa, limitato da un fienile dalla struttura in legno in stile tedesco.

Sul lato opposto al fienile ci sono orti, frutteti, alberi di noci e piccoli appezzamenti coltivabili. Al di là si trova l’area condivisa, sotto forma di campi e pascoli, usati in maniera cooperativa dagli abitanti per far pascolare gli animali e produrre fieno.

I campi sono ricoperti di fiori selvatici, incluse alcune varietà che sembra non crescano altrove in Europa. In fine si arriva ai boschi di querce e faggi che ricoprono i fianchi di ripide colline, dove i cittadini raccolgono collettivamente legna da ardere e materiale da costruzione.

Oggi questi villaggi sono la casa di Rumeni e Rom (zingari) e di un ristretto numero di persone di lingua tedesca, conosciute come “Sassoni”, i cui antenati furono raccolti qui nel XIII secolo dal re di Ungheria, per riceverne aiuto nel difendere quelli che erano allora i confini del paese. La maggior parte dei Sassoni, che un tempo dominavano l'area, accettarono l'offerta del governo tedesco di emigrare dopo la caduta del muro di Berlino.

Questo esempio unico, di vita tradizionale della Romania rurale è però minacciato dall’avanzare della modernizzazione, dall’abbandono di quei posti da parte dei giovani, che si spostano in cerca di migliori opportunità di realizzazione economica, e di molte delle persone di madrelingua tedesca che decidono di emigrare verso la Germania.

Gli studenti hanno documentato gli stili architettonici e le abitudini di vita, abbozzando dei progetti che possano permettere alle famiglie di rinnovare le proprie case, introducendovi comodità moderne senza alterare le pratiche di vita sostenibili. Questo è stato più di un semplice progetto accademico.

Krusche sta mettendo insieme le ricerche degli studenti in un libro di modelli, in collaborazione con la Technical University di Dresda – ad uso degli abitanti di quei luoghi, per il restauro delle proprie case, e dei funzionari della UE per la definizione dei piani turistici e di conservazione.

La professoressa crede inoltre che l'interesse manifestato dagli studenti per i villaggi, abbia convinto la popolazione locale che le proprie tradizioni non sono superate, ma rappresentano realmente un esempio del grande valore di uno stile di vita verde.

“Inizialmente queste persone mi hanno colpito per l’estrema povertà in cui vivono, ma poi siamo arrivati a capire che sono ricchi in molti altri modi", ricorda Alejandra Guttzeit, studente di architettura. “C’era una tale armonia nel loro rapporto con la terra, gli animali e tra loro stessi.”

Un’altra studentessa, Ashley Vaughan, fu colpita da come gli abitanti le offrissero vino fatto in casa, caffè e dolci mentre effettuava le misurazioni e analizzava le caratteristiche architettoniche delle loro case. Riguardo all’abbondante cibo contadino preparato in gran parte con ingredienti prodotti localmente, dice con entusiasmo “ è stato tra il cibo migliore che io abbia mai mangiato.”

A catturare l’immaginazione di quasi tutti gli studenti del gruppo di Notre Dame furono comunque le mucche. Dopo aver pascolato per tutto il giorno fuori dal villaggio nei pascoli comuni, al tramonto se ne tornavano da sole a passo tranquillo verso i rispettivi fienili, per essere munte.

Chi immaginava che le mucche potessero fare una cosa del genere? Tutto ciò sembra simboleggiare le sconosciute possibilità che la società moderna perde nel non guardare con più attenzione i cicli della natura.

Marcela K. Perett, laureata in studi medievali che si unì al gruppo per studiare le fortificazioni delle chiese sassoni, tornò a casa con una più profonda conoscenza della cultura medievale, ma anche con il senso di come la vita sarebbe difficile in quei villaggi, oggi come allora. "Fui colpita da come era primitiva. Queste sono persone che vivono al limite della sussistenza; io non vorrei mai vivere in questo modo. Ma d’altra parte, c'era una enorme bellezza della natura, un paesaggio veramente splendido. Non mi sembrava che le persone non vivessero con l’ansia di possedere molte delle cose moderne."

La Professoressa Krushche – specialista nella conservazione storica, che ha condotto studi estesi sull'architettura sacra dell'India, suo paese natale, per l'uscita prossima di un libro, e che ha passato un’ estate a Roma analizzando le rovine con uno scanner laser tridimensionale – sostiene che gli studenti hanno scorto la possibilità di un equilibrio fra antico e moderno."

Mentre era studentessa alla Technical University di Dresda, Krusche visitò per la prima volta quei villaggi prendendo parte ad un progetto sponsorizzato dal Prince’s Trust—la fondazione del Principe Carlo che finanzia il Mihai Eminescu Trust, altra fondazione locale che si occupa di reperire fondi per il mantenimento della peculiarità culturale dei villaggi.

Questa organizzazione rumena si oppose molto coraggiosamente ai piani del dittatore Nicolae Ceausescu per il livellamento “culturale” dei villaggi e in epoca recente ha contribuito a ristrutturare 300 edifici, educare 100 abitanti ad usare le conoscenze tradizionali per migliorare il proprio stile di vita e ha incoraggiato 1000 sassoni a tornare nella regione.

Il loro lavoro include iniziative di turismo eco-sostenibile come la creazione di bed & breakfasts, sentieri per passeggiate a piedi e a cavallo, gruppi di danze folcloristiche, un frutteto biologico adibito alla vendita e la trasformazione di attività artigianali come la tessitura, la produzione di ceramiche, marmellate, formaggi, miele e prodotti dell’orto, in vere e proprie attività commerciali. Sono riusciti inoltre a sventare la costruzione nell’area di un parco tematico su Dracula.

La missione degli studenti di Notre Dame si spinge oltre, con la offerta di idee su come poter accogliere centri per turisti, caffè, guesthouse, laboratori artigiani e negozi, negli edifici preesistenti, per portare i servizi necessari ai cittadini assicurando contemporaneamente il rispetto di uno stile di vita autentico.

”Forse non vogliamo vivere come queste persone,” fa notare la prof. Krusche, “ma oggi c’è un enorme interesse nella conoscenza di ciò che c’è in quei villaggi."


*Jay Walljasper- Il cui libro “All That We Share: A Field Guide to the Commons (Tutto ciò che condividiamo: guida ai comuni;ndt)”, uscirà questo inverno - è co-editore di On The Commons.org e collaboratore del National Geographic Traveler. Questo articolo è stato tratto e adattato dalla rivista Notre Dame. Il suo sito: JayWalljasper.com.