giovedì 3 febbraio 2011

News Shake

Oggi News Shake, notizie a caso ma non per caso...















L’Egitto sull’orlo del bagno di sangue

di Thierry Meyssan - www.voltairenet.org - 31 Gennaio 2011
Traduzione a cura di Alessandro Lattanzio (Aurora03.da.ru)

I media mainstream si sono appassionati delle manifestazioni in Egitto e predicono l’avvento della democrazia in stile occidentale in tutto il Medio Oriente. Thierry Meyssan contesta questa interpretazione.

Secondo lui delle forze opposte sono in movimento e la loro risultante è diretta contro l’ordine statunitense nella regione.


Per una settimana i media occidentali hanno ripreso le proteste e la repressione che avvengono nelle grandi città egiziane. Tracciano un parallelo con quelle che hanno portato alla caduta di Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, ed evocano una ondata di rivolte nel mondo arabo.

Sempre secondo loro, questo movimento potrebbe diffondersi alla Libia e alla Siria. Dovrebbe andare a vantaggio dei democratici laici, e non degli islamisti, continuano, perché l’influenza della religione è stata esagerata dall’amministrazione Bush e il “regime dei mullah” in Iran verrebbe emarginato. Così si compirà il desiderio di Barack Obama espresso all’Università del Cairo: la democrazia regnerà in Medio Oriente.

Questa analisi è sbagliata sotto tutti gli aspetti.

In primo luogo, le manifestazioni in Egitto sono iniziate da diversi mesi. I media occidentali non vi hanno prestato attenzione, perché pensavano che non avrebbero portato a nulla. Gli egiziani non sono stati contaminati dai tunisini, ma sono i tunisini che ha aperto gli occhi dell’Occidente su ciò che accade in questa regione.

In secondo luogo, i tunisini si sono ribellati contro un governo e un’amministrazione corrotti che si sono progressivamente distaccate dalla società, privando qualsiasi speranza a sempre più numerose classi sociali.

La rivolta egiziana non è contro questo modo di sfruttamento, ma contro un governo e una amministrazione che sono così impegnate a servire gli interessi stranieri, che non hanno più l’energia per soddisfare i bisogni primari della loro popolazione. Negli ultimi anni, l’Egitto ha visto molti tumulti, sia contro la collaborazione con il sionismo, sia causati dalla fame.

Questi due aspetti sono intimamente legati. I manifestanti evocano alla rinfusa gli accordi di Camp David, il blocco di Gaza, i diritti dell’Egitto sul Nilo, la partizione del Sudan, la crisi degli alloggi, la disoccupazione, l’ingiustizia e la povertà.

Inoltre, la Tunisia è stata amministrata da un regime poliziesco, mentre l’Egitto è un regime militare. Dico qui “amministrato“, non “governato” – perché in entrambi i casi si tratta di Stati post-coloniali, privati di una politica estera e di una difesa indipendenti.

Ne consegue che in Tunisia, l’esercito ha potuto interporsi tra il popolo e la polizia del dittatore, mentre in Egitto, il problema sarà risolto col fucile automatico tra militari.

In terzo luogo, se questo accade in Tunisia e in Egitto, sarà un incoraggiamento a tutti i popoli oppressi, che non sono quelli a cui pensano i media occidentali. Per i giornalisti, i cattivi sono i governi che contestano, o fanno finta di contestare, la politica occidentale. Per quanto riguarda i popoli, i tiranni sono coloro che li sfruttano e li umiliano. Pertanto, non credo che vedremo gli stessi disordini a Damasco.

Il governo di Bashar al-Assad è l’orgoglio dei Siriani: si schierò con la Resistenza e ha preservato i propri interessi nazionali senza mai cedere alla pressione. Soprattutto, ha protetto il paese dal destino serbatogli da Washington: o il caos all’irachena, o il dispotismo religioso alla saudita.

Certo, è assai contestato in diversi aspetti della sua amministrazione, ma sviluppa una classe media e un processo decisionale democratico che vanno assieme. Al contrario degli stati come la Giordania e lo Yemen sono instabili, rispetto al mondo arabo, e il contagio può raggiungere anche l’Africa nera, il Senegal, per esempio.

In quarto luogo, i media occidentali scoprono tardivamente che la minaccia islamista è uno spauracchio. Bisogna ancora ammettere che è stato attivato dagli USA di Clinton e dalla Francia di Mitterrand negli anni ‘90 in Algeria, ed è stato gonfiato dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre, e alimentato dai governi neo-conservatori europei di Blair, Merkel e Sarkozy.

Dobbiamo anche ammettere che non c’è nulla di comune tra il wahabismo saudita e la rivoluzione islamica di Ruhollah Khomeini. Qualificarli entrambi come “islamici” non è solo assurdo, ma non consente di capire cosa sta succedendo.

I Saud hanno finanziato, in accordo con gli Stati Uniti, gruppi settari musulmani che predicano un ritorno a ciò che immaginano fosse la società nel settimo secolo, al tempo del Profeta Maometto. Non hanno un maggiore impatto nel mondo arabo degli Amish negli Stati Uniti, con i loro carretti tirati da un cavallo.

La rivoluzione di Khomeini non aveva lo scopo di creare una società religiosa perfetta, ma di rovesciare il sistema di dominio mondiale. Essa afferma che l’azione politica è un modo per l’uomo di sacrificarsi e di trascendere, e quindi che si può trovare nell’Islam l’energia necessaria al cambiamento.

I popoli del Medio Oriente non vogliono sostituire le dittature poliziesche o militari che li opprimono, con dittature religiose. Non vi è alcuna minaccia islamista. Allo stesso tempo, l'ideale rivoluzionario islamico, che ha già prodotto gli Hezbollah nella comunità sciita libanese, oramai influenza Hamas nella comunità sunnita palestinese. Potrebbe anche avere un ruolo nel movimento in corso, e ne ha già uno in Egitto.

In quinto luogo, senza offesa per alcuni osservatori, anche se stiamo assistendo a un ritorno della questione sociale, questo movimento non può essere ridotto a una mera lotta di classe. Naturalmente, le classi dirigenti temono le rivoluzioni popolari, ma le cose sono più complicate.

Così, non sorprende che il re Abdullah dell’Arabia Saudita abbia telefonato ad Obama per chiedergli di fermare questo pasticcio in Egitto e di proteggere i regimi della regione, il suo per primo. Ma anche questo re Abdullah ha appena promosso un cambiamento di regime in Libano attraverso la via democratica.

Ha abbandonato il miliardario saudita-libanese Saad Hariri e ha aiutato la coalizione dell’8 Marzo, comprendente Hezbollah, a sostituirlo da primo ministro con un altro miliardario saudita-libanese, Najib Mikati. Hariri è stato eletto dai parlamentari che rappresentano il 45% dell’elettorato, mentre Mikati è stato eletto dai parlamentari che rappresentano il 70% degli elettori. Hariri era sottomesso a Washington e Parigi, Mikati annuncia una politica di sostegno alla resistenza nazionale.

La questione della lotta contro il progetto sionista è ora sovradeterminata rispetto agli interessi di classe. Inoltre, più che la distribuzione della ricchezza, i manifestanti stanno sfidando il sistema capitalistico pseudo-liberale imposto dai sionisti.

In sesto luogo, se torniamo al caso egiziano, i media occidentali si sono raccolti intorno a Mohamed ElBaradei che hanno designato leader dell’opposizione. E’ ridicolo. ElBaradei è una personalità piacevole, nota in Europa perché ha resistito per qualche tempo all’amministrazione Bush, ma senza opporvisi completamente.

Incarna la buona coscienza europea verso l’Iraq, che si era opposta alla guerra e che ha finito col sostenere l’occupazione.

Tuttavia, oggettivamente, ElBaradei è l’acqua tiepida cui è stato assegnato il Nobel per la Pace che Hans Blix non ha avuto. E’ soprattutto una personalità senza eco nel suo paese. Esiste politicamente solo perché i Fratelli musulmani ne hanno fatto il loro portavoce presso i media occidentali.

Gli Stati Uniti hanno fabbricato degli oppositori più rappresentativi, come Ayman Nour, che presto sarà fatto uscire dal cappello, anche se le sue posizioni a favore del pseudo-liberalismo economico, lo squalificano riguardo alla crisi sociale che il paese sta attraversando.

In ogni caso, in realtà, ci sono solo due organizzazioni di massa diffuse nella popolazione, che si sono a lungo opposte alla politica attuale: i Fratelli Musulmani, da un lato e la Chiesa cristiana copta dall’altra (anche se SB Chenoudda III distingue la politica sionista di Mubarak, che combatte, dal rais con il quale ha trattato).

Questo punto è sfuggito ai media occidentali, perché hanno recentemente fatto credere al pubblico che i copti fossero perseguitati dai musulmani, mentre erano per la dittatura di Mubarak.

Una digressione è utile qui: Hosni Mubarak ha designato Omar Suleiman quale vice presidente. Si tratta di un chiaro gesto volto a rendere più difficile l’eventuale sua eliminazione fisica da parte degli Stati Uniti. Mubarak è diventato presidente perché era stato nominato vice presidente e gli Stati Uniti fecero assassinare il presidente Anwar el-Sadat dal gruppo di Ayman al-Zawahri.

Ha sempre rifiutato, fino ad ora, di nominare un vice-presidente per paura di essere ucciso a sua volta. Designando il generale Suleiman, ha scelto uno dei suoi complici con cui s’è sporcato le mani col sangue di Sadat.

Ora, per prendere il potere, non solo si dovrà uccidere il presidente, ma anche il vice-presidente. Tuttavia, Omar Suleiman è il principale architetto della collaborazione con Israele, Washington e Londra pertanto lo proteggono come la pupilla dei propri occhi.

Inoltre, Suleiman può contare sulle Forze di Difesa israeliane contro la Casa Bianca. Ha già fatto giungere dei cecchini e attrezzature israeliani che sono pronti per uccidere i leader della folla.

In settimo luogo, la situazione attuale rivela le contraddizioni del governo degli Stati Uniti. Barack Obama ha teso la mano ai Musulmani, e ha chiesto democrazia durante il suo discorso all’Università del Cairo.

Tuttavia oggi, farà il possibile per impedire le elezioni democratiche in Egitto. Se può trattare con un governo legittimo in Tunisia, non può farlo in Egitto.

Delle elezioni beneficerebbero i Fratelli Musulmani e i Copti. Designerebbero un governo che aprirebbe la frontiera di Gaza e libererebbe il milione di persone che vi è incarcerato. I palestinesi, sostenuti dai loro vicini, Libano, Siria ed Egitto, poi rovescerebbero il giogo sionista.

Qui va notato che nel corso degli ultimi due anni, gli strateghi israeliani hanno considerato un piano di ritorsione. Considerando che l’Egitto è una bomba sociale, che la rivoluzione è inevitabile e imminente, hanno progettato di promuovere un colpo di stato militare in favore di un ufficiale ambizioso e incompetente.

Quest’ultimo avrebbe poi lanciato una guerra contro Israele e avrebbe fallito. Tel Aviv sarebbe stata in grado di riconquistare il suo prestigio militare e di recuperare il monte Sinai e le sue risorse naturali. Sappiamo che Washington si oppone fermamente a questo scenario, troppo difficile da padroneggiare.

In definitiva, l’impero anglosassone è rimasto ancorato ai principi ha fissato nel 1945: è favorevole alle democrazie che fanno la “scelta giusta” (quella della sottomissione), è contrario ai popoli che fanno “quella sbagliata” (l’indipendenza).

Pertanto, se ritenuto necessario, Washington e Londra sosterrebbero senza esitazioni un bagno di sangue in Egitto, a condizione che i militari che l’attuassero s’impegnino a sostenere lo status quo internazionale, sopra tutte le altre priorità.


Voci da Beirut: Hezbollah vince mentre Hariri viene tradito
di Erminia Calabrese - Peacereporter - 1 Febbraio 2011

Mentre il Libano aspetta la formazione di un nuovo governo che molto probabilmente l'ex premier Saad Hariri boicotterà , nella roccaforte sciita dei movimenti Amal e Hezbollah si assapora, tra narghile e bicchieri di the, il gusto della vittoria. Per molti qui in effetti la nomina del premier incaricato Najib Miqati, rappresenta già in se stessa una rivincita.

"Abbiamo vinto di nuovo", dice sorridendo Ahmad, "responsabile del movimento Amal a Shiyyah, municipalità della periferia sud di Beirut, la nostra è una vittoria contro la coalizione di Saad Hariri che ora è minoranza e contro il progetto statunitense che favorisce gli interessi israeliani nella regione".

"Hezbollah da tempo aveva avvertito Saad Hariri che un mancato compromesso circa il Tribunale internazionale avrebbe fatto saltare il governo ma Saad per servire gli interessi statunitensi è voluto andare avanti a tutti i costi senza pensare alla discordia che l'atto di accusa del Tribunale potrebbe seminare tra i libanesi", aggiunge Zeinab, una donna sui cinquant'anni.

Quello del Tribunale Internazionale, che dovrebbe giudicare i presunti responsabili dell'assassinio dell'ex premier Rafiq Hariri nel 2005 assieme al dossier delle armi del Partito di Dio sono i due temi che vengono fuori quotidianamente nelle conversazioni qui a Dahyye.

"Le armi della Resistenza non si toccano", ripete un responsabile del Partito di Dio, che chiede di restare anonimo, "la nostra priorità non è quella di governare ma quella di difendere il nostro Paese da un probabile attacco da parte di Israele".

Intanto nei corridoi degli uffici a Beirut del partito al Mustaqbal, capeggiato da Saad Hariri, crescono sempre di più le voci che accuserebbero alcuni amici e personalità politiche dell'ex premier e la stessa Arabia Saudita di aver tradito il figlio di Rafiq Hariri e di aver favorito, in accordo con Hezbollah, Siria e Iran la nomina di Miqati, anche lui come Hariri milionario.

"C'è stato un cambiamento di posizione dell'Arabia Saudita circa la nomina di Saad Hariri. Lo sappiamo benissimo che senza l'appoggio saudita Miqati non avrebbe mai accettato la carica propostagli da Hezbollah", dichiara un consigliere politico di Saad Hariri.

Secondo alcune indiscrezioni trapelate in questi giorni alcuni ministri del movimento 14 marzo, che fa riferimento ad Hariri, potrebbero accettare, nonostante Saad Hariri abbia più volte espresso il rifiuto di partecipare al nuovo governo, le cariche che la nuova maggioranza potrà proporgli, mettendo così in dubbio la formazione di un governo tecnico che potrebbe anche essere di unità nazionale come Hezbollah ha chiesto già nei giorni scorsi. Ancora una volta Beirut aspetta.


Quanto ci piacciono i dittatori
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 1 Febbraio 2011

È evidente l’estremo imbarazzo dell’Occidente (con ciò intendendo l’America e tutti i Paesi cosiddetti democratici che le fanno da codazzo) di fronte alle rivoluzioni popolari, laiche, emerse improvvisamente in Tunisia, in Albania, in Egitto.

Perché ci mette di fronte alla nostra contraddizione di fondo: da una parte noi siamo i grandi vessilliferi dell’ideale democratico tanto che non esitiamo a imporlo, anche a suon di “bombe blu” e all’uranio impoverito, a popoli che non ne vogliono sapere (Afghanistan), dall’altra se emergono forze, democraticamente elette, che non ci sono amiche, o che sospettiamo che non lo siano, preferiamo le dittature, anche quelle particolarmente infami e corrotte (una nostra specialità è appoggiare i regimi più corrotti del mondo, perché sono più facilmente manovrabili).

La prova si ebbe nel 1991 quando in Algeria si tennero le prime elezioni libere e democratiche di quel Paese dopo trent’anni di una dittatura militare sanguinaria. Vinse il Fis, Fronte Islamico di Salvezza, col 75% dei consensi.

Allora aiutammo i generali tagliagole algerini ad annullare quelle elezioni con la motivazione che il Fis avrebbe instaurato un regime totalitario. Cioè in nome di una dittatura ipotetica si ribadiva quella che già c’era. I dirigenti del Fis furono arrestati e decine di migliaia di militanti messi in galera.

Quando si vuole schiacciare una forza che ha il consenso di tre quarti della popolazione la conseguenza non può che essere la guerra civile, che infatti ha insanguinato l’Algeria per più di dieci anni con centinaia di migliaia di vittime che pesano in buona parte sulla nostra adamantina coscienza di occidentali.

Comunque la lezione algerina aveva questa pedagogia: le elezioni democratiche valgono solo quando le vinciamo noi.

Un discorso apparentemente diverso ma sostanzialmente analogo va fatto per la Rivoluzione khomeinista. Per decenni l’Occidente ha sostenuto lo Scià di Persia, un dittatore patinato (quanti servizi su Soraya, “la principessa triste”, e Farah Diba abbiamo dovuto sorbirci nella nostra giovinezza) quanto spietato, la cui polizia, la Savak, era la più famigerata del Medio Oriente, il che è tutto dire.

Lo Scià rappresentava una sottilissima striscia, il 2%, di borghesia occidentalizzante ricchissima che si poteva vedere in quegli anni, tutta in ghingheri a Londra e a New York, mentre il resto del Paese era alla fame.

Finché il tappo è saltato ed è arrivato Khomeini che, poiché noi ragioniamo sempre e solo con le nostre categorie, dapprima fu scambiato dalle sinistre per un bolscevico (“Baktiar = Kerenski, Khomeini = Lenin” scriveva l’Unità) e in seguito, quando fu chiaro che proponeva una via allo sviluppo del mondo islamico che non fosse né comunista né capitalista, divenne per tutti “il demonio”.

Tanto è vero che gli opponemmo un dittatore vero, e particolarmente criminale, Saddam Hussein, mentre la teocrazia non è certo la democrazia, ma non è nemmeno il potere assoluto nelle mani di un solo uomo.

La stessa cosa sta avvenendo in questi giorni in Egitto. Hosni Mubarak sarebbe saltato da tempo come un tappo, sotto la pressione dell’ebollizione strisciante di un’intera popolazione che non ne poteva più del suo prepotere, del suo nepotismo, della corruzione sua e del suo clan, dei metodi illiberali e polizieschi (non per nulla gli americani quando hanno catturato illegalmente, violando ogni norma di diritto internazionale, l’imam di Milano Abu Omar, lo hanno spedito subito nelle prigioni del Cairo perché vi potesse essere adeguatamente torturato), se gli Stati Uniti non lo avessero sostenuto per decenni con miliardi di dollari l’anno e costruendogli addosso uno dei più imponenti eserciti del mondo, in funzione antiraniana e pro israeliana (ma era stato Sadat, un uomo probo, e non quel pendaglio da forca di Mubarak, ad avere il coraggio di alzare il telefono e dire al nemico di sempre: piantiamola).

Anche qui la lezione è che, nonostante i nostri roboanti proclami, i regimi dittatoriali, i calpestatori professionali dei “diritti umani”, ci stanno bene purché stiano ai nostri ordini e servano i nostri interessi.

Così abbiamo sostenuto Musharraf, il sanguinario dittatore del Pakistan, perché ci ha aperto le porte dell’Afghanistan, così come sosteniamo, per lo stesso motivo, il corrottissimo e altrettanto dittatoriale, sotto false forme democratiche, Sali Berisha, Alì Zardari, o il re Abdullah dell’Arabia Saudita dove la sharia è applicata in modo più sistematico di quanto avvenga in Iran e di quanto avvenisse sotto il demonizzato regime talebano, e tiranni e tirannelli di mezzo mondo, purché “amici” e sensibili ai dollari.

Adesso la tentazione, anzi il progetto, è di pilotare le rivoluzioni tunisina, albanese e egiziana a nostro uso e consumo. Di giocare sulla carne e sulla pelle di chi ha avuto il coraggio – che manca in Italia – di ribellarsi all’ingiustizia, perché torni tutto come prima e quei Paesi restino a fare da servi agli interessi dell’Occidente.

Io credo che questa politica imperiale, di “gendarmi del mondo” che si sono autonominati tali, non paghi più, nemmeno in termini di realpolitik. Credo che sia venuto finalmente il momento di lasciare agli altri popoli il diritto elementare di autodeterminarsi da sé, secondo la propria storia, le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria vocazione e anche i propri interessi.

E forse allora scopriremmo che l’evidente ostilità che circonda l’Occidente, in Medio Oriente, in America Latina, in quel che resta dell’Africa nera, in Asia centrale, in Afghanistan, non è dovuta a motivi ideologici o religiosi, ma alle prepotenze militari, economiche e politiche di cui li facciamo oggetto da decenni se non da secoli.

Usando costantemente la pratica dei “due pesi e due misure”. Questo sarebbe anche un modo per spazzar via il radicalismo terrorista, che peraltro è un fenomeno marginale.

Dopo gli attentati londinesi di qualche anno fa, il sindaco di Londra, Livingstone, molto amato dai suoi concittadini, li condannò, ma disse anche: “Se il popolo inglese avesse dovuto subire le ingerenze che noi anglosassoni stiamo perpetrando da più di un secolo su quelli arabi e musulmani, credo che io sarei diventato un terrorista britannico”.


Anche il Pakistan a rischio
di Marco Luigi Cimminella - Peacereporter - 3 Febbraio 2011

Martoriato dall'inflazione e dal deficit pubblico, il Pakistan potrebbe essere presto attraversato da sollevamenti popolari simili a quelli in Maghreb

I venti di protesta, che attraversano in queste ultime settimane il mondo arabo mediterraneo, potrebbero presto sferzare, con inarrestabile furia, anche il subcontinente indiano.

In particolare, le inondazioni che hanno dilaniato il Pakistan nei mesi scorsi, unitamente alla già precaria situazione economica del Paese, sono forieri di prevedibili sollevamenti da parte del popolo, esasperato dall'inettitudine che il governo ha dimostrato e sta dimostrando nel fronteggiare la crisi.

Questo è il parere di Tadateru Konoe, presidente della Federazione Internazionale della Croce Rossa, secondo cui le piogge torrenziali e la conseguente distruzione dei raccolti, soprattutto nella regione del Punjab e del Sindh, hanno trascinato il paese in un vortice inflazionistico.

In particolare, si è registrato un forte aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, che ha reso ancora più fragili e drammatiche le prospettive di vita della popolazione.

Naturalmente, le determinanti ambientali da sole non bastano a spiegare la precaria situazione economico-sociale caratterizzante il Pakistan. Difatti, argomentano molti analisti, le élite politiche di Islamabad non solo non sono riuscite ad arginare la crisi, ma i loro tentativi si sono dimostrati addirittura deleteri.

La coalizione governativa, guidata dal Partito del popolo pakistano, limitandosi a inefficaci iniezioni di denaro, proveniente dalle casse della Banca centrale, ha alimentato il già preoccupante deficit nazionale.

Sono circa 2 miliardi di rupie al giorno (23.4 milioni di dollari) i finanziamenti che le autorità politiche pachistane hanno ricevuto dalla Banca centrale, contribuendo così al peggioramento degli squilibri nel bilancio statale.

Secondo Abdul Hafeez Shaikh, ministro delle Finanze, il deficit potrebbe presto raggiungere l'8 per cento del debito pubblico. Difatti, argomento alcuni studiosi locali, la sconsiderata immissione di denaro, senza una coerente ed adeguata politica fiscale ed economica, avrà solo l'effetto di alimentare la spirale inflazionistica. Come rilevato dal Federal Bureau of Statistics, i prezzi delle derrate alimentari sono aumentati del 20.4 per cento nel dicembre scorso.

Secondo uno studio condotto dall'Istituto pakistano per lo sviluppo economico, l'inflazione incalzante, il deficit di bilancio, l'elevata disoccupazione e la stagnazione economica non lasciano adito a molti dubbi su come la situazione si evolverà nel corso del corrente anno finanziario e in quelli successivi.

Lo spettro delle agitazioni popolari volteggia sempre più minaccioso sul destino politico della leadership pachistana. Soprattutto ora che molti donatori internazionali, tra cui la Banca Mondiale, la Banca di sviluppo asiatico e la Banca di sviluppo islamico hanno interrotto le generose erogazioni di denaro a favore di Islamabad, a causa dell'inadempienza mostrata dal governo nell'implementare le riforme strutturali imposte dal Fondo Monetario Internazionale.

Politiche repressive, alti tassi di disoccupazione, inflazione e corruzione hanno innescato incontenibili moti di protesta che hanno condotto alla defenestrazione dell'ex presidente tunisino Ben Ali.

L'inettitudine del governo pakistano, alla stregua di quello tunisino nel fronteggiare l'analoga situazione che caratterizza i due paesi, potrebbe condurre presto allo stesso risultato.


I nemici della crescita e i nemici del genere umano
di Marino Badiale - Megachip - 31 Gennaio 2011

Raccomandiamo la lettura del fondo di Angelo Panebianco su “I nemici della crescita” («Corriere della Sera» del 27 gennaio) a chiunque nutra dei dubbi sull'assurdità della crescita.

Per sostenere la necessità della crescita e dei sacrifici in suo nome Panebianco è costretto a omissioni, ammissioni e a vere e proprie assurdità, che nel complesso mostrano come sia impossibile sostenere in modo razionale il mito della crescita, nella situazione attuale.

Cominciamo dalle assurdità: la crescita è necessaria, ci spiega Panebianco, perché “senza crescita, una società consuma più ricchezza di quanta ne produce e finisce su un piano inclinato al termine del quale ci può essere solo un impoverimento complessivo”.

Si tratta di affermazioni evidentemente false: è ovvio che una società si impoverisce se consuma più di quanto produce, ma questo non c'entra nulla con la crescita, c'entra appunto con la differenza fra la produzione e il consumo. Se un anno produco 100 e consumo 100, non mi impoverisco, che ci sia stata crescita oppure no rispetto all'anno precedente.

Se un anno produco 100 e l'anno successivo produco 120 ma consumo 130, c'è stata crescita ma mi sono impoverito. E' perfettamente possibile pensare ad una società stazionaria, nella quale ogni anno si produce la stessa ricchezza dell'anno precedente e se ne consuma un po' meno: non c'è crescita, ma la società si arricchisce.

L'assurdità dell'affermazione di Panebianco appare in tutta la sua solare evidenza se la traduciamo sul piano individuale: “se il mio stipendio non aumenta ogni mese, mi impoverisco, perché spendo di più di quel che guadagno”. Tutti coloro che lavorano a stipendio fisso possono capire quanto razionali siano le argomentazioni di Panebianco.

Passiamo alle omissioni: parlando della vicenda Fiat e del conflitto con la Fiom, Panebianco spiega che “la ristrutturazione in atto sembra andare nella direzione giusta: attrezzando le imprese per la competizione globale essa spinge sul pedale della crescita”.

Panebianco omette ogni riferimento alle molte critiche, ben argomentate, prodotte negli ultimi mesi nei confronti dell'azione di Marchionne proprio dal punto di vista dell'adeguatezza di tale azione per un serio rilancio degli stabilimenti Fiat in Italia, critiche che riguardano la mancanza di un piano industriale, il fatto che non sono previsti nuovi modelli, le perplessità sul rilancio produttivo di un settore ormai maturo.

Un buon esempio di queste critiche è costituito dai molti articoli che Guido Viale sul «Manifesto» ha dedicato alla vicenda (ci permettiamo un suggerimento alla Fiom: perché non raccogliere questi articoli e farne un opuscolo?).

Allo stesso modo, Panebianco omette ogni informazione sui contenuti concreti dell'accordo di Mirafiori. In particolare, silenzio sul fatto che i rappresentanti sindacali non saranno più eletti dai lavoratori, ma nominati dai vertici sindacali e solo dai sindacati firmatari dell'accordo. Per chi si dichiara liberale, un’omissione non da poco.

Ma veniamo infine alle ammissioni di Panebianco, forse la cosa più interessante dell'articolo. Panebianco distingue fra le imprese che si danno da fare “per competere sui mercati globali” e gli altri attori sociali, che non sono esposti in prima linea, non si rendono conto delle necessità della competizione, ma devono tuttavia ad essa adeguare il loro comportamento.

Se si vuole la crescita, ci dice Panebianco, occorre che ogni ambito sociale si faccia carico delle necessità della competizione, sia quindi funzionale al sistema della imprese globalizzate. Purtroppo in Italia non è (ancora) così.

Ci sono ancora operai che difendono la propria dignità e la propria salute. Ci sono ancora insegnanti che pensano allo sviluppo umano e culturale dei propri allievi, e non al fatto che dovranno competere.

C'è ancora qualche studioso che si occupa di un manoscritto antico o di un recente teorema per passione di ragione, e non per le necessità della competizione globale. C'è ancora qualche infermiera che ha cura dei malati per senso del dovere e solidarietà umana, e non per aumentare il Pil.

Tutto questo deve finire, se vogliamo la crescita, ci spiega Panebianco. Ma come spazzare via queste resistenze?

Panebianco cita con favore l'economista Mancur Olson, che a suo tempo spiegò i grandi risultati economici di Germania, Italia e Giappone negli anni Cinquanta in questo modo: “in quei tre paesi la guerra non si era limitata a distruggere le infrastrutture materiali. Ne aveva anche distrutto le infrastrutture sociali”. Non si poteva dire meglio. Grazie a Dio ogni tanto c'è la guerra che massacra la società e rende possibile la crescita.

Ecco cosa ci suggerisce Panebianco: se vogliamo la crescita è necessaria una distruzione sociale, una devastazione dei rapporti umani, un abbrutimento generalizzato paragonabile a quello di una guerra come la Seconda Guerra Mondiale.

Non si poteva dire meglio, e non c'è che da ringraziare Panebianco per la sua chiarezza. Adesso ci è più chiaro perché siamo nemici della crescita, e chi sono i nemici del genere umano.


Stati Uniti, un futuro ormai pignorato. Al punto di partenza
di Fabrizio Tonello - Il Manifesto - 2 Febbraio 2011

La solidità degli effetti devastatori dell’immobiliarismo cartaceo è uno dei paradossi più folli del sistema vigente.

Il Dow Jones può salire con le bolle speculative sulle materie prime, possono entusiasmare le vendite di Natale o le società leader come Apple, ma la piaga del mercato immobiliare resta insanata e insanabile

Il 25 gennaio, di fronte al Congresso e a 50 milioni di americani che lo ascoltavano, Barack Obama ha pronunciato un discorso di 6.958 parole nel quale ha parlato molto di posti di lavoro (33 volte), di scuola (16 volte), di futuro (16 volte) di energia pulita (9 volte).

C'era però un vocabolo maledetto, una parola tabù assente dal suo discorso sullo Stato dell'Unione, come se il solo pronunciarla potesse peggiorare la situazione: «foreclosure», pignoramento della casa.

Lo stesso giorno in cui Barack Obama esortava gli americani a guardare con fiducia al futuro, a reagire come reagirono nel 1958, quando il lancio dello Sputnik sembrava dimostrare la superiorità dell'Unione Sovietica nella corsa allo spazio, in quelle stesse ore venivano diffusi i dati sui prezzi delle case, che sono ulteriormente scesi, dell'1% nelle 20 maggiori aree metropolitane degli Stati Uniti, mentre i pignoramenti di case per mutui non pagati regolarmente saranno nel 2011 più di due milioni, in aggiunta ai 2,8 milioni pendenti.

Dal 2008 ad oggi circa tre milioni di famiglie americane hanno perso la casa, o sono sul punto di perderla, fra undici mesi altri 2 milioni saranno nelle stesse condizioni, portando il totale a 5 milioni.

«Il livello dei pignoramenti rimane da cinque a dieci volte più alto rispetto al normale nei mercati più colpiti, dove permangono profonde linee di frattura che potrebbero scatenare nuove ondate di pignoramenti nel 2011 e oltre.

I pignoramenti si sono estesi nel 2010 perché la disoccupazione elevata ha fatto crescere i procedimenti del 72% nelle aree metropolitane, molte delle quali erano rimaste relativamente immuni dal maremoto iniziale di pignoramenti» dice James J. Saccacio, amministratore delegato di RealtyTrac, un'agenzia specializzata nel seguire le evoluzioni del mercato immobiliare americano.

Di fronte a una tragedia sociale di queste dimensioni, il presidente entrato in carica nel gennaio 2009 sull'onda di immense speranze avrebbe probabilmente dovuto dire qualcosa, fare un bilancio di ciò che l'amministrazione ha fatto in questi due anni, giustificare i fallimenti e annunciare la ricerca di nuove strade per affrontare il problema.

Le strizzatine d'occhio
Non solo Obama non lo ha fatto, ma la sua amministrazione manda ogni giorno strizzatine d'occhio a quello stesso mondo delle banche che è all'origine della catastrofe finanziaria del 2008, una «crisi evitabile», come spiega con abbondanza di dettagli il rapporto della commissione del Congresso incaricata di indagare sull'accaduto (il rapporto è stato pressoché ignorato dalla stampa se non nei suoi aspetti di polemica spicciola tra commissari democratici e commissari repubblicani).

E la nomina di William Daley, ex sindaco di Chicago e alto dirigente di J. P. Morgan a capo di gabinetto dello stesso Obama appare, più che una strizzatina d'occhio alle banche, una resa senza condizioni.

Sul sito web della Casa Bianca sono elencati 29 temi politici su cui gli americani possono ottenere maggiori informazioni su ciò che Obama ha fatto e si propone di fare: si comincia con Civil Rights e si finisce con Women, passando dalle politiche per i reduci di guerra a quelle per le zone rurali. Quello che non c'è è la voce Housing, o sinonimi. La casa, il cuore del Sogno Americano e l'epicentro della crisi finanziaria, è stata semplicemente rimossa come problema.

La storia della crisi esplosa con il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 è molto complessa e, non a caso, il Financial Crisis Inquiry Report ha avuto bisogno di 633 pagine per ricostruirla. Ma la storia di ciò che sta accadendo oggi sul mercato immobiliare degli Stati Uniti e su ciò che accadrà nei prossimi due anni è invece molto semplice.

Proviamo a riassumerla in due battute: i prezzi delle case continueranno a scendere, o al massimo si stabilizzeranno al livello attuale, perché l'offerta supera ampiamente la domanda e perché i pignoramenti continueranno. Questo funzionerà da freno a mano per l'intera economia e manterrà probabilmente la disoccupazione al di sopra del 9%.

Perché l'offerta di case supera la domanda? Per due ragioni convergenti che, insieme, creano una spirale negativa. Sul lato dell'offerta: 3 o 4 milioni di case pignorate significano altrettante case messe sul mercato in sovrappiù rispetto al normale stock di appartamenti in vendita. Sul lato della domanda, la disoccupazione al 9,4% e la stagnazione dei salari di chi ancora un lavoro ce l'ha si traducono in una capacità di acquisto ridotta e in una estrema prudenza nell'indebitarsi, per l'incertezza sul futuro che angoscia le famiglie americane.

Queste due potenti forze che trascinano verso il basso il mercato immobiliare dovrebbero essere controbilanciate da forze economiche opposte generate da questa situazione: il calo dei prezzi dovrebbe riavvicinare offerta e domanda, mentre la politica di tassi vicini allo zero praticata dalla Federal Reserve dovrebbe facilitare l'accesso al credito delle famiglie e spingere chi può ottenere un mutuo attorno al 3% a fare il grande passo e decidersi all'acquisto.
In parte queste due forze hanno cominciato ad operare ma i dati ci dicono che sono ancora troppo deboli per invertire la tendenza, per una varietà di ragioni.

Il calo dei prezzi non è generalizzato e uniforme ma concentrato in alcuni stati e città.

Questo ha creato delle aree semiabbandonate in centri come Cleveland o Detroit, che già bene non stavano, facendo scomparire la prospettiva di una ripresa in tempi brevi o medi: chi vorrebbe andare ad abitare in quartieri infestati dalle gang, o che le amministrazioni comunali pensano seriamente di restituire all'agricoltura?

Sono le case a basso costo ad essere le più penalizzate nella perdita di valore, in quanto destinate a una clientela che in questo momento non ha prospettive di migliorare la propria situazione: ad Atlanta il prezzo medio di una casa è tornato quello di 11 anni fa e gli appartamenti di fascia bassa costano oggi il 32% in meno di un anno fa. A Las Vegas l'11% delle abitazioni, una casa ogni nove, è in procinto di essere pignorata o è già stata restituita alla banca.

Arriveranno prezzi migliori?

In altre città, come Chicago, Seattle, Miami, Portland in Oregon, i potenziali acquirenti semplicemente pensano che non si sia ancora toccato il fondo e che nei prossimi mesi potranno spuntare prezzi migliori.

Le vendite erano risalite fino a quando era rimasto in vigore un incentivo fiscale per i compratori che è scaduto nel maggio scorso e che oggi, con la Camera a maggioranza repubblicana, l'amministrazione Obama nemmeno osa riproporre. Da maggio in poi i prezzi sono tornati a scendere e non si vede cosa possa arrestare questa tendenza.

Il problema chiave sono i pignoramenti: nella fase più acuta della crisi le banche si sono gettate sulle case su cui vantavano un'ipoteca come avvoltoi, in molti casi senza neppure seguire le procedure previste dalla legge, talvolta falsificando i documenti.

Negli ultimi mesi il ritmo si è un po' rallentato perché la magistratura ha iniziato a guardare più da vicino ai metodi di J. P. Morgan, U.S. Bancorp e Wells Fargo, in qualche caso annullando le vendite all'asta, come è accaduto in Massachusetts e in altri stati.

Si tratta però di una goccia nel mare: quando Obama entrò in carica nel gennaio 2009 si impegnò a varare un programma di emergenza per permettere a chi era in arretrato con i pagamenti di restare nella casa e di negoziare con le banche creditrici migliori condizioni.

Purtroppo, dietro i blandi comunicati dell'amministrazione sta una triste realtà: il programma Making Home Affordable è stato un completo fallimento. Il Congressional Oversight Panel, nel suo rapporto del dicembre scorso, ha usato un linguaggio circospetto per non irritare la Casa Bianca ma la situazione è questa.

Mentre negli obiettivi il programma doveva raggiungere 4 milioni di famiglie, il rapporto del ministero del Tesoro diffuso pochi giorni fa fornisce il numero di «permanent modifications» delle condizioni del mutuo, cioè il numero di famiglie che hanno ottenuto una dilazione dei pagamenti, una riduzione della rata mensile o un interesse più basso: 521,630, poco più di mezzo milione.

E il fatto che queste famiglie abbiano ottenuto un piccolo miglioramento della loro situazione grazie all'intervento del governo federale non garantisce affatto che riescano a salvare la loro casa dal sequestro: nei prossimi mesi le rate più basse o le dilazioni ottenute possono ugualmente rivelarsi troppo onerose per famiglie che spesso hanno a che fare con la disoccupazione, o con lavori che non pagano nemmeno quanto serve per fare la spesa settimanale al supermercato.

Tanti incentivi alle banche
Al di là delle ragioni tecniche (l'eccesso di scartoffie da compilare, condizioni troppo restrittive per essere ammessi agli aiuti) sta una questione fondamentale: l'amministrazione lo ha impostato come un programma di incentivi per le banche, non osando prendere misure più radicali anche a causa dell'ostruzionismo dei repubblicani in Congresso.

Le banche, molto spesso, hanno ignorato le offerte, ritenendo di poter guadagnare di più pignorando la casa del debitore insolvente e rimettendola sul mercato.

Naturalmente, se questo comportamento poteva essere razionale per la singola banca, il fatto che tutte le banche facessero la stessa cosa ha fatto schizzare alle stelle il numero di pignoramenti, quindi il numero di unità immobiliari messe sul mercato, facendo scendere i prezzi delle case esistenti e rallentando la costruzione di nuove case: nel dicembre 2010 sono state vendute 329.000 unità immobiliari nuove, contro le 356.000 del dicembre 2009.

Si torna quindi al punto di partenza: il Dow Jones può salire allegramente seguendo le bolle speculative sulle materie prime, consolandosi con i modesti miglioramenti nelle vendite natalizie o entusiasmandosi per i risultati trimestrali di alcune aziende leader, come Apple, ma la piaga purulenta del mercato immobiliare resta lì, insanata e insanabile fino a che l'amministrazione Obama non si convincerà che occorre intervenire sul serio.

Il che potrebbe anche essere impossibile perché i repubblicani hanno giurato di praticare un energico salasso all'economia americana nei prossimi mesi, riducendo le spese federali a qualsiasi costo.

I singoli stati, nel frattempo, discutono di come potrebbero legalmente dichiarare bancarotta e licenziano pompieri, poliziotti, insegnanti e bibliotecari per tappare in qualche modo i buchi di bilancio.



Trarre profitto dalla povertà. La JP Morgan si sta arricchendo con i buoni alimentari!
a cura di The Economic Collapse - http://theeconomiccollapseblog.com - 20 Gennaio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Elena

La JP Morgan è il più importante fornitore di sussidi per buoni alimentari degli Stati Uniti. Ha ottenuto l’appalto per la fornitura delle debit card relative ai buoni alimentari in 26 stati e nel distretto di Columbia.

La società ottiene un compenso per ogni caso di cui si occupa, ciò significa che più americani fanno richiesta per i buoni alimentari, più aumentano i profitti per la JP Morgan. Sì, avete capito bene.

Se aumenta il numero di americani che ricorrono ai buoni alimentari, la JP Morgan accresce il proprio introito. Nel video (vedi più sotto) il direttore generale della JP Morgan, Christopher Paton, ammette che si tratta di “un business molto importante per la JP Morgan” e sta andando molto bene.

Considerando che il numero di americani che si affidano ai buoni alimentari è cresciuto in maniera esponenziale dai 26 milioni del 2007 agli attuali 43, è facile immaginare l’impennata dei profitti in questo settore per la JP Morgan. Ma ciò non spinge la JP Morgan a mantenere più alto possibile il numero di americani coinvolti nel programma dei buoni alimentari?

E’ solo che ci sono alcune cose che fanno un po’ “rabbrividire” per essere “esternalizzate” alle grandi imprese private. Il direttore generale della JP Morgan nell’intervista fa del suo meglio per far emergere gli aspetti positivi di questa situazione, ma per una grande banca di Wall Street risulta veramente raccapricciante il fatto di trarre profitto dalla sofferenza di decine di milioni di americani…

Quindi, se la disoccupazione scendesse, ciò metterebbe in crisi il business della JP Morgan basato sui buoni alimentari?
Beh, apparentemente no. Nell’intervista Paton afferma che il 40% dei beneficiari dei buoni alimentari sono occupati, e sembra convinto che ci possa ancora essere “crescita” in questo segmento.

E’ così che si sta trasformando l’America ?

Un paese in cui decine di milioni di disoccupati e di poveri occupati si trascinano nei discount e nei negozi dove si vende tutto a un dollaro per utilizzare ogni mese i buoni alimentari forniti dalla JP Morgan?

La JP Morgan fornisce inoltre sussidi per i bambini in 15 stati e per i disoccupati in altri 7 stati.

A quanto pare, gli stati hanno scoperto che possono risparmiare milioni di dollari “esternalizzando” la fornitura di questi sussidi a grandi istituti finanziari come la JP Morgan.

Ma cosa succede se si ha un problema con la card relativa ai buoni alimentari?

Bene, si chiama il centro servizi della JP Morgan. Facendo così, c’è una buona probabilità che si venga aiutati da un impiegato di un call center della JP Morgan in India.

Proprio così – se ne deduce che la società risparmia “delocalizzando” in India le chiamate per il servizio relativo ai buoni alimentari.

Quando la ABC News ha chiesto chiarimenti alla JP Morgan riguardo questo aspetto, l’azienda non ha specificato per quali stati le chiamate al servizio clienti vengono dirottate in India e per quali, invece, vengono gestite all’interno degli Stati Uniti…

La JP Morgan è al momento ancora l’unica società ad avere call center oltreoceano operanti nell’ambito dell’assistenza pubblica. L’azienda si rifiuta di comunicare per quali stati le chiamate vengono inoltrate in India e per quali vengono gestite a livello nazionale. Questa decisione, afferma la società, è spesso lasciata ai singoli stati.

La JP Morgan, in seguito a pressioni politiche, sta trasferendo all’interno degli Stati Uniti alcuni di questi call center, ma la situazione complessiva è un ottimo esempio di come l’“economia globale” sta incidendo sulla classe media americana.

Provate ad immaginare l’ironia – quella che un tempo era la classe media americana, che ha perso il lavoro a causa della delocalizzazione, si trova a ricorrere ai buoni alimentari per finire poi a contattare un impiegato di un call center in India. Benvenuti nell’economia globale, eh?

Ma c’è ancora dell’altro.

E’ appena stato annunciato che la JP Morgan ha ammesso di aver erroneamente precluso il riscatto dell’ipoteca a dozzine di famiglie di militari e di aver imposto costi eccessivi ad altre “migliaia” di famiglie di militari. Ahi.

Andare a provocare le famiglie dei militari è decisamente sconveniente.

Manca ancora qualcuno all’attenzione della JP Morgan?

La JP Morgan è stata tra i principali istituti finanziari coinvolti nello scandalo dei pignoramenti facili.

Pare abbiano avuto molti problemi ultimamente. Ma non sono gli unici.

La verità è che siamo arrivati al punto in cui i grandi istituti finanziari di Wall Street, come la JP Morgan, la Goldman Sachs, la Citibank e la Morgan Stanley hanno la strada spianata per accrescere il loro potere.

I più grandi istituti finanziari di Wall Street non hanno avuto alcuna remora a chiedere aiuti al governo statunitense durante la crisi finanziaria, ma nel momento in cui i cittadini americani avrebbero necessitato un po’ di comprensione e clemenza da parte loro, si sono rivelati decisamente poco disponibili.