giovedì 4 ottobre 2012

Tra Siria e Iran...

Un aggiornamento sulla situazione siriana e di conseguenza anche su quella iraniana.



La Turchia tenta di provocare una guerra contro la Siria
di Tony Cartalucci - http://landdestroyer.blogspot.it/ - 3 Ottobre 2012


La Turchia spara sulla Siria dopo che degli sconosciuti hanno attaccato una città di confine turca
Dopo aver ospitato terroristi stranieri e sostenuto le loro operazioni lungo tutto il confine siriano-turco per oltre un anno, la Turchia, membro della NATO, ha sostenuto di aver risposto militarmente contro “obiettivi” in Siria, per un presunto attacco al territorio turco che essa attribuisce al governo siriano. 

Nonostante le organizzazioni terroristiche pesantemente armate che operano in gran numero su entrambi i lati del confine turco, con l’esplicita approvazione e il supporto logistico della Turchia, il governo di Ankara sembra aver escluso la possibilità che queste forze terroristiche, non l’esercito siriano, siano responsabili dell’attacco con dei colpi di mortaio, che i militanti armati sono noti usare ampiamente.


Immagine: i terroristi che operano in Siria posano accanto a un grande mortaio. I mortai di ogni calibro sono i favoriti dai terroristi, che operano in Siria per attuare, per conto della NATO, un cambiamento violento del regime. 

I mortai che hanno sparato in territorio turco probabilmente potrebbero provenire dalla Turchia, che finanzia, arma e accoglie i terroristi per conto delle a lungo pianificate macchinazioni della NATO. A differenza del governo siriano, i terroristi, la Turchia, e di conseguenza la NATO, hanno una motivazione reale per lanciare l’attacco iniziale che giustificherebbe la Turchia nel reagire e prevedibilmente nel chiedere alla NATO di intervenire.

Il New York Times, nel suo articolo intitolato “L’artiglieria della Turchia spara su obiettivi siriani in rappresaglia per la morte di civili”, ammette che: “Non si sa se i proiettili di mortaio siano stati sparati dalle forze governative siriane o dai ribelli che combattono per rovesciare il governo del presidente Bashar al-Assad. La risposta turca sembrava dare per scontato che il governo siriano ne sia responsabile”. 

L’immediato atto ingiustificato di aggressione militare della Turchia, insieme all’istintiva condanna degli Stati Uniti, ha tutte le caratteristiche di un evento orchestrato, o per lo meno, di un tentativo di cogliere opportunisticamente un caso isolato per far avanzare in modo infido l’agenda geopolitica collettiva dell’Occidente. 

La Siria non ha evidentemente alcun interesse a minacciare la sicurezza della Turchia, né alcun motivo di attaccare il territorio turco, cosa che fonirebbe sicuramente la scusa che si cerca per poter intervenire direttamente a fianco dei fallimentari terroristi fantocci della NATO.

La Turchia desidera ardentemente un pretesto per avviare la seconda guerra con la Siria
E’ stato precedentemente riportato che la Turchia è stata designata dalla NATO e, più specificamente, da Wall Street e Londra, a guidare gli sforzi per ritagliare “zone franche” nel nord della Siria, e di farlo tramite una falsa forza “umanitaria” o un falso pretesto per la “sicurezza”. 

Ciò è stato confermato dal Brookings Institution, un think-tank sulla politica estera degli Stati Uniti, finanziato da Fortune-500, che ha stilato i progetti per il cambiamento di regime in Libia così come in Siria e Iran. 

Nella sua relazione “Valutazione delle opzioni di un cambio di regime” si afferma: “Un’alternativa agli sforzi diplomatici su come concentrarsi per porre fine alle violenze e avere accesso umanitario, come si sta facendo sotto la guida di Annan. Ciò potrebbe portare alla creazione di zone franche e corridoi umanitari che dovrebbero essere sostenuti da un limitato potere militare. Ciò, naturalmente, non raggiunge gli obiettivi degli Stati Uniti per la Siria, in cui Assad potrebbe conservare il potere. Da questo punto di partenza, però, è possibile che una vasta coalizione con un mandato internazionale possa aggiungere ulteriori azioni coercitive ai suoi sforzi“. 

Pagina 4,  ‘Valutazione delle opzioni per il cambiamento di regime’, Brookings Institution.
Immagine: Brookings Institution, Memo N°21 sul Medio Oriente, “Valutazione delle opzioni di un cambio di regime (.pdf), non è un segreto che l’umanitaria “responsabilità di proteggere” non sia che un pretesto per un cambio di regime a lungo pianificato.

Il Brookings continua descrivendo come la Turchia potrebbe allineare grandi quantità di armi e truppe lungo il confine, in coordinamento con gli sforzi israeliani nel sud della Siria, che potrebbe contribuire a un violento cambiamento del regime vigente in Siria: “Inoltre, i servizi di intelligence d’Israele hanno una forte conoscenza della Siria, così come delle attività nel regime siriano, che potrebbero essere utilizzate per sovvertire la base di potere del regime e avviare la rimozione di Assad. Israele potrebbe inviare truppe su o vicino le alture del Golan e, in tal modo, potrebbe distogliere le forze del regime dal reprimere l’opposizione. Questa posizione può evocare la paura nel regime di Assad di una guerra su vari fronti, in particolare se la Turchia è disposta a fare lo stesso sul suo confine, e se l’opposizione siriana è alimentata continuamente con armi e addestramento. Una tale mobilitazione potrebbe, forse, convincere la leadership militare della Siria a cacciare Assad al fine di preservare se stessa. I sostenitori argomentano che questa pressione supplementare potrebbe far pendere la bilancia contro Assad in Siria, se altre forze vi si allineano correttamente”. Pagina 6, ‘Valutazione delle opzioni per il cambiamento di regime’, Brookings Institution.

I leader turchi hanno chiaramente passato molto tempo a fabbricare scuse varie per soddisfare le richieste di Washington, fabbricando o approfittando delle violenze che la stessa Turchia promuove lungo il confine con la Siria. 

La relazione menzionerebbe anche il ruolo della Turchia nel contribuire a minare, sovvertire e staccare l’antica città settentrionale di Aleppo: “Poiché la creazione di un’opposizione nazionale unificata è un progetto a lungo termine che non avrà probabilmente mai pieno successo, il gruppo di contatto, pur non abbandonando questo sforzo, può chiedere obiettivi più realistici. Ad esempio, potrebbe concentrare il massimo sforzo per l’attesa  frattura tra Assad e, diciamo, l’elite di Aleppo, la capitale commerciale e città in cui la Turchia ha il maggior effetto leva. Se Aleppo dovesse cadere in mao all’opposizione, l’effetto demoralizzante sul regime sarebbe notevole. Se questa opzione fallisce, gli Stati Uniti potrebbero semplicemente accettare una pessima situazione in Siria o intensificare una delle seguenti opzioni militari”. Pagina 6, ‘Valutazione delle opzioni per il cambiamento di regime’, Brookings Institution.

Le opzioni militari comprendono tutto ciò che serve a perpetuare le violenze, secondo la Brookings,facendolo sanguinare, si mantene un avversario regionale debole, evitando i costi dell’intervento diretto“, dalla “no-fly zone” in stile ad libico a una vera invasione militare. 

E’ chiaro, leggendo la nota della Brookings, che la cospirazione ha avuto inizio fin dalla sua redazione; con varie opzioni militari in fase di preparazione e vari cospiratori che si posizionano per eseguirle. 

Per la Brookings Institution le “zone franche” e i “corridoi umanitari” sono destinati ad essere creati dal membro della NATO, la Turchia, che per mesi ha minacciato di invadere parzialmente la Siria, al fine di raggiungere questo obiettivo. 

E mentre la Turchia sostiene che tutto ciò si basa su “questioni umanitarie”, esaminando la situazione abissale dei diritti umani in Turchia, oltre alle proprie attuali campagne di genocidio contro il popolo curdo, sia all’interno che all’esterno delle sue frontiere, è chiaro che sta semplicemente adempiendo agli ordini dettati dai suoi padroni occidentali di Wall Street e della City di Londra.
Foto: nel 2008, carri armati turchi entrano in Iraq per un’incursione contro città curde e per cacciare sospetti ribelli. Più recentemente, la Turchia ha bombardato “sospette” basi dei ribelli sia in Turchia che in Iraq, così come ha effettuato massicci arresti a livello nazionale. Stranamente, la Turchia verifica ciò di cui la Libia di Gheddafi e la Siria di Assad vengono accusate di fare, in totale  ipocrisia, chiedendo l’invasione parziale della Siria sulla base di “preoccupazioni umanitarie.”

Questo ultimo scambio a fuoco tra la Turchia e la Siria non è il primo. La Turchia ha fabbricato  storie su pretesi ‘attacchi’ delle truppe siriane oltre il confine turco-siriano. The New York Times ha pubblicato queste accuse in grassetto, prima di ammettere, in fondo pagina, che “non è chiaro che tipo di armi hanno causato danni, domenica, a circa sei miglia all’interno del territorio turco“, e che “ci sono resoconti contrastanti circa l’incidente“. 

Come lo sono tutte le accuse fatte dalla NATO, dall’ONU e dai singoli Stati membri per giustificare l’ingerenza negli affari della Siria, questi resoconti comprendo le voci sparse dagli stessi ribelli. E’ chiaro che la Turchia, la NATO e le Nazioni Unite tentano continuamente di inventarsi un pretesto per la creazione di “zone franche” e “corridoi umanitari” destinati ad aggirare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha visto i tentativi di via libero all’intervento militare bloccati dal veto multiplo posto da Russia e Cina. 

Che le Nazioni Unite non siano riuscite del tutto a condannare le provocazioni combinate e l’ingerenza negli affari della Siria, illustra il fallimento assoluto della sovranazionalità, per non parlare della governance globale.


Ecco perchè il Qatar vuole invadere la Siria
di Pepe Escobar - Asia Times - 28 Settembre 2012
Traduzione a cura di ELISA BERTELLI per www.Comedonchisciotte.org
 
L’Emiro del Qatar sta cavalcando l’onda del successo, statene pur certi.

Che entrata in scena all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York! Lo sceicco Hamad bin Khalifa al Thani (nella foto) ha richiesto nientepopodimeno che una coalizione araba “disposta” a invadere la Siria.

Secondo l’emiro, “è meglio che ad intervenire nei loro doveri nazionali, umanitari, politici e militari siano i Paesi arabi stessi, che devono adoperarsi per metter fine allo spargimento di sangue in Siria”. Inoltre, ha sottolineato il fatto che i Paesi arabi hanno il “dovere militare” di invadere la Siria.

Stando all’emiro, i “Paesi arabi” sono le petromonarchie del Club Contro-Rivoluzionario del Golfo (CCG), precedentemente conosciuto anche come Consiglio di Cooperazione del Golfo, più il tacito aiuto della Turchia, la quale dispone di un accordo strategico ad ampio raggio col CCG. In ogni narghilè bar in Medio Oriente si sa che Doha, Riyad e Ankara stanno fornendo armi, finanziamenti e aiuto logistico alle diverse frange dell’opposizione armata siriana impegnata nel cambio di regime.

L’emiro ha anche citato un “precedente simile” di questo tipo d’invasione, ossia quando le “forze arabe sono intervenute in Libano” negli anni Settanta. Tra parentesi, negli anni Settanta, l’emiro stesso prese parte ad interventi più mondani per quasi tutto il corso del decennio, come mettersi a proprio agio in destinazioni esclusive del Club Med con gli altri membri delle famiglie reali del Golfo, come testimonia questa fotografia (l’emiro è quello a sinistra).

Ma adesso, quindi, l’emiro sta propugnando una versione araba della R2P (“responsabilità di proteggere”), dottrina proposta dalle Tre Grazie dell’Intervento Umanitario (Hillary Clinton, Susan Rice e Samantha Power)?

Senz’altro, questa sarà accolta a braccia aperte da Washington, per non parlare di Ankara o addirittura di Parigi, dato che il presidente francese François Hollande ha appena richiesto all’ONU di proteggere le zone “liberate” in Siria.

Il precedente libanese dell’emiro non è esattamente edificante, e questo è un eufemismo. La cosiddetta Forza Araba di Dissuasione, forte dei suoi 20.000 uomini, s’introdusse in Libano per tentare di arginare la guerra civile, abusando dell’ospitalità libanese per niente meno che sette anni. 

L’intervento militare si trasformò in un’occupazione del nord del Libano da parte dell’esercito siriano. Le forze armate lasciarono ufficialmente il territorio nel 1982, mentre la guerra civile continuava a imperversare.

Ecco, immaginatevi uno scenario simile per la Siria, e pompatelo con gli steroidi.

“Un tipo abbastanza influente”


Riguardo l’ardore umanitario – per non menzionare quello democratico – dell’emiro, leggere il pensiero del presidente degli Stati Uniti Barack Obama è illuminante: egli definisce l’emiro come un “tipo abbastanza influente”. 

Sembra quasi che Obama affermi implicitamente che non sia così urgente provvedere ad una maggior democrazia, sebbene “l’emiro non stia introducendo riforme significative” e che “non si siano fatti passi avanti nella democratizzazione del Qatar” solo perché il reddito procapite nell’emirato è gigantesco.

Quindi, possiamo supporre che l’emiro non sia affatto interessato a trasformare la Siria nella Scandinavia. Questo ragionamento apre la strada ad un movente ineluttabile e legato al Pipelineistan. E a cos’altro, sennò?

Attualmente, Vijay Prashad, autore della recente pubblicazione Arab Spring, Libyan Winter (N.d.T.: Primavera araba, inverno libico), cura una serie di articoli sul gruppo di contatto sulla Siria per la rivista Asia Times Online

Prashad ha ricevuto una chiamata telefonica da parte di un esperto di energia, che lo ha spronato ad indagare circa “l’ambizione del Qatar di realizzare una serie di gasdotti fino ad arrivare in Europa”. Secondo questa fonte, “il percorso proposto avrebbe attraversato i territori di Iraq e Turchia. Il primo paese di transito rappresenta un problema. È molto più semplice passare da nord (e il Qatar ha già assicurato gas gratuito alla Giordania).”

Anche prima che Prashad terminasse l’indagine, era ovvio a cosa puntasse il Qatar: schiacciare il progetto del gasdotto da 10 miliardi di dollari che attraverserebbe Iran, Iraq e Siria, un affare concluso nonostante la rivolta siriana fosse già in fieri.

Ecco che il Qatar ci appare in veste di concorrente diretto sia con l’Iran (in quanto produttore) che con la Siria (in quanto destinazione), e ad un grado inferiore con l’Iraq (in quanto paese di transito). Inoltre, è utile ricordare l’opposizione categorica di Teheran e Baghdad ad un cambio di regime a Damasco.

Il gas proverrebbe dalla stessa base geografica e geologica: il South Pars, il più grande giacimento di gas al mondo che Iran e Qatar si spartiscono. Il gasdotto in Iran, Iraq e Siria – se mai sarà costruito – consoliderebbe un asse prevalentemente sciita tramite un cordone ombelicale economico d’acciaio.

D’altro canto, il Qatar preferirebbe costruire il suo gasdotto in una disposizione diversa dallo stile della “mezzaluna sciita” e con la Giordania come destinazione. Le esportazioni passerebbero dal Golfo di Aqaba al Golfo di Suez, per poi raggiungere il Mediterraneo. Un piano B che non fa una piega in un momento in cui i negoziati con Baghdad sono sempre più complicati (senza contare che il percorso attraverso Iraq e Turchia è nettamente più lungo).

Washington – e presumibilmente i clienti europei – sarebbero più che soddisfatti di sfruttare lo stratagemma del Pipelineistan in modo da far fuori il Gasdotto Islamico.

E se ci sarà un cambio di regime in Siria, favorito dall’invasione proposta dal Qatar, in termini di Pipelineistan sarà tutto più semplice, ovvio. Un più che probabile regime post-Assad dei Fratelli Musulmani accoglierebbe più che a braccia aperte un gasdotto qatariano. E questo renderebbe più semplice un prolungamento del gasdotto fino alla Turchia.

Ankara e Washington ne uscirebbero vittoriose: Ankara per via dello scopo strategico della Turchia, ossia diventare il principale crocevia energetico dal Medio Oriente e dall’Asia Centrale all’Europa. Il Gasdotto Islamico non farebbe altro che tagliarla fuori. 

E Washington perché la totalità della strategia energetica nel sudest asiatico dai tempi dell’amministrazione Clinton è stata quella di tagliar fuori, isolare e ledere l’Iran in tutti i modi possibili.

Il traballante trono hascemita


Tutto ciò indica che la Giordania è una pedina indispensabile nell’audace mossa geopolitica ed energetica del Qatar. La Giordania è stata invitata ad entrare a far parte del CCG, nonostante non sia esattamente situata nel Golfo Persico (e a chi importa? È una monarchia).

Uno dei pilastri della politica estera del Qatar è il sostegno illimitato dei Fratelli Musulmani, indipendentemente dalla latitudine. In Egitto, i Fratelli Musulmani hanno già conquistato la presidenza. 

In Libia sono forti. Potrebbero arrivare ad assumere un ruolo dominante se si verificasse un cambio di regime in Siria. Ecco che arriviamo all’aiuto da parte del Qatar fornito ai Fratelli Musulmani in Giordania.

Attualmente, il trono hascemita della Giordania è traballante, e questo è un eufemismo trascendentale.

L’afflusso di rifugiati siriani è costante. Aggiungetelo ai rifugiati palestinesi, che arrivarono ad ondate nelle fasi cruciali della guerra arabo-israeliana: nel 1948, 1967 e 1973. E poi unite il tutto ad un massiccio contingente di salafiti e jihadisti contro Damasco. 

Proprio qualche giorno fa è stato arrestato un certo Abu Usseid. Suo zio era nientemeno che Abu Musab al-Zarqawi, il famigerato ex capo di Al Qaeda in Iraq, morto nel 2006. Usseid stava per attraversare il deserto dalla Giordania alla Siria.

Da gennaio 2011 e anche prima della Primavera Araba, le proteste non hanno dato tregua ad Amman. Non sono stati risparmiati né Re Abdullah, conosciuto anche col nome di Re Playstation, né la fotogenica regina Rania, beniamina di Washington/Hollywood.

In Giordania, i Fratelli Musulmani non sono gli unici protagonisti dell’ondata di proteste. In quest’ultime hanno un ruolo attivo anche sindacati e movimenti sociali. La maggior parte dei manifestanti è giordana. 

Storicamente, i giordani hanno avuto il controllo su tutti i livelli della burocrazia statale. Tuttavia, il neoliberalismo li ha schiacciati a seguito dell’ondata selvaggia di privatizzazioni che ha investito la Giordania durante gli anni Novanta. Ora, il regno impoverito dipende dal FMI e da sussidi extra da parte degli Stati Uniti, del CCG e anche dell’Unione Europea.

Dominato da affiliazioni tribali e dalla devozione alla monarchia, il Parlamento non è altro che una farsa. Non si effettuano neanche delle riforme di facciata. Ad aprile, un primo ministro è stato sostituito e la maggior parte della popolazione neanche se n’è accorta. In più, un classico del mondo arabo: il regime mette a tacere le richieste di cambiamento aumentando la repressione.

Il Qatar mette un piede in questo pantano. Doha esige che Re Playstation abbracci la causa di Hamas. È stato il Qatar a promuovere l’incontro di gennaio tra il Re e il leader di Hamas Khaled Meshaal, espulso dalla Giordania nel 1999. Così, i giordani autoctoni si sono chiesti se il regno sarebbe stato sommerso da un’altra ondata di rifugiati palestinesi.

La Dinastia Saudita detiene gran parte del controllo dei media arabi, che sono stati sommersi da storie ed editoriali che presagivano che, dopo l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani a Damasco, sarebbe stata la volta di Amman. 

Il Qatar, comunque sia, prende il suo tempo. I Fratelli Musulmani esigono che la Giordania divenga una monarchia costituzionale. Poi, subentreranno politicamente in seguito alla riforma elettorale alla quale il Re Abdullah si opponeva da anni.

Adesso, i Fratelli Musulmani possono anche contare sul sostegno da parte delle tribù beduine, la cui tradizionale fedeltà al trono hascemita non era mai stata più traballante. Il regime ha ignorato le proteste a suo rischio e pericolo. I Fratelli Musulmani hanno convocato una manifestazione di massa contro il Re il 10 ottobre. 

Più prima che poi, il trono hascemita crollerà. Non sappiamo quale sarà la reazione di Obama, a parte pregare che non accada niente di sostanziale prima del 6 novembre. L’emiro del Qatar, invece, ha tutto il tempo del mondo. Per ogni regime che cadrà (ed entrerà a far parte dei Fratelli Musulmani), ci sarà un gasdotto da costruire.
 
Note:
1. Qatar's emir calls for Arab-led intervention in Syria, The National, 26 settembre 2012.
2. Syria's Pipelineistan war, Al Jazeera, 6 agosto 2012.
3. Qatar: Rich and Dangerous, Oilprice.com, 17 settembre 2012. 


Iran. La guerra economica contro Teheran
di Ferdinando Calda - Rinascita - 3 Ottobre 2012

Da Washington gridano al “successo” delle sanzioni. Da Tel Aviv tifano per una rivolta interna. Da Teheran annunciano misure contro questa “guerra economica all’Iran” e mettono in guardia dagli speculatori che ottengono mirano a “fare profitti con l’aumento dei prezzi” dei beni di prima necessità. 

Di sicuro c’è un dato: il forte deprezzamento del rial sul dollaro, causato da una penuria di valuta statunitense nelle casse iraniane. Dopo un altalenante declino, nei giorni scorsi la valuta iraniana ha registrato una sorta di “tracollo”, oltrepassando di colpo la soglia psicologica dei 30mila rial per 1 dollaro e perdendo, in appena una settimana, quasi un quarto del suo valore rispetto alla divisa Usa. Secondo i dati ufficiali, solo tra domenica e lunedì il cambio al mercato aperto rial-dollaro è passato da 29.700 a 32.800 (34.700 secondo altre stime). 

Una variazione che si attesta intorno al 40% in confronto all’inizio di settembre e del 130% rispetto all’autunno scorso, quando stavano per essere varate le più recenti sanzioni petrolifere e finanziarie da parte di Usa e Unione Europa messe in campo fra gennaio e luglio.
 
Per cercare di fronteggiare la caduta della valuta, il 24 settembre Teheran ha inaugurato un Centro per lo scambio di valute estere. Secondo quanto riportato dai media, nelle scorse settimane il governo ha impedito a quasi tutti gli importatori di comprare dollari attraverso il cambio ufficiale della Banca centrale, fisso intorno ai 12.260 rial, indirizzandoli invece verso il nuovo Centro. 

Questo, in concreto, offre un cambio del 2% inferiore a quello del mercato nero. Il Centro, secondo il governatore della Banca centrale Mahmoud Bahmani, citato dall’agenzia Fars, dovrebbe riuscire a “diminuire la pressione del mercato”, grazie a una forte dotazione di valuta straniera (proveniente per lo più dalla vendita del petrolio) che riuscirà a “far scendere il cambio”.
 
Ma anche se il nuovo Centro riuscisse a combattere la caduta del rial sul mercato interno, resta aperto il problema della capacità dell’Iran di rifornirsi di valuta pregiata estera. Un’operazione resa particolarmente problematica dalle stringenti sanzioni di Usa e alleati contro la Banca centrale iraniana e gli altri istituti finanziari del Paese. 

Alla fine dello scorso anno, il Fondo monetario internazionale (Fmi) valutava le riserve iraniane intorno ai 106 miliardi di dollari, teoricamente sufficienti a garantire le importazioni per circa 13 mesi. Ora si stima che siano scese a 50-70 miliardi.
 
“Sono abbastanza” per i bisogni del Paese e per “continuare a far girare l’economia”, ha rassicurato ieri il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, aggiungendo però che sarà necessario indicare delle “priorità” nell’acquisto dei beni dall’estero. 

Ahmadinejad ha quindi puntato il dito contro le sanzioni statunitensi, alla base della svalutazione “anomala” del rial. “Il nemico ha imposto delle sanzioni contro la vendita del petrolio, da cui proviene una gran parte della valuta, e quel che è peggio, delle sanzioni contro gli scambi bancari per cui se si vende del petrolio non è possibile far entrare in Patria il denaro”, ha spiegato il presidente, denunciando la “guerra psicologica” ed economica contro l’Iran, “su scala planetaria”.
 
Tuttavia, mentre il presidente assicura che “non ci sono problemi di bilancio” e che si tratta di crisi passeggera “imposta dall’esterno”,  gli avversari politici di Ahmadinejad accusano lui e il suo governo di essere la causa della svalutazione e della crescente inflazione (stimata tra il 20% e il 25% all’anno) che colpisce il Paese. 

Secondo il deputato conservatore Ali Motahari, il governo starebbe limitando l’immissione di valuta straniera nel mercato dei cambi per alzare il valore del dollaro e di conseguenza delle proprie riserve, nel tentativo di ripianare il deficit di bilancio creato dal calo delle esportazioni petrolifere e, soprattutto, dalla discussa riforma dei sussidi di povertà. Un piano ambizioso che persino l’Fmi definì positivamente come “uno dei più audaci mai tentati in Medio Oriente”.
 
E mentre l’opposizione politica attacca l’esecutivo di Ahmadinejad addossandogli le responsabilità della crisi economica del Paese, in Israele il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Avigdor Lieberman, si dice speranzoso che le sanzioni producano un effetto “catastrofico” sull’economia iraniana, tanto da portare la popolazione alla disperazione e innescare una sorta di “rivoluzione Tahrir” all’iraniana. 

Tuttavia è ormai da tempo che a Teheran stanno preparando le contromisure per resistere a un assedio economico che cerca di ridurre il popolo iraniano alla fame.


Gli amici terroristi della Casa Bianca
di Michele Paris - Altrenotizie - 2 Ottobre 2012
 
Il Dipartimento di Stato americano ha ufficializzato la settimana scorsa la notizia - già apparsa qualche giorno prima sui media - della rimozione dall’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere dei Mujahideen-e-Khalq (MeK) iraniani. 

Il successo diplomatico conseguito da questo gruppo che si batte per l’abbattimento della Repubblica Islamica è dovuto sostanzialmente ad una incessante e dispendiosa attività di lobby condotta in questi anni a Washington e alle prestazioni fornite ai servizi segreti di Stati Uniti e Israele nel tentativo di destabilizzare il regime di Teheran.

Come per molti gruppi o governi accusati di terrorismo e poi sdoganati per finire nella lista dei buoni a seconda delle necessità strategiche USA, anche i MeK si erano distinti per attacchi contro militari e diplomatici americani, nel loro caso condotti in territorio iraniano ai tempi dello Shah. 

Nati come un’organizzazione di ispirazione marxista, dopo aver contribuito al rovesciamento del regime filo-statunitense nel 1979 i MeK intrapresero ben presto una campagna terroristica contro la nuova Repubblica Islamica.

Durante la guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 si offrirono poi a Saddam Hussein, combattendo contro i propri connazionali e, al termine del conflitto, rimasero attivi in territorio iracheno, partecipando alla repressione contro la minoranza curda. 

Negli anni Novanta vennero aggiunti all’elenco americano delle organizzazioni terroristiche nell’ambito del tentativo di dialogo dell’amministrazione Clinton con il presidente riformista Muhammad Khatami. I MeK vennero infine disarmati dopo l’invasione dell’Iraq del 2003 e di fatto assoldati dagli Stati Uniti per la successiva campagna di destabilizzazione dell’Iran.

Nonostante il marchio terroristico, gli USA e Israele hanno coltivato intensi rapporti con i MeK, fornendo sostegno materiale e logistico per le loro attività. I due governi alleati hanno utilizzato i Mujahideen per ottenere dubbie informazioni di intelligence sul programma nucleare di Teheran e, soprattutto, per condurre operazioni segrete in territorio iraniano, compresi gli assassini di cinque scienziati nucleari a partire dal 2007. 

Le responsabilità dei MeK in queste morti sono state confermate, tra l’altro, da anonimi funzionari del governo americano citati lo scorso febbraio dalla NBC, i quali hanno anche affermato che l’amministrazione Obama era pienamente consapevole delle operazioni.

Le motivazioni ufficiali che hanno convinto il Dipartimento di Stato USA a prendere la recente decisione sui MeK sarebbero la loro astensione da atti terroristici da più di un decennio e il consenso alla richiesta americana di sgomberare la base di Camp Ashraf in Iraq, dove circa 3 mila Mujahideen trovano rifugio da anni. 

Costoro dovrebbero ora trasferirsi in un nuova apposita area nei pressi di Baghdad, in un primo passo verso l’abbandono definitivo del territorio iracheno. I MeK, inoltre, sostengono di volere continuare a battersi per il cambio di regime a Teheran, da sostituire con un governo secolare, ma con mezzi pacifici.

Nell’annunciare il loro depennamento dalla lista del terrore venerdì scorso, il Dipartimento di Stato ha affermato che il governo americano è tuttora preoccupato per “gli atti di terrorismo condotti dai MeK nel passato”, così come rimangono “seri dubbi sull’organizzazione, in particolare riguardo alle accuse di abusi commessi contro i propri membri”. 

Anche se l’amministrazione Obama non sembra dunque considerare i MeK una valida alternativa democratica all’attuale regime di Teheran, alla fine è prevalsa la decisione di assecondare le richieste provenienti da esponenti di entrambi gli schieramenti politici.

Il “delisting” dei MeK consentirà ora lo sblocco dei loro beni congelati in territorio americano, mentre potranno essere stanziati aiuti finanziari da parte del governo, con ogni probabilità per continuare le attività terroristiche e di sabotaggio in Iran in vista di un nuovo probabile aumento delle tensioni sulla questione del nucleare di Teheran.

La decisione americana, tuttavia, potrebbe diventare un boomerang per Washington, dal momento che i MeK, alla luce dei loro precedenti, sono estremamente impopolari tra la popolazione iraniana e gli stessi oppositori interni del regime. 

Secondo quanto scritto da un sito web vicino al “Movimento Verde” filo-occidentale, infatti, “non esiste organizzazione, partito o culto con una fama peggiore dei MeK in Iran”. Molti analisti ritengono inoltre che i membri dei MeK siano dei fanatici che coltivano una sorta di culto della personalità nei confronti dei loro leader, i coniugi di stanza a Parigi Massoud e Maryam Rajavi.

Per convincere il governo americano a riabilitare la loro organizzazione, già rimossa dalla lista del terrore dell’Unione Europea nel 2009, i MeK hanno in questi anni ingaggiato sostenitori autorevoli, tra cui spiccano l’ex sindaco repubblicano di New York, Rudolph Giuliani, l’ex governatore democratico della Pennsylvania, Ed Rendell, il ministro della Giustizia durante l’amministrazione Bush, Michael Mukasey, l’ex governatore democratico del Vermont e già candidato alla Casa Bianca, Howard Dean, l’ex direttore della CIA, Porter Goss, l’ex capo di Stato Maggiore, generale Hugh Shelton, l’ex comandante NATO, generale Wesley Clark, e tanti altri.

Queste personalità, molte delle quali tra i più accesi sostenitori della guerra al terrore, sono state tutte pagate profumatamente per tenere discorsi pubblici a favore di un’organizzazione definita come terroristica dal loro stesso governo. Alcuni di loro sono stati anche sottoposti quest’anno ad un’indagine del Dipartimento del Tesoro, poiché accettando i compensi dei MeK avrebbero violato la legge americana che vieta il sostegno in qualsiasi forma a gruppi terroristici.

Come ha scritto qualche giorno fa il reporter di Asia Times Online, Pepe Escobar, per ripulire la loro immagine e convincere le autorità americane a rimuoverli dalla lista del terrore, i MeK si sono anche affidati ai servizi di tre importanti studi legali di Washington - DLA Piper, Akin Gump Strauss Hauer & Feld e diGenova & Toensing - ai quali hanno versato 1,5 milioni di dollari nell’ultimo anno per far dimenticare assassini e attacchi terroristici vari.

Forse non a caso, lo sdoganamento dei MeK è giunto proprio nella settimana che ha visto Obama e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parlare all’ONU in termini minacciosi della crisi costruita attorno al nucleare iraniano, così da aumentare ulteriormente le pressioni su Teheran.

Come hanno scritto sul loro blog Race for Iran Flynt e Hillary Leverett, entrambi ex membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, la lista del terrore degli Stati Uniti è un meccanismo quanto meno discutibile, visto che “negli anni le amministrazioni americane hanno manipolato cinicamente le designazioni, aggiungendo o rimuovendo organizzazioni o paesi per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con il loro coinvolgimento in attività terroristiche”, come avvenne appunto con il protettore dei MeK, Saddam Hussein.

Ciononostante, aggiungono i Leverett, anche considerando la lista legittima, la mossa del Dipartimento di Stato di ripulire il curriculum di un’organizzazione responsabile di innumerevoli vittime civili, appare controproducente e finisce per screditare quel che resta dell’immagine tutta esteriore degli Stati Uniti come i protettori della democrazia e dei diritti umani in Medio Oriente.

Dall’Iran, dove si sostiene che le attività dei MeK abbiano causato la morte di 12 mila civili iraniani negli ultimi trent’anni, è subito giunta la condanna della decisione americana. Nella giornata di sabato la TV di stato ha ricordato che “esistono innumerevoli prove del coinvolgimento del gruppo in attività terroristiche”, mentre la riabilitazione dei Mujahideen mostra come gli Stati Uniti “distinguano tra terroristi buoni e cattivi” e “i MeK sono diventati ora i buoni perché Washington si serve di loro contro l’Iran”.

Oltre a rivelare ancora una volta il doppio standard utilizzato da Washington in materia di anti-terrorismo, la rimozione dei MeK dalla lista del terrore conferma infine che l’amministrazione Obama non ha nessuna intenzione di aprire un vero dialogo con l’Iran per risolvere la questione del nucleare. 

Anche se la retorica elettorale sembra suggerire la volontà della Casa Bianca di puntare ad una soluzione diplomatica, l’atteggiamento del governo USA indica chiaramente come, alle spalle dei cittadini americani, si stia preparando un nuova guerra criminale contro l’Iran, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’intero pianeta.



Come le bugie del governo diventano verità
di Paul Craig Roberts - www.paulcraigroberts.org - 29 Settembre 2012
 
Nel mio ultimo articolo, “A Culture of Delusion”, ho scritto che “gli americani vivono in un contesto di menzogne. Le menzogne dominano ogni discussione ed ogni decisione politica.” Questo articolo tratterà le due storie di punta, il nucleare iraniano e Julian Assange, per mostrare come le bugie diventano “la verità”.

I media occidentali Presstitute [da press e prostitute ndt] usano ogni bugia per demonizzare il governo iraniano. Il 28 settembre, in una crisi di totale ignoranza, il giornalaccio britannico Mail Online, ha chiamato il presidente iraniano “dittatore”. 
La presidenza iraniana è un ufficio affidato a elezioni popolari, e l'autorità di quella carica è subordinata agli ayatollah. Assange viene demonizzato alternativamente come stupratore o spia.

I media occidentali e il Congresso statunitense comprendono le due più grandi case chiuse della storia umana. Una delle loro bugie preferite è che il presidente dell' Iran, Ahmedinejad, voglia uccidere tutti gli ebrei. Guardate questo video di 6 minuti e 32 secondi in cui Ahmedinejad incontra i leader religiosi ebraici. Non fatevi sviare dal titolo, Washington Blog stava scherzando. http://www.globalresearch.ca/horrifying-graphic-video-of-iranian-leader-savagely-abusing-jews/

La settimana scorsa l'informazione era dominata dall'inesistente ma virtuale programma iraniano di armi nucleari. Il primo ministro israeliano, Netanyahu, è intervenuto spudoratamente nelle elezioni presidenziali americane chiedendo ad Obama di specificare la “red line” per un attacco all' Iran.

Netanyahu crede nella sua pressione su Obama, il presidente dell' “unica superpotenza mondiale”, poco prima delle elezioni. Israele non può attaccare da solo l'Iran senza correre il rischio di venire distrutta. Ma Netanyahu calcola che se attacca l'Iran la settimana prima delle elezioni americane, Obama dovrà sostenerlo o perderà il voto degli ebrei in stati come la Florida, che è un grande bacino elettorale. Con le elezioni vicine, Netanyahu, una persona consumata dall'arroganza e dalla supponenza, potrebbe far valere la sua minaccia ed attaccare l'Iran, nonostante l'opposizione degli ex capi dell'intelligence e dell'esercito israeliani, il partito d'opposizione, e la maggioranza del popolo israeliano.

In altre parole, il risultato delle elezioni presidenziali della “superpotenza” potrebbe dipendere dal fatto che l'attuale presidente della “superpotenza” sia sufficientemente obbediente al folle primo ministro israeliano o no.

Che il risultato delle elezioni presidenziali possa dipendere dall'agenda del primo ministro di un piccolo paese che esiste solo grazie agli aiuti finanziari, militari, al supporto diplomatico, e soprattutto al veto alle Nazioni Unite degli Stati Uniti, dovrebbe disturbare quegli americani che credono di essere la “nazione indispensabile”. E quanto sei indispensabile quando devi fare quello che vuole il primo ministro israeliano?

I media statunitensi sono certi che questa cosa non entrerà mai nelle teste degli americani. Agli americani è stato detto che se l'Iran non ha armi nucleari, ha un programma nucleare militare. Questo è quello che dicono loro i politici di entrambi gli schieramenti, i media e la lobby israeliana. Agli americani viene detto questo nonostante CIA e National Intelligence Estimate siano arrivati alla conclusione che l'Iran abbia abbandonato i suoi interessi nucleari militari nel 2003 e gli ispettori dell' Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica in Iran non hanno riportato prove di programmi nucleari militari e di nessun programma militare per l'arricchimento dell' uranio.

Inoltre, cosa potrebbe farsene l'Iran di armi nucleari se non per difendersi da un'aggressione? Qualsiasi uso offensivo porterebbe alla distruzione dell' Iran.

Perché gli americani credono che l' Iran abbia bombe atomiche o che le stia fabbricando, quando la CIA dice di no? La risposta è perché lo dice Netanyahu, e ai membri eletti del governo americano alla Camera, al Senato, e alla Casa Bianca dispiace contraddire il primo ministro di Israele, così come la stampa americana e le tv. Che “superpotenza” che siamo! La “nazione indispensabile” deve rotolarsi nella polvere davanti a Netanyahu. Gli americani non sono neanche consapevoli della loro vergogna.

L'Iran, a differenza di Israele, ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare. I firmatari hanno il diritto all' energia nucleare. L' energia nucleare richiede un basso livello di arricchimento, 5% o meno. Il piccolo Iran ha annunciato un programma energetico nucleare, il governo israeliano e le sue prostitute a Washington hanno mentito dicendo che l' Iran costruiva la bomba atomica. Per aver esercitato i suoi diritti sanciti dal trattato, l' Iran è stato dipinto e demonizzato come uno stato selvaggio e criminale.

Un' arma nucleare richiede l' arricchimento al 95%. Arrivare al 5% da zero e poi arrivare al 95% richiede un processo molto lungo. Credo di aver sentito per la prima volta il governo israeliano lamentarsi delle bombe nucleari iraniane negli anni '90 del secolo scorso.

Quando l' Iran annunciò il suo programma, per le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, sanzioni che hanno avuto effetti sui rifornimenti medici, l' Iran stava iniziando ad arricchire l' uranio al 20% per fornirsi di isotopi medici, le accuse israeliane che questo avrebbe portato alla bomba hanno portato l' Iran a dire che il governo iraniano si accontentava che la Francia o qualsiasi altro paese gli fornisse gli isotopi medici e non avrebbe perseguito l' arricchimento oltre il bisogno energetico. Stati Uniti e Russia furono menzionati come fornitori.

Secondo il NY Times del 29 settembre 2011, “il presidente Iraniano ha detto al Washington Post e poi, praticamente con le stesse parole, al New York Times: 'se voi [Stati Uniti e Europa] ci date l' uranio arricchito al 20% fermeremo la produzione'”
http://www.nytimes.com/2011/09/30/opinion/30iht-edvaez30.html?_r=1&

Su ordine di Israele, Washington ha posto il veto alla concessione. Il governo di Israele non vuole risolvere i problemi. Il problema va tenuto vivo così da poter essere usato per fomentare un attacco all' Iran.

Le bombe nucleari iraniane sono una grande bufala, una bugia progettata per nascondere il vero scopo.

Quale è il vero scopo?
Il vero scopo nascosto dietro l' isteria del nucleare militare iraniano è il disegno della destra israeliana al governo sulle risorse d' acqua nel sud del Libano.

Poche migliaia di combattenti di Hezbollah furono in grado di sconfiggere l' esercito israeliano, equipaggiato e rifornito grazie ai dollari dei contribuenti statunitensi, mentre agli americani venivano pignorate le loro case e venivano lasciati senza lavoro e Washington plaude alla delocalizzazione dei loro lavori, perché la Siria e l'Iran danno a Hezbollah un supporto finanziario e militare che distrugge i tank israeliani.

La Siria, di sicuro, sta resistendo alla sua distruzione da parte di Israele e degli stati fantoccio americani. Il rovesciamento della Siria non è andato a buon fine perché Russia e Cina non hanno acconsentito, come stupidamente hanno fatto con la Libia. Ma il governo di estrema destra israeliano ha concluso che coinvolgendo il prestigio americano nel rovesciamento del governo di Assad in Siria, il compito verrà svolto.

Questo licenza l'Iran. Il governo israeliano sa che non può essere schietto e chiedere agli americani di entrare in guerra contro l' Iran, in modo che Israele possa rubare il sud del Libano. Ma se la paura di bombe atomiche inesistenti riesce a provocare il supporto della popolazione occidentale ad un attacco all' Iran, l' Iran può essere eliminato come rifornitore di Hezbollah, e Israele può rubare l' acqua del Libano.

Non c' è nessuna discussione sulla stampa o sui media televisivi statunitensi del vero scopo. Dubito se ne discuta in Europa, che è un insieme di stati fantoccio americani.

Avremo la 3° Guerra Mondiale per Natale? Forse, se l’elezione (del presidente) USA si configura come sembra. Se il risultato fosse ancora in dubbio, Netanyahu potrebbe lanciare il dado e sperare che Obama lo segua. L' Iran verrebbe attaccato e le conseguenze sono ignote.

Passiamo ora a Julian Assange e Wikileaks. Come l' Iran, Assange è stato demonizzato, non sulla base dei fatti ma su delle bugie.

Washington, che si pone come promotore dei diritti umani, sta maltrattando se non torturando Bradley Manning dal maggio 2010 senza processarlo nello sforzo di fargli dire che lui e Assange costituiscono un gruppo di spionaggio contro gli Stati Uniti.

Assange è una celebrità per il fatto che Wikileaks pubblica le notizie trapelate dalle organizzazioni che i media Presstitute sopprimono. In Svezia, Assange è stato rimorchiato da due donne affamate di celebrità e lo hanno portato a letto. 

Le donne poi si sono vantate delle loro conquiste sui social media, ma apparentemente, quando si sono accorte che erano rivali, si sono rivoltate contro il “traditore” Assange e gliela hanno fatta pagare. Una ha affermato che lui non aveva usato il preservativo come da lei richiesto, e l'altra afferma che si era offerta per un rapporto ma lui ne ha avuti due.

Quali siano le accuse, l' ufficio della procura svedese ha indagato e archiviato il caso.

Nonostante questi fatti noti, i media Presstitute occidentali hanno riportato che Assange è un fuggitivo accusato di stupro che si nasconde nell' ambasciata dell' Ecuador di Londra. Anche RT, una voce alternativa, è caduta in questa disinformazione.

Dopo che Assange è stato rilasciato in Svezia, un pubblico ministero donna ha riaperto il caso. Non essendoci prove per accusarlo, ha richiesto all' Inghilterra di arrestare Assange ed estradarlo in Svezia per interrogarlo.

Di solito le persone non sono soggette ad estradizione per gli interrogatori. Solo le persone formalmente accusate vengono estradate. Ma questo dettaglio non era interessante per i media Presstitute o per le corti britanniche che realizzano i desideri di Washington.

Le opinioni variano dal fatto che il pubblico ministero donna che vuole interrogare Assange sia una femminista idealista che non crede nel sesso eterosessuale o che sia pagata da Washington. Ma gli esperti sono d'accordo che una volta arrivato in Svezia, Assange sarà sicuramente rigirato a Washington, che richiederà la sua estradizione sulla base di false accuse. L' estradizione con false accuse è difficile in Inghilterra, ma facile in Svezia.

Assange si è offerto di farsi interrogare a Londra, ma il pubblico ministero ha rifiutato. Ora l'ambasciata dell' Ecuador si è offerta di mandare Assange all' ambasciata ecuadoriana in Svezia per l' interrogatorio, ma Washington, Londra e il pubblico ministero svedese hanno rifiutato. Vogliono Assange privo della protezione dell' asilo che l' Ecuador gli ha garantito.

Washington lo ha reso palese. John Glaser ha scritto su Antiwar.com il 26 settembre 2012, riportando: “Nuovi documenti desecretati hanno rivelato che i militari statunitensi hanno designato il fondatore di Wikileaks Julian Assange come nemico dello stato, e potrebbe essere ucciso o detenuto senza processo.”

http://news.antiwar.com/2012/09/26/declassified-documents-reveal-us-military-designated-assange-enemy-of-state/ Guardate anche qui http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/sep/27/wikileaks-investigation-enemy

Assange è nemico di Washington perché ha fatto venire fuori la verità. Wikileaks è un'impresa giornalistica, non un'impresa di spionaggio. Pubblica informazioni, alcune sono trapelate tramite informatori, proprio come i Pentagon Papers trapelarono fino al New York Times. Le informazioni di Wikileaks hanno messo in imbarazzo Washington mostrando le due facce di Washington, manipolatore con i governi e i media degli altri paesi, e straripante di falsità.

In altre parole, Washington non rappresenta una luce sulla collina, ma i cancelli dell'inferno o di Mordor.

Assange dovrebbe fare attenzione. Se parla ancora dal balcone dell'ambasciata ecuadoriana ad una folla che lo supporta, è probabile che un cecchino della CIA gli spari.

Ovviamente, tutto approvato da Obama, o dal suo successore.