martedì 12 aprile 2011

Decrescita: l'ultima speranza

Torniamo ancora sul tema della "decrescita", l'unica vera ricetta utile per uscire dalla crisi economica di sistema che ci sta sommergendo.


Decrescita e finanza etica: idee per uscire dalla crisi
di Maurizio Pallante e Andrea Bertaglio* - Il Fatto Quotidiano - 12 Aprile 2011

Siamo di fronte ad una svolta probabilmente epocale: il modello economico nato 250 anni fa dalla rivoluzione industriale e basato sulla crescita infinita si scontra con i limiti fisici della biosfera.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, ci si era illusi che l’economia capitalistica e liberista, guidata dalla mano invisibile del mercato, avrebbe portato progresso e benessere per tutti, ma così non è stato.

Il mondo non è mai stato così ricco (per pochi) e mai così povero (per moltissimi) e tale divario è in aumento anche nel mondo occidentale.

Negli ultimi decenni si sono succeduti conflitti per il controllo delle risorse; oggi il Nord Africa è scosso da venti di guerra e di ribellione mentre migliaia di persone premono alle nostre frontiere e spesso perdono la vita nel disperato viaggio verso l’occidente.

Infine, la questione ambientale: forse mai come negli ultimi anni la natura ha svelato la sua forza distruttiva fra uragani, terremoti e tsunami.

Nessuno mette più in discussione l’effetto serra, ma ci si è già dimenticati del disastro ecologico causato dalla piattaforma petrolifera della Bp un anno fa al largo della Florida.

Ora, dopo Fukushima, l’uomo, apprendista stregone, scopre tutta la sua impotenza e incapacità di governare e controllare l’energia nucleare.

Ce n’è abbastanza per decretare il fallimento e la fine di tutte le teorie economiche degli ultimi 50 anni e per dire che siamo di fronte ad una crisi economica, finanziaria, ambientale, politica, sociale e culturale senza precedenti.

Per uscire da tale crisi occorre un radicale cambio di paradigma culturale. Non si può più pensare di risolvere i problemi causati dal vecchio modo di pensare senza adottare nuovi strumenti culturali e nuove categorie di pensiero e di azione.

Non si può più pensare nemmeno in termini di crescita e sviluppo sostenibile, perché siamo sempre all’interno dei vecchi schemi, sia pure in una logica più “umana” o di semplice riduzione del danno.

Per uscire dalla crisi la strada obbligata è quella di una economia della decrescita e di una finanza eticamente orientata, come cercheremo brevemente di illustrare.

La decrescita si pone l’obiettivo di ridurre l’utilizzo di combustibili fossili, il consumo della materie prime e la produzione di rifiuti. La decrescita non è una semplice diminuzione del Pil, ma una riduzione guidata della produzione e del consumo di merci che non sono sempre sono beni.

Bisogna ridurre il superfluo e gli sprechi. Meno e meglio. Per raggiungere tale obiettivo occorrono tecnologie ben più avanzate di quelle attualmente in uso.

Da ciò deriva la necessità di creare occupazione in attività professionalmente più evolute e oggettivamente utili (ad esempio, nel settore dell’agricoltura biologica, del risparmio energetico, del recupero di materiali, della produzione di energia da fonti rinnovabili).

Professioni utili non solo perchè producono beni (e non merci) che soddisfano bisogni primari ed essenziali, ma anche perché riducono il consumo di risorse che stanno diventando sempre più rare: si pensi in particolare alle fonti fossili, ma anche agli effetti negativi sull’ambiente che inevitabilmente ne derivano sia in fase di prelievo, sia in fase di utilizzazione.

Bisogna impostare una nuova politica economica e industriale in grado di creare occupazione di qualità e riavviare il ciclo economico. La crescita da almeno trent’anni non crea occupazione, tanto meno occupazione di qualità.

Le politiche economiche tradizionali, finalizzate a superare la crisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso la spesa pubblica, la riduzione delle tasse e il credito al consumo, hanno fallito miseramente. In questa fase storica nei paesi industrializzati la decrescita è l’unico modo di creare occupazione.

Alcuni semplici esempi concreti: non serve costruire nuove case, che consumano il territorio e restano spesso invendute, occorre invece ristrutturare l’intero patrimonio edilizio esistente secondo criteri di efficienza energetica.

Non serve costruire nuove auto, in Italia ve ne sono già oltre 35 milioni, serve invece diversificare, puntare sulla microcogenerazione di energia, investire in tecnologia e ricerca in campo energetico e ambientale. Non serve incenerire i rifiuti, perché è nocivo per la salute ed è uno spreco di risorse che vanno invece recuperate e riciclate.

Il superamento della crisi economica si può dunque realizzare solo sviluppando le tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale aumentando l’efficienza con cui si usano le risorse, riducendone il consumo e, di conseguenza, l’impatto ambientale.

E qui entra in gioco una nuova finanza, la finanza etica o eticamente orientata, ovvero attenta alle conseguenze sociali e ambientali dell’agire economico.

La decrescita e la finanza etica possono e devono andare a braccetto e lavorare in sinergia: la finanza etica può finanziare progetti e iniziative orientate alla decrescita e la decrescita, se correttamente applicata e guidata, può generare un nuovo ciclo occupazionale ed economico i cui redditi saranno utilizzati o reinvestiti secondo i criteri della finanza etica, creando un circolo virtuoso destinato ad autoalimentarsi, a crescere (è questa la crescita che auspichiamo!) e a lasciare un mondo vivibile alle generazioni future.

Una cosa è certa: in questo momento nessuno ha idea di come uscire dalla crisi. Il Movimento della Decrescita Felice e quello della finanza etica hanno il vantaggio di avere sia le idee che gli ideali, e non è cosa da poco. Nei prossimi 10-20 anni ci giochiamo il nostro futuro. Cerchiamo di giocarcelo bene!

* Maurizio Pallante, presidente del Movimento per la Decrescita Felice
Luca Salvi, coordinatore soci veronesi di Banca Etica


Contro gli ossessi della "crescita": la politica per sopravvivere

di Fabrizio Tringali - Megachip - 12 Aprile 2011

I fatti recenti hanno accentuato la frattura tra Berlusconi e il resto del ceto politico italiano. Gli errori del governo sono stati di tale portata che nemmeno Maurizio Belpietro ha potuto evitare di riconoscerli.

L'Italia è stata completamente scavalcata nella gestione della guerra alla Libia, perdendo l'unica cosa che interessa alla classe imprenditoriale: l'accesso privilegiato alle risorse energetiche.

Per giunta trovandosi a dover affrontare da sola il dramma dei profughi in fuga. Il capitalismo industriale italiano, che non ha mai avuto grande fiducia in Berlusconi, rialza la voce.

La Confindustria si smarca dal governo e dichiara che “in Italia gli imprenditori sono lasciati soli

Traballano anche gli appoggi nel mondo finanziario, come dimostra l'improvviso cambio al vertice delle Generali, con la defenestrazione di Cesare Geronzi, definito dal premier “l'unico banchiere che non vota alle primarie dell'ulivo” (quando mette da parte le pessime barzellette a sfondo sessuale, anche lui azzecca qualche battuta).

I ceti dominanti hanno capito che l'attuale governo non è più in grado di garantirli, e provano a ridisegnare l'assetto del sistema politico, inserendo le personalità che hanno maggiori chance di sfrattare il cavaliere da Palazzo Chigi.

Montezemolo rilascia già interventi sui giornali che indicano le strade che intende percorrere per andare incontro alle esigenze degli imprenditori e rilanciare la “crescita”: favorire i consumi per piazzare le quantità di merci sempre crescenti che il capitalismo produce.

Ma le persone che hanno un'occupazione precaria, a causa della loro condizione di incertezza, consumano poco. Troppo poco per le brame di profitto del capitale.

Dunque ecco la ricetta dei “nuovi arrivati” sulla scena politica: stabilizzare un po' di precari in modo da favorire l'aumento dei loro consumi. E contemporaneamente aggredire ulteriormente il sistema pensionistico.

Tuttavia la “crescita” è esattamente il contrario di ciò di cui abbiamo bisogno. Da almeno 30 anni “crescita” non vuol dire affatto aumento dell'occupazione, miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita.

Significa solo maggiori consumi. Con tutte le gravi conseguenze ambientali e sociali che ne derivano: ulteriore produzione di merci, e conseguente aumento del fabbisogno energetico e delle emissioni di CO2.

Il che, alle condizioni attuali, significa due cose: aumento della crisi ambientale (che rischia seriamente di causare effetti irreversibili), e guerre per l'accaparramento delle materie prime energetiche.

Tutto ciò sta già accadendo: la corsa al nucleare, ora frenata dalla tragedia giapponese, e la guerra in Libia, sono la conseguenza logica di scelte scellerate, miopi e criminali.

Dobbiamo diffidare di chiunque ci proponga ulteriore crescita, perché tentare di uscire dalla crisi inseguendo la crescita equivale a tentare di spegnere un incendio con la benzina.

Lo scontro cui stiamo per assistere, tutto interno alla classe dominante, può solamente portare tutti noi dalla padella nella brace.

Se Berlusconi resisterà, continuerà ad occuparsi degli affari suoi, distruggendo l'impalcatura istituzionale della Repubblica, a partire dal sistema giudiziario, e attaccando la stessa Costituzione.

Se invece prevarrà la corte di Montezemolo finiremo nelle fauci degli squali del capitalismo industriale, che cercheranno in ogni modo di preservare i propri profitti, a scapito dei diritti, delle garanzie (le pensioni), dell'ambiente naturale e delle condizioni di vita di tutti noi.

Il quadro appare fosco, e non si rischiara nemmeno se alziamo lo sguardo fuori dai confini nazionali.

La questione dei profughi nordafricani dimostra che l'Unione Europea è semplicemente un mercato. Creato ad arte per la difesa degli interessi economici. Ma dal punto di visto politico, l'Unione Europea non esiste. Non ha una linea, né un governo, né istituzioni democratiche e rappresentative, ad eccezione del Parlamento Europeo, che ora non conta nulla.

L'ONU vive una crisi senza precedenti. Se una generica risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la 1973, è sufficiente per bombardare un paese sovrano, vuol dire che il diritto internazionale, come l'abbiamo studiato e conosciuto dalla nascita della Nazioni Unite in poi, semplicemente non esiste più.

Non vi è nemmeno più la necessità di fingere di rispettarne i capisaldi universalmente riconosciuti: il principio di autodeterminazione dei popoli, e il rispetto dell'integrità territoriali degli Stati. Siamo di fronte a un quadro che lascia sgomenti.

Tuttavia non dobbiamo cadere nella tentazione di minimizzare l'entità dei problemi che ci troviamo dinnanzi.

L'unica via di uscita sta proprio nella piena presa di coscienza dell'estrema gravità della situazione, da parte di un ampio numero di persone.

E nell'impegno diretto di queste nell'organizzazione dell'alternativa. Il primo passo da compiere è liberarci dalle convinzioni indotte dal mainstream mediatico.

Il sistema di informazione-comunicazione è l'arma più potente che viene usata contro tutti noi, allo scopo di indurci al continuo e crescente consumo. E per indottrinarci su un sistema di valori/disvalori funzionale agli interessi del ceto dominante.

È tempo di prendere coscienza che buona parte di ciò che i media presentano come salvifico è in realtà letale. Mentre ciò che viene presentato come nefasto, è in realtà vitale.

L'esempio di come viene dipinta la “crescita” è calzante. Poiché il capitalismo non può che insistere nel tentativo di aumentare i consumi, il sistema economico, tramite i media, tende a trasformare i cittadini in consumatori ossessivo-compulsivi.

Questo è il motivo per cui il mainstream presenta la “crescita” come unica via per uscire dalla crisi. E tutti i partiti si affannano ad offrire ricette per rilanciarla. E questo non è l'unico esempio.

Il sistema di informazione-comunicazione veicola l'idea che qualsiasi forma di partecipazione alla politica sia destinata a degenerare in malaffare.

La parola “partito” è sinonimo di affarismo e furberie. In effetti le attuali forze politiche offrono buoni motivi per essere detestate.

Tuttavia l'idea che “la politica sia una cosa sporca” è perfettamente funzionale al mantenimento dello status quo. Squalificando l'impegno politico ed aumentando il divario tra politica e cittadini, si disincentiva l'impegno diretto delle persone disinteressate, serie e capaci, e le si reindirizza verso il volontariato, l'associazionismo o la militanza in movimenti locali e civici.

In questo modo nascono moltissime realtà impegnate nei più svariati settori (cultura, difesa del territorio, dei beni comuni, etc..), ma si tende ad impedire la formazione di un vero e proprio soggetto politico di opposizione al sistema capitalista-crescista, e di costruzione dell'alternativa.

Occorre invece riscoprire la nobiltà dell'arte politica. E rivendicare il diritto di occuparsi direttamente delle scelte che riguardano la collettività.

L'indignazione per lo stupro che la classe politica ha perpetrato nei confronti della cosa pubblica e del bene comune deve indirizzarsi verso l'impegno diretto alla costruzione di un nuovo partito che consideri la “crescita” ed il sistema di produzione/consumo capitalistici i nemici da abbattere.

Un soggetto politico contrario a qualsiasi forma di alleanza con le forze “cresciste”, finalizzato ad organizzare forze ed intelligenze verso la realizzazione di una pacifica transizione ad un modello di società partecipativa e rispettosa dei limiti naturali.

Tempo fa potevamo pensare che superare il capitalismo fosse necessario per vivere meglio. Adesso è indispensabile per sopravvivere.


Condannati alla crescita
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 11 Aprile 2011

Dopo la tragedia di Fukushima sono state avanzate le soluzioni più svariate: centrali nucleari “sicure” di terza o quarta generazione, rafforzamento del già consistente apparato idroelettrico e, naturalmente, valorizzazione delle cosiddette fonti di energia “alternative” o “pulite”, fotovoltaico, solare termico, eolico.

Non esistono fonti di energia che, usate in modo massivo, non siano inquinanti, in un modo o nell’altro. Alcuni anni fa in una piattissima regione fra Olanda e Belgio, battuta dal vento, furono impiantate trecento enormi torri eoliche.

Gli abitanti ne uscirono quasi pazzi. Per il rumore delle pale e perché erano abituati ad avere davanti agli occhi una pianura sconfinata che ora trovavano sbarrata da queste torri. Un foglio di carta in una casa è un innocente foglio di carta, centomila fogli ci soffocano. Non c’è niente da fare.

Nessuno ha osato proporre la soluzione più ovvia: ridurre la produzione. Questo è il tabù dei tabù. Perché il nostro modello di sviluppo è basato sulla crescita. A qualunque costo. Il lettore avrà sentito dire mille volte, e non solo in questi tempi di crisi, da politici, di destra e di sinistra, da economisti, da sindacalisti: “Bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione”.

Se la guardate bene, a fondo, questa frase è folle. Perché vuol dire che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre. Che non è il meccanismo economico al nostro servizio, ma noi al suo.

La crescita non è un bene in sé. Anche il tumore è una crescita: di cellule impazzite. Il tumore dell’iperproduttività finirà per distruggere il corpo su cui è cresciuto.

Non perché verranno a mancare le fonti di energia e le materie prime come nel 1972 ipotizzavano che sarebbe avvenuto entro il Duemila quelli del Club di Roma nel loro libro-documento I limiti dello sviluppo (magari ci avessero azzeccato, saremmo stati costretti ad autoridurci per tempo): la tecnologia è probabilmente in grado di risolvere questo problema. Ma per la ragione opposta.

Un modello che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, quando non potrà più crescere, perché non troverà più mercati dove collocare i propri prodotti, imploderà su se stesso. Sarà uno tsunami economico planetario.

Questo il futuro prevedibile. Ma basta il presente. La spietata competizione economica fra Stati – questa è, in estrema sintesi, la globalizzazione – passa attraverso il massacro delle popolazioni del Terzo e ora anche del Primo mondo. In termini di più lavoro, di più fatica, di stress, di angoscia, di un perenne pendolo fra nevrosi e depressione in una mancanza di equilibrio e di armonia che ha finito per coinvolgerci tutti.

E gli stessi autori de I limiti dello sviluppo, che non erano dei talebani, ma degli scienziati per di più americani, del mitico Mit, quindi dei positivisti, non ponevano la questione solo in termini tecnici, ma umanistici e concludendo il loro documento scrivevano: “È necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo di stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”.

Ma non sono stati ascoltati. Corre, corre la “società del benessere”, col suo sole in fronte e le sue inattaccabili certezze, e, come un toro infuriato, non si rende nemmeno conto, mentre già gronda sangue, che, in ogni caso, al fondo non più tanto lontano dalla strada delle crescite esponenziali, l’aspetta la spada del matador.



Precari. E disgregati
di Alessio Mannino - www.ilribelle.com - 11 Aprile 2011

Le manifestazioni di sabato avrebbero dovuto avere una partecipazione enorme, considerate la vastità e la gravità del fenomeno. Invece è scesa in piazza solo una piccola minoranza. Motivo: il disagio è comune ma ognuno cerca di venirne a capo per conto suo. E l’instabilità lavorativa degenera nella passività politica

Purtroppo ha ragione quel figuro del ministro Sacconi. Le manifestazioni di sabato contro la precarietà indette in tutta Italia al grido di “il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”, di precari ne hanno visti ben pochi: appena 8 mila presenti a Roma, dove si svolgeva l’evento più grande.

Segno che le associazioni promotrici (le maggiori erano quelle dei giornalisti freelance, Articolo 21, Rete e Unione Studenti, Arci), i partiti aderenti (Pd, Sel, Rifondazione Comunista, IdV) e persino la potente Cgil non sono stati capaci di portare in piazza i diretti interessati.

I quali, limitandosi al campo dei laureati, secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea dovrebbero essere un esercito: solo il 36% dei neo-dottori ha un lavoro stabile (la percentuale scende al 26% per chi ha una laurea “specialistica”, cioè chi è andato fino in fondo nella faticaccia dell’inconcludente “nuovo ordinamento”).

Un flop che ha una motivazione sociale e politica precisa. Il precariato non costituisce un gruppo omogeneo per interessi. Volendo riesumare una categoria marxiana che nella nostra società individualizzata e parcellizzata ha fatto il suo tempo, non esiste una “classe” di giovani sfruttati contrapposta ad una classe di sfruttatori.

La generazione cocopro è fatta da una massa pulviscolare di storie personali irriducibili l’una all’altra, tante quante sono le forme di contratto che ogni azienda stipula col singolo lavoratore.

Il comun denominatore è il tempo determinato e la mancanza di garanzie (zero contributi pensionistici, niente ferie pagate ecc) ma la relazione fra padrone e prestatore di manodopera è individuale o comunque sentita come tale, il che fa lo stesso.

In altre parole l’ingegnere costretto per campare a fare il cameriere non ha la percezione di un’identità d’interessi col giornalista pagato 4 euro lordi a pezzo (per dirla sempre alla Marx, non ha una coscienza di classe). Tutt’al più prova un sentimento di affinità nella sventura, della serie “siamo tutti nella merda, così va il mondo” e amen.

A minare alla radice nel singolo precario ogni possibile consapevolezza di non essere un’isola solitaria, una monade chiusa nel suo guscio, contribuisce potentemente l’imperante cultura individualista, che indebolisce legami e appartenenze secondo il mito fasullo del self made man, dell’“imprenditore di se stesso”, della persona libera da tutto che coltiva l’illusione di farcela in splendida solitudine.

In queste condizioni, il semi-occupato flessibilizzato, mercificato, usa e getta non riesce neppure a mettere a fuoco che il suo problema è un problema collettivo. Quindi non trova la spinta ad attivarsi, a partecipare alle mobilitazioni, a considerarsi parte di un insieme più vasto di lui. Si sente impotente, rassegnato, frustrato.

La sua scontentezza si fa scetticismo, e lo scetticismo apatia. Complice una generale debolezza della politica, dal suo orizzonte è scomparso finanche il bisogno di trasfondere il proprio risentimento in azione comune. Si indigna, certo. S’incazza, senza dubbio.

Ma siccome, per fortuna per lui e tuttavia, verrebbe da dire, per sfortuna di tutti, non muore di fame grazie al vero welfare italiano, la famiglia, la lotta per la sopravvivenza non lo costringe come un tempo ad alzare le orbite fisse sulle difficoltà quotidiane e a mettersi in gioco per cambiare le cose.

D’altronde, non avrebbe a chi rivolgersi. I partiti sono i terminali esecutori dell’ingiustizia che patiscono e le loro teatrali contrapposizioni fanno da paravento al colpevole a monte, che è l’intera architettura industrial-finanziaria che detta legge e condiziona le leggi e non viene sfiorata dalla minima contestazione (se non in settori delimitati, minoritari e fatti astutamente passare come casi-limite ideologici, vedi la battaglia tra la Fiat e la Fiom per i metalmeccanici).

Soli, senza un nemico chiaro, portati a credere che impegnarsi in fondo sia un’inutile perdita di tempo, sotto il perenne ricatto di imprese prive di obblighi per cui un curriculum vale l’altro, è giocoforza che la moltitudine dei precari se ne stia alla larga dai cortei, anche quando organizzati apposta per darle voce.

È proprio vero: la precarietà uccide la vita. La vita, però, si incarica sempre, prima o poi, di riprendersi la rivincita. Non so se è più convinzione o speranza, ma credo che con tutta la sua mostruosità l’economia non sia ancora riuscita a piegare del tutto la natura. Ci vorrà una Fukushima economica per vedere se è vero.


Il grande saccheggio. Intervista a Piero Bevilacqua
da Megachip - 11 Aprile 2011

In questa intervista allo storico e saggista Piero Bevilacqua continua la serie di microindagini sulle idee per la Transizione, altrettante finestre affacciate su pensieri che potrebbero accompagnarci a lungo, ora che non vogliamo attardarci con gli schemi del XX secolo: la solita destra-sinistra, le isole culturali incomunicanti, gli scontri di civiltà, il mercato delle idee funzionale alle ideologie dell'accumulazione, sullo sfondo delle possibilità autodistruttive della nostra specie.

Stiamo conoscendo invece menti creative, libri davvero originali, pensieri diversi. Forse conosceremo soluzioni ai problemi generati da un cambiamento difficile.

1) Professor Bevilacqua, lei ha sostenuto che la crisi che stiamo vivendo è diversa da tutte le altre attraversate dal capitalismo storico. Può spiegarci perché?

In genere tutte le crisi cicliche del capitale sopravvengono dopo una fase di esuberanza produttiva. Durante questa fase le imprese fanno grandi profitti, grazie a un aumento straordinario della produttività (legato alle innovazioni tecnologiche), ma offrono in genere larga occupazione e anche aumenti salariali ai lavoratori. E' il tempo delle “vacche grasse”, la fase alta del ciclo e quindi, in una certa misura, anche i lavoratori traggono qualche beneficio.

Ad esempio, prima della Grande Crisi degli anni Trenta la situazione industriale degli USA aveva proprio queste caratteristiche. Ma tutto questo non si è verificato prima dell'attuale crisi, né in USA né altrove.

La disoccupazione è rimasta elevata, gran parte dei nuovi lavori sono stati creati nei servizi e per lo più in forme precarie. Inoltre i redditi dei lavoratori non sono aumentati.

Basti pensare che a metà degli anni 90, in USA, i bambini poveri rappresentavano oltre il 26%, la stessa cifra della Russia di Eltsin, allora in preda alle convulsioni dovute al crollo dell'URSS.

Inoltre, resta da aggiungere, che la crisi economica e finanziaria avviene in un quadro di grave allarme per l'esaurimento delle risorse naturali e per il riscaldamento climatico in atto. Quindi la crisi si presenta come la sconfitta di un paradigma dello sviluppo che ha dominato fino a oggi.

2) Secondo lei le ragioni dell’ecologia e dell’ambientalismo possono conciliarsi con la Green Economy o esigono piuttosto un ripensamento radicale del modello di sviluppo capitalistico?

La green economy, può contribuire a far prendere al capitalismo una direzione meno distruttiva di quella attuale, offrire posti di lavoro di nuovo tipo, creare un entusiasmo culturale industriale di tipo ambientalista, favorire anche la democrazia con la creazione di una diffusione “sociale” di fonti di energia.

Vale a dire dare autonomia energetica ai cittadini che dipendono sempre meno da grandi strutture centralizzate, come le società elettriche, le centrali atomiche, ecc. E tuttavia essa non può essere pensata come un modo per continuare lo sviluppo, per inseguire la crescita economica quale obiettivo generale.

Perché è il cosiddetto sviluppo, la crescita illimitata dell'economia, la nostra più grande minaccia, e la green economy non deve costituire l'alibi per continuare nella corsa.

3) Che ruolo riconosce alla Decrescita nella prospettiva di un superamento dell’attuale sistema economico e sociale?

La decrescita - o, forse meglio, la creazione di uno “stato stazionario”, nel quale entrate e uscite nel sistema stanno in equilibrio - è , a mio avviso , la prospettiva teorica giusta.

E qui concordo con Latouche. Ma questa prospettiva ha una difficile traducibilità politica. In democrazia la lotta politica avviene secondo regole non violente che puntano a guadagnare il consenso dei cittadini.

Come convinciamo i cittadini alla decrescita? Ancora non siamo riusciti a elaborare un nuova narrazione sulla decrescita che sia minimamente paragonabile a quella costruita sul “grande racconto” dello sviluppo.

Sotto il profilo politico io credo che il tema dei beni comuni abbia una più grande capacità comunicativa, all'altezza dei problemi ambientali che abbiamo di fronte e in grado di creare convinzioni profonde nei cittadini, reale egemonia.

4) Qual è la sua opinione sulla finanziarizzazione dell’economia globale? Possono ancora esserci dei margini di autonomia per gli Stati nazione, in mancanza di una effettiva sovranità monetaria?

La finanziarizzazione dell'economia mondiale è frutto di scelte politiche fatte dai vari governi e stati. Questi governi e stati da altri non sono stati diretti che dagli uomini politici che noi abbiamo eletto.

Quindi – teoricamente – non è affatto impossibile ricondurre la potenza finanziaria sotto il controllo pubblico. Per questo è importante intervenire sul momento fondativo del potere, che nello stato di diritto è ancora quello delle rappresentanze politiche.

La sinistra ha molto trascurato di studiare i modi per separare il ceto politico dal potere economico in generale, che alla fine finisce sotterraneamente o apertamente per orientare la politica di quasi tutti i Paesi.

Occorre sottrarre gli eletti (sindaci, consiglieri, parlamentari, ecc) all'influenza del potere economico, rendendo egalitarie le risorse disponibili per tutti coloro che concorrono nella gara elettorale.

I redditi di chi entra in politica devono diventare monitorabili costantemente dai cittadini attraverso loro strutture autonome e legalmente riconosciute. Chi viola le regole perde per sempre il diritto a candidarsi.

Naturalmente ci sono molti altri punti da sviluppare, cosa che ho fatto nella parte finale del mio libro Il grande saccheggio, Ma constato che siamo molto lontani anche solo dall'avvio di un dibattito.