sabato 2 aprile 2011

Libia update

I veri motivi che sono dietro la guerra in Libia, e non solo.


Ribelli libici, tra al-Qaeda e Cia
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 1 Aprile 2011

Chi sono veramente i ribelli libici sostenuti dagli Stati Uniti e dalla Nato? Come si concilia la presenza al loro interno di gruppi fondamentalisti islamici legati ad Al Qaeda con un comando militare affidato a uno storico dissidente libico strettamente

Martedì scorso, durante un'audizione al Senato americano, l'ammiraglio James Stavridis, comandante delle forze Usa in Europa a capo del quartier generale europeo delle forze Nato (Shape), ha dichiarato che ci sono ''tracce'' di al-Qaeda tra gli insorti anti-Gheddafi, seppur ''non significative''.

Tracce che partono dal videomessaggio del 13 marzo con cui il libico Abu Yahya al-Libi, uno dei principali leader di al-Qaeda, esortava i suoi connazionali a proseguire e intensificare la lotta contro Gheddafi: "I libici hanno sopportato sofferenze di ogni tipo per oltre quarant'anni a opera di Gheddafi, che li ha usati per sperimentare le sue idee marce, le sue stravaganze e le sue politiche folli".

Tracce che proseguono con le notizie pubblicate il 22 marzo dal Sole24Ore a proposito della presenza sul fronte di Ajdabiya di qaedisti libici reduci dall'Iraq e dall'Afghanistan. A iniziare da Abdul-Hakim al-Hasidi: catturato dalle forze Usa in Afghanistan nel 2002, oggi al comando dei ribelli di Derna, ha dichiarato che ''i membri di al-Qaeda sono patrioti e buoni musulmani''.

''Non c'è dubbio che la succursale libica di Al Qaeda, il Gruppo combattente islamico in Libia (Lifg), faccia parte delle forze che si oppongono a Gheddafi; quel che non sappiamo è che peso abbia'', ha dichiarato mercoledì alla stampa indiana Bruce Riedel, ex analista della Cia esperto di terrorismo, per anni consigliere militare della Casa Bianca, membro anziano del Consiglio per le relazione estere e della Brookings Institution.

Il Lifg è stato creato nel 1995 da mujahedin libici reduci della guerra contro i sovietici in Afghanistan, allo scopo di rovesciare il regime di Gheddafi, contro il quale, a Sirte nel marzo del 1996, organizzarono un fallito attentato con l'aiuto logistico e finanziario (100mila sterline) dell'intelligence britannica, l'Mi6. In seguito il Colonnello chiese, primo al mondo, un ordine di cattura internazionale per Osama, ma Londra e Washington bloccarono la procedura.

A capo del gruppo qaedista libico (dal 2001 nella lista nera del terrorismo internazionale islamico) erano Anas al-Liby, che scappato dalla Libia ottenne asilo politico in Gran Bretagna (dove ha vissuto fino al 2000, poi se ne sono perse le tracce), e Mohammed Benhammedi, che da Liverpool fino al 2006 (poi anche lui è scomparso) ha finanziato le attività del Lifg con i proventi del narcotraffico gestito dal barone inglese della droga Curtis Warren.

L'altra sigla storica dell'opposizione al regime libico, tornata d'attualità in questi giorni, è il Fronte nazionale per la salvezza della Libia (Nfsl), movimento laico creato negli anni '80 da dissidenti esiliati negli Usa e apertamente sostenuto dalla Cia.

Anche l'Lnsf aveva tentato di uccidere Gheddafi, nell'aprile del 1984, con una vera e propria azione militare contro il quartier generale del Colonnello a Bab al Aziziyah (morirono ottanta persone, tra libici, cubani e tedeschi dell'est).

L'esponente più noto dell' Nfsl è Khalifa Belqasim Haftar , ex colonnello dell'esercito libico rifugiatosi negli Usa nel 1988 dopo la sconfitta della Libia nella guerra con il Ciad. Da allora ha vissuto a Fairfax, Virginia (10 chilometri dal quartier generale della Cia), da dove ha diretto per anni le attività del braccio armato dell'Nfsl: l'Esercito di liberazione libico.

Poche settimane fa è riapparso a Bengasi per prendere il comando militare dei ribelli, ruolo che ricopre formalmente dal 24 marzo.

A ben guardare, la coesistenza di uomini di al-Qaeda e dei servizi segreti anglo-americani nelle fila dei ribelli libici è una contraddizione solo apparente. Afghanistan docet.


O.k. da Obama (già nobel per la pace...) alla guerra segreta di truppe ombra
di Manlio Dinucci - il Manifesto - 2 Aprile 2011

«Mentre il presidente Obama ha ribadito che nessuna forza terrestre americana partecipa alla campagna di Libia, gruppi di agenti della Cia operano in Libia da diverse settimane»: lo rivela ieri il New York Times. Gli agenti, il cui numero è sconosciuto, sono quelli che «avevano già lavorato alla centrale dell'agenzia spionistica a Tripoli» e altri arrivati più di recente.

Gheddafi aveva permesso alla Cia e ad altre agenzie Usa, nel 2003, di operare in Libia per controllare che avesse rinunciato al suo programma nucleare militare e per trasferire fuori dal paese attrezzature e progetti per la bomba.

Queste stesse agenzie hanno successivamente «riallacciato i loro legami con gli informatori libici», quando «diverse settimane fa, il presidente Obama ha segretamente autorizzato la Cia a fornire armi e altre forme di sostegno ai ribelli libici».

I gruppi della Cia - che operano in Libia nel quadro di una «forza ombra» di cui fanno parte agenti britannici e altri, vere e proprie «truppe di terra ombra», in contraddizione con la Risoluzione 1973 - hanno due compiti.

Anzitutto «contattare i ribelli per comprendere chi sono i loro leader e gruppi di appartenenza». L'ammiraglio James Stavridis, che comanda le forze Usa e Nato in Europa, ha detto, in una audizione al Senato, che vi sono indizi di una presenza di Al-Qaeda tra le forze anti-Gheddafi.

Occorre quindi fornire armi e addestramento ai gruppi affidabili, ossia utili agli interessi degli Stati uniti e dei principali alleati (Francia e Gran Bretagna), escludendo chi non offre sufficienti garanzie. La Francia si è già detta disponibile a fornire armi e per l'addestramento sono già in Libia forze speciali britanniche.

Allo stesso tempo, gli agenti statunitensi e alleati hanno il compito di fornire ai piloti dei cacciabombardieri le coordinate degli obiettivi da colpire, soprattutto nelle aree urbane, che vengono segnalati con speciali puntatori laser portatili.

I dati trasmessi dagli agenti vengono integrati con quelli raccolti da aerei spia di diversi tipi (Global Hawk, U-2, Jstars, Rc-135) che da diverse settimane, prima degli attacchi aerei e navali, hanno sorvolato in continuazione la Libia per individuare gli obiettivi.

Particolarmente importante è il ruolo dei Global Hawk, gli aerei telecomandati che decollano da Sigonella, le cui informazioni vengono trasmesse al centro di comando.

Questo invia le coordinate a un aereo Awacs, decollato da Trapani, che le trasmette ai piloti dei cacciabombardieri. Sono pronti a partire anche i Predator, i droni usati in Afghanistan e Pakistan, armati di missili.

L'inchiesta del New York Times dimostra quindi che i preparativi di guerra erano iniziati ben prima dell'esplosione del conflitto interno e dell'attacco Usa/Nato, e che le operazioni belliche non sono solo quelle che appaiono ai nostri occhi. Se anche l'Italia faccia parte della «forza ombra» che opera in Libia, non si sa.

Però il presidente Obama, nell'esprimere al presidente Napolitano e al primo ministro Berlusconi il suo profondo apprezzamento per il «risoluto appoggio alle operazioni della coalizione in Libia», riconosce la «competenza» dell'Italia nella regione. Una indubbia competenza, acquistata da quando un secolo fa, nel 1911, le truppe italiane sbarcarono a Tripoli.



Nel 2009 Gheddafi propose la nazionalizzazione del petrolio libico
di Kurt Nimmo - www.prisonplanet.com - 28 Marzo 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Roberta Papaleo

La Coalizione dei Globalisti non è interessata a proteggere la popolazione libica da Muammar al-Gheddafi. La no-fly zone e gli attacchi della NATO e degli USA sull’esercito libico non hanno nulla a che fare con la democrazia e con le elezioni libere.

Si tratta di petrolio – e di chi lo possiede.

Nel 2009 Gheddafi ha pronunciato quella parola con la N – nazionalizzazione. Non solo per il petrolio libico, ma per tutto quello della regione. Agli occhi dei globalisti, questo ha reso Gheddafi un pericoloso cane pazzo e ribelle che doveva essere rimpiazzato.

“I paesi esportatori di petrolio dovrebbero optare per la nazionalizzazione a causa della rapida caduta dei prezzi. Dobbiamo mettere la questione sul tavolo e discuterne seriamente”, ha dichiarato. “Il petrolio dovrebbe essere di proprietà dello Stato in questo momento, così potremmo controllare meglio i prezzi dall’aumento o diminuzione nella produzione”.

Come poteva prevedersi, la dichiarazione di Gheddafi è stata un campanello di allarme per la Shell, la BP, la ExxonMobil, la Hess Corp., la Marathon Oil, la Occidental Petroleum e la ConocoPhillips, la spagnola Repsol, la tedesca Wintershall, l’austriaca OMV, la norvegese Statoil, l’Eni e la Petro Canada.

L’anno prima la compagnia statale del petrolio libica, National Oil, aveva preparato una relazione sull’argomenti in cui i funzionari suggerivano la modifica degli accordi EPSA con le compagnie estere in modo da aumentare gli introiti, secondo un rapporto pubblicato sul sito della Pravda [1].


Dopo aver messo in pratica le modifiche ai contratti, la Libia ha guadagnato 5,4 miliardi di dollari dai ricavi del petrolio.

Il piano di Gheddafi è stato riportato dalla Reuters [2] e dai media aziendali.

Oltre a richiedere la nazionalizzazione, il leader libico ha reclamato il sostegno alla sua proposta per smantellare il governo e per distribuire la ricchezza del petrolio direttamente ai 5 milioni di cittadini della popolazione libica.

I burocrati statali, tuttavia, hanno rifiutato l’idea in quanto avevano paura di perdere i loro comodi incarichi e temevano inoltre la collera delle compagnie petrolifere transnazionali e delle banche che le possiedono.

Il primo ministro al-Baghdadi, Ali al-Mahmoudi e Farhat Omar Bin Guida, della Banca Centrale della Libia, hanno detto a Gheddafi che tali misure avrebbero rovinato l’economia del paese conducendola ad una “fuga di capitali”, ovvero i globalisti si sarebbero ripresi i loro soldi dal paese.

“L’Amministrazione ha fallito ed anche l’economia nazionale. Quando è troppo è troppo. La soluzione sta nel dare direttamente alla popolazione libica i ricavi del petrolio e decidere cosa farne”, ha affermato Gheddafi in un discorso trasmesso sulla televisione statale. A questo fine, il leader libico ha sollecitato una riforma radicale della burocrazia del governo.

Il governo, tuttavia, ha votato il rifiuto del piano di Gheddafi di passare la proprietà del petrolio nazionale alla popolazione. 64 ministri su un totale di 468 membri del Comitato Popolare hanno votato per tale misura.

“Il mio sogno in tutti questi anni è stato quello di dare potere e ricchezza direttamente alla popolazione”, ha affermato Gheddafi in risposta al rifiuto.

Nel 1953, gli USA e l’Inghilterra complottarono per rovesciare il governo, eletto democraticamente, del primo ministro iraniano Mohammad Mosaddegh, che aveva promesso la nazionalizzazione della Anglo-Iranian Oil Company, di proprietà inglese, e di darne i profitti alla popolazione iraniana. Mosaddegh tentò di negoziare con l’AIOC, ma la compagnia rifiutò il compromesso proposto.

Per poter ottenere un golpe, l’Inghilterra persuase il Segretario di Stato John Foster Dulles che l’Iran si stava avvicinando ai sovietici. L’allora presidente Truman era alquanto tranquillo al riguardo, ma nel 1953, quando Dwight D. Eisenhower divenne presidente, l’Inghilterra lo convinse ad un colpo di stato comune.

La CIA fu inviata per destabilizzare il paese, liberarsi di Mosaddegh e stabilire il brutale dittatore Mohammad-Reza Shah Pahlavi e la sua polizia segreta, la SAVAK.

Per aver sbagliato nel suggerire il ritorno dei profitti del petrolio alla popolazione libica, ora Gheddafi sta soffrendo un destino simile.


Note:

[1] Pravda: http://english.pravda.ru/hotspots/crimes/25-03-2011/117336-reason_for_war_oil-0/
[2] Reuters: http://uk.reuters.com/article/2009/01/21/businessproind-us-libya-gaddafi-oil-idUKTRE50K61F20090121


Obiettivo dei globalisti: la banca centrale libica è al 100% di proprietà statale
di Eric V. Encina* - http://21stcenturywire.com - 28 Marzo 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Una notizia raramente menzionata dai politici occidentali e gli esperti dei media: la Banca Centrale Libica (N.d.T: d'ora in poi siglata con BCL) è posseduta al 100% dallo Stato.

I globalisti della finanza internazionale e i manipolatori del mercato non lo gradiscono e sono intenzionati a proseguire nei loro sforzi già avviati per detronizzare Muammar Muhammad al-Gaddafi, determinando la fine della Libia come nazione indipendente.

Al momento, il governo libico crea la propria moneta, il dinaro, attraverso gli impianti della banca centrale. Alcuni potrebbero obiettare che la Libia è uno stato sovrano con grandi risorse naturali, capace di sostenere il proprio destino economico.

Uno dei maggiori problemi per i cartelli bancari globalisti è che, per fare affari con la Libia, devono accordarsi con la BCL e la sua valuta, e per questi motivi hanno un dominio e una forza contrattuale pari a zero.

In conseguenza di ciò, spazzare via la BCL non figurerà di certo nei discorsi di Obama, di Cameron e di Sarkozy ma è sicuramente in cima alla lista all'agenda globalista per assorbire la Libia nello sciame di nazioni accondiscendenti.

Quando il fumo dei missili Cruise e delle bombe cluster cesserà, si vedranno all'opera i riformatori dell'Occidente per riformare il sistema monetario libico, saturandolo di dollari senza valore, avviando così una serie di caotici cicli inflattivi.

La BCL è attualmente un ente al 100% di proprietà statale e rappresenta l'autorità monetaria della Jamahiriya Araba Libica del Popolo Socialista. La struttura finanziaria e le procedure gestionali di una banca statale sono naturalmente molto differenti da quelle di una banca centrale europea o di quella statunitense; le sue quote non sono detenute da banche speculative o da una lista non rivelata di azionisti privati, così come avviene per la US Federal Reserve o la Banca d'Inghilterra.

Le leggi costituzionali libiche danno incarico alla BCL di mantenere la stabilità monetaria e di promuovere una crescita sostenibile della sua economia nazionale.

La Libia detiene inoltre il maggior numero di lingotti d'oro in proporzione al Prodotto Interno Lordo di qualsiasi altro paese, eccetto il Libano, secondo il World Gold Council che ha sede a Londra, in base ai report di gennaio del FMI. Il prezzo dell'oro è salito a $1,429.74 per oncia il 25 marzo 2011.

Quest'oro rimarrà in Libia una volta che le forze alleate avranno preso il controllo di Tripoli, oppure verrà smarrito, o verrà scambiato con vagonate su vagonate di foglietti con sopra stampata la scritta 'US Dollars'?

PIEGARE LA LIBIA AL NUOVO ORDINE MONDIALE

Nello statuto bancario libico, uno dei principali mandati è quello di regolare la quantità, la qualità e il costo del credito per incontrare le richieste di crescita economica e di stabilità monetaria.

Questo, naturalmente, è esattamente l'opposto di quanto venga svolto dalle banche centrali possedute dai privati in tutto il mondo. Le banche centrali private favoriscono l'inflazione, creano bolle speculative per poi sgonfiarle, per trasferire ingenti somme di denaro dai ceti bassi e medi nelle mani delle élite finanziarie.

Sta diventando facile diagnosticare le vere cause del caso nel Medio Oriente e dei perduranti attacchi contro la Libia. Finanza, petrolio, militarizzazione e imperialismo, globalizzazione: tutto ciò fa parte dell'agenda corrente del Nuovo Ordine Mondiale.

Egitto e Tunisia sono entrambe cadute in mano a dittature militari ad interim, e sono state rese schiave da miliardi di prestiti a basso costo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) e della Banca Mondiale.

Qualsiasi nazione che corra nella direzione opposta all'ortodossia del NWO verrà sicuramente ostracizzata e portata in salvo dalla mannaia militare. Le azioni di guerra 'legittime' contro queste nazioni non globaliste sono designate per umiliare, degradare e compromettere i diritti umani internazionali, una condizione che è largamente non condivisa nella maggior parte dei mondo.

UN PUPAZZO CANADESE DESIGNATO LEADER PER LE OPERAZIONI DELLA NATO IN LIBIA

La maggioranza degli osservatori direbbe che il Canada è neutrale nel conflitto libico. Ma in questo caso, il consesso degli avidi potenti del mondo ha deciso che il Canada sarà in prima fila nell'intervenire nel caos libico. Con rispetto per i leader e gli ufficiali del Canada, la sua partecipazione in questo conflitto così peculiare e nella copertura dell'opera di Obama in Libia sono troppo efficaci per incamerare profitti e per impossessarsi delle risorse di quella particolare regione del mondo.

“Il ministro della Difesa del Canada Peter MacKay ha riferito venerdì che il generale Charles Bouchard è stato incaricato di condurre la campagna militare degli alleati in Libia”, (Yahoo News, 25 marzo 2011). Bouchard è di stanza a Napoli, Italia, al Comando Unitario della Forze Alleate. Il più recente incarico di Bouchard è stato quello di comandante del NORAD. MacKay aggiunge anche che “sarà comandante delle operazioni NATO, che sono ancora in fase di determinazione”.

Questa è un'ulteriore sfida per il popolo canadese; un'altra ripercussione è data dal fatto che il budget canadese sarà prosciugato da questi interventi, mentre la Bank of Canada ha come principale attività la finanza del debito.

Se il Canada, in un futuro non troppo distante, continuerà a partecipare ai conflitti, diventerà allora una pienamente compiuta nazione globalista e guerrafondaia, unendosi così a USA e Regno Unito.

Ci si potrebbe chiedere cosa diventerà il mondo che è perennemente in uno stato di conflitto. Perché costruire valore solo per distruggerlo con le guerre? Perché aumentare le tasse, spendere e senza ragione devastare le entrate dello stato, creare moneta dal nulla in maniera simile all'usura, e prendere o dare in prestito denaro con interessi di modo che il debito nazionale si accumuli con progressione geometrica?

Vedremo i risultati col passare del tempo: il collasso economico, la creazione di povertà, il finanziamento continuo ai venditori e produttori di armi, le guerre tecnologiche più sofisticate della storia che causano le devastazioni più incredibili e danni irreparabili alla vita umana e a quella delle nazioni.

Se le politiche estere occidentali continueranno ad avere come base la guerra, per piegare sotto il proprio controllo le risorse mondiali, sembra non esserci un futuro per l'umanità.



*Eric V. Encina, vive nelle Filippine e lavora come attivista e riformatore sociale. E' anche un sostenitore del credito sociale.

Lo scenario libico di Obama per il Venezuela
di Nil Nikandrov - www.strategic-culture.org - 22 Marzo 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Maddalena Iesuè

La visita di Barack Obama in America Latina (Brasile, Cile e El Salvador) dal 19 al 23 Marzo prosegue tra gli attuali eventi profondamente drammatici in Libia e nei suoi dintorni.
L’azione militare della coalizione Occidentale nei confronti del “Regime sanguinario di Gheddafi” sta diventando sempre più violenta. L’avvio di un intervento di terra è solo questione di tempo.

L’ostentato ordine di Obama di attaccare la Libia, impartito al 42esimo minuto della conversazione riservata con la sua controparte brasiliana Dilma Rousseff ha dimostrato un episodio ancor più scioccante del soggiorno del leader statunitense in America Latina. Un consigliere Statunitense del Presidente si è avvicinato ad Obama a dispetto di tutti gli standards di protocollo diplomatici e gli ha consegnato un foglio.

Il Presidente degli Stati Uniti gli ha dato uno sguardo, ha preso un telefono cellulare dal suo consigliere e ha detto con voce ferma “Procedete!”. Il Presidente Afro – Americano ovviamente ha cercato di impressionare Dilma con la sua risoluzione, e di dimostrarle che ci sono momenti in cui la diplomazia e le buone maniere vengono messe da parte.

L ’Ambasciatore brasiliano alle Nazioni Unite si è astenuto durante il Consiglio di Sicurezza dal votare la risoluzione sulla Libia. Dilma Rousseff sembra essere più flessibile riguardo le relazioni bilaterali rispetto al suo predecessore Luiz Inacio Lula da Silva. Lula disse che era interessato a sviluppare relazioni con gli Stati Uniti, ma spesso sosterrebbe Chavez.

Questa volta, anche Lula – l’unico dei quattro precedenti Presidenti brasiliani ad esser stati invitati a partecipare alla cena ufficiale con Obama, ha declinato l’invito. Ma Dilma agisce diversamente. Lei ha parlato chiaro, vorrebbe la rimozione delle barriere doganali per i beni Brasiliani, come ad esempio l’etanolo, carne di maiale, succo d’arancia, cotone e acciaio.

Il Brasile necessita anche dell’appoggio degli Stati Uniti per ottenere lo status di membro permanente nel Consiglio di Sicurezza ONU. Questi sono chiaramente interessi di vasta portata, ma il Brasile è disponibile ad un negoziato, annoverando anche un cambiamento di posizione riguardo l’accordo del così detto “Problema Chavez”.

I report televisivi sugli sviluppi in Libia sono trasmessi in America Latina seguendo programmi specifici negli studi televisivi statunitensi. Le incursioni aeree della NATO contro le strutture militari, gli attacchi con missili da crociera sul governo di Jamahirya e sulle sedi del partito, la caccia a Gheddafi attraverso l’uso di droni – tutto ciò si alterna con reports sulla visita di Obama in Sud America.

I Presidenti ospiti e padroni di casa a Brasilia, Santiago del Cile e San Salvador, hanno stretto mani, pronunciato discorsi cordiali, si sono profusi in inchini, per dimostrare che l’America Latina è presumibilmente disinteressata (non poi del tutto) a ciò che sta accadendo sull’altro lato del globo, - in Libia.

I Presidenti della cricca di Washington in America Latina approvano puntualmente l’uso della forza da parte degli Stati Uniti contro coloro i quali “non sono con noi”. I Presidenti di Messico, Honduras, Costa Rica, Panama, Colombia, Perù e Paraguay, hanno espresso il loro sostegno all’attuale azione militare contro la Libia.

I Presidenti di El Salvador e Cile, Mauricio Funes e Sebastian Pinera sono partners affidabili di Washington, sempre pronti ad allinearsi con Barack Obama.

Tuttavia i paesi dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe, - Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador e, chiaramente Cuba, si rendono conto fin troppo bene della ragione di fondo degli eventi in Libia. E la ragione è il petrolio.

Fidel Castro predisse che la guerra era inevitabile molto tempo prima che venisse lanciata l’operazione “Alba dell’Odissea”. Le risoluzioni 1970 e 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU sono una dimostrazione di disprezzo nei confronti di qualsiasi misura di legge internazionale.

Coloro i quali non erano d’accordo venivano “polverizzati”, come presunto da Hugo Chavez. Stiamo assistendo alla progressiva attuazione del piano della globalizzazione per creare un “caos controllato” con il pretesto di interferire nelle questioni interne di quei paesi che hanno una “nota negativa”.

L’obiettivo finale del progetto è l’annichilimento di coloro che si oppongono allo stile di globalizzazione americano. Ora è la Libia ad essere sotto attacco, ma il prossimo della lista è l’Iran. Questa sembra essere un’operazione sistematica di ripulitura contro quei paesi che collaborarono con la Russia, per garantire un accerchiamento strategico di quest’ultima.

Recentemente Hugo Chavez ha fatto diverse dichiarazioni circa gli eventi in Libia. Dice di esser sicuro che la coalizione Occidentale abbia attaccato il paese Arabo per impossessarsi delle sue più ricche riserve petrolifere e per distruggere fisicamente Gheddafi. “Sfortunatamente, ha detto Chavez, le Nazioni Unite sostengono la guerra nonostante ciò sia in conflitto con i principi fondamentali dell’Organizzazione”.

Rivolgendosi ai latino – americani durante la sua trasmissione “Ciao, Presidente!” ha risposto a questa domanda “Chi ha dato a questi paesi , - Stati Uniti, Francia ecc. il diritto di bombardare la Libia? Sono stati già segnalati civili uccisi durante le incursioni aeree. Questo è ovvio essendo la Libia bombardata dal mare, con 300 o 400 bombe e proiettili che colpiscono case e ospedali. Questa è un’operazione militare crudele che non riuscirà a distinguere tra innocenti e colpevoli. Chiediamo che l’attacco venga interrotto!”.

Le dichiarazioni di Hugo Chavez sono state condivise dalle sue controparti Boliviana, Ecuadoriana e Nicaraguense. Daniel Ortega ha esortato i paesi della coalizione Occidentale “a tornare in loro e dimostrare comprensione verso la proposta di Gheddafi di avviare un dialogo”.

Per Ortega è ovvio, come anche per Chavez, che l’obiettivo principale degli aggressori è quello di impossessarsi delle ricchezze petrolio e gas della Libia: “Gli aggressori sono in gara tra loro per chi dovrà essere il primo ad occupare la Libia”.

Il Presidente della Bolivia, Evo Morales, ha denunciato l’azione militare occidentale e ha garantito che tutti i colpevoli stranieri della morte di cittadini Libici “verrebbero identificati e processati”. Rivolgendosi ai giornalisti, Morales ha detto “Ancora non sappiamo la completa verità riguardo ciò che sta realmente accadendo in Libia, perciò i mass media dovrebbero continuamente battersi per ottenere informazioni imparziali”.

Il sentimento anti-americano sta crescendo rapidamente alla luce degli eventi in Libia. Solo due o tre settimane fa, l’Ambasciatore Statunitente in Brasile, Thomas Shannon ha chiesto di usare Piazza Cinelandia, nella centrale Rio De Janeiro, per il discorso pubblico di Barack Obama a 30 000 Brasiliani.

Il Presidente degli Stati Uniti cerca di imitare, anche se in sua assenza, Hugo Chavez, per verificare se potesse risultare altrettanto popolare in America Latina. Ma le aspettative statunitensi hanno dimostrato avere vita breve, e l’Ambasciata ha dovuto cancellare il discorso previsto. E’ diventato difficile garantire la sicurezza personale di Obama.

I Brasiliani si sono indignati così tanto per il bombardamento della Libia che i responsabili della sicurezza del leader Americano avevano tutte le ragioni di aspettarsi problemi. Il breve slogan “Obama, vai a casa!” è diventato piuttosto popolare in Brasile.

Nonostante ciò Barack Obama ha parlato al Teatro Municipale di Rio ad un pubblico decisamente più ristretto di 2000 ospiti selezionati, di cui ufficiali di sicurezza degli Stati Uniti, diplomatici e ufficiali di polizia costituivano più della metà.

Le proteste contro gli attacchi anti –libici sono state riportate da tutte le nazioni Latino- Americane. 42 partiti del centrosinistra si sono riuniti in un seminario internazionale in Messico per adottare una dichiarazione sulla Libia.

Alcuni di coloro che hanno firmato sono membri di partiti al potere, come ad esempio il Movimento per il Socialismo della Bolivia, il Fronte Ampio dell’Uruguay, il Partito dei Lavoratori del Brasile, il fronte Farabundo Martì per la Liberazione Nazionale di El Salvador ecc.

Una manifestazione è stata organizzata a Santiago del Cile sotto lo slogan “Per la Pace, contro la Guerra”. Ulteriori proteste si preparano in Cile per denunciare la visita “dell’aggressore Obama”.

La sicurezza è stata rafforzata nelle ambasciate degli Stati Uniti nelle nazioni del Centro e Sud America. Gli ufficiali statunitensi temono rappresaglie dai sostenitori radicali di Gheddafi. Varie generazioni di rivoluzionari Latino – Americani sono state educate sulla base del principale lavoro teoretico di Gheddafi- il suo Libro Verde.

Tra questi rivoluzionari c’è William Izarra del Venezuela un cospiratore ufficiale in pensione che ha viaggiato in Libia molto tempo prima che il tenente colonnello Hugo Chavez emerse sulla scena politica del Venezuela. Veterano dell’esercito, Izarra è ora responsabile del Centro per la formazione ideologica del Partito Socialista del Venezuela.

Un “Communiquè” è stato divulgato a nome del Centro, affermando questo, in particolare: “Stiamo dando l’allarme a causa dell’attuazione dei piani di invasione militare della Libia da parte degli Stati Uniti e della NATO.

Devastante al punto da poter avere delle conseguenze sulla gente della Libia e creare un traumatizzante stereotipo della percezione di una guerra di “quarta generazione” in Africa, Asia e America Latina.

Il “Communiquè” incita affinché vengano aumentati gli sforzi della propaganda a supporto della Libia, e per condannare “l’asse” degli alleati Stati Uniti – Canada – Unione Europea- Lega Araba. Izarra non ha alcun dubbio che l’attacco nei confronti della Libia accrescerà i processi di destabilizzazione in Venezuela e provocherà movimenti attivi degli oppositori di Chavez nel 2011 e 2012, nella corsa alle elezioni presidenziali.

Il piano sicuramente conterà su azioni concordate da parte di forze esterne (Stati Uniti) e interne (l’opposizione, “La Quinta Colonna”, “Chavismo senza Chavez”) che cercano di impedire che il leader venezuelano possa concorrere alle future elezioni presidenziali.

Boomerang libico per un fragile Occidente
di Raffaele Sciortino - www.sinistrainrete.info - 29 Marzo 2011

È dunque tornata la guerra umanitaria. Entrata nel sistema dell’informazione e di qui nell’immaginario collettivo, non c’è neanche più bisogno di virgolettarla. Ritorna però in un contesto del tutto mutato rispetto agli anni Novanta.

Ieri, sull’onda lunga della caduta del Muro e con la finanziarizzazione in piena ascesa, gli States avevano in mano saldamente l’iniziativa e potevano elargire promesse ai nuovi arrivati nel consesso delle democrazie occidentali.

Oggi siamo dentro una crisi globale che è un aspetto dello smottamento profondo e strutturale dei meccanismi di riproduzione della vita sociale complessiva (vedi Fukushima). L’interventismo umanitario non ha l’iniziativa. La guerra alla Libia è reazione.

Reazione alla prima fase della sollevazione araba. Reazione di poteri voraci ma in affanno contro i possibili passaggi di radicalizzazione di un moto ampio e profondo in pieno svolgimento che sta intrecciando, dal basso, istanze di dignità, potere e riappropriazione. E che non ha bisogno di “aiuti” ma piuttosto rimanda un messaggio di possibile costruzione di un percorso comune di lotta e emancipazione.

Confitto di narrazioni

È da questa visuale - rovesciando la narrazione “democrazia”/tirannide o pro/contro Gheddafi - che è possibile sfuggire alla trappola-ricatto del dispositivo Onu “a protezione dei civili” sbandierato dall’”onesto” Napolitano e dalla macchietta Berluska, e all’ipocrita giustificazione dell’intervento da parte di chi voleva mandare i poliziotti francesi contro le piazze tunisine, come Sarkozy, o come Obama si muove con il double standard di sempre rispetto ai governi da sostenere o disarcionare e, ancor più cinicamente, ai morti buoni o cattivi.

Le bombe sulla Libia fanno il paio con l’appoggio di Washington all’asse militari-fratelli musulmani concretizzatosi nel referendum costituzionale egiziano di pochi giorni fa a sancire la “transizione ordinata” auspicata dall’amministrazione Obama.

Fanno il paio con l’avallo statunitense alla repressione dei moti in Bahrein, dopo l’ingresso di truppe saudite nel paese che ospita la base della V flotta, con il via libera a nuovi raid israeliani, con la situazione in Yemen e altro ancora.

Sono i movimenti che nulla hanno da farsi perdonare rispetto a certi indifendibili personaggi a poter costruire una propria autonoma posizione. Non è facile, certo, in quanto la strategia occidentale sta cercando di rimettere piede nell’area utilizzando come varco non solo l’occasione offerta dalla repressione gheddafiana ma proprio le istanze detournate in senso reazionario delle stesse insorgenze arabe.

Ma neanche impossibile se riusciamo a ricollegarci con il senso profondo di queste istanze che è quello di rimettere in discussione un ordine globale sempre più ingiusto, incerto e onnivoro che sta scaricando i costi della crisi sui soliti noti, senza alcuna ricetta alternativa. E se dal mondo arabo salirà ancora più alta e ampia la protesta delle piazze.

Partiamo da un dato. L’intervento umanitario non sembra convincere. Non convince le piazze della Primavera araba che hanno costretto la stessa Lega Araba a tornare un poco sui propri passi.

Non i “paesi emergenti” che - a ragione, e con l’aggiunta di Berlino - intravedono nella prima guerra tutta di Obama il segnale di una rinata tentazione U.S. a fronte di una crisi globale irrisolta. E neanche una buona parte della gente comune in Occidente, passiva è vero, ma il cui sentire è assai differente dai tempi della guerra kosovara.

La coalizione dei volenterosi - reminescenza bushiana non casuale - si è mostrata fin qui litigiosa e soprattutto divisa su interessi tutt’altro che ideali, ma lo stesso mandato Onu sta perdendo di credibilità in particolare nell’opinione araba a misura che si è rivelato un lasciapassare per massicci bombardamenti (significativa la contestazione al Cairo contro il segretario generale dell’Onu da parte dei ragazzi del 25 gennaio).

E se da Washington a Parigi e Londra la parola d’ordine - ora anche pronunciata a voce alta - è far fuori Gheddafi, questo vorrà dire bombardamenti continui e ancor più massicci e truppe di terra, o al minimo spaccare in due il paese, se non ridurlo ad una situazione tipo Somalia. La vicenda potrebbe dunque non chiudersi in poche settimane.

In quest’ottica - presupponendo il quadro, tutt’altro che lineare, aperto dalle soggettività in rivolta nel mondo arabo - proviamo qui a mettere a fuoco il ruolo peculiare di Washington e a schizzare i contorni geopolitici, peraltro in continuo movimento, della situazione.

Le due interpretazioni dell’intervento

La svolta interventista di Washington è maturata dopo una discussione assai accesa all’interno dello staff della Casa Bianca grazie alla spinta decisiva della Clinton, supportata da un’aperta alleanza tra neocons riciclati e internazionalisti liberali[1], contro le forti e aperte remore del Pentagono[2] e dei realpolitiker[3]. Se ne danno grosso modo due interpretazioni.

Secondo la prima - ad esempio Lucio Caracciolo di Limes - si tratta di una decisione in cui Washington sarebbe stata tirata per i capelli dal protagonismo francese dentro un quadro di incertezza sul che fare rispetto al rimescolamento di carte in corso nel mondo arabo.

Non si tratterebbe allora di un’american war, anche se ovviamente l’apporto militare statunitense resta indispensabile. Le affermazioni della Clinton sulle unique capabilities degli States sarebbero una subordinata del mesto/onesto riconoscimento obamiano “Non guidiamo noi la coalizione”. Una lettura, questa, cui pare sottesa la tesi del “declino americano”[4].

C’è invece una lettura che invita a guardare alle azioni che, come scrive il Washington Post[5], parlano più chiaro e a voce più alta delle dichiarazioni. Innanzi tutto, senza la garanzia della messa in moto del dispositivo militare e di comando statunitense Sarkozy non sarebbe stato in grado di muoversi e tanto meno di annichilire le forze aeree e le infrastrutture militari libiche.

Questo è un dato evidente se si guarda a marca e numero dei missili lanciati. Mentre il galletto francese si pavoneggiava con il giullare-philosophe Levy, il direttore del comando congiunto delle forze armate U.S. dichiarava al Pentagono nel piano linguaggio lockiano: “Siamo al comando delle operazioni militari”.

Inoltre, il ruolo giocato da Washington è stato decisivo nel varo - con “straordinaria velocità” scrive il NYT - della risoluzione Onu 1973 e in particolare della sua formulazione assai ampia ed estremamente flessibile basata sul principio della Responsability to Protect.[6]

“A differenza di quel che appare, questa è una guerra tutta americana e ha come obiettivo non il Medio Oriente ma l’Africa”.[7] Il “capolavoro” politico del presidente: lavorare dietro le quinte lasciando la scena agli europei per coinvolgere Onu e Lega Araba.[8]

Regime change versione Obama

Insomma, ad un’analisi più attenta non si può negare l’incertezza che regna a Washington ma neanche il suo ruolo guida peculiare nella nuova impresa libica. Un ruolo in vesti formalmente multilaterali ma dentro un contesto inedito che le interpretazioni correnti colgono solo tangenzialmente.

L’incertezza, le esitazioni e titubanze, la confusione sulla catena di comando, il lasciar spazio ai protagonismi francese e inglese, si spiegano innanzitutto a fronte dell’insorgenza in corso e dell’obiettiva difficoltà per Obama di non perdere la regione entro un rimescolamento profondo che comunque gli Stati Uniti non possono impedire.

Bloccarlo difendendo uno status quo che va sbriciolandosi significa rischiare di perdere tutto. La partita va giocata dall’interno del cambiamento piuttosto che aggrappandosi ad una realtà oramai indifendibile. (Quasi si trattasse per Obama di recuperare all’esterno quella spinta al change esauritasi all’interno). [9]

Per l’amministrazione statunitense a ben vedere “la Libia conta non per il suo petrolio o l’ intrinseca rilevanza, conta perchè è un elemento chiave della turbinosa trasformazione del mondo arabo”. [10]

Detto in altro modo, la partita libica se per Parigi è questione di compensare a danno di Roma la perdita della Tunisia (con un occhio alla “sua” Africa), per Washington è un varco che si apre assai opportunamente non solo per mettere piede militarmente ed economicamente in una sfera già europea a rischio di inserimento cinese - bissando così il successo della secessione in Sudan - ma soprattutto per condizionare e cauzionare politicamente l’insorgenza araba in corso.

Inserirsi in Libia, con forze militari discrete e soprattutto con un regime amico “democratico” e una ritrovata legittimità agli occhi del mondo arabo, proprio ai fianchi dei due paesi in cui le masse finora si sono mosse con più radicalità nel tentativo di riprendere nelle proprie mani il futuro: ecco, se riuscisse, il vero capolavoro.

Nelle parole del presidente pronunciate all’incontro della Casa Bianca in cui ha optato per l’intervento: Questa è la più grande opportunità di riallineare i nostri interessi coi nostri valori. [11]

Supportando o creando un regime amico - anche appaltato ai partner europei - nel nuovo contesto regionale. E insieme generando rivalità nazionali e confusione tra le masse. Si sfrutta qui un dato reale: il posizionamento nei confronti degli eventi, davanti a un Gheddafi che fino all’ultimo ha sostenuto Ben Ali, non è facile neanche per le piazze arabe.

Mentre è chiaro che, se è vera la notizia di aiuti militari dell’esercito egiziano ai ribelli libici nel mentre dell’aggressione occidentale, ne uscirebbe rafforzata la subordinazione a Washington del quadro politico post-Mubarak. Ben diverse sarebbero infatti la natura e le modalità dell’aiuto di un Egitto rivoluzionario alla popolazione libica tutta contro un regime reazionario: ma dubitiamo che avrebbe l’avallo Onu...

La decisione che a molti è apparsa improvvisata si è sicuramente definita all’immediato per il rischio di perdere Bengasi e dunque un supporto locale per il regime change. Era però stato proprio Obama a fine febbraio[12], e lo ha ribadito durante il recente viaggio in America Latina, ad affermare che il rais libico deve andarsene.

Dunque non la preoccupazione per i civili ha mosso un’amministrazione che non pare così solerte nel caso di regimi alleati come Bahrein e Yemen e continua impunemente a fare stragi coi droni dai cieli di Afghanistan e Pakistan.

In realtà, il viaggio della Clinton in Tunisia ed Egitto nei giorni immediatamente precedenti ha fatto suonare il campanello d’allarme: proteste e scontri a Tunisi in occasione della sua visita e rifiuto di incontrarla da parte dei giovani del 25 gennaio al Cairo. [13] Dove stanno andando il cuore e le menti dei giovani arabi? Meglio affrettare il “rientro”...

Certo, la politica Usa corre su di un filo. La situazione per certi versi è più difficile in termini politici che non durante gli eventi di piazza Tahrir. Il riposizionamento di linea deciso in quel frangente per una “transizione ordinata” [14] è oggi messo alla prova. Quello che non si può dire però è che quel riposizionamento sia del tutto improvvisato.

Al di là del discorso obamiano del Cairo, la Direttiva Presidenziale 11 dell’agosto dell’anno scorso avvisava che “la regione sta entrando in un periodo critico di transizione” e invitava ad affrontare gli inevitabili “rischi aprendo ai popoli del Medio Oriente e del Nord Africa la graduale ma reale prospettiva di una maggiore apertura politica”. [15] Obama mostra più lungimiranza dei suoi critici realisti. Per Washington lo status quo non è (più) stabile...

Strategia Usa e comune araba

Questo non significa affatto che la strategia di intervento fosse bell’e pronta a tavolino. L’impressione di una certa dose di improvvisazione persiste e alimenta critiche insieme alla non completa chiarezza sulla catena del comando e sugli obiettivi di medio termine dell’attacco.

(Anche se, va detto, le difficoltà nel passare completamente il comando alla Nato come braccio armato di una risoluzione Onu per molti paesi indigeribile sono dovute non tanto alla grandeur francese ma assai più alle remore di Berlino e Ankara; e l’obiettivo di far fuori Gheddafi è condiviso da tutti, solo certe “anime belle” fanno finta di non saperlo).

Ma che non ci sia alcun piano lucidamente pensato a tavolino è dovuto principalmente al fatto che la dinamica dell’ondata che sta scuotendo i regimi arabi non è prevedibile nè controllabile da nessuno. Ed è questa la variabile indipendente che accelera e precipita gli eventi. E può determinare il successo o l’insuccesso dell’impresa occidentale in Libia, non tanto in termini militari quanto politici.

E qui si fanno avanti i rischi, emergono le fragilità degli Stati Uniti a fronte di un moto che potrebbe andare ben oltre le prime importanti acquisizioni immediate, oltre e contro i blocchi esterni e le interruzioni proprie di un percorso che ovviamente non ha nulla di predeterminato. Quali le contraddizioni che l’intervento militare può far emergere?

Primo. La mistura di hard e soft power Usa al suono dei missili seppur con un profilo di iniziativa defilato dietro gli “alleati” - della banda anche qualche emirato arabo - non è affatto detto che riesca convincente o anche solo indifferente agli occhi delle piazze arabe.

E, anche al di là di segnali visibili (solo in Tunisia c’è stata qualche manifestazione ma non di massa contro i bombardamenti), non è detto che riesca a incanalare in senso filoccidentale quelle energie impegnate in prima istanza a far pulizia interna contro i diversi regimi dell’area.

Secondo. C’è stato un evidente scambio tra l’intervenire in Libia e il lasciar correre da parte di Washington rispetto alla repressione in atto nella penisola arabica. Non si tratta solo degli intrallazzi dei Saud per armare i ribelli libici, come documentato da Robert Fisk[16], delle loro pressioni su Francia e Gran Bretagna per l’intervento, della propaganda antilibica di Al Jazeera e della sua s/copertura rispetto ai bombardamenti su Tripoli, e di altre finezze del genere.

Si tratta principalmente del fatto che se e quando nel cuore delle petro-monarchie la ribellione inizierà ad ampliarsi, il conto sarà presentato anche ad Obama. Nel Bahrein questo è già evidente. Certo, Washington non lo pagherà questo conto fino a che gli emiri non saranno caduti.

Terzo. La Libia potrebbe non essere una passeggiata per la coalizione dei volenterosi. Il consenso a Gheddafi, non solo a Tripoli, pare non proprio minoritario e anzi aumenta proprio a causa dei bombardamenti, secondo il Washington Post. [17] Questo mentre le forze dei ribelli potrebbero non essere da sole sufficienti a procurare il cambio di regime agognato.

Si tratterà di vedere se dall’interno del campo gheddafiano verrà fuori una carta di ricambio. In ogni caso difficile prevedere stabilità per un paese la cui popolazione si è di fatto spaccata in due, tra repressione del rais e invocati bombardamenti stranieri.

Quarto. Quanto andrà avanti la passività tra la gente comune in un’Europa prossima al teatro di guerra? Passività dovuta non all’incomprensione del gioco che si sta giocando, ma allo smarrimento tra gli effetti della crisi globale e l’incapacità di legarsi attivamente, al di là della sorpresa e di una generica simpatia, alla sollevazione araba. Le rinate pulsioni di chiusura xenofoba in relazione al temuto arrivo di “ondate” di profughi sono il riflesso stravolto della ripresa di parola e dignità nel mondo arabo. Al medesimo albero sembrano appesi frutti marci e promettenti primizie.

Quinto. Se Obama dovesse impantanarsi in Nord Africa, nella sua war of choice, senza un ritorno immediato dall’ennesima avventura militare, i nodi critici dell’indebitamento statunitense e della crisi economico-sociale interna potrebbero diventare difficilmente gestibili.

Tutto ciò costringe i volenterosi a procedere con una qualche “cautela”, anche in termini militari. Costringe Washington all’understatement rispetto a ruolo e obiettivi.[18] Che è anche la ragione di fondo di quello che appare il caos nella catena di trasmissione fra strategia politica e comando delle operazioni militari. Lo esprime nel consueto asciutto linguaggio l’Economist: “Difficile pensare a un’impresa militare concepita con così tanti dubbi e ansie”.[19] Le incognite sono molte. Il successo della scommessa di Obama dipende... dal successo.

Non in termini prioritariamente militari, di nuovo. Il vero ostacolo alla politica di Obama sta nella reazione delle piazze arabe, nella loro capacità di portare fino in fondo la propria spinta senza farsi scippare la rivoluzione ma conquistandosi in questo percorso una effettiva ancorchè non facile autonomia. [20]

Costruendo potenza in tutte le dimensioni a partire dalla capacità di ricomporre le istanze di libertà e democrazia con la spinta a riappropriarsi della produzione e riproduzione della vita. Quanto più l’opposizione ai regimi si rafforza su questo piano autenticamente di massa costituendo un nuovo soggetto “multitudinario”, tanto più diverrà difficile per l’Occidente precipitarsi ad “aiutarla”. [21]

La rivoluzione araba non ha bisogno di un pezzetto di presente da redistribuirsi settorialmente o territorialmente, magari con le armi e però sotto lo sguardo di nuovi interessati tutori, ma piuttosto di un mondo comune da ricostruire.

Il che, detto con la cautela dovuta alla scarsissima informazione e senza concessione alcuna al rais libico, pone dei seri punti di domanda su quanto sta dandosi a Bengasi.

Se è vero che, come ha scritto finanche il sito di Al Jazeera - tutt’altro che filo-gheddafiano - i ribelli libici “con poche armi e disperati, non sorprende abbiano invocato l’aiuto internazionale... mettendo però a rischio la propria indipendenza”. [22]

Europa, Europa

Una delle principali conseguenze del protagonismo francese è la rottura con Berlino. Davvero un bel risultato in prospettiva per la Francia e l’Europa. Il cow-boy parigino ha saltato la fila per bombardare prima degli altri ma, quel che è più ridicolo, pensa davvero di aver preso l’iniziativa.

Se ne accorgerà presto anche se cercherà di coprire i danni con la sua parte di bottino... sottratta all’altro pagliaccio italiano che si sta contorcendo in tutti i modi per apparire anche lui volenteroso in vista dei residui dividendi da non perdere del tutto. Inutile cercare da queste parti qualsivoglia prospettiva di qualche respiro. Del resto cosa aspettarsi da figuri che hanno sostenuto fino all’ultimo Ben Ali e Mubarak.

La Germania non è della partita. Merkel ha operato uno strappo rispetto alla santa alleanza occidentale guardando non solo ai propri interessi energetici e alla propria opinione pubblica ma al legame in prospettiva con l’Oriente e i paesi emergenti coi quali Berlino è in grado di interagire attraverso prodotti e investimenti.

Una mossa che, abbinata alla prospettiva di accelerare la fuoriuscita dal nucleare, sta già procurando alla cancelliera malumori nel suo partito, critiche dalle diverse voci interventiste, anche in parte di verdi e socialdemocratici - ah!, la “sinistra” europea - e velate minacce dagli ambienti statunitensi che rinfacciano a Berlino di non saper giocare da global player... alle loro regole. [23]

Il meno che si possa dire è che l’Europa nel suo insieme si sta pienamente meritando questa deriva. Incapace di dare una purchè minima risposta in positivo alle istanze provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo, succube di meschine rivalità nazionali, senza alternative effettive alla crisi della finanziarizzazione.

Si vedrà se la spaccatura tra Parigi e Berlino avrà ripercussioni sulla capacità europea di reagire al prossimo tornante della crisi e agli attacchi speculativi ai debiti sovrani, che il quasi default portoghese potrebbe annunciare. E’ chiaro che l’offensiva obamiana per un “nuovo” Medio Oriente, anche con le armi, preannuncia la ferma intenzione di Washington di far pagare a altri i costi maggiori della crisi globale tutt’altro che risolta.

Di fronte a ciò resta che nessuna centralizzazione della governance economica europea, che pure Berlino ha portato avanti in questo ultimo anno, può alla lunga fare a meno di una stretta politica.

E qui ritorna per il vecchio continente, e in particolare per Berlino, il dilemma di sempre: come possono le classi dirigenti riunificarsi senza rischiare di unificare il proletariato? Ovvero, come creare una efficace sovranità a un livello sovranazionale senza passare per un potere costituente? La multilevel governance è solo un palliativo...

Impero in crisi?

Se la Germania conferma la linea già seguita nel 2003, con coerenza non succube dell’obamamania, l’altro dato significativo è il configurarsi del fronte anti-interventista Brasilia-Mosca-Delhi-Pechino (Bric) che a sua volta dà oggettivamente ancora più risalto alla scelta tedesca.

Esso ha poi fatto inevitabilmente da sponda ad altri soggetti statuali come il Sudafrica, all’inizio favorevole alla no-fly zone, e più in generale all’Unione Africana.

C’è poi l’attivismo della Turchia - cerniera tra diverse aree geopolitiche e geoeconomiche, punta a giocare un ruolo di punta nel “nuovo” Medio Oriente nei fatti in concorrenza con il tentativo obamiano - che si frappone a un intervento targato Nato che “punti il fucile contro il popolo libico”.

La domanda che torna insistentemente anche in questa vicenda è se si sta facendo strada un'altra sponda, rispetto all'America e ai suoi alleati europei, se non addirittura un possibile assetto mondiale alternativo all'Occidente.

La prima cosa è evidente ma tutt’altro che scontata. La seconda pare ad oggi solo un’opzione teorica. Ma al di là di un tema complesso e dai contorni indistinti, alcune riflessioni si possono fare a partire proprio dalla vicenda libica e più in generale dalla sollevazione delle piazze arabe.

Quello che vediamo sul versante statuale “anti-americano” è innanzitutto una reazione difensiva. E’ evidente, ad esempio, che Pechino ha tutto da perdere dall’eventuale successo dell’offensiva statunitense in Africa. Il rischio non è solo economico, è politico - basta pensare al Tibet - così come per la Russia nelle sue pur sempre instabili periferie.

Ma il problema per questi paesi - a parte forse il Brasile però troppo distante - è che realisticamente non possono fare da sponda alle piazze arabe, in senso politico - desideri, immaginari e istanze di change - e sul piano finanziario a meno di scontrarsi direttamente con il comando globale del dollaro.

Non è un caso allora che gli avvenimenti in Tunisia e Egitto abbiano messo in seria preoccupazione, ma per motivi opposti a quelli di Washington, anche Pechino minacciata nella sua “ascesa invisibile” sia dal moto delle masse sia dalla controffensiva a stelle e strisce.

Se l’operazione Obama riuscisse gli States ne uscirebbero rafforzati anche nei confronti della Cina. Transitoriamente, certo, chè appena si ponesse in tutta la sua drammaticità il nodo della divisione internazionale del lavoro e del prelievo finanziario allora... Ciò non toglie che le pulsioni che promanano dal basso non sono certo in procinto di prendere il volo per l’Asia.

Questo non significa sopravvalutare la capacità di cattura del capitalismo occidentale. Ci porta anzi a provare a porre in altri termini quello che viene spesso presentato come il declino degli Stati Uniti.

L’indebolimento relativo, su tutti i piani, degli Stati Uniti è un fatto. Il terremoto sociale e politico in Medio Oriente e in Nord Africa è uno scossone all’ordine americano (basta guardare ai timori di Israele).

Ma più che rinviare in prospettiva alla successione egemonica di un’altra potenza in ascesa andrebbe letto nel quadro dello sfrangiamento, se non di una vera e propria disarticolazione, del sistema internazionale nel suo insieme, in controluce con la dinamica della crisi globale di cui in Occidente ancora non si sono visti gli effetti più dirompenti.

Di qui lo “scongelamento” dei fronti geopolitici e dei blocchi sociali, di qui l’indeterminatezza crescente di alleanze, forme di governance e policies.

In questo quadro non possiamo consolarci nè con l’idea di processi deterministici nè specularmente con l’immagine di un caos indistinto in cui tutte le vacche sono nere. Fuor di metafora: bisogna pur sempre fare i conti con la capacità degli Stati Uniti, incrinata ma non scomparsa, di farsi soggetto di ordine per l’insieme del sistema capitalistico globale.

Un ruolo, è vero, sempre più parassitario e predatorio (e percepito come tale) ma comunque sia, pur nell’intensificarsi delle dinamiche competitive intercapitalistiche, senza sostituti credibili in vista.

È su questa “rendita di posizione sistemica”, poggiante su un apparato finanziario e cognitivo ancora ineguagliato, che Washington può permettersi di fare ciò che il suo indebitamento vieterebbe a qualunque altra potenza.

Non pare allora, allo stato, risolvibile questa situazione ibrida fra una configurazione imperiale, in cui le dinamiche competitive vengono sussunte ad una gerarchia polimorfa ma unitaria, e la classica dinamica imperialistica, in cui la competizione alla fine prevale sulla cooperazione intercapitalistica. Forse dovremo abituarci al fatto che la crisi è anche questa situazione ibrida.

Donne e uomini di qua e di là del Mediterraneo hanno di fronte una scelta di campo che può sfuggire alle regole del gioco imposte dai poteri globali. Dire no senza se e senza ma alla guerra, nel nuovo quadro determinato dalla crisi globale, vuol dire iniziare a creare un terreno comune contro quelle regole. Su tutto il resto possiamo e dobbiamo discutere. Ma avendo individuato il nostro battleground.


Il migliore affare è sempre la guerra
di Pepe Escobar - www.atimes.com - 30 Marzo 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org acura di Renato Montini

Bugie, ipocrisia e piani segreti. Ecco i dettagli che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha omesso nell’esporre all’America e al mondo intero la sua dottrina libica .

Difficile comprendere cosa succede a causa dei tanti buchi neri che caratterizzano questa splendida piccola guerra che non è una guerra (“un’azione militare a raggio e a tempo limitati” come la definisce la Casa Bianca) e caratterizzata dall’incapacità dell’area progressista di condannare, allo stesso tempo, la crudeltà del regime di Muhammar Gheddafi e i bombardamenti ‘umanitari’ anglo-franco-americani.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 1973 ha operato come un cavallo di Troia, permettendo al consorzio anglo-franco-americano e alla NATO di diventare la forza aerea dell’ONU nel suo sostegno a un’insurrezione armata.

Al di là del fatto che questo accordo non ha niente a che fare con la protezione dei civili, esso è anche assolutamente illegale secondo la legge internazionale. L’implicito obiettivo finale, come a questo punto sa anche il più disperato dei bambini africani, è il cambio di regime.

Il generale canadese Charles Bouchard, a capo della missione libica per conto della NATO, può ribadire quanto vuole che la missione ha come unico obiettivo la difesa dei civili. Eppure quegli ‘innocenti civili’ che guidano carri e imbracciano kalashnikov come un disordinato mucchio selvaggio, di fatto sono soldati in una guerra civile e a questo punto dovrebbero decidere se la NATO deve essere d’ora in poi la loro forza aerea seguendo le orme dell’alleanza anglo-franco-americana.

Inoltre, la ‘coalizione dei volenterosi’ che combatte in Libia consiste di soli 12 membri su 28 della NATO più il Qatar. Insomma, questa non è di certo una ‘comunità internazionale’.

Il verdetto finale sulla no-fly zone come da mandato dell’ONU dovrà attendere la nascita di un governo ‘dei ribelli’ alla fine della guerra civile (se finisce presto). Allora sarà possibile analizzare e capire i seguenti punti: se il bombardamento, anche coi missili Tomahawk, era giustificato; il perché i civili della Cirenaica siano stati protetti mentre quelli di Tripoli bombardati; che tipo di gente erano i ‘ribelli’ che sono stati ‘salvati’; se tutto questo era legale, in primo luogo; capire se la risoluzione era una copertura per il cambio di regime; se la storia d’amore tra i ‘rivoluzionari’ libici e l’Occidente finirà in un divorzio sanguinario (ricordate l’Afghanistan?); e quali attori occidentali saranno pronti ad approfittare della ricchezza di una nuova e unificata (forse balcanizzata) Libia.

Per ora, è piuttosto facile capire chi ne trarrà profitto.

Il Pentagono

Il fine settimana scorso, il capo del Pentagono Robert Gates ha dichiarato, riuscendo a rimanere serio, che gli unici regimi repressivi nel Medio Oriente sono l’Iran, la Siria e la Libia. Il Pentagono sta infierendo sull’anello debole, la Libia. Gli altri sono da sempre nella lista neo-con dei cattivi da eliminare. L’Arabia Saudita, lo Yemen, il Bahrain ecc. sono democrazie modello.

Per quanto riguarda questa guerra che ‘c'è ma non si vede’, il Pentagono è riuscito a combatterla due volte, non una. La prima con Africom, creato sotto l’amministrazione Bush, alimentato da quella di Obama e rigettato da dozzine di governi africani, di esperti e di organizzazioni per i diritti umani. Ora la guerra passa attraverso la Nato ovvero sotto il comando del Pentagono sui lacché europei.

Questa è la prima guerra africana di Africom, condotta dal generale Carter Ham nel suo quartier generale non in Africa, ma a Stuttgart, in Germania. Africom, per dirla con Horace Campbell, professore di studi afro-americani e di scienze politiche presso la Syracuse University, è un inganno; “fondamentalmente una copertura per le operazioni dei contractor americani come Dyncorp, MPRI e KBR. I pianificatori militari americani che traggono beneficio dalla politica delle porte girevoli della privatizzazione della guerra sono felici di avere l’opportunità di fornire ad Africom credibilità dietro la facciata dell’intervento in Libia”.

I Tomahawk della Africom hanno anche colpito, in senso metaforico, l’Unione Africana (AU), che, diversamente dalla Lega Araba, non è facile da comprare dall’Occidente. Le monarchie petrolifere arabe hanno tutte brindato al bombardamento, tranne l’Egitto e la Tunisia. Solo cinque paesi africani non sono subordinati ad Africom; la Libia è uno di essi, insieme al Sudan, la Costa d’Avorio, Eritrea e lo Zimbabwe.

NATO

Il piano generale della NATO è di comandare sul mediterraneo e di considerarlo un lago di sua proprietà. Sotto questa ‘ottica’(definizione del Pentagono) il mediterraneo oggigiorno è infinitamente più importante come teatro di guerra dell’AfPak (Afghanistan e Pakistan).

Sui 20 paesi del mediterraneo solo 3 non fanno parte della NATO o non hanno alcuna partnership coi suoi programmi: Libia, Libano e Siria. Senza alcun dubbio la Siria è il prossimo.

Il Libano si trova sotto un blocco della NATO dal 2006. Ora il blocco viene applicato alla Libia. Gli Stati Uniti – tramite la NATO – stanno quadrando il cerchio.

Arabia Saudita

Che affare. Il re Abdullah si sbarazza del suo eterno rivali Gheddafi. La casa saudita, in modo abietto, s’inchina agli interessi dell’Occidente. Lo sguardo dell’opinione pubblica mondiale è stato allontanato dall’invasione saudita del Bahrain con l’obiettivo di distruggere un movimento pacifico e legittimo a favore della democrazia.

La casa saudita ha piazzato la storia che ‘la Lega Araba’ ha votato compatta per una no-fly zone. Una menzogna; solo 11 membri su 22 erano presenti alla votazione; sei sono membri del Gulf Cooperation Council (GCC) di cui l’Arabia Saudita è leader. La casa saudita doveva solo convincere altri tre. La Siria e l’Algeria erano contrarie. Risultato: solo 9 dei 22 paesi arabi hanno votato per la no-fly zone.

L’Arabia Saudita ora può anche ordinare al capo della GCC, Abdulrahman al-Attiyah di dire con faccia tosta che “il sistema libico ha perso la propria legittimità”. Per quanto riguarda la “legittima” casa saudita e i al-Khalifas nel Bahrain, qualcuno dovrebbe portarli alla Hall of Fame Umanitaria.
Il Qatar

Il paese anfitrione dei campionati mondiali di calcio del 2022 sa bene come concludere un affare. I suoi Mirage aiutano a bombardare la Libia e nel frattempo Doha si prepara a commerciare il petrolio della Libia orientale.

Il Qatar ha prontamente riconosciuto, primo tra i paesi arabi, la legittimità del governo dei ‘ribelli’ libici solo il giorno dopo essersi assicurato l’affare del commercio del petrolio.

I ‘ribelli’

Nonostante le meritevoli aspirazioni democratiche del movimento giovanile libico, il gruppo di opposizione più organizzato rimane il Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia, da anni finanziato dalla casa saudita, dalla CIA e dall’intelligence francese.

Il ‘Consiglio Provvisorio di Transizione Nazionale’ non è altro che il buon vecchio Fronte Nazionale con il contributo di qualche defezionario tra i militari. Ecco l’élite dei ‘civili innocenti’ che la “coalizione” sta “proteggendo”.

Al momento giusto, il ‘Consiglio Provvisorio di Transizione’ ha trovato un nuovo ministro della finanza, l’economista di formazione statunitense Ali Tarhouni. Egli ha rivelato che un gruppo di paesi occidentali ha concesso loro credito sostenuto dal fondo sovrano della Libia, e i britannici hanno permesso loro di accedere a fondi di Gheddafi per un totale di 1.1 miliardi di dollari. Questo significa che il consorzio anglo-franco-americano e ora la NATO devono spendere solo per le bombe.

Di tutti i raggiri della guerra questo è impareggiabile; l’Occidente utilizza denaro libico per finanziare un gruppo di opportunisti ribelli libici per combattere contro il governo libico. Inoltre gli americani, gli inglesi e i francesi adorano questi bombardamenti. I neo-con devono essere su tutte le furie; come ha fatto il precedente segretario alla Difesa americano Paul Wolfowitz a non farsi venire un’idea del genere per la guerra in Iraq nel 2003?
I francesi

Oh là là, questo potrebbe essere materiale degno di un romanzo proustiano. La più esclusiva collezione di primavera nelle passerelle di Parigi è lo show della moda di Sarkozy – un modello no-fly zone accessoriato di aerobombardieri Mirage/Rafale.

Questo show di alta moda è stato ideato da Nouri Mesmari, il capo di protocollo di Gheddafi, che, defezionario, si è rifugiato in Francia dall’ottobre 2010. I servizi segreti italiani hanno rivelato a media selezionati come ha fatto. Il ruolo del DGSE, il servizio segreto francese, è stato più o meno spiegato nel sito a pagamento Maghreb Confidential.

In sostanza, la rivolta di Bengasi coq au vin è stata preparata a partire da novembre 2010. Gli chef sono stati Mesmari, il colonnello delle forze aeree Abdullah Gehani e il servizio segreto francese. Mesmari è stato nominato il ‘WikiLeaks libico’, perché ha spifferato praticamente ogni segreto militare di Gheddafi. Sarkozy ne è stato felice, infatti prima era furioso perché Gheddafi aveva cancellato i succosi contratti di acquisto di Rafale ( per rimpiazzare i Mirage ora bombardati) e di impianti nucleari francesi.

Questo spiega l’entusiasmo di Sarkozy nel porsi come liberatore degli arabi, è stato il primo leader europeo a riconoscere i ‘ribelli’( con somma ira di molti nella UE) ed è stato il primo a bombardare le forze di Gheddafi.

Questo ci porta al ruolo dello sfacciato filosofo francese Bernard Henri-Levy che sta sfruttando freneticamente i media mondiali per far sapere che è stato lui a telefonare Sarkozy da Bengasi, risvegliandone la vena umanitaria. Quindi o Levy è uno sciocco, oppure fa da utile ciliegina ‘intellettuale’ da aggiungere sulla già pronta torta di bombe.

Il Terminator Sarkozy è inarrestabile. Ha appena avvertito tutti i governanti arabi che rischiano di ritrovarsi bombardati come la Libia casomai dovessero reprimere chi protesta. Ha anche detto che “la prossima” sarà la Costa d’Avorio. Ovviamente, il Bahrain e lo Yemen sono esenti da questi provvedimenti. Per quanto riguarda gli USA, essi stanno di nuovo sostenendo un golpe militare (non ha funzionato con Omar “Sheikh Al-Torture” Suleiman in Egitto; forse funzionerà in Libia)

Al-Qaeda

Riecco il solito spauracchio, sempre utile. Il consorzio anglo-franco-americano, e ora la NATO, combattono assieme (di nuovo) contro al-Qaeda, rappresentata ora da al-Qaeda del Maghreb (AQM).

Il leader ribelle libico Abdel-Hakim al-Hasidi – che ha combattuto insieme ai talebani in Afghanistan – ha ampiamente confermato ai media italiani di aver personalmente reclutato “circa 25” jihaiditi della zona di Derna, nella Libia orientale, per combattere contro gli americani in Iraq; ora “questi si trovano in prima linea a Adjabiya”.

Questo dopo che il presidente del Ciad, Idriss Deby, ha fatto notare che AQM ha rubato gli arsenali militari nella Cirenaica e ora potrebbe essere in possesso di un discreto numero di missili terra-aria. Verso gli inizi di marzo, l’AQM ha sostenuto pubblicamente i ‘ribelli’. Deve essere ricomparso il fantasma di Obama; infatti il Pentagono sta lavorando di nuovo per lui.

I privatizzatori dell’acqua

In Occidente pochi sanno che la Libia, insieme all’Egitto, siede sul Nubian Sandstone Aquifer; cioè, su un oceano d’acqua dolce di enorme valore.

Quindi, questa guerra ‘che c'è ma non si vede’ è cruciale per il controllo dell’acqua. Il controllo dell’acquifero non ha prezzo, così come non lo ha il ‘recupero’ delle risorse naturali di valore dalle mani dei ‘selvaggi’.

Il Pipelineistan di acqua – che scorre in profondità sotto il deserto per 4.000 km – è il Great Man-Made River Project (GMMRP) costruito da Gheddafi per 25 miliardi di dollari senza chiedere in prestito dal FMI o dalla Banca Mondiale nemmeno un centesimo (pessimo esempio per il mondo in via di sviluppo). Il GMMRP rifornisce Tripoli, Bengasi e tutta la costa libica. Il totale di acqua stimato dagli scienziati è equivalente al flusso di 200 anni di acqua del Nilo.

Confrontiamo questo dato alle cosiddette tre sorelle – Veolia (prima era Vivendi), Suez Ondeo (prima era Generale des Eaux) e Saur – le aziende francesi che controllano il 40% del mercato globale dell’acqua. È imperativo che l’attenzione venga rivolta all’eventuale bombardamento di queste condutture.

Se saranno bombardate, uno scenario estremamente probabile è che ci saranno ricchi contratti per la ‘ricostruzione’ di cui la Francia sarà la beneficiaria. E questo sarà l’ultimo passo verso la totale privatizzazione di questa acqua, tuttora libera. Dalla dottrina dello shock alla dottrina dell’acqua.

Ecco, questa è solo una breve lista dei profittatori, nessuno sa a chi andrà il petrolio. Intanto, lo spettacolo deve continuare ( a suon di bombe). Il miglior affare è sempre la guerra.