domenica 27 settembre 2009

Ancora un attacco alla Rete, gli infami ci riprovano

Finora sono andati tutti a vuoto i tentativi da parte del mondo politico di mettere la mordacchia all'informazione in Rete, gli ultimi solo pochi mesi fa con il famigerato emendamento del senatore D'Alia (UDC) e la disposizione del ministro Alfano da inserire nel DDL intercettazioni.

Ora però la maggioranza parlamentare ci riprova con il disegno di legge firmato dai deputati Pecorella e Costa (PDL).

Un sonoro VAFFANCULO seppellirà nuovamente questo altro infame tentativo.


C'era una volta la libertà d'informazione in Rete
di Guido Scorza - punto-informatico - 17 Settembre 2009

Una proposta di legge per sottoporre alla disciplina sulla stampa tutti i siti Internet che abbiano natura editoriale. Qualsiasi cosa ciò significhi

Il 14 settembre scorso è stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera un disegno di legge a firma degli Onorevoli Pecorella e Costa attraverso il quale si manifesta l'intenzione di rendere integralmente applicabile a tutti i "siti internet aventi natura editoriale" l'attuale disciplina sulla stampa.

Sono bastati 101 caratteri, spazi inclusi, all'On. Pecorella per surclassare il Ministro Alfano che, prima dell'estate, aveva inserito nel DDL intercettazioni una disposizione volta ad estendere a tutti i "siti informatici" l'obbligo di rettifica previsto nella vecchia legge sulla stampa e salire, così, sulla cima più alta dell'Olimpo dei parlamentari italiani che minacciano - per scarsa conoscenza del fenomeno o tecnofobia - la libertà di comunicazione delle informazioni ed opinioni così... come sancita all'art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino e all'art. 21 della Costituzione.

Con una previsione di straordinaria sintesi e, ad un tempo, destinata - se approvata - a modificare, per sempre, il livello di libertà di informazione in Rete, infatti, l'On. Pecorella intende aggiungere un comma all'art. 1 della Legge sulla stampa - la legge n. 47 dell'8 febbraio 1948, scritta dalla stessa Assemblea Costituente - attraverso il quale prevedere che l'intera disciplina sulla stampa debba trovare applicazione anche "ai siti internet aventi natura editoriale".

Si tratta di un autentico terremoto nella disciplina della materia che travolge d'un colpo questioni che impegnano da anni gli addetti ai lavori in relazione alle condizioni ed ai limiti ai quali considerare applicabile la preistorica legge sulla stampa anche alle nuove forme di diffusione delle informazioni in Rete.
Ma andiamo con ordine.

Quali sono i "siti internet aventi natura editoriale" cui l'On. Pecorella vorrebbe circoscrivere l'applicabilità della disciplina sulla stampa?
Il DDL non risponde a questa domanda, creando così una situazione di pericolosa ed inaccettabile ambiguità.

Nell'Ordinamento, d'altro canto, l'unica definizione che appare utile al fine di cercare di riempire di significato l'espressione "sito internet avente natura editoriale" è quella di cui al comma 1 dell'art. 1 della Legge n. 62 del 7 marzo 2001 - l'ultima riforma della disciplina sull'editoria - secondo la quale "Per «prodotto editoriale» (...) si intende il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici".
Si tratta, tuttavia, di una definizione troppo generica perché essa possa limitare effettivamente ed in modo puntuale il novero dei siti internet definibili come "aventi natura editoriale".

Tutti i siti internet attraverso i quali vengono diffuse al pubblico notizie, informazioni o opinioni, dunque, appaiono suscettibili, in caso di approvazione del DDL Pecorella-Costa, di dover soggiacere alla vecchia disciplina sulla stampa.
Ce n'è già abbastanza per pensare - ritengo a ragione - che nulla nel mondo dell'informazione in Rete, all'indomani, sarebbe uguale a prima.
Ma c'è di più.

Il DDL Pecorella Costa, infatti, si limita a stabilire con affermazione tanto lapidaria nella formulazione quanto dirompente negli effetti che "le disposizioni della presente legge (n.d.r. quella sulla stampa) si applicano altresì ai siti internet aventi natura editoriale".

La vecchia legge sulla stampa, scritta nel 1948 dall'Assemblea Costituente, naturalmente utilizza un vocabolario e categorie concettuali vecchie di 50 anni rispetto alle dinamiche dell'informazione in Rete. Quali sono dunque le conseguenze dell'equiparazione tra stampa e web che i firmatari del DDL sembrano intenzionati a sancire?

Se tale equiparazione - come suggerirebbe l'interpretazione letterale dell'articolato del DDL - significa che attraverso la nuova iniziativa legislativa si intende rendere applicabili ai siti internet tutte le disposizioni contenute nella legge sulla stampa, occorre prepararsi al peggio ovvero ad assistere ad un fenomeno di progressivo esodo di coloro che animano la blogosfera e, più in generale, l'informazione online dalla Rete.
Basta passare in rassegna le disposizioni dettate dalla vecchia legge sulla stampa per convincersene.

I gestori di tutti i siti internet dovranno, infatti, pubblicare le informazioni obbligatorie di cui all'art. 2 della Legge sulla stampa, procedere alla nomina di un direttore responsabile (giornalista) in conformità a quanto previsto all'art. 3, provvedere alla registrazione della propria "testata" nel registro sulla stampa presso il tribunale del luogo ove "è edito" il sito internet così come previsto all'art. 5, aver cura di comunicare tempestivamente (entro 15 giorni) ogni mutamento delle informazioni obbligatorie pubblicate e/o richieste in sede di registrazione (art. 6), incorrere nella "sanzione" della decadenza della registrazione qualora non si pubblichi il sito entro sei mesi dalla registrazione medesima o non lo si aggiorni per un anno (art. 7), soggiacere alle norme in tema di obbligo di rettifica così come disposto dall'art. 8 che il DDL Pecorella intende modificare negli stessi termini già previsti nel DDL Alfano e, soprattutto, farsi carico dello speciale regime di responsabilità aggravata per la diffusione di contenuti illeciti che, allo stato, riguarda solo chi fa informazione professionale.

Sono proprio le disposizioni in materia di responsabilità a costituire il cuore del DDL Pecorella e converrà, pertanto, dedicargli particolare attenzione.
Cominciamo dalla responsabilità civile.

L'art. 11 della Legge 47/1948 prevede che "Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l'editore". Non è chiaro come il DDL Pecorella incida su tale previsione ma qualora - come appare nelle intenzioni del legislatore - con l'espressione "a mezzo della stampa", domani, si dovrà intendere "o a mezzo sito internet", ciò significherebbe che i proprietari di qualsivoglia genere di piattaforma rientrante nella definizione di "sito internet avente natura editoriale" sarebbero sempre civilmente responsabili, in solido con l'autore del contenuto pubblicato, per eventuali illeciti commessi a mezzo internet.

Fuor di giuridichese questo vuol dire aprire la porta ad azioni risarcitorie a sei zeri contro i proprietari delle grandi piattaforme di condivisione dei contenuti che si ritrovino ad ospitare informazioni o notizie "scomode" pubblicate dai propri utenti. Il titolare della piattaforma potrebbe non essere più in grado di invocare la propria neutralità rispetto al contenuto così come vorrebbe la disciplina europea, giacché la nuova legge fa discendere la sua responsabilità dalla sola proprietà della piattaforma.

Si tratta di una previsione destinata inesorabilmente a cambiare per sempre il volto dell'informazione online: all'indomani dell'approvazione del DDL, infatti, aggiornare una voce su Wikipedia, postare un video servizio su un canale YouTube o pubblicare un pezzo di informazione su una piattaforma di blogging potrebbe essere molto più difficile perché, naturalmente, la propensione del proprietario della piattaforma a correre un rischio per consentire all'utente di manifestare liberamente il proprio pensiero sarà piuttosto modesta.

Non va meglio, d'altro canto, sul versante della responsabilità penale.
Blogger e gestori di siti internet, infatti, da domani, appaiono destinati ad esser chiamati a soggiacere allo speciale regime aggravato di responsabilità previsto per le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa o radiotelevisione.
A nulla, sotto questo profilo, sembrano essere valsi gli sforzi di quanti, negli ultimi anni, hanno tentato di evidenziare come non tutti i prodotti informativi online meritino di essere equiparati a giornali o telegiornale.

Si tratta di un approccio inammissibile che non tiene in nessun conto della multiforme ed eterogenea realtà telematica e che mescola in un unico grande calderone liberticida blog, piattaforme di UGC, siti internet di dimensione amatoriale e decine di altri contenitori telematici che hanno, sin qui, rappresentato una preziosa forma di attuazione della libertà di informazione del pensiero.

Ci sarebbe molto altro da dire ma, per ora, mi sembra importante iniziare a discutere di questa nuova iniziativa legislativa per non dover, in un futuro prossimo, ritrovarci a raccontare che c'era una volta la libertà di informazione in Rete.


L'indifferenza per la Rete

di Massimo Mantellini - http://punto-informatico.it - 21 Settembre 2009

Una scarsa consapevolezza del mezzo Internet da parte dei cittadini italiani lascia campo aperto a strumentalizzazioni. Dai media al mondo politico

Il giorno successivo alla strage del militari italiani a Kabul Il Giornale è uscito con un titolo a tutta pagina su una notizia piccola piccola: qualcuno, nei recessi più nascosti della rete Internet, aveva offeso e dileggiato la tragedia appena occorsa.

Con qualche difficoltà un giornalista del quotidiano era riuscito a trovare un blog nel quale si scherniva la fine dei soldati uccisi nell'attentato, con qualche ulteriore difficile ricerca, nei commenti del blog di un giornalista dell'Unità e nell'immenso marasma dei commenti del blog di Beppe Grillo, aveva scovato qualche frase dai toni offensivi verso i militari italiani.

Come già accaduto in passato poche flebili tracce in rete sono più che sufficienti a confortare il proprio teorema, a generare un editoriale di Vittorio Feltri in prima pagina, a far comporre il titolo enorme "Quelli che sputano sui nostri morti".

Non si tratta solo di cattivo giornalismo, la rete italiana in queste ora trabocca di testimonianze commosse e preoccupate sulla strage di Kabul, il fatto è che queste persone odiano Internet. La odiano i tanti giornalisti che non hanno mai saputo accettare la presunta concorrenza altrui nel commercio delle parole, la odiano i politici, come la senatrice del PDL Laura Allegrini che letti gli articoli de Il Giornale si è precipitata a chiedere che venga immediatamente oscurato il sito in questione e che vengano individuati i responsabili, la odiano molti cittadini di questo paese, convinti in questi anni dalle informazioni che hanno ricevuto in merito, della natura ambigua e pericolosa di questo "nuovo" strumento di comunicazione.

E tuttavia il problema oggi non riguarda tanto costoro, che sono complessivamente solo una discreta e pericolosa minoranza, quanto la maggioranza degli italiani senza parere. In fondo Internet in Italia non è mai piaciuta quasi a nessuno, ce lo dimostrano un decennio di legislazioni sciagurate, di divulgazione malevola e di demonizzazioni di bassa lega.

Il Parlamento sforna a ritmo continuo progetti di legge che la regolino, che ne chiudano delle parti, che soprattutto individuino i responsabili di qualsiasi azione e parola così che possano essere ridotti ad una qualche normalità, anche magari attraverso l'enorme dito puntato dei quotidiani su una pagina web letta normalmente da quattro persone.

Senza voler essere eccessivamente ideologico la differenza fra il governo attuale e quelli precedenti (non solo quelli del centro sinistra ma anche il precedente governo Berlusconi) è che oggi sembra sia stato superato il punto di non ritorno, che un residuo fastidioso diaframma sia infine caduto.

Ciò che non poteva essere detto ora è sulla bocca di molti: questi signori odiano Internet perchè in un paese fortemente polarizzato ed impoverito in termini di discussione ed elaborazione culturale, la rete amplia il raggio dei punti di vista e costringe a nuovi sforzi di apertura verso gli altri. Quello che altrove è diffusamente percepito come un valore da noi è in molti casi una richiesta finalmente dichiarata come irricevibile. Comprendere i punti di vista altrui? Capire che anche quelli distantissimi dal nostro hanno diritto di asilo su Internet? Non sia mai.

Guido Scorza nei giorni scorsi ha lanciato dalla pagine di questo giornale l'ennesimo allarme su un progetto di legge capace di minare alle basi la libertà della rete. Il disegno Pecorella è solo l'ultimo di una lunga serie e non fa altro che confermare una tendenza già nota. Ma oltre al disegno di legge in sé, che in fondo si occupa delle "solite" cose come aggiungere strumenti di controllo sui cittadini che decidono di esprimere liberamente i propri punti di vista, è forse interessante osservare ciò che accade a margine.

Il numero crescente di minacce legislative alla rete ha creato una sorta di tolleranza farmacologica, ad ogni giro l'indignazione in rete è minore, ad ogni grido di allarme si moltiplicano, anche fra i pochi utenti di Internet interessati a queste questioni, gli sbadigli e le alzate di spalle.

Come sempre poi l'indignazione digitale è un movimento di opinione a costo zero e le sempre più rare proteste diffuse in rete, più o meno organizzate su blog e siti Internet, sono fenomeni destinati a vaporizzarsi alla prima chiamata ad un impegno concreto nella vita reale, una discesa in piazza, una telefonata al proprio parlamentare di riferimento ecc.

Accanto a quelli che odiano Internet in Italia c'è un popolo assai più ampio di cittadini che ignorano Internet. Un italiano su due la ignora perché non sa o non vuol sapere cosa sia, ma fra l'altra metà dei cittadini collegati esiste una grande maggioranza che semplicemente non considera rischi e conseguenze di ciò che sta accadendo. Che semplicemente non è interessata.

Come se ne esce? Per quanto mi riguarda non se ne esce se non attaccandosi con le unghie ancora una volta alla transnazionalità della rete, all'Unione Europea e ad altri santi simili. Dipendesse da questo paese reclinato su se stesso Internet non sarebbe nemmeno nata o sarebbe morta in culla, felicemente soffocata da un numero molto ampio di mani differenti.

C'è una modesta speranza residua, affidata ai tanti che "non sanno", a quell'italiano su due che, molto in teoria, potrebbe svegliarsi domani, accendere il suo nuovo router ed avere improvvisamente a cuore l'apertura e la libertà di questo strumento di collegamento fra le persone. A questi cittadini sconosciuti erano dedicati i fondi (800 milioni di euro circa) che il sottosegretario alle Comunicazioni Romani aveva promesso sarebbero stati investiti per lo sviluppo della banda larga. Poi, chissà perché, questi soldi sono scomparsi, destinati a più urgenti emergenze.

sabato 26 settembre 2009

Dal G8 al G20, da 8 a 20 Galli nello stesso pollaio

Come da copione si è svolto ieri a Pittsburgh un altro G20 infarcito di vuote parole e vaghissimi impegni: ad esempio, è stato coniato il "nuovo" termine di Patto di Pittsburgh, con cui i leader dei G20 si impegnano "a prendere le misure necessarie per garantire una crescita forte, sostenibile, equilibrata, per costruire un sistema finanziario più forte, per ridurre gli squilibri nello sviluppo e per modernizzare l'architettura della cooperazione finanziaria internazionale".
Bla-bla-bla...

Addirittura nel comunicato finale si legge che "In molti paesi la disoccupazione resta inaccettabilmente alta e le condizioni per una ripresa della domanda privata ancora non ci sono".
Ma tu guarda un po' che novità, acutissimi questi 20 leader che "si impegnano ad una forte risposta politica fino a quando non ci sarà una ripresa stabile, a rivedere le politiche sui compensi dei manager, parte essenziale del nostro sforzo per aumentare la stabilità finanziaria e ad allineare i compensi alla creazione di valore di lungo termine".
Certamente... direbbe il petomane di Ciprì&Maresco.

E poi altre perle come "E' imperativo per noi combattere il protezionismo", "c'impegniamo a intensificare gli sforzi, in cooperazione con le altri parti, per raggiungere un accordo a Copenaghen" e così via vagheggiando.

Forse l'unica cosa concreta che si è decisa a Pittsburgh è l'istituzionalizzazione del G20 che sostituirà ufficialmente il G8 come forum primario sulla cooperazione internazionale in campo economico.
Ma il G8 non sarà comunque archiviato del tutto, resterà per discutere di politica estera e altri temi politici più generali.

In sintesi, se già prima era difficile mettere d'accordo 8 Paesi, figuriamoci 20. E infatti ne è già una prova lampante il ridicolo comunicato finale di ieri.


Ma i rapporti incestuosi rimangono
di Alberto Bisin - La Stampa - 26 Settembre 2009

Alla riunione del G-20 di Pittsburgh si sono discusse varie proposte di regolamentazione dei mercati finanziari e si è raggiunto un accordo per il coordinamento delle forme di intervento degli organi di vigilanza.

Nei vari Stati membri i regolatori avranno il potere di imporre stringenti vincoli patrimoniali alle banche e di esercitare varie forme di controllo sui salari e i bonus del management. In questa direzione vanno anche le considerazioni del Financial Stability Board, l'organismo presieduto da Mario Draghi cui il G-20 ha affidato il compito di formulare delle linee guida sulla questione.

Il sistema di regolamentazione dei mercati finanziari ha drammaticamente fallito. Ha mancato di allertare il sistema economico nel suo complesso dei rischi aggregati che le banche andavano accumulando ed ha soprattutto mancato di contrastarle. Non vi è dubbio quindi che il sistema vada riformato alla luce delle lezioni che questa crisi ci ha impartito. Non è chiaro però, purtroppo, che questo sia quello che è avvenuto al G-20.

Concentrare i propri sforzi sulla regolamentazione di salari e bonus ha infatti tutto il carattere di una posizione populista, di quelle che la politica fatica a non cavalcare. Ma esistono ragioni di razionalità economica per regolamentare i salari e i bonus nella finanza? In generale, è efficiente lasciare il controllo del management agli azionisti, che rischiano il proprio capitale. È efficiente anche che la competizione tra grandi banche faccia sì che i migliori manager sul mercato siano remunerati a peso d’oro.

Ma questa competizione induce anche gli azionisti a favorire forme di retribuzione dei manager che finiscono per incentivare obiettivi a breve termine e per favorire l’assunzione di rischio sistemico, di quel rischio che si riversa sull’economia nel suo complesso in caso di crisi. Questa è l’inefficienza su cui interventi di regolamentazione di salari e bonus devono agire.

Ma l’eccessiva assunzione di rischio sistemico da parte delle banche avviene soprattutto perché un numero relativamente piccolo di esse controlla una frazione significativa del mercato. Il rischio sistemico sarebbe drasticamente minore in un contesto in cui le banche agissero il più possibile in condizioni di libera concorrenza. Non è solo una questione di potere di mercato. Ma è soprattutto che le grandi banche sanno bene che il sistema politico non può lasciarle fallire in caso di crisi, pena il panico e l’implosione del sistema economico.

A questo proposito è utile comparare la situazione delle grandi banche a quella degli hedge fund, che operano essenzialmente in un mercato senza regolamentazione. Molti osservatori si aspettavano un crollo degli hedge fund, con effetti devastanti sui mercati. Questo non è successo. Non è successo anche perché il mercato degli hedge fund è caratterizzato da una competizione brutale e perché i gestori, che investono tipicamente i capitali dei ricchi e famosi, sanno di non poter contare sull’aiuto del governo né sulla simpatia dell’opinione pubblica. Di conseguenza, 500 fondi (su un totale di 7 mila) negli Stati Uniti sono scomparsi l’anno scorso, in silenzio e senza gravi effetti sistemici, mentre quelli rimasti stanno tornando ai profitti.

In buona sostanza, due sono i modelli ideali di regolamentazione dei mercati finanziari. Il primo, quello adottato dall’amministrazione americana e dal G-20, opera sulla vigilanza diretta del rischio sistemico, agendo sugli incentivi dei manager all’assunzione di rischio. Il secondo agirebbe invece a monte sulla struttura del mercato bancario, impedendo la formazione di gruppi con sostanziale potere di mercato. In entrambi i casi i salari e i bonus dei manager andrebbero regolamentati, ma nel primo caso questo avverrebbe attraverso controlli discrezionali degli istituti di vigilanza, mentre nel secondo caso solo attraverso l’imposizione di regole generali intese a favorire soprattutto un sistema di retribuzione con incentivi di lungo termine.

Il secondo modello è a mio parere preferibile perché limiterebbe il rischio sistemico alla radice e perché eviterebbe la concentrazione del potere di vigilanza in una sola istituzione, con il rischio gravissimo che essa sia «catturata» dal mercato e dalle lobby finanziarie. La facilità con cui negli Stati Uniti avviene l’interscambio di uomini da Wall Street al Tesoro e alle autorità di vigilanza e viceversa (è questo il caso di H. Paulson, R. Rubin, L. Summers, T. Geithner, per citare solo alcuni recenti esempi eclatanti) non lascia ben pensare. Questo interscambio dovrebbe sì essere oggetto di una regolamentazione rigorosa, ma la politica naturalmente preferisce fare la voce grossa con la finanza piuttosto che regolamentare i propri rapporti incestuosi con la stessa.


Dal G-8 al G-20: il patto di Pittsburgh per la crescita
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - 26 Settembre 2009

Al tredicesimo vertice, a dieci anni dalla sua nascita a Berlino all'ombra della crisi asiatica, il G-20 ha soppiantato il G-8 per diventare il perno dell'«architettura economica internazionale del XXI secolo», il forum di una nuova cooperazione globale tra i 20 paesi, industrializzati ed emergenti, che insieme rappresentano il 90% dell'economia e i due terzi della popolazione mondiale. C'è voluta un'altra crisi ancora più devastante, la prima davvero globale e la peggiore dagli anni '30, per fargli compiere il grande salto di qualità. Il G-8 però non muore, cambia faccia per occuparsi di grande politica, estera in particolare.

È stata l'America di Barack Obama, il presidente multilaterale, a tenere a battesimo la svolta di Pittsburgh, l'embrione di un governo collettivo dell'economia mondiale, a misura dei suoi nuovi equilibri e protagonisti. A comporlo sono i sette Grandi di ieri (Stati Uniti, Canada, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone) e quelli di oggi (Russia, Cina, India, Indonesia, Corea del Sud, Austrialia, Brasile, Messico, Argentina, Sudafrica, Arabia Saudita, Turchia e Unione europea).

Lo stesso Obama ha fatto, a conclusione del vertice, il bilancio di questo difficile anno: «Abbiamo salvato l'economia globale dal baratro. Abbiamo fermato la diffusione della crisi nel mondo sviluppato anche se sappiamo che c'è ancora molto da fare» ha detto il presidente Usa. E ha esortato i governi dei venti a una stretta collaborazione: «Non possiamo aspettare la prossima crisi per cooperare. Il G-20 deve condividere più responsabilità nella gestione dell'economia».

Il G-20 lavorerà con il sostegno dell'Fmi, il cui capitale ieri è stato a sua volta aggiornato ai nuovi rapporti di forza, e del Financial stability board, destinato a un ruolo crescente nel nuovo assetto della governance mondiale. Secondo il patto di Pittsburgh per «uno sviluppo economico forte, sostenibile ed equilibrato», il G-20 avrà il compito di assicurare il controllo collettivo sull'attuazione, da parte dei singoli paesi, delle misure di stimolo varate per la ripresa. Obama insieme al premier inglese Gordon Brown avrebbe voluto di più: l'adozione su scala globale dell'attuale patto di stabilità europeo, con tanto di criteri e tetti (per deficit, debito, inflazione, tassi). «Inaccettabile» ha replicato a entrambi il cancelliere tedesco Angela Merkel. Con il chiaro appoggio del presidente cinese Hu Jintao.

Niente cifre, niente regole vincolanti, men che meno sanzioni dunque. Invece un codice di comportamento scolpito nell'annesso del comunicato finale: i paesi con alti deficit esterni, come gli Stati Uniti, dovranno aumentare il volume di risparmio e il consolidamento fiscale, quelli con alti surplus, come Germania e Cina, dovranno invece stimolare le fonti di crescita interna. È l'inizio di una nuova pagina della cooperazione globale.

Lo spirito di Pittsburgh, che non vuole essere rivoluzionario ma riformista, ha posto la prima pietra del governo economico mondiale. Senza illusioni. Nella consapevolezza di dover convivere anche con le profonde divergenze interne al club. Che si sono manifestate perfino sui connotati della ripresa: «Non è solida» ha sentenziato il cinese Hu. Sulla limitazione dei superbonus ai banchieri, l'accordo ha dovuto fino all'ultimo fare i conti con la Francia di Nicolas Sarkozy: «Troppo morbido, insufficiente». Dunque progressi sulle nuove regole finanziarie, un calendario per l'adozione dei nuovi requisiti di capitale per le banche ma con calma, entro il 2012 per non turbare la ripresa.

Mancato ancora una volta un impegno credibile per il rilancio del Doha Round. E a 75 giorni dalla conferenza Onu di Copenaghen sul clima, la speranza di uno sblocco dei negoziati si è vanificata. Niente di fatto. Dissonanze profonde nel G-20. Anche sui finanziamenti a favore dei paesi in via di sviluppo per convincerli a entrare nella partita dei tagli alle emissioni. Si racconta che la Merkel, irritata dal vuoto di impegni, abbia chiesto di sopprimere il capitolo clima. Per poi rassegnarsi alle solite parole vuote.


Il vertice delle lobby
di Andrea Baranes - www.ilmanifesto.it - 26 Settembre 2009

“Mi spiegate per quale motivo non posso camminare nella mia città?”. Una signora di una certa età si rivolge in maniera più desolata che arrabbiata a un giovane agente in tenuta antisommossa, dietro una delle griglie di metallo che bloccano quasi tutte le strade del centro. In una Pittsburgh militarizzata oltre ogni immaginazione si è svolto il vertice del G20, l’ultimo di una lunga serie di incontri internazionali organizzati quest’anno per cercare delle soluzioni alle peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni.

Una sensazione di rabbia mista a incredulità che ha rapidamente sostituito, tra gli abitanti, l’orgoglio dei giorni scorsi, nel vedere la piccola Pittsburgh diventare per due giorni il centro del mondo. Da capitale dell’acciaio, simbolo del degrado e della crisi dell’industria pesante americana, la città della Pennsylvania ha saputo trasformarsi e rinascere, puntando sulle nuove tecnologie e sul polo informatico. Una città “verde”, scelta come emblema dell’immagine e delle speranze che i paesi del G20 vorrebbero dare nel prossimo futuro.

Le questioni nell’agenda del vertice erano diverse: da una parte la necessità di dare nuove regole alla finanza per evitare il ripetersi di una crisi di tale ampiezza, dall’altra la questione delle risorse per rilanciare le economie nazionali, e quelle dei Paesi più poveri in particolare.

Un ulteriore aspetto fondamentale è quello della governance, ovvero dell’assetto e del potere delle diverse istituzioni internazionali nello scenario post-crisi. A questa agenda, già molto ampia, si somma la questione dei cambiamenti climatici a meno di tre mesi dal cruciale appuntamento di Copenhagen, per non parlare delle notizie dell’ultima ora sul nucleare iraniano.

Sulla partita della regolamentazione finanziaria, negli ultimi giorni Francia e Germania hanno provato a dare un’accelerazione. Nicolas Sarkozy è arrivato a minacciare l’abbandono del vertice se non si fosse trovato un modo di porre un limite ai bonus dei banchieri. In maniera ancora più sorprendente, lo stesso presidente francese e il cancelliere tedesco Angela Merkel hanno riaperto il dibattito sulla proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie.

Un’imposta che permetterebbe di frenare le attività speculative più dannose e di reperire preziose risorse economiche per rilanciare le economie più deboli. Più in generale uno strumento che permetterebbe di dare alla sfera politica degli strumenti efficaci per frenare lo strapotere della finanza e la speculazione. Una proposta che si è però scontrata, una volta di più, con le potentissime lobby della City di Londra e di Wall Street.

Persino sul capitolo dei derivati non regolamentati – over the counter – da tutti additati come uno degli strumenti che maggiormente contribuiscono al formarsi di bolle speculative, i leader del G20 si limitano a “ritenere opportuno” che entro fine 2012 tali strumenti vengano trattati su piattaforme elettroniche, che permettono maggiore controllo e trasparenza. Il Financial Stability Board viene incaricato di svolgere uno studio sul funzionamento dei mercati dei derivati.

Non va molto meglio riguardo le risorse da destinare alla ripresa. I Paesi del G20 confermano le misure di stimolo e non parlano ancora di una “exit strategy” dai sostegni pubblici, che dovrà comunque avvenire il “prima possibile”. Qui risiede però uno dei problemi centrali dell’attuale situazione economica. Le maggiori potenze del mondo possono affrontare enormi piani di stimolo e di sostegno alle proprie economie. I paesi del sud, e quelli più deboli in particolare, non hanno le risorse per farlo.

Il G20 aveva incaricato il Fondo Monetario Internazionale, già durante l’ultimo vertice di Londra, di stanziare buona parte di tali risorse per i paesi più poveri. Diverse reti della società civile internazionale hanno però segnalato che queste risorse sono del tutto insufficienti.
In questa situazione, gli stati più poveri sono costretti a emettere obbligazioni, indebitandosi.

In una situazione di grave incertezza dei mercati, i titoli di stato delle economie più deboli sono considerati ad alto rischio. Queste nazioni devono allora garantire altissimi tassi di interesse per riuscire a piazzare i propri titoli sui mercati finanziari. Secondo una ricerca della rete europea Eurodad, il tasso di interesse sui titoli di stato per le economie emergenti è passato da una media del 6,4% prima della crisi, all’11,7% attuale.

Tutti i comunicati dei vertici internazionali riconoscono che la responsabilità della crisi è dei grandi attori della finanza mondiale, e che gli impatti più gravi ricadono sui Paesi più poveri. Nei fatti, al contrario questi ultimi sono costretti a indebitarsi proprio con i mercati finanziari. In pratica i grandi attori finanziari potrebbero uscire dalla crisi in buona parte grazie alle risorse dei Paesi più poveri, per i quali si profila una nuova crisi del debito estero.
E’ una situazione a dire poco paradossale, che solleva il tema più generale dietro l’incontro del G20: il futuro assetto della governance internazionale e il peso delle diverse agenzie.

Il vertice di Pittsburgh ha definitivamente confermato che lo stesso G20 si è auto-nominato gestore dell’economia mondiale. Dei compiti di primo piano vengono affidati al Fmi, all’Ocse, al Financial Stability Board. Tutte istituzioni, al pari del G20, dominate dalle nazioni più ricche e nel quale le piccole economie del sud sono assenti o comunque del tutto escluse da qualunque ruolo decisionale. Non bastano nel testo finale alcune vaghe dichiarazioni circa la necessità di allargare questi organi e di garantire una maggiore partecipazione al loro interno per legittimare il “nuovo club dei ricchi” a decidere per conto dell’intero pianeta.

Il vertice di Pittsburgh è stato con ogni probabilità molto più importante nella forma che nella sostanza. Nella forma si è trattato di una tappa fondamentale per riscrivere i rapporti di forza del mondo. Ha segnato il definitivo ingresso ai tavoli che contano delle nuove potenze del sud, e il probabile tramonto del “vecchio” G8, ma ha contemporaneamente escluso la maggioranza dei Paesi del pianeta da ogni dibattito sul futuro dell’economia e del ruolo delle istituzioni internazionali.

Nella sostanza, rispetto all’emergenza di riformare alla base la finanza internazionale, il risultato è davvero deludente. Il rischio concreto è che con il passare dei mesi si chiuda la finestra di opportunità per rimettere in discussione un sistema rivelatosi assolutamente insostenibile.

Già oggi assistiamo alla ripresa del business as usual: il mondo bancario e finanziario rialza la testa, riprendono con ancora più vigore le attività di lobby che mirano a scongiurare qualunque forma di controllo o di regole, si ricomincia a speculare sui derivati e a concludere operazioni spregiudicate sui mercati. Tutto questo come se nulla fosse successo, nell’attesa del prossimo vertice o forse della prossima crisi.

Partendo da Pittsburgh, la sensazione è che la montagna del G20 abbia partorito un topolino piccolo piccolo. Intanto gli squali della finanza esultano, più affamati che mai.


G20, il nuovo ordine mondiale
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 25 Settembre 2009

Le immagini della repressione delle proteste a Pittsburgh, in occasione del summit del G20, sembrano tratte da uno di quei film di fantascienza orwelliani ambientati in un indefinito e cupo futuro dominato da regimi polizieschi e leggi marziali.

Duri con i manifestanti. Un battaglione della Guardia Nazionale, appena rientrato dall'Iraq, erige check-point sorvegliati da blindati Hummer e pattuglia le strade attorno alla sede del vertice, dove riecheggia senza sosta l'inquietante messaggio diffuso da altoparlanti, con una voce mono-tono quasi inumana, che avverte i manifestanti: "Lasciate immediatamente questa zona, qualsiasi siano le vostre intenzioni. Se non vi disperdete, sarete arrestati e soggetti ad altre azioni di polizia, tra cui la rimozione fisica, l'intervento degli agenti antisommossa e l'uso di munizioni non letali che possono provocare ferite a chi rimane".

Dalle parole ai fatti.
Rabbiosi 'robocop' della polizia antisommossa marciano per le strade in formazione militare, aizzano cani al guinzaglio contro i passanti, poi fanno cordone e minacciano e picchiano i manifestanti con lunghi bastoni di legno, li rincorrono e li ammanettano con lacci di nylon (come i prigionieri di guerra), sparano sulla folla proiettili di gomma e candelotti di gas urticanti.

Intervengono anche le forze speciali di polizia (Swat), con blindati e altri mezzi militari che 'sparano' sui manifestanti onde sonore assordanti, e, scena surreale, soldati dell'esercito in mimetica che scendono da un auto civile e si portano via a forza un manifestante, senza nemmeno ammanettarlo, mentre la gente attorno assiste attonita a questo rapimento.

Morbidi con i banchieri. Questo clima da legge marziale ha accolto i manifestanti 'no-global' arrivati a Pittsburgh per protestare contro i potenti del mondo, accusati di aver soccorso le banche speculatrici responsabili della crisi con sussidi pubblici per 18 trilioni di dollari, invece di aiutare le vittime di questa crisi, in particolare i milioni di lavoratori che hanno perso il lavoro e le decine di milioni di cittadini che hanno perso il loro risparmi.

Nel mirino dei manifestanti, più in generale, c'è il 'capitalismo globale' che difende i profitti di pochi a discapito dei bisogni della popolazione, un sistema cinico che specula su tutto e su tutti, senza limiti, senza regole.
Il G20 di Pittsburgh era stato presentato come 'la nuova Bretton Woods' che doveva riformare e regolamentare il mercato finanziario globale per evitare gli eccessi speculativi che hanno prodotto l'attuale recessione.

Invece, come prevedibile, le forti pressioni della potente lobby bancaria e finanziaria mondiale hanno bloccato tutti provvedimenti radicali di cui si discuteva alla vigila del vertice.
Dall'agenda del summit sono stati esclusi la 'tobin-tax' sulle transazioni finanziarie, il divieto di speculazione su materie prime e derrate alimentari, la riforma delle agenzie di rating e delle autorità di vigilanza colluse con l'alta finanza speculativa, l'obbligo di un'adeguata capitalizzazione delle banche per ridimensionare il rischioso sistema creditizio basato su riserve frazionarie quasi inesistenti e la creazione di un chiaro calendario di scadenze per combattere il riscaldamento globale.

Dal summit di Pittsburgh uscirà solo qualche proposta demagogica, come la limitazione dei bonus per i manager della finanza, e l'impegno per un maggiore coordinamento economico globale attraverso il rafforzamento di organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, tanto cari ai 'no-global'.


G20 - Manifestanti assordati dal cannone sonico
da www.guardian.co.uk - 25 Settembre 2009
Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras

La polizia USA fa scandalo nell'utilizzare un'arma acustica di guerra per disperdere i manifestanti in occasione del G20 di Pittsburgh

Solo poche centinaia di manifestanti sono scesi per le strade di Pittsburgh in occasione della giornata di apertura del vertice del G20 dei leader mondiali, ma la polizia non voleva offrire loro alcuna possibilità.

Delle armi soniche, ossia dispositivi acustici a lungo raggio, sono stati utilizzati dai militari americani all'estero, in particolare contro i pirati somali e gli insorti iracheni.

Ma ieri le forze di sicurezza statunitensi hanno rivolto il suono lancinante contro i propri cittadini, causando uno sdegno collettivo. Funzionari di Pittsburgh hanno detto al «New York Times» che è stata la prima volta che il "cannone sonoro" è stato utilizzato pubblicamente.

L'arma sonica sembra essere più efficace delle discutibilissime tecniche di contenimento usate dalla polizia metropolitana contro i manifestanti del G20 a Londra. Ma è altrettanto discutibile.

Si teme che i suoni emessi siano abbastanza forti da danneggiare i timpani e causare aneurismi, anche mortali.


G-20: la globalizzazione dichiara bancarotta
di Chris Hedges - http://globalresearch.ca - 20 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Oriana Bonan

La rabbia dei derelitti sta fratturando il Paese, suddividendolo in accampamenti cui non attracca la politica tradizionale. Alle estremità dello spettro politico si stanno sviluppando movimenti che hanno perduto la fede nei meccanismi del cambiamento democratico. Non li si può biasimare. Ma a meno che noi, a sinistra, non ci muoviamo rapidamente, di questa rabbia si impadronirà una destra virulenta e razzista, una destra alla ricerca di un inquietante proto-fascismo.

Ogni giorno conta. Ogni rinvio della protesta fa danno. Questa settimana dovremmo, se ne abbiamo il tempo e la possibilità, andare a Pittsburgh per l’incontro dei G20, invece di far ciò che l’elite al potere si aspetta da noi, ovvero che ce ne stiamo a casa. La compiacenza ha un prezzo terribile.

“Dopo tutto ciò che è andato storto, i leader del G20 si incontrano per tentare di trarre in salvo il proprio potere e il proprio denaro”, ha detto Benedicto Martinez Orozco, co-presidente del Frente Autentico del Trabajo (FAT) messicano, che è a Pittsburgh per le manifestazioni. “Ecco su cosa verte questo incontro”.

Le misure di sicurezza draconiane adottate per mettere a tacere il dissenso a Pittsburgh sono sproporzionate rispetto a qualsiasi effettiva questione di sicurezza. Non sono la risposta ad una minaccia reale, ma piuttosto alla paura che attanaglia i centri consolidati del potere.

L’elite al potere hanno ben chiari – anche se a noi sfuggono – l’enorme frode e il furto colossale intrapresi per salvare la classe dei criminali a Wall Street e speculatori internazionali di una risma che in altri periodi della storia umana finiva al patibolo. L’elite conosce il tremendo costo che questo saccheggio delle casse statali imporrà ai lavoratori che saranno ridotti ad uno stato di permanente sottoproletariato. E sa anche che quando questo diverrà chiaro a tutti, la ribellione non sarà più un concetto estraneo.

Di conseguenza, i delegati al G20 – il raduno delle nazioni più ricche del mondo – saranno protetti da un battaglione d’assalto della Guardia Nazionale recentemente rientrato dall’Iraq. Il battaglione chiuderà l’area attorno al centro della città, fornirà uomini ai posti di blocco e pattuglierà le strade in tenuta da combattimento. Pittsburgh ha aumentato la propria forza di polizia cittadina, generalmente composta di mille unità, aggiungendo tremila ulteriori agenti.

Gli elicotteri hanno cominciato a sorvolare a bassa quota sui raduni nei parchi cittadini, sono stati confiscati alcuni autobus diretti a Pittsburgh per portare cibo ai dimostranti, alcuni attivisti sono in stato di fermo e sono stati negati i permessi per accamparsi nei parchi. Si sono verificati atti di hacking e vandalismo ai danni di siti internet appartenenti ai gruppi di resistenza; molti gruppi sospettano inoltre la presenza di infiltrati e che telefoni e caselle di posta elettronica siano sotto controllo.

Ho incontrato Larry Holmes, un organizzatore proveniente da New York City, fuori da un accampamento di tende montate su un terreno di proprietà della Monumental Baptist Church nel distretto Hill della città. Holmes è uno dei leader del movimento Bail Out the People [N.d.T.: il nome del movimento riprende lo slogan “Bail out the people – not the banks”, ovvero ‘salvate dalla bancarotta la gente comune, non le banche’]. Attivista veterano per i diritti dei lavoratori, domenica ha guidato un corteo di disoccupati diretto al Convention Centre. Nel corso della settimana, coordinerà ulteriori manifestazioni.

“Si tratta di legge marziale de facto”, ha detto, “e i veri sforzi per sovvertire il lavoro di chi protesta devono ancora cominciare. Andare a votare non porta lontano. Spesso alle elezioni non c’è molta scelta. Quando si costruiscono movimenti democratici su temi come la guerra o la disoccupazione si ottiene un’espressione più autentica di democrazia. È più organica. Fa la differenza. Questo è ciò che ci ha insegnato la storia”.

La nostra economia globale e il nostro sistema politico sono stati sequestrati e dirottati da una minuscola oligarchia composta principalmente da uomini bianchi benestanti al servizio delle corporation.

Essi hanno vincolato o raccolto la sbalorditiva cifra di diciottomila miliardi di dollari – in larga misura saccheggiando erari statali – per puntellare banche e altri enti finanziari impegnati in atti speculativi suicidi che hanno rovinato l’economia mondiale.

Hanno elaborato accordi commerciali sulla base dei quali le corporation possono effettuare speculazioni transfrontaliere su valute, cibo e risorse naturali anche quando, secondo la FAO, 1,02 miliardi di persone nel pianeta lottano con la fame. La globalizzazione ha distrutto la capacità di molti Paesi poveri di proteggere, mediante sovvenzioni o tasse sulle merci di importazione, i propri generi alimentari di prima necessità, come mais, riso, fagioli e frumento.

L’abolizione di tali misure di salvaguardia ha permesso a gigantesche fattorie meccanizzate di spazzare via decine di milioni di piccoli agricoltori – due milioni nel solo Messico – portando alla bancarotta e scacciando dai propri terreni molta gente. Persone che in passato erano in grado di nutrirsi ora non riescono a trovare cibo a sufficienza, mentre i governi più ricchi usano istituzioni quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio come fossero mastini, per stabilire la propria supremazia economica. Sembra che la maggior parte dei governi sia in grado di fare poco per contrastare tutto questo.

Ma ora la verità è venuta a galla e l’inganno è svelato. I sogni utopici della globalizzazione sono stati smascherati per l’imbroglio che sono. All’elite rimane solo l’uso della forza.

Stiamo vivendo uno dei grandi capovolgimenti sismici della civiltà. L’ideologia della globalizzazione – come ogni utopia spacciata come ineluttabile e irreversibile – si è trasformata in una farsa. L’elite al potere, perplessa e confusa, si aggrappa ai disastrosi principi della globalizzazione e al suo linguaggio obsoleto per mascherare il vuoto politico ed economico che ci si prospetta. La crisi è stata causata dall’assurda idea che il mercato debba, da solo, determinare i costrutti economici e politici. Quest’idea ha portato il G20 a sacrificare sull’altare del libero scambio altre questioni importanti per l’umanità: condizioni di lavoro, tassazione, lavoro minorile, fame, sanità e inquinamento.

Ha lasciato i poveri del mondo in condizioni ancora peggiori, e gli Stati Uniti con i più ingenti disavanzi della storia umana. La globalizzazione è divenuta una scusa per ignorare il caos. Ha prodotto un’elite mediocre che cerca disperatamente di salvare un sistema insalvabile e, cosa più importante, salvare se stessa. “La speculazione”, ha una volta detto l’allora Presidente della Francia Jacques Chirac, “è l’AIDS delle nostre economie”. Abbiamo raggiunto lo stadio terminale.

“Tutti i punti di forza della Globalizazzione hanno in qualche modo rivelato un significato opposto”, ha scritto John Ralston Saul nel suo The Collapse of Globalism. “L’attenuazione degli obblighi di residenza in territorio nazionale per le corporation si è trasformato in un imponente strumento di evasione fiscale. L’idea di un sistema economico globale ha misteriosamente fatto sì che la povertà locale sembrasse irreale, persino normale. Il declino della classe media – vera e propria base della democrazia – è sembrato semplicemente una di quelle cose che capitano, incresciosa ma inevitabile.

Il fatto che gli appartenenti alla classe lavoratrice e alla classe medio-bassa, persino a porzioni della classe media, potessero sopravvivere solo con più di un lavoro a persona sembrava essere la naturale punizione per non essere riusciti a tenere il passo. In un mondo globalizzato sembrava inevitabile il contrasto tra i bonus senza precedenti assegnati a manager qualsiasi, al vertice, e le famiglie con quattro lavori, in basso.

Per due decenni un elitario consenso ha insistito sul fatto che l’insostenibile debito del terzo mondo non potesse essere accantonato in una sorta di ‘riserva svalutazione crediti’ se non al costo di tradire i principi essenziali e gli obblighi morali della Globalizzazione, tra i quali figurava l’irriducibile rispetto della santità dei contratti internazionali. Nel 2009 agli stessi individui sono bastate due settimane per dimenticare detta santità e proporre – quando si è trattato dei propri debiti, di gran lunga più consistenti – banche speciali per la gestione dei crediti inesigibili”.

Le istituzioni che un tempo fornivano una fonte alternativa di potere – la stampa, il governo, le istituzioni religiose, le università e i sindacati – hanno dato prova di essere in bancarotta morale. Non costituiscono più uno spazio per voci di autonomia morale. Nessuno ci salverà ora, a parte noi stessi.

“La cosa migliore capitata all’Establishment è l’elezione di un presidente nero”, ha detto Holmes. “Questo frenerà la gente per un po’, ma il tempo sta per scadere. Supponiamo che succeda qualcos’altro. Supponiamo che si versi un’altra goccia. Cosa succederà quando ci sarà una crisi delle carte di credito o un collasso nel settore degli immobili commerciali? Il sistema finanziario è molto, molto fragile. Gli stanno togliendo la terra da sotto i piedi”.

“Obama è nei guai,” ha continuato Holmes. “Questa crisi economica è una crisi strutturale. La ripresa è ripresa solo per Wall Street. Non è sostenibile, e Obama ne sarà incolpato. Sta facendo tutto ciò che Wall Street esige. Ma non sarà essere un vicolo cieco. È piuttosto una ricetta per il disastro tanto per Obama, quanto per i Democratici. Solo i gruppi come il nostro danno speranza. Se i sindacati muovessero il culo e smettessero di concentrarsi solamente sulle vertenze dei propri iscritti, se tornassero ad essere associazioni sociali che abbracciano cause più ampie, avremmo una possibilità di riuscire produrre un cambiamento. Se questo non avviene, ci sarà un disastro destroide”.

venerdì 25 settembre 2009

Un Paese marcio

Qui di seguito una serie di articoli che offre a 360 gradi una pietosa quanto reale immagine dell'Italia di oggi.
Punto.

Lo scudo della vergogna
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 25 Settembre 2009

Il divo Giulio difensore dei poveri ha gettato la maschera. Dopo aver incassato il 22 settembre l’approvazione in Consiglio dei Ministri della finanziaria 2010, il presunto no-global alla guida del dicastero dell’economia italiana ha pensato bene di benedire l’ultima porcata, in ordine di tempo, del governo Berlusconi.

Quello che era nato come l’ennesimo regalo ai tanti evasori fiscali che ingrassano le file dei sostenitori della destra nostrana si è trasformato, dopo l’approvazione dell’emendamento proposto dal senatore del Popolo della Libertà, tale Salvo Fleres, in un vero e proprio mostro giuridico.

Non bastava sanare il comportamento illecito di quanti avevano esportato all’estero capitali che avrebbero dovuto dichiarare in Italia evitando di pagare le dovute imposte; non bastava far pagare un ridicolo obolo come premio per la condotta antigiuridica; non bastava estendere una simile misura a dichiarazioni inerenti ad anni fiscali sui quali la Guardia di Finanza ancora stava indagando. Si è dovuto andare oltre e permettere quello che mai un Governo dovrebbe permettere: il vilipendio dell’ordine legale e costituzionale del paese.

Lo chiamano «Scudo ter». È infatti questa la definizione con cui si indica lo scudo fiscale varato quest'anno, dopo quelli del 2001 e del 2003, e che consente di far riemergere capitali e patrimoni che si trovavano all'estero fino al 31 dicembre 2008 e non erano in regola con le norme sul monitoraggio dei capitali, né erano riportati nelle dichiarazioni dei redditi.

L’infame scudo immaginato dal paladino Tremonti proteggerà i più furbi tra tutti i contribuenti italiani non solo da tutti i reati fiscali e societari commessi al fine di evadere il fisco e trasferire il denaro all'estero, ma anche dai delitti di frode fiscale, emissione e utilizzazione di false fatture, falso in bilancio e persino le cosiddette ''frodi carosello''. Reati che potranno dunque essere ''sanati'' con il pagamento di una somma pari al 5% dell'imposta evasa.

"Il diritto penale richiede certezza ed effettività della pena, e non può tollerare un così frequente ricorso ad amnistie o sanatorie, in particolare nel settore delicatissimo dei reati economici e fiscali". Questa la posizione dell'Associazione nazionale magistrati che esprime "preoccupazione" per l'allargamento dello scudo fiscale. ''Si tratta – continua l'Anm – di reati oggettivamente gravi, puniti con una pena massima di sei anni di reclusione, per i quali lo Stato rinuncia alla punizione, in tutti i casi e indipendentemente dall'importo non dichiarato''.

E poteva andare anche peggio. Fortuna infatti che nel pomeriggio di quello stesso tristissimo giorno le commissioni di Bilancio e Finanze del senato avevano modificato il testo dell’emendamento, che nella sua versione originale prevedeva l’estensione della sanatoria anche ai procedimenti in corso.

Lo stesso Luigi Zanda, senatore del Partito Democratico non nuovo ad emendamenti lampo di questo tipo (si ricordi su tutte la questione poi scoperta dalla trasmissione Report riguardante un presunto emendamento alla prima finanziaria del governo Prodi che prevedeva di fatto una norma salva Parmalat), tuona indignato: “Per fortuna lo scudo non è stato esteso ai procedimenti penali in corso, ma resta molto grave. Della portata di queste modifiche ce ne accorgeremo con il tempo, scoprendo quante e quali persone si nasconderanno dietro lo scudo fiscale per evitare di dover rispondere di falso in bilancio una volta scoperte”.

Ancora più diretto è il commento della presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, che dopo aver definito il provvedimento sullo scudo fiscale ampliato «una vera porcata» incalza: «Era più onesto il cartello di Medellin. Si è presentato con i suoi capi, con nome e cognome, al Governo colombiano per offrirgli di far rientrare i capitali dall'estero e aiutare così il bilancio pubblico. Il Governo colombiano non accettò. Ma da noi no. In violazione di tutte le norme si fanno rientrare capitali sulla cui costituzione nessuno indagherà mai e si garantisce l'anonimato».

Un’allusione simile a quella sbandierata dal partito di Di Pietro che direttamente nell’aula del Senato dà luogo ad una protesta che ha il sapore dell’amara verità non raccontata. Una decina i cartelli comparsi fra i banchi dei senatori con slogan alternati: «Governo antitaliano» e «Mafiosi e evasori ringraziano». Il fedele tributarista del papi italiano non può, però, essere tacciato di incoerenza: se le grandi banche internazionali derubano gli Stati sovrani, che anche i cittadini furbi siano messi nelle condizioni di rubare. Un ragionamento che sarebbe un ossimoro ovunque, ma non in Italia.

La situazione è, infatti, più che critica, quasi pietosa. Se tre indizi non fanno una prova aiutano certo a farsi un’idea della reale situazione dei conti pubblici. L’ultimo in ordine di tempo è la benedizione all’emendamento Fleres, quello appunto che stringe i tempi dello scudo e ne allarga i confini. Il primo è invece contenuto nell’obbligo stabilito a gennaio per la Sace – un gruppo finaziorio di assicurazione del credito, protezione degli investimenti, cauzioni e garanzie finanziarie – di garantire i crediti nei confronti delle amministrazioni statali: una brillante trovata per non far pesare fino al 2011 l’extra-debito degli enti locali sul rapporto defecit - Pil. Il secondo indizio è l’emessione lampo da 2 miliardi di BPT (scadenza 2025), effettuata il 18 settembre a poche ore da una conference-call con le banche d’affari.

Ora questo scudo a caccia di soldi ”pochi, maledetti e subito”, dopo un’intera estate passata a fare da moralizzatore del sistema bancario. Tutto lascia presagire tempi cupi. Ma gli italiani possono stare tranquilli: il governo non metterà le mani nelle loro tasche. Il Robin Hood dei ricchi le tasse non le aumenta. È disposto a trasformare questo paese in una latrina del terzo mondo ma le tasse non le aumenta.


Gli eroi dell'ipocrisia

di Fabio Mazza - www.movimentozero.org - 23 Settembre 2009

Lo spettacolo di questi giorni ha un solo nome: ipocrisia allo stato puro. Il rivoltante spettacolo di un Emilio Fede, di un Costanzo, e, orrore di una Barbara D’urso e di un Bracchino, che recitavano la sceneggiata napoletana, strappandosi le vesti per il dolore di queste “povere vite di eroi, spezzate tragicamente”, ha qualcosa di paradossale e grottesco.


Puntualizziamo subito che non gridiamo di gioia, come fa qualche frangia anarcoide-marxista, alla notizia dei soldati caduti.
Il pacifismo “senza se e senza ma” di queste “anime belle” della sinistra per noi è risibile quasi quanto il falso, perbenista e conformistico patriottismo di facciata della classe di governo, e dei loro sodali dei mass-media. Analizziamo però i fatti.


Primo. La manovra di questi giorni, ha tutta l’aria di voler cementare il consenso intorno ad una “missione umanitaria”, di cui nessuno, in realtà, capisce realmente il motivo. Questo è desumibile dal fatto, che quando in passato sono caduti in servizio poliziotti, carabinieri ed altri esponenti delle forze dell’ordine sul territorio nazionale, che a rigor di logica avrebbero meritato, se proprio necessario scomodarlo, il titolo di “eroi” molto più dei soldati impegnati in Afghanistan, visto che difendevano il cittadino dalle minacce della microcriminalità, non ci sono state simili esequie.

E cosi via al “tiro a segno mediatico” a chi la spara più grossa, in un revival patriottico che non si vedeva dai tempi di Fiume italiana e della “vittoria mutilata”. Del resto la servitù al padrone americano va celata dietro motivazioni profonde, ideali, e il “patriottismo de noaltri” non vede miglior collante di un bello spauracchio “terroristico” e estremista islamico per far stringere attorno al focolare le pie famiglie italiane, preoccupate che la nostra solida e giusta società venga minata da questi demoni, che hanno anche il coraggio, questi fanatici, di morire per le loro idee, questi kamikaze!


Secondo. Queste persone sono volontari, pagati intorno ai diecimila euro al mese (e parliamo di soldati semplici o poco più), che fanno a gara per andare in missione all’estero non certo per “portare la pace”, quanto per comprare casa e macchina di lusso quando ritornano in patria. Non è cosi per tutti, ma per una buona percentuale. L’eroe di solito, nella accezione del termine più usata, non è qualcuno che viene pagato cifra spropositate, ma qualcuno che si sacrifica per qualcosa di più alto ed importante che non il denaro.


Quello che i bravi cittadini che improvvisamente si riscoprono ardenti di orgoglio nazionale non sanno (o fingono di non sapere) è che nessun afgano è mai venuto in territorio italico a compiere atti di aggressione, che meritassero una risposta militare. Da questo si deduce che questa è una guerra di aggressione.
Ora, da che mondo è mondo, quando qualcuno invade un paese, il popolo che lo abita ha diritto (e dovere) di difendere la propria terra dall’ingerenza dello straniero. E questo è quello che fanno i talebani in questo momento.


I talebani sono terroristi? Può darsi, ma questo non sta all’occidente stabilirlo. Se i talebani hanno la forza, morale o armata non importa, di prevalere sugli avversari interni, che l’Afghanistan sia governato da loro. Se il popolo afgano non sarà d’accordo sarà suo interesse ribellarsi e instaurare un governo che gli aggradi, che sia una teocrazia, una democrazia all’occidentale, una dittatura e via dicendo.

Ma il compito di stabilire cosa è buono e giusto per gli afgani non spetta certo all’occidente, che non ha per questo il diritto di imporre la “democrazia” a paesi, che per storia, costumi e tradizione, non la conoscono e non ne sono estimatori.

Terzo. La guerra si è sempre fatta. Dall’alba dei tempi. È un istinto dell’uomo, un istinto vitale che è sempre stato tenuto nella massima considerazione. Un mezzo, come nota Massimo Fini nel suo “elogio della guerra” per sfogare le tensioni interne di un gruppo sociale e per cementare le comunità (e si potrebbe vedere qui un motivo dell’aumento esponenziale degli atti criminosi, dell’uso di droghe e di suicidi, nei periodi di “pace”), per creare e distruggere equilibri, per costruire imperi.

Questo formidabile “momento formativo” della vita dell’individuo e dei popoli, ha conosciuto con la tecnologia moderna, che come in ogni altro campo, anche qui è stata “cattiva maestra”, un incremento devastante della capacità distruttiva delle armi utilizzate.

Cambiando le armi, sono cambiati anche i valori della guerra. Il valore, l’onore, la strategia, lo sprezzo della morte e del pericolo di un uomo non c’entrava quasi più nulla nella guerra. Non certo nella guerra di trincea del 15-18, dove la “carne da cannone” aveva ben poche occasione di dimostrare qualità guerriere e umane, nonostante quello che cedettero i giovani che vi aderirono entusiasticamente. Non certo nella seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti a tappeto sui civili, resero la guerra “totale”. Poi arrivo l’atomica, e sotto la minaccia del nucleare la guerra divenne un tabù, e il pacifismo post-68, falso e rivoltante, un obbligo, viste le conseguenze di un possibile conflitto mondiale.

Da quel momento le guerre si sono chiamate “missioni di pace”, “operazioni di peace keeping”, di “polizia internazionale”, “umanitarie” e via dicendo. Ma guerre no. E via con il demonizzare e demistificare anche tutto il passato guerriero dell’occidente, considerato come il “male del mondo”, una cosa da esaltati fascistoidi guerrafondai, quasi come se la guerra di oggi, cosi disumanizzata e senza onore, fosse sempre stata la stessa. Se un tempo la guerra non avesse avuto un altro senso, e un altro spirito.

In questa disperazione per sei militari morti, quando è la normalità morire in guerra, (ci si dovrebbe disperare di più per i giovani che perdono la vita per un incidente d’auto o per i morti “bianchi” sul lavoro), si nasconde una dimostrazione ulteriore di quanto questo mondo e questa società abbiano rimosso la morte.

Oggi sembra eccezionale che sei soldati siano uccisi in guerra, ma quanti morti ci sono stati nelle guerre precedenti? Milioni. E lo spirito che accoglieva quelle scomparse non era certo quello che abbiamo visto in questi giorni.

È come se questo occidente rammollito, ormai preda dell’Islam perché non ha alcun sistema di valori forti e condivisi da opporgli, se non un becero e sterile “a casa loro” di padano conio, che non risolve il problema di fondo, quello della perdita della nostra identità comune, ormai volesse che tutto si risolvesse come in uno dei tanti reality show di cui va pazzo.

Facciamo la guerra, ma come in un war game, magari premendo un bottone e, a distanza, cancellando interi villaggi, ma ci meravigliamo se poi i “selvaggi”, gli “straccioni”, i “terroristi”, non ci stanno e rispondono colpo su colpo.
Vogliamo giocare ad un gioco senza rispettarne le regole. La legge della guerra è una sola, semplice e crudele, ma non priva di dirittura: puoi uccidere ed essere ucciso.

E allora sicuramente oggi è un giorno di dolore per le famiglie di questi soldati che hanno diritto di celebrare i loro morti, ma che ci venga risparmiato questo buonismo di stato, tanto più repellente in quanto viene da uno stato che si proclama “democratico” e “liberale” e che quindi dovrebbe essere alieno da forme di paternalismo cosi meschine e puerili come quelle che abbiamo visto in questi giorni.


A proposito di puttane...

di Marco Francesco De Marco - www.movimentozero.org - 24 Settembre 2009

Usiamo lo stile di Travaglio. E’ così di moda e di successo. Chissà che non si riesca anche noi, nel nostro piccolo, a diventare tanto famosi da guadagnarci un bel contratto in Rai. Un sogno che inseguiamo fin da bambini.

A proposito di puttane e puttanopoli. Alcuni giornalisti italiani lanciano il ricorrente allarme: “siamo in un regime”. Non c’è libertà di espressione, c’è la censura, le nostre idee sono minacciate. Poveretti. Come li capisco. Vorrebbero scrivere che il popolo italiano paga una tangente chiamata “interesse sul debito pubblico” di oltre 70 miliardi di euro, e la paga ad una associazione a delinquere fatta di banche e banche centrali, “criminali che andrebbero processati per crimini contro l’umanità, tra i quali Draghi (parole di Elio Lannutti dell’Italia dei Valori)”.

Ma nessun editore permette ai valorosi giornalisti italiani di scrivere su questi temi così importanti. Così le nostre migliaia di “penne libere”, gli alpini della verità, i Santoro, Travaglio, Floris, Colombo, Maltese, Giannini, Padellaro, Mauro, Beha e compagnia cantando, sono costretti a negare il giusto risalto a notizie come quella sull’assoluzione di Angelo Rizzoli, depredato dalla solita banda di banchieri, pescecani, affaristi, malavitosi ed alti prelati.

I nostri eroi, impegnati nella crociata contro Silvio il Saladino, schierati sul fronte opposto, ovvero a favore della lobbie che gli contende il potere, cioè il sottopotere, hanno ignorato la notizia sulla vera storia del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, che oggi appartiene ai soliti noti parassiti, e che secondo giustizia non dovrebbe essere loro, perché è stato illegalmente e con modalità truffaldine sottratto ad Angelo Rizzoli. Il quale, giusto per continuare a parlare di puttane, puttane vecchie, navigate ma ancora in servizio, è stato incarcerato dai soliti magistrati al servizio dei potentati economici, al fine di distruggerlo, nel fisico e nella mente, al solo scopo di sottrargli il patrimonio di famiglia.

In quei giorni, Gianni Agnelli, con la freddezza tipica dei rettili e la finezza di uno scaricatore di porto, chiamò Rizzoli appena uscito dal carcere per dirgli: “Siamo nel mondo degli affari dove vale la legge della giungla: il più forte vince il più debole. E lei, dottor Rizzoli, in questo momento è il più debole”. Questo era il raffinatissimo “principe” dell’aristocrazia piemontese: un magliaro (definizione estratta da Dagospia)!

Lo stesso magliaro che fu l’idolo dei giornalisti italiani per mezzo secolo, il Papi ante litteram, visto che anche lui “cantava canzoni napoletane” alla diciottenne (e chissà da quanto tempo, forse da quando era minorenne) Monica Guerritore, come sapevano in tanti anche se mai nessuno osò scriverlo. “Con la vicenda Corriere ho perso 26 anni di vita - prosegue Rizzoli”. “Mio padre ci è morto d’infarto nel 1983, mia sorella Isabella, la più piccola, si è suicidata nel 1986. Mi hanno incarcerato tre volte e portato in cinque carceri diverse. Porto i segni sulla pelle di quello che mi hanno fatto”.

Ma non state in pensiero, amici miei. Ora arriva Padellaro e sistema tutto, con l’aiuto di Colombo e Travaglio, e a quanto sembra anche Massimo Fini. Cosa ci farà in mezzo a queste scarpe vecchie è un mistero, è ovvio che li lega solo l’odio per Berlusconi.

Tuttavia, mentre quella di Fini è un’avversione ideale e culturale, quella dei soliti noti ha il suo nucleo negli interessi di parte, la sponda di De Benedetti e della finanza vampirica italiana ed internazionale, la stessa che sussurrava all’orecchio di Ciampi, Amato e Prodi, e che non vede l’ora di liberarsi di Berlusconi e Tremonti e di quei cafoni dei leghisti. Credo che Massimo Fini durerà poco in questa compagnia di vecchie combattenti del marciapiede, giusto il tempo di farsi censurare qualcosa sull’Afghanistan e sull’Iraq, vista la presenza dei filo-israeliani e filo-americani Colombo e Travaglio.

Ciò non di meno attendiamo con trepidazione di poter leggere che il comparto bancario italiano (insieme a tutto quello occidentale) impedisce autentiche indagini per conoscere le vie finanziarie del riciclaggio del mondo della droga. Scopriremo che alcune multinazionali vendono inspiegabilmente medicine cancerogene, che il latte artificiale è dannoso per i nostri bambini, che l’Europa paga la tangente agli USA per non volere autorizzare il commercio di carne agli estrogeni.

A proposito di puttane, puttane di lunga carriera, travestite da verginelle, questi non scriveranno niente di tutto questo, se non nella solita maniera generica, pavida ed alibistica con la quale si sono creati la fama di “Ernesti sparalesti” della verità, senza mai e dico mai scrivere qualcosa contro i veri poteri.

D’altronde sono gli stessi cresciuti e pasciuti all’epoca del consociativismo, della spartizione delle tre reti Rai, una alla Chiesa, una ai socialisti ed una ai compagni e compagnucci. A proposito di vecchie zoccole e delle loro notti accanto al fuoco, questi sono gli stessi che si sono scaldati per decenni accanto ai fuochi del clientelismo, delle raccomandazioni, delle lobbie, degli amici degli amici.

La loro ennesima, squallida, povera campagna di terz’ordine contro Berlusconi non è degna di passare per battaglia per la libertà. La libertà di stampa in Italia non esisteva prima di Berlusconi e non esisterà dopo. E quando si potrà tornare a scrivere liberamente, non sarà certo per merito loro. A proposito di puttane, quelle di Berlusconi, al cospetto di queste vecchie baldracche, sono delle educande dodicenni che studiano in un collegio di orsoline.


"Videocracy" o del fascismo estetico
di Andrea Inglese - www.nazioneindiana.com - 24 Settembre 2009

La negligenza, e quasi la cecità, della sinistra e della sua intellighentsia dinanzi a questo fenomeno deriva dalla situazione con cui hanno guardato alla cultura delle masse, che è stata considerata sempre marginale rispetto al potere presunto vero, cioè alla dimensione politica ed economica (Raffaele Simone).

Essere spettatori di Videocracy è un’esperienza profondamente sgradevole. Durante la proiezione del documentario è percepibile un diffuso imbarazzo, che ogni tanto è rotto da qualche risata liberatoria. Ma quelle risate, appena risuonano, più che liberare incatenano maggiormente alla propria vergogna.

Poi c’è lo schifo. Uno schifo da tagliare col coltello. E quindi la nausea di nervi, veri e propri crampi. E quando ti alzi e vedi gli altri spettatori come te, e sai già fin d’ora che se ne andranno come se niente fosse, come si esce ogni sera da un cinema, un po’ stralunati e un po’ eccitati, ti piomba di nuovo addosso la vergogna, quasi fossimo tutti quanti testimoni passivi e docili di un crimine detestabile, concluso il quale ognuno se ne va solitario, omertoso e impotente a casa propria. Strano effetto, davvero.

Ma come? Non avevo io letto Anders, Debord, Baudrillard, Bauman? Non avevo letto Barbaceto, Travaglio, Perniola, la Benedetti, Luperini? Non conoscevo già tutta questa vicenda a memoria? Non avrei dovuto essere immune dallo shock? Non ho forse letto analisi e ascoltato dibattiti sul genocidio culturale, sulla rivoluzione mediatica degli anni Ottanta? Sul grande smottamento antropologico, cominciato con Drive in?

Non sono forse un tipico esemplare di quella classe media acculturata che, grazie ad una certa memoria storica e ad una formazione umanistica, si sente sufficientemente critica nei confronti del mondo che lo circonda? Addirittura, non sono forse un esemplare medio di quello che è una volta si sarebbe chiamato intellettuale di sinistra, uno cioè che crede nel valore della ricerca e del dibattito pubblico, nel valore della scienza e della letteratura, per rendere il mondo più giusto?

E non sono, infine, un insegnante di liceo, che ha quasi ogni giorno un contatto diretto con le “nuove generazioni”? Io, dunque, non sapevo? Non ne sapevo abbastanza di com’è l’Italia, di come è diventata? Ma non lo sappiamo tutti, da tanto tempo? Ma allora perché quel senso desolante e irrimediabile di umiliazione, che solo un antidolorifico coi fiocchi, un oppiaceo in polvere, avrebbe potuto lenire?

La prima risposta che trovo, non so quanto corretta, è questa: il mio sapere è stato a lungo scisso dal mio sentire. Il mio sistema morale deve aver trovato una strategia alquanto vigliacca di sopravvivenza, da un lato mandava avanti la mente libresca, la nutriva di dati e concetti, dall’altro ottundeva il sensorio, lo teneva al riparo dalla “malvagità del banale”, per utilizzare una formula letta da qualche parte e che rovescia assai ragionevolmente il titolo della Arendt.

Non è forse stato il mio (il nostro) un ritiro sull’Aventino? Non già un ritiro parlamentare, una rinuncia politica, una protesta sterile e controproducente. No, un ritiro estetico, e non della classe politica, bensì di una certa società civile. Abbiamo fatto di tutto per non percepire, mentre intanto blandivamo la coscienza, nutrendola di letture e tavole rotonde sull’informazione.

Da tempo immemorabile la sinistra grida “al lupo al lupo”, parlando di regime, di guasto della democrazia, di monopolio dell’informazione. La sinistra istituzionale, quella che fa riferimento al PD, dovrebbe su questa questione tacere per sempre. Forse per inconsapevole terrore di quella stessa ideologia, di cui è stata prigioniera nel suo remoto passato di PCI filosovietico, forse per consapevole contrabbando politico con Berlusconi, essa ha rinunciato ad ostacolare la frana in corso. Nessuna legge ha intralciato il massivo esperimento antropologico del Grande Intrattenitore.

Sanare i conti, è stata la priorità dei governi di centro-sinistra, mentre le menti, quotidianamente, si guastavano. Ma poiché il partito si era finalmente de-ideologizzato, poco si curava di questo versante e di coloro che in esso moltiplicavano cantieri. Quanto a certa sinistra radicale, la sua vocazione al settarismo l’ha completamente immunizzata dal problema.

Essendo i compagni autentici una ristretta e gelosa élite, e vivendo essi tra di loro, perfettamente adeguati alla psicologia dell’assedio, e dotati infine della celebre pazienza rivoluzionaria, possono attraversare deserti estetici e antropologici senza battere ciglio. La dura necessità della lotta li ha anestetizzati in partenza.

Quando dunque si parla di attacco ai diritti civili e si addita con scandalo, da Repubblica al manifesto, la costituzione bistrattata, si spara in parte fuori bersaglio. Non che ognuno di questi allarmi sia fasullo, ma essi ignorano l’isolamento estetico da cui vengono lanciati.

Chi pensa alla costituzione ha una mente libresca, chi continua ad amare Berlusconi ha una mente televisiva. Questa banale affermazione ha conseguenze, storicamente, tragiche. Nel senso più tecnico e appropriato del termine. Le condizioni di vita, nel paese, possono peggiorare per un numero sempre più ampio di persone, senza che ciò alzi di un grado la cosiddetta conflittualità sociale. Questa è l’implacabile legge di quello che io chiamerei “fascismo estetico”.

Che cos’è il “fascismo estetico”? Le sequenze iniziali e finali di Videocracy lo illustrano perfettamente. Il “fascismo estetico” è quella lotta per la salvezza sociale che impegna ogni componente dei ceti popolari, nella più assoluta solitudine, sul terreno della propria immagine. Nell’epoca della fine della mobilità sociale e del lento disfacimento della classe media, il nemico di classe non esiste più, come non esistono più alleati nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita. Vi è un’unica fede, quella della trasformazione individuale. Non una religiosa rivoluzione interiore, ma una laica e materialista metamorfosi della propria immagine.

Il giovane operaio bresciano che è intollerante nei confronti del proprio lavoro, che si rifiuta ostinatamente a un destino di tornitore a vita, ha di fronte a sé un’unica via di salvezza che, tragicamente, è in realtà la sua maledizione. Egli vive da anni nella costruzione di un personaggio televisivo attraverso una dura disciplina fisica, che lo rende straordinariamente atletico e prestante. Ha ininterrottamente lavorato sulla propria immagine, ossia sul proprio corpo, sulla gestualità, sugli abiti. Ma per lui, probabilmente, non verrà alcuna salvezza.

Ruoterà per sempre, come in un girone infernale, intorno alla ribalta televisiva, senza mai poter abbandonare il suo posto di spettatore ed accedervi. Per lui, il salto sociale non avverrà mai, anzi si cumuleranno, su un terreno nuovo e diverso da quello della fabbrica, delle umiliazioni ulteriori. Passerà di casting in casting, calcherà gli studi televisivi, solo per mettersi tra le sagome indifferenziate di coloro che ridono e applaudono. Non diventerà, nonostante le ore quotidiane di palestra, la dieta, i sacrifici di tempo e denaro, famoso, e quindi neppure ricco, e quindi neppure attraente da un punto di vista sociale. Resterà un qualsiasi operaio non qualificato, di quelli guardati con sufficienza dalle compagnie femminili di paese.

Per le giovani e giovanissime donne, il fascismo estetico presenta un quadro, se possibile, più cinico e disperato. In un mondo del lavoro ancora sessista, la via della realizzazione professionale passa per la prostituzione spontanea. Si parla sui giornali della propensione del premier erotomane per le minorenni. Si parla con orrore di violenza sulle donne, di abusi e aggressioni sessuali. Nell’ultima sequenza di Videocracy, un gruppone di giovanissime aspiranti veline è ripreso mentre ancheggia a suon di musica, nel modo che ognuna immagina il più sensuale e provocante possibile. Quanti di questi corpi sono volontariamente sacrificati ai molteplici intermediari dell’industria dell’immagine?

Sotto l’occhio complice della famiglia, del gruppo di amici, della comunità di paese, che preferisce ignorare il prezzo imposto dal raggiungimento di una tanto agognata apparizione televisiva?

Anche qui non sfugge la condizione tragica che impone al mondo femminile di raggiungere la propria salvezza sociale – l’autonomia professionale – attraverso la dura prova del baratto sessuale, poiché l’unica merce di scambio che una donna può offrire, in quel mercato gestito dall’uomo, è il corpo. Se poi sia peggio, quanto a prostituzione spontanea, quella dei corpi, riservata alle donne, rispetto a quella delle menti – e quali menti! –, riservata agli uomini, non sarò certo io a dirlo, che non sono avvezzo né all’una né all’altra.

Insomma, nonostante tutto ciò che che sapevo (o supponevo sapere), la visione di Videocracy mi ha prodotto uno shock cognitivo, che mi ha spinto ad elaborare il nuovo concetto di “fascismo estetico”. Innanzitutto ho pensato che ci è davvero mancato un Pasolini, come cronista di questo terrificante esperimento di massa. Non il Pasolini che viene sempre invocato, quello del genocidio culturale e della fine del mondo contadino. Il Pasolini degli anni Settanta, quello delle Lettere Luterane per intenderci, non scopre niente, da un punto di vista intellettuale.

Dice cose che altri studiosi e scrittori, filosofi e sociologi, hanno già detto almeno una decina d’anni prima. La forza e la necessità dell’urlo di Pasolini viene dal fatto che, quello che altri hanno saputo prima, lui lo sente dopo. Altri, più lucidamente di lui, avevano analizzato la rivoluzione antropologica, che stava segnando la scomparsa della cultura popolare e contadina. Ma lui è stato in grado di patire fino in fondo l’esperienza di questa scomparsa, proprio in virtù di quel contatto con i ceti popolari di cui era continuamente alla ricerca. Lui l’ha vissuta su di un piano estetico più che politico e intellettuale. E proprio per questo ne ha misurato più coraggiosamente di altri la portata.

Molti di noi, nel trentennio di ascesa della videocrazia, si sono difesi proprio dall’esperienza estetica che il nuovo regime imponeva. Mi prendo come esempio, in quanto so bene di non rappresentare un’eccezione, semmai una minoranza. In un momento imprecisato, all’inizio degli anni Novanta, ho smesso di guardare la televisione. Ho compiuto questo gesto semplice: ho portato in solaio il televisore, e da allora guardo la tele assai raramente, a casa di qualcun altro. È una colpa? Posso andarne fiero? Potevo fare altrimenti? (Una delle frasi che appaiono in coda a Videocracy afferma: Oggi l’80% della popolazione italiana ha la televisione come prima fonte di informazione).

Lo ammetto, ad un certo punto mi sono rifiutato di sottopormi compiutamente all’esperimento che Silvio Berlusconi stava realizzando sul pubblico televisivo italiano. Lo avrò fatto per privilegio di classe, per intolleranza personale, per istinto di sopravvivenza… non sono sicuro di conoscerne il vero motivo, ma sicuramente l’ho fatto. Il problema è che, in questo modo, ho finito per ignorare l’entità del disastro. Aggravante ulteriore è stata la latitanza dal suolo patrio per alcuni anni. È pur vero che, ogniqualvolta mi è capitato in questi anni di vedere un programma d’intrattenimento, faticavo a credere ai miei occhi e alle mie orecchie.

Mi dicevo: “Ma come è possibile che le donne italiane accettino questo?” (Non parlo qui d’informazione. Delle mezze verità dei telegiornali, della censura spontanea o imposta, della manipolazione e della propaganda. Parlo proprio dei programmi di puro intrattenimento, con la presenza del pubblico: dai quiz ai reality show.)

Ma le occasioni di spaesamento si moltiplicavano anche nella vita reale. L’avvento in città di automobili sempre più implausibili: le fuoristrada con la sbarra di metallo antibufalo, o quelle nere con i vetri oscurati da gangster. La moltiplicazione davanti a qualsiasi locale dalla luminaria un po’ esotica d’ingombranti e inutili buttafuori. Ricordo la scoperta di ambienti a tal punto ridicoli, da sembrare irreali. Un conoscente una sera m’introdusse, con un paio di amici, al “Just Cavalli Café”, un locale esclusivo – o che si pretende tale – di Milano, frequentato da gente della moda, del calcio e della televisione. C’erano due ragazze in tailleur all’entrata con le liste degli invitati: una miscela di doganieri, hostess, e maestrine terribili: serie come la morte.

Nel ristorante dei Vip – o presunti tali – gli uomini sembravano controfigure più o meno riuscite di Fabrizio Corona, ma generalmente col cranio rasato; le donne, presentatrici più o meno plausibili alla ricerca disperata di contatti importanti. Sociologicamente nulla di speciale: nuovi arricchiti. Atmosfera: Mosca anni Duemila, magari senza pistole automatiche nella giacca. Ma l’arredamento, gli abiti, la gestualità erano ciò che più mi sorprendeva.

Tutto si svolgeva come su una ribalta televisiva, ma mi sfuggiva la regola del gioco, dal momento che di spettatori non ce n’erano. Quando si dice “apparire”, non si è detto ancora nulla. Uno, infatti, pensa subito ad una politica dell’apparire, all’apparenza come mezzo. Ma nel “fascismo estetico” – e lo capisco tardi – mezzo e fine finiscono per confondersi. La disciplina dell’apparire, il quotidiano esercizio per diventare belli ed eleganti, non ammette basse strumentalizzazioni. Raggiungere lo splendore di un’immagine si trasforma nel fine in sé.

E tutte le volte che a Milano camminavo per certe vie o passavo davanti a certi caffè o discoteche, mi chiedevo: “Ma chi sono questi?” Era snobismo? È stato snobismo smettere di avere la tele in casa? Questa è l’accusa più in voga oggi rivolta a chi rimane estraneo ai grandi compiti imposti dal “fascismo estetico”.

Le mie ragioni, però, non sono state sociali, ma estetiche: era una vigliacca necessità di preservarmi da tanta bruttura e banalità, da tanto conformismo, che mi ha reso cieco alle grandi trasformazioni. Non ne ero ignaro, ma non percepivo il disegno unitario e la macchina potente che le governava.

Ora vedo l’enorme sforzo di essere belli, il rovello perenne, la disciplina marziale dell’apparire, a cui una gran quantità di giovani italiani è sottoposta. È affascinante constatare fino a che punto, in certi caffè o per certe vie, ci siano solo ragazze accuratamente truccate che indossano abiti vistosi e attraenti, e ragazzi con muscolature e tatuaggi opportuni. Tutte e tutti abbronzati. L’unica nota inquietante in tanta bellezza è lo spettro aleggiante della clonazione. Tutti questi belli e queste belle, disinvolti e ridanciani, si assomigliano maledettamente. Hanno lo stesso taglio di capelli, gli stessi occhiali, le stesse magliette, gli stessi tatuaggi. Non solo, ma il loro sforzo perenne, la loro aspra disciplina, li rende anche tremendamente aggressivi.

Questa è una caratteristica del “fascismo estetico”: vi è un sovrano disprezzo per colui che non si piega alla stessa rigida regolamentazione. Costui non è visto semplicemente come un “brutto”, uno “sfigato”, perché privo di opportuna abbronzatura e tatuaggio, ma è considerato in qualche modo una minaccia, anzi uno sberleffo vivente di fronte allo zelo dei belli-a-tutti-i-costi. Vi è un grande risentimento in questi “sacerdoti del corpo scolpito e dell’abito perfetto” per colui che non appartiene alla loro tribù. E mostra di vivere, di divertirsi, di amare, senza intrupparsi nel loro corteo e senza condividere i loro riti impietosi.

Non m’interessa più di tanto, in realtà, proporre una fenomenologia dell’italiano dedito all’ossessiva e conformista cura della propria immagine. Ognuno ha di fronte a sé una quantità di esempi sufficientemente eloquenti. Il punto è un altro. E riguarda la mia (e di altri) grande capacità di astrazione e di oblio di fronte a tutto ciò. Accettare fino in fondo quanto è accaduto, guardarlo in faccia senza schermi intellettuali, è un compito arduo. Lo è soprattutto per chi vive ancora tra due mondi, tra quello della lettera e quello dell’immagine, tra la cultura del libro e l’impero della televisione.

(La discussione scaturita da questo post, grazie alle osservazioni e testimonianze emerse nei commenti, mi ha fornito materiale di ulteriore riflessione. E davvero diversi sarebbero i filoni di discussione possibili. Per conto mio proverò a metterne a fuoco uno, quello relativo alla formula suggestiva, ma per certi versi opaca, che mi si è imposta rievocando scene di Videocracy: il “fascismo estetico”.)

Vorrei cominciare con due citazioni tratte da un post di Lorella Zanardo, intitolato I corpi liberati. (La Zanardo è l’autrice del documentario-saggio Il corpo delle donne).

“E’ da sempre enorme il potere d’attrazione del corpo delle donne, oggi però ne abbiamo più consapevolezza e ne restiamo noi stesse sorprese.
In particolar modo le giovanissime, come Silvia, paiono godere di questa scoperta: la loro è forse la prima generazione a nascere e crescere dentro un corpo liberato che non ha dovuto lottare per uscire da costrizioni e sottomissioni millenarie.
Io credo ci sia qualcosa di vero e forte in questa scoperta.
Intendo che Silvia, Belen e molte altre si avvicinino ad una scoperta potentissima senza riuscire a portarla a compimento.”

“La televisione attrae proprio per la sua proposizione ossessiva di corpi, lontani però da ogni forma realmente espressiva perché imprigionati in gesti ripetitivi e costretti dalla finzione intrinseca al mezzo televisivo.”

Che rapporto c’è tra il “corpo liberato” e il “corpo dominato”? Apparentemente i due concetti sono antitetici: dove c’è l’uno non ci può essere l’altro. Ma uguale conclusione sorgerebbe se si associassero altri due concetti, “individuo emancipato” e “individuo soggiogato”.

Qual è stata la forza di attrazione, per certi versi rivoluzionaria, della tv berlusconiana in Italia? Quella che ha contribuito a costituire il partito mediale di massa, secondo la definizione di Ilvo Diamanti.

Le tv private del Grande Intrattenitore hanno avuto la capacità di sollecitare esigenze d’emancipazione soprattutto presso i ceti popolari, liberando energie nuove, salvo poi, puntualmente, imbrigliarle, parassitarle e sfruttarle nel proprio obiettivo di espansione commerciale e di egemonia culturale. La pietra angolare del partito mediatico, l’industria televisiva, ha agito come uno straordinario commutatore: ha attirato a sé una gran quantità di energie giovanili desiderose di emancipazione, per sottoporle a un rigido regime dell’intrattenimento, che riusciva, paradossalmente, a provocare sul pubblico un effetto di regressione culturale.

Strappare giovani e giovanissime donne da legami locali e comunitari, per portarle sulla ribalta televisiva a livello nazionale, è indubbiamente un fattore d’emancipazione (sfuggire alla tutela familiare e della comunità locale). Possiamo immaginare che un fenomeno concomitante di questa emancipazione sia, nella giovane donna, la piena consapevolezza del potere d’attrazione del proprio corpo.

Il corpo voleva liberarsi, ha avuto un’occasione per farlo, sfuggendo a vincoli e condizionamenti tradizionali, ed ora è disponibile, come un’energia potenziale, che può esprimersi in varie forme. Questa occasione d’emancipazione è data però da una soglia stretta: l’immagine. Ci si libera e si misura la potenza della propria liberazione accedendo all’immagine, ossia sottoponendosi all’iter complesso della selezione, della formazione, della cooptazione nell’industria televisiva. Dove sta il fascismo in tutto questo? Il fascismo sta nell’esistenza di un unico Codificatore, rigido e autoritario.

Se la grande occasione d’emancipazione (dei ceti popolari, della donna) sta nella soglia stretta dell’immagine, chi diviene padrone di essa, della sua codificazione, della sua produzione e della sua diffusione, ha un potere coercitivo e di controllo enorme. Non solo, ma egli si nutre della potenza dei corpi in via di emancipazione, si nutre dei sogni che questi corpi sprigionano, nel momento stesso in cui percepiscono una possibilità di emanciparsi.

Berlusconi e il suo sistema televisivo si sono posti come unico Codificatore, fornendo una speranza concreta a migliaia di persone: “liberatevi dalle vostre catene, portate la vostra energia fino alla porta stretta dell’immagine, lì dove si organizza l’apparizione televisiva.” Ciò che si perde così facendo è poi, tragicamente, la propria espressività. Perché la si perde? Perché gli Avanguardisti Tronisti e le Giovani Italiane Veline sono, per la gioia del Codificatore, persone incompiute, malleabili, le cui spinte espressive non hanno ancora preso una definitiva direzione.

Ed è su questa malleabilità espressiva che avviene la violenza del fascismo estetico: ossia la codificazione rigida dei ruoli, dei tempi, dei vestiti, dei gesti, dei toni, secondo un copione fisso.

L’azione violenta e prevaricatrice che contraddistingue il carattere fascista di questa operazione avviene a due livelli: a livello alto, in quanto monopolio televisivo (illegale), e quindi imposizione, a livello nazionale, di un solo Codice, con marginalizzazione e discredito di Codici concorrenti; a livello basso, in quanto imposizione – in termini di addestramento – di un unico paradigma espressivo, senza nessuna considerazione per altri alternativi.

Tutto questo sistema, inoltre, ha un’altra conseguenza “fascista”, ossia il carattere mortifero e mortificante delle poche espressioni consentite. E qui il documentario di Lorella Zanardo è sufficientemente eloquente. L’accanimento sui volti delle donne, passati sotto l’opera di cancellazione chirurgica della loro espressività, riconduce alla levigata uniformità della maschera mortuaria.

L’accanimento nel ricondurre la donna ad un alfabeto limitato di posture – a carponi sotto un tavolo ad esempio –, riconduce alla mortificazione sadica, ma senza ombra di quella parità di ruoli che, nella vita intima e privata, dovrebbero essere il presupposto di ogni espressività erotica. Non è il gesto in sé ad essere mortificante, lo è la sintassi rigida del gesto, la sua ricorrenza all’interno di un sistema chiuso di gesti e di ruoli codificati.

Infine, il “fascismo estetico” ha un’altra conseguenza: il razzismo. Un razzismo che, ovviamente, tocca la sfera dell’immagine e dell’espressività. Ciò vale non più soltanto all’interno della fabbrica mediatica, ma nelle sue propaggini reali, per strada, nel paese. Chi non corrisponde all’immagine codificata è sospetto. Anziani, neonati, immigrati con abiti da lavoro o con abiti della festa non europei, barboni, “originali”, ecc. Ricordo l’incontro in un vagone affollato del metrò con un gruppo di ragazzoni provenienti da un quartiere popolare di Milano.

Il loro era lo stile solito, stile unico, stile televisivo. Uno di essi era ubriaco o impasticcato, e attaccabrighe. Tra le tante persone presenti, due scatenarono la sua aggressività. Uno era il classico “originale”. Un ragazzo che si dava un po’ di arie da misterioso, vestito con una camicia e un capello neri, barba e ciuffo sugli occhi, scarpe a punta con fibbie strane. Il tizio flippato cercò di aggredirlo, di strappargli il cappello. Ma lo tennero fermo i suoi compagni. Poi, girandosi, vide che lo guardavo. E si lanciò su di me, gridando “E tu quattr’occhi!” (alludendo ai miei occhiali).

Si vede che anche gli occhiali erano un segno, per lui, di minorità, e andava quindi punito. Possiamo immaginarci le varie tappe del suo ritorno a casa: una coppia di gay che si baciano, una ragazza con una minigonna e delle calze a rete rosa shocking, un venditore bengalese con quattro cappelli da cow-boy in testa, ecc.

Lele Mora che lavora ai piani alti dell’industria televisiva, essendo un selezionatore potentissimo di chi accede all’immagine, un guardiano della porta stretta di Mediaset, non è solo una delle eminenze grige del “fascismo estetico”, è anche una fascista tout court e vecchia maniera, con tanto di “Faccetta nera” registrata sul suo video-telefonino, svastiche e aquile naziste. È quanto ci mostra una delle sequenze più agghiaccianti di Videocracy. Nostalgia del regime fascista e fascistizzazione dell’immagine possono andare perfettamente a braccetto.

A livello più generale, il “fascismo estetico”, come paradigma culturale rigido e tendenzialmente unico (grazie al monopolio mediale), si alimenta, per poi amplificarlo, di quello che Raffaele Simone definisce uno dei principali postulati dell’ideologia della neodestra: il postulato di superiorità (“io sono il primo, tu non sei nessuno”).

Nella logica del fascismo estetico, la conquista dell’immagine (l’apparizione mediatica) si può ottenere con tutti i mezzi. Detto in altri termini, non si diventa primi solo per il principio meritocrato che vige in democrazia (“sei il primo, perché il migliore”). Si diventa primi, anche se si è il peggiore. L’inganno, la forza, la frode, il crimine sono tutte vie altrettanto legittime, e probabilmente più comode, per l’accesso all’immagine.

Chi accede all’immagine, acquisisce uno statuto incomparabile con quello di qualsiasi altro cittadino privo d’immagine. Il primo è chi sta nel fascio di luce mediatica, quale che siano le sue caratteristiche morali, professionali e intellettuali. Nessuno sono tutti gli altri, quelli fuori dal fascio, quali che siano le loro caratteristiche morali, ecc.

Nella discussione seguita al mio post su Videocracy è, ad un certo punto, emerso uno strano schema. Parlando di coloro che più si conformano al paradigma culturale della tv berlusconiana – coloro che aspirano all’apparizione televisiva, la anticipano, in qualche modo, nella loro vita reale – è sorto il problema del giudizio. Posto che uno si senta estraneo a questi modelli culturali, e ne abbia coltivati altri, come giudica i “clonati” o le “clonate”? Qui secondo me c’è un punto fondamentale. Si potrebbero ovviamente fare tante precisazioni possibili. Ad esempio, coloro che appaiono “clonati” esteticamente, magari sono persone civilissime, consapevoli, ecc. Semplicemente assumono in forma superficiale un modello, mantenendo rispetto ad esso una distanza critica.

Siamo d’accordo. Ma quegli altri, invece? Quelli che accolgono il pacchetto in blocco? Le aspiranti veline pronte al sacrificio di sé senza nessuna garanzia di contropartita? L’operaio bresciano che attende la salvezza sociale dal casting e ne esce ogni volta frustrato? Nella discussione è emerso uno conflitto tra giudizi morali: chi vede queste persone come colpevoli, colluse, e quindi non meritevoli di alcuna compassione o simpatia, e chi le vede come vittime, o anzi vede – come mi sembrerebbe più giusto – tutti noi come vittime di questo paradigma culturale. Questa divergenza di opinioni riguardava poi anche il giudizio sul grado di attività o passività, quindi di responsabilità, di queste persone nel meccanismo impietoso a cui si esponevano.

Noi, quando ragioniamo così, facciamo riferimento a due modelli che mi sembrano riduttivi: il primo è quello individualista, e dice: se non c’è coercizione evidente, c’è l’autonoma volontà del soggetto. A lui va tutta la responsabilità di ognuna delle sue azioni. Il secondo, di ascendenza sociologico-positivista, dice: siamo tutti socialmente condizionati, la nostra libertà è illusoria, o minima.

Nel mio post ho introdotto il concetto di “tragico”. E anche se non è espresso da lei esplicitamente, trovo che le riflessioni di Lorella Zanardo citate all’inizio vadano nella stessa direzione. Mi permetto una citazione da Peter Szondi (Saggio sul tragico): “la tragicità non si compie nel declino dell’eroe, ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi”.

Lo schema tragico non è familiare a noi moderni, eppure rende questa specifica vicenda più intellegibile che gli schemi individualisti e socio-positivisti. L’eroe tragico è una vittima, pur essendo del tutto responsabile delle proprie azioni. La sua volontà, che lo rende attore consapevole del dramma, non esclude in lui una parziale cecità. Il clonato o la clonata, nell’ottica tragica, sono persone spinte da un desiderio di emancipazione forte, che rischia ad ogni momento di precipitarle in una condizione di nuova e inedita prigionia.

Questo li rende allo stesso tempo colpevoli e innocenti, o forse più semplicemente illustra la vanità di un nostro giudizio morale. Non solo, ma la stessa diabolica industria televisiva berlusconiana ha custodito in sé elementi d’emancipazione sociale che non erano visibili altrove nel panorama culturale italiano. L’autoritario-populista Berlusconi potrà ribattere a certi ambienti culturali di sinistra: “Ma voi siete classisti!” E questo è vero.

Vogliamo considerare il grado di mobilità e permeabilità del PD di fronte alle forze nuove, giovani, che premono al suo interno o che potrebbero essere coinvolte in esso? Vogliamo andare a vedere cosa succede nei feudi della cultura del libro, ossia nelle università, anche nei dipartimenti politicamente e culturalmente orientati a sinistra? Sono forse luoghi di sicura emancipazione? Sono forse luoghi immuni dal baratto sessuale? Sono forse luoghi in cui è sconosciuto il postulato di superiorità “io sono il primo (io ho la cattedra), tu non sei nessuno (tu hai un contratto annuale, un assegnino, una borsa di studio)?

Non voglio suggerire equivalenze che non ci sono. Voglio mostrare gli elementi di emancipazione nella tana dell’Orco e della sua cultura fascistoide così come voglio mostrare elementi di schiavitù e inciviltà nelle biblioteche più selezionate e libertarie. E nonostante le enormi differenze, e indipendentemente dalle coloriture politiche, sono ambienti in cui non solo le normali illusioni della giovinezza vengono macinate brutalmente, ma anche le più vitali e legittime aspirazioni a una vita normale. Questo fa sì che la torsione tragica sia presente ogni qualvolta, io mente libresca e anti-televisiva, guardo in faccia un “clonato”. Io ho creduto nello studio, nella ricerca artistica, nel lavoro intellettuale, nell’indipendenza di giudizio, nell’impegno sociale e, qui in Italia, sono stato bellamente fregato.

Lui, nel peggiore dei casi, avrà creduto nella palestra, nell’abbronzatura, negli abiti firmati, nelle discoteche dei vip, nei casting televisivi, nella forza bruta, e magari è già partito fregato, e molto presto, magari fin dalla nascita, nel quartiere o nella famiglia in cui si è trovato a vivere, e comunque c’è il caso che continui ad andargli male, anche così, anche con gli occhiali a goccia, quelli giusti.

Se c’è un punto da cui possiamo ri-partire, è quello di cui parla Lorella Zanardo quando si riferisce “alla scoperta del potere d’attrazione del corpo delle donne”. Io allargherei il discorso, non so quanto debitamente. Sarebbe importante che ognuno ri-scoprisse la quantità d’energie fisiche e intellettuali, creative, che si liberano quando smette di stare al proprio posto, sia dentro l’immagine e i suoi codici, sia dentro i discorsi e i suoi codici.

Smettere di stare al proprio posto, in Italia, significa rimettere in discussione tante vie di salvezza sociale, che si sono rivelate, nell’universo dell’immagine come in quello dei libri, vicoli ciechi, zone morte, limbi dove pochi privilegiati ci tengono in attesa di una vita che non verrà mai, che arriverà troppo tardi o troppo presto. Smettiamo di attendere davanti alla porta della Legge, nutrendo il suo guardiano con le nostre energie fisiche e mentali. Smettiamo di essere dei nessuno, che attendono di diventare il primo.

Non è questa una risposta al che fare. È un’immagine libresca. Un sogno vivido. Se la truppa di aspiranti veline e il karateka bresciano avessero mollato per un giorno i casting, e fossero venuti in manifestazione, ancheggiando e scalciando in aria, con i precari della scuola, sabato 5 settembre a Milano, la gente in moto e in macchina, invece di inveire contro noi manifestanti per il blocco del traffico, ci avrebbe forse seguiti, affascinata da quei corpi provocanti e da quei calci atletici.