sabato 26 settembre 2009

Dal G8 al G20, da 8 a 20 Galli nello stesso pollaio

Come da copione si è svolto ieri a Pittsburgh un altro G20 infarcito di vuote parole e vaghissimi impegni: ad esempio, è stato coniato il "nuovo" termine di Patto di Pittsburgh, con cui i leader dei G20 si impegnano "a prendere le misure necessarie per garantire una crescita forte, sostenibile, equilibrata, per costruire un sistema finanziario più forte, per ridurre gli squilibri nello sviluppo e per modernizzare l'architettura della cooperazione finanziaria internazionale".
Bla-bla-bla...

Addirittura nel comunicato finale si legge che "In molti paesi la disoccupazione resta inaccettabilmente alta e le condizioni per una ripresa della domanda privata ancora non ci sono".
Ma tu guarda un po' che novità, acutissimi questi 20 leader che "si impegnano ad una forte risposta politica fino a quando non ci sarà una ripresa stabile, a rivedere le politiche sui compensi dei manager, parte essenziale del nostro sforzo per aumentare la stabilità finanziaria e ad allineare i compensi alla creazione di valore di lungo termine".
Certamente... direbbe il petomane di Ciprì&Maresco.

E poi altre perle come "E' imperativo per noi combattere il protezionismo", "c'impegniamo a intensificare gli sforzi, in cooperazione con le altri parti, per raggiungere un accordo a Copenaghen" e così via vagheggiando.

Forse l'unica cosa concreta che si è decisa a Pittsburgh è l'istituzionalizzazione del G20 che sostituirà ufficialmente il G8 come forum primario sulla cooperazione internazionale in campo economico.
Ma il G8 non sarà comunque archiviato del tutto, resterà per discutere di politica estera e altri temi politici più generali.

In sintesi, se già prima era difficile mettere d'accordo 8 Paesi, figuriamoci 20. E infatti ne è già una prova lampante il ridicolo comunicato finale di ieri.


Ma i rapporti incestuosi rimangono
di Alberto Bisin - La Stampa - 26 Settembre 2009

Alla riunione del G-20 di Pittsburgh si sono discusse varie proposte di regolamentazione dei mercati finanziari e si è raggiunto un accordo per il coordinamento delle forme di intervento degli organi di vigilanza.

Nei vari Stati membri i regolatori avranno il potere di imporre stringenti vincoli patrimoniali alle banche e di esercitare varie forme di controllo sui salari e i bonus del management. In questa direzione vanno anche le considerazioni del Financial Stability Board, l'organismo presieduto da Mario Draghi cui il G-20 ha affidato il compito di formulare delle linee guida sulla questione.

Il sistema di regolamentazione dei mercati finanziari ha drammaticamente fallito. Ha mancato di allertare il sistema economico nel suo complesso dei rischi aggregati che le banche andavano accumulando ed ha soprattutto mancato di contrastarle. Non vi è dubbio quindi che il sistema vada riformato alla luce delle lezioni che questa crisi ci ha impartito. Non è chiaro però, purtroppo, che questo sia quello che è avvenuto al G-20.

Concentrare i propri sforzi sulla regolamentazione di salari e bonus ha infatti tutto il carattere di una posizione populista, di quelle che la politica fatica a non cavalcare. Ma esistono ragioni di razionalità economica per regolamentare i salari e i bonus nella finanza? In generale, è efficiente lasciare il controllo del management agli azionisti, che rischiano il proprio capitale. È efficiente anche che la competizione tra grandi banche faccia sì che i migliori manager sul mercato siano remunerati a peso d’oro.

Ma questa competizione induce anche gli azionisti a favorire forme di retribuzione dei manager che finiscono per incentivare obiettivi a breve termine e per favorire l’assunzione di rischio sistemico, di quel rischio che si riversa sull’economia nel suo complesso in caso di crisi. Questa è l’inefficienza su cui interventi di regolamentazione di salari e bonus devono agire.

Ma l’eccessiva assunzione di rischio sistemico da parte delle banche avviene soprattutto perché un numero relativamente piccolo di esse controlla una frazione significativa del mercato. Il rischio sistemico sarebbe drasticamente minore in un contesto in cui le banche agissero il più possibile in condizioni di libera concorrenza. Non è solo una questione di potere di mercato. Ma è soprattutto che le grandi banche sanno bene che il sistema politico non può lasciarle fallire in caso di crisi, pena il panico e l’implosione del sistema economico.

A questo proposito è utile comparare la situazione delle grandi banche a quella degli hedge fund, che operano essenzialmente in un mercato senza regolamentazione. Molti osservatori si aspettavano un crollo degli hedge fund, con effetti devastanti sui mercati. Questo non è successo. Non è successo anche perché il mercato degli hedge fund è caratterizzato da una competizione brutale e perché i gestori, che investono tipicamente i capitali dei ricchi e famosi, sanno di non poter contare sull’aiuto del governo né sulla simpatia dell’opinione pubblica. Di conseguenza, 500 fondi (su un totale di 7 mila) negli Stati Uniti sono scomparsi l’anno scorso, in silenzio e senza gravi effetti sistemici, mentre quelli rimasti stanno tornando ai profitti.

In buona sostanza, due sono i modelli ideali di regolamentazione dei mercati finanziari. Il primo, quello adottato dall’amministrazione americana e dal G-20, opera sulla vigilanza diretta del rischio sistemico, agendo sugli incentivi dei manager all’assunzione di rischio. Il secondo agirebbe invece a monte sulla struttura del mercato bancario, impedendo la formazione di gruppi con sostanziale potere di mercato. In entrambi i casi i salari e i bonus dei manager andrebbero regolamentati, ma nel primo caso questo avverrebbe attraverso controlli discrezionali degli istituti di vigilanza, mentre nel secondo caso solo attraverso l’imposizione di regole generali intese a favorire soprattutto un sistema di retribuzione con incentivi di lungo termine.

Il secondo modello è a mio parere preferibile perché limiterebbe il rischio sistemico alla radice e perché eviterebbe la concentrazione del potere di vigilanza in una sola istituzione, con il rischio gravissimo che essa sia «catturata» dal mercato e dalle lobby finanziarie. La facilità con cui negli Stati Uniti avviene l’interscambio di uomini da Wall Street al Tesoro e alle autorità di vigilanza e viceversa (è questo il caso di H. Paulson, R. Rubin, L. Summers, T. Geithner, per citare solo alcuni recenti esempi eclatanti) non lascia ben pensare. Questo interscambio dovrebbe sì essere oggetto di una regolamentazione rigorosa, ma la politica naturalmente preferisce fare la voce grossa con la finanza piuttosto che regolamentare i propri rapporti incestuosi con la stessa.


Dal G-8 al G-20: il patto di Pittsburgh per la crescita
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - 26 Settembre 2009

Al tredicesimo vertice, a dieci anni dalla sua nascita a Berlino all'ombra della crisi asiatica, il G-20 ha soppiantato il G-8 per diventare il perno dell'«architettura economica internazionale del XXI secolo», il forum di una nuova cooperazione globale tra i 20 paesi, industrializzati ed emergenti, che insieme rappresentano il 90% dell'economia e i due terzi della popolazione mondiale. C'è voluta un'altra crisi ancora più devastante, la prima davvero globale e la peggiore dagli anni '30, per fargli compiere il grande salto di qualità. Il G-8 però non muore, cambia faccia per occuparsi di grande politica, estera in particolare.

È stata l'America di Barack Obama, il presidente multilaterale, a tenere a battesimo la svolta di Pittsburgh, l'embrione di un governo collettivo dell'economia mondiale, a misura dei suoi nuovi equilibri e protagonisti. A comporlo sono i sette Grandi di ieri (Stati Uniti, Canada, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone) e quelli di oggi (Russia, Cina, India, Indonesia, Corea del Sud, Austrialia, Brasile, Messico, Argentina, Sudafrica, Arabia Saudita, Turchia e Unione europea).

Lo stesso Obama ha fatto, a conclusione del vertice, il bilancio di questo difficile anno: «Abbiamo salvato l'economia globale dal baratro. Abbiamo fermato la diffusione della crisi nel mondo sviluppato anche se sappiamo che c'è ancora molto da fare» ha detto il presidente Usa. E ha esortato i governi dei venti a una stretta collaborazione: «Non possiamo aspettare la prossima crisi per cooperare. Il G-20 deve condividere più responsabilità nella gestione dell'economia».

Il G-20 lavorerà con il sostegno dell'Fmi, il cui capitale ieri è stato a sua volta aggiornato ai nuovi rapporti di forza, e del Financial stability board, destinato a un ruolo crescente nel nuovo assetto della governance mondiale. Secondo il patto di Pittsburgh per «uno sviluppo economico forte, sostenibile ed equilibrato», il G-20 avrà il compito di assicurare il controllo collettivo sull'attuazione, da parte dei singoli paesi, delle misure di stimolo varate per la ripresa. Obama insieme al premier inglese Gordon Brown avrebbe voluto di più: l'adozione su scala globale dell'attuale patto di stabilità europeo, con tanto di criteri e tetti (per deficit, debito, inflazione, tassi). «Inaccettabile» ha replicato a entrambi il cancelliere tedesco Angela Merkel. Con il chiaro appoggio del presidente cinese Hu Jintao.

Niente cifre, niente regole vincolanti, men che meno sanzioni dunque. Invece un codice di comportamento scolpito nell'annesso del comunicato finale: i paesi con alti deficit esterni, come gli Stati Uniti, dovranno aumentare il volume di risparmio e il consolidamento fiscale, quelli con alti surplus, come Germania e Cina, dovranno invece stimolare le fonti di crescita interna. È l'inizio di una nuova pagina della cooperazione globale.

Lo spirito di Pittsburgh, che non vuole essere rivoluzionario ma riformista, ha posto la prima pietra del governo economico mondiale. Senza illusioni. Nella consapevolezza di dover convivere anche con le profonde divergenze interne al club. Che si sono manifestate perfino sui connotati della ripresa: «Non è solida» ha sentenziato il cinese Hu. Sulla limitazione dei superbonus ai banchieri, l'accordo ha dovuto fino all'ultimo fare i conti con la Francia di Nicolas Sarkozy: «Troppo morbido, insufficiente». Dunque progressi sulle nuove regole finanziarie, un calendario per l'adozione dei nuovi requisiti di capitale per le banche ma con calma, entro il 2012 per non turbare la ripresa.

Mancato ancora una volta un impegno credibile per il rilancio del Doha Round. E a 75 giorni dalla conferenza Onu di Copenaghen sul clima, la speranza di uno sblocco dei negoziati si è vanificata. Niente di fatto. Dissonanze profonde nel G-20. Anche sui finanziamenti a favore dei paesi in via di sviluppo per convincerli a entrare nella partita dei tagli alle emissioni. Si racconta che la Merkel, irritata dal vuoto di impegni, abbia chiesto di sopprimere il capitolo clima. Per poi rassegnarsi alle solite parole vuote.


Il vertice delle lobby
di Andrea Baranes - www.ilmanifesto.it - 26 Settembre 2009

“Mi spiegate per quale motivo non posso camminare nella mia città?”. Una signora di una certa età si rivolge in maniera più desolata che arrabbiata a un giovane agente in tenuta antisommossa, dietro una delle griglie di metallo che bloccano quasi tutte le strade del centro. In una Pittsburgh militarizzata oltre ogni immaginazione si è svolto il vertice del G20, l’ultimo di una lunga serie di incontri internazionali organizzati quest’anno per cercare delle soluzioni alle peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni.

Una sensazione di rabbia mista a incredulità che ha rapidamente sostituito, tra gli abitanti, l’orgoglio dei giorni scorsi, nel vedere la piccola Pittsburgh diventare per due giorni il centro del mondo. Da capitale dell’acciaio, simbolo del degrado e della crisi dell’industria pesante americana, la città della Pennsylvania ha saputo trasformarsi e rinascere, puntando sulle nuove tecnologie e sul polo informatico. Una città “verde”, scelta come emblema dell’immagine e delle speranze che i paesi del G20 vorrebbero dare nel prossimo futuro.

Le questioni nell’agenda del vertice erano diverse: da una parte la necessità di dare nuove regole alla finanza per evitare il ripetersi di una crisi di tale ampiezza, dall’altra la questione delle risorse per rilanciare le economie nazionali, e quelle dei Paesi più poveri in particolare.

Un ulteriore aspetto fondamentale è quello della governance, ovvero dell’assetto e del potere delle diverse istituzioni internazionali nello scenario post-crisi. A questa agenda, già molto ampia, si somma la questione dei cambiamenti climatici a meno di tre mesi dal cruciale appuntamento di Copenhagen, per non parlare delle notizie dell’ultima ora sul nucleare iraniano.

Sulla partita della regolamentazione finanziaria, negli ultimi giorni Francia e Germania hanno provato a dare un’accelerazione. Nicolas Sarkozy è arrivato a minacciare l’abbandono del vertice se non si fosse trovato un modo di porre un limite ai bonus dei banchieri. In maniera ancora più sorprendente, lo stesso presidente francese e il cancelliere tedesco Angela Merkel hanno riaperto il dibattito sulla proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie.

Un’imposta che permetterebbe di frenare le attività speculative più dannose e di reperire preziose risorse economiche per rilanciare le economie più deboli. Più in generale uno strumento che permetterebbe di dare alla sfera politica degli strumenti efficaci per frenare lo strapotere della finanza e la speculazione. Una proposta che si è però scontrata, una volta di più, con le potentissime lobby della City di Londra e di Wall Street.

Persino sul capitolo dei derivati non regolamentati – over the counter – da tutti additati come uno degli strumenti che maggiormente contribuiscono al formarsi di bolle speculative, i leader del G20 si limitano a “ritenere opportuno” che entro fine 2012 tali strumenti vengano trattati su piattaforme elettroniche, che permettono maggiore controllo e trasparenza. Il Financial Stability Board viene incaricato di svolgere uno studio sul funzionamento dei mercati dei derivati.

Non va molto meglio riguardo le risorse da destinare alla ripresa. I Paesi del G20 confermano le misure di stimolo e non parlano ancora di una “exit strategy” dai sostegni pubblici, che dovrà comunque avvenire il “prima possibile”. Qui risiede però uno dei problemi centrali dell’attuale situazione economica. Le maggiori potenze del mondo possono affrontare enormi piani di stimolo e di sostegno alle proprie economie. I paesi del sud, e quelli più deboli in particolare, non hanno le risorse per farlo.

Il G20 aveva incaricato il Fondo Monetario Internazionale, già durante l’ultimo vertice di Londra, di stanziare buona parte di tali risorse per i paesi più poveri. Diverse reti della società civile internazionale hanno però segnalato che queste risorse sono del tutto insufficienti.
In questa situazione, gli stati più poveri sono costretti a emettere obbligazioni, indebitandosi.

In una situazione di grave incertezza dei mercati, i titoli di stato delle economie più deboli sono considerati ad alto rischio. Queste nazioni devono allora garantire altissimi tassi di interesse per riuscire a piazzare i propri titoli sui mercati finanziari. Secondo una ricerca della rete europea Eurodad, il tasso di interesse sui titoli di stato per le economie emergenti è passato da una media del 6,4% prima della crisi, all’11,7% attuale.

Tutti i comunicati dei vertici internazionali riconoscono che la responsabilità della crisi è dei grandi attori della finanza mondiale, e che gli impatti più gravi ricadono sui Paesi più poveri. Nei fatti, al contrario questi ultimi sono costretti a indebitarsi proprio con i mercati finanziari. In pratica i grandi attori finanziari potrebbero uscire dalla crisi in buona parte grazie alle risorse dei Paesi più poveri, per i quali si profila una nuova crisi del debito estero.
E’ una situazione a dire poco paradossale, che solleva il tema più generale dietro l’incontro del G20: il futuro assetto della governance internazionale e il peso delle diverse agenzie.

Il vertice di Pittsburgh ha definitivamente confermato che lo stesso G20 si è auto-nominato gestore dell’economia mondiale. Dei compiti di primo piano vengono affidati al Fmi, all’Ocse, al Financial Stability Board. Tutte istituzioni, al pari del G20, dominate dalle nazioni più ricche e nel quale le piccole economie del sud sono assenti o comunque del tutto escluse da qualunque ruolo decisionale. Non bastano nel testo finale alcune vaghe dichiarazioni circa la necessità di allargare questi organi e di garantire una maggiore partecipazione al loro interno per legittimare il “nuovo club dei ricchi” a decidere per conto dell’intero pianeta.

Il vertice di Pittsburgh è stato con ogni probabilità molto più importante nella forma che nella sostanza. Nella forma si è trattato di una tappa fondamentale per riscrivere i rapporti di forza del mondo. Ha segnato il definitivo ingresso ai tavoli che contano delle nuove potenze del sud, e il probabile tramonto del “vecchio” G8, ma ha contemporaneamente escluso la maggioranza dei Paesi del pianeta da ogni dibattito sul futuro dell’economia e del ruolo delle istituzioni internazionali.

Nella sostanza, rispetto all’emergenza di riformare alla base la finanza internazionale, il risultato è davvero deludente. Il rischio concreto è che con il passare dei mesi si chiuda la finestra di opportunità per rimettere in discussione un sistema rivelatosi assolutamente insostenibile.

Già oggi assistiamo alla ripresa del business as usual: il mondo bancario e finanziario rialza la testa, riprendono con ancora più vigore le attività di lobby che mirano a scongiurare qualunque forma di controllo o di regole, si ricomincia a speculare sui derivati e a concludere operazioni spregiudicate sui mercati. Tutto questo come se nulla fosse successo, nell’attesa del prossimo vertice o forse della prossima crisi.

Partendo da Pittsburgh, la sensazione è che la montagna del G20 abbia partorito un topolino piccolo piccolo. Intanto gli squali della finanza esultano, più affamati che mai.


G20, il nuovo ordine mondiale
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 25 Settembre 2009

Le immagini della repressione delle proteste a Pittsburgh, in occasione del summit del G20, sembrano tratte da uno di quei film di fantascienza orwelliani ambientati in un indefinito e cupo futuro dominato da regimi polizieschi e leggi marziali.

Duri con i manifestanti. Un battaglione della Guardia Nazionale, appena rientrato dall'Iraq, erige check-point sorvegliati da blindati Hummer e pattuglia le strade attorno alla sede del vertice, dove riecheggia senza sosta l'inquietante messaggio diffuso da altoparlanti, con una voce mono-tono quasi inumana, che avverte i manifestanti: "Lasciate immediatamente questa zona, qualsiasi siano le vostre intenzioni. Se non vi disperdete, sarete arrestati e soggetti ad altre azioni di polizia, tra cui la rimozione fisica, l'intervento degli agenti antisommossa e l'uso di munizioni non letali che possono provocare ferite a chi rimane".

Dalle parole ai fatti.
Rabbiosi 'robocop' della polizia antisommossa marciano per le strade in formazione militare, aizzano cani al guinzaglio contro i passanti, poi fanno cordone e minacciano e picchiano i manifestanti con lunghi bastoni di legno, li rincorrono e li ammanettano con lacci di nylon (come i prigionieri di guerra), sparano sulla folla proiettili di gomma e candelotti di gas urticanti.

Intervengono anche le forze speciali di polizia (Swat), con blindati e altri mezzi militari che 'sparano' sui manifestanti onde sonore assordanti, e, scena surreale, soldati dell'esercito in mimetica che scendono da un auto civile e si portano via a forza un manifestante, senza nemmeno ammanettarlo, mentre la gente attorno assiste attonita a questo rapimento.

Morbidi con i banchieri. Questo clima da legge marziale ha accolto i manifestanti 'no-global' arrivati a Pittsburgh per protestare contro i potenti del mondo, accusati di aver soccorso le banche speculatrici responsabili della crisi con sussidi pubblici per 18 trilioni di dollari, invece di aiutare le vittime di questa crisi, in particolare i milioni di lavoratori che hanno perso il lavoro e le decine di milioni di cittadini che hanno perso il loro risparmi.

Nel mirino dei manifestanti, più in generale, c'è il 'capitalismo globale' che difende i profitti di pochi a discapito dei bisogni della popolazione, un sistema cinico che specula su tutto e su tutti, senza limiti, senza regole.
Il G20 di Pittsburgh era stato presentato come 'la nuova Bretton Woods' che doveva riformare e regolamentare il mercato finanziario globale per evitare gli eccessi speculativi che hanno prodotto l'attuale recessione.

Invece, come prevedibile, le forti pressioni della potente lobby bancaria e finanziaria mondiale hanno bloccato tutti provvedimenti radicali di cui si discuteva alla vigila del vertice.
Dall'agenda del summit sono stati esclusi la 'tobin-tax' sulle transazioni finanziarie, il divieto di speculazione su materie prime e derrate alimentari, la riforma delle agenzie di rating e delle autorità di vigilanza colluse con l'alta finanza speculativa, l'obbligo di un'adeguata capitalizzazione delle banche per ridimensionare il rischioso sistema creditizio basato su riserve frazionarie quasi inesistenti e la creazione di un chiaro calendario di scadenze per combattere il riscaldamento globale.

Dal summit di Pittsburgh uscirà solo qualche proposta demagogica, come la limitazione dei bonus per i manager della finanza, e l'impegno per un maggiore coordinamento economico globale attraverso il rafforzamento di organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, tanto cari ai 'no-global'.


G20 - Manifestanti assordati dal cannone sonico
da www.guardian.co.uk - 25 Settembre 2009
Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras

La polizia USA fa scandalo nell'utilizzare un'arma acustica di guerra per disperdere i manifestanti in occasione del G20 di Pittsburgh

Solo poche centinaia di manifestanti sono scesi per le strade di Pittsburgh in occasione della giornata di apertura del vertice del G20 dei leader mondiali, ma la polizia non voleva offrire loro alcuna possibilità.

Delle armi soniche, ossia dispositivi acustici a lungo raggio, sono stati utilizzati dai militari americani all'estero, in particolare contro i pirati somali e gli insorti iracheni.

Ma ieri le forze di sicurezza statunitensi hanno rivolto il suono lancinante contro i propri cittadini, causando uno sdegno collettivo. Funzionari di Pittsburgh hanno detto al «New York Times» che è stata la prima volta che il "cannone sonoro" è stato utilizzato pubblicamente.

L'arma sonica sembra essere più efficace delle discutibilissime tecniche di contenimento usate dalla polizia metropolitana contro i manifestanti del G20 a Londra. Ma è altrettanto discutibile.

Si teme che i suoni emessi siano abbastanza forti da danneggiare i timpani e causare aneurismi, anche mortali.


G-20: la globalizzazione dichiara bancarotta
di Chris Hedges - http://globalresearch.ca - 20 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Oriana Bonan

La rabbia dei derelitti sta fratturando il Paese, suddividendolo in accampamenti cui non attracca la politica tradizionale. Alle estremità dello spettro politico si stanno sviluppando movimenti che hanno perduto la fede nei meccanismi del cambiamento democratico. Non li si può biasimare. Ma a meno che noi, a sinistra, non ci muoviamo rapidamente, di questa rabbia si impadronirà una destra virulenta e razzista, una destra alla ricerca di un inquietante proto-fascismo.

Ogni giorno conta. Ogni rinvio della protesta fa danno. Questa settimana dovremmo, se ne abbiamo il tempo e la possibilità, andare a Pittsburgh per l’incontro dei G20, invece di far ciò che l’elite al potere si aspetta da noi, ovvero che ce ne stiamo a casa. La compiacenza ha un prezzo terribile.

“Dopo tutto ciò che è andato storto, i leader del G20 si incontrano per tentare di trarre in salvo il proprio potere e il proprio denaro”, ha detto Benedicto Martinez Orozco, co-presidente del Frente Autentico del Trabajo (FAT) messicano, che è a Pittsburgh per le manifestazioni. “Ecco su cosa verte questo incontro”.

Le misure di sicurezza draconiane adottate per mettere a tacere il dissenso a Pittsburgh sono sproporzionate rispetto a qualsiasi effettiva questione di sicurezza. Non sono la risposta ad una minaccia reale, ma piuttosto alla paura che attanaglia i centri consolidati del potere.

L’elite al potere hanno ben chiari – anche se a noi sfuggono – l’enorme frode e il furto colossale intrapresi per salvare la classe dei criminali a Wall Street e speculatori internazionali di una risma che in altri periodi della storia umana finiva al patibolo. L’elite conosce il tremendo costo che questo saccheggio delle casse statali imporrà ai lavoratori che saranno ridotti ad uno stato di permanente sottoproletariato. E sa anche che quando questo diverrà chiaro a tutti, la ribellione non sarà più un concetto estraneo.

Di conseguenza, i delegati al G20 – il raduno delle nazioni più ricche del mondo – saranno protetti da un battaglione d’assalto della Guardia Nazionale recentemente rientrato dall’Iraq. Il battaglione chiuderà l’area attorno al centro della città, fornirà uomini ai posti di blocco e pattuglierà le strade in tenuta da combattimento. Pittsburgh ha aumentato la propria forza di polizia cittadina, generalmente composta di mille unità, aggiungendo tremila ulteriori agenti.

Gli elicotteri hanno cominciato a sorvolare a bassa quota sui raduni nei parchi cittadini, sono stati confiscati alcuni autobus diretti a Pittsburgh per portare cibo ai dimostranti, alcuni attivisti sono in stato di fermo e sono stati negati i permessi per accamparsi nei parchi. Si sono verificati atti di hacking e vandalismo ai danni di siti internet appartenenti ai gruppi di resistenza; molti gruppi sospettano inoltre la presenza di infiltrati e che telefoni e caselle di posta elettronica siano sotto controllo.

Ho incontrato Larry Holmes, un organizzatore proveniente da New York City, fuori da un accampamento di tende montate su un terreno di proprietà della Monumental Baptist Church nel distretto Hill della città. Holmes è uno dei leader del movimento Bail Out the People [N.d.T.: il nome del movimento riprende lo slogan “Bail out the people – not the banks”, ovvero ‘salvate dalla bancarotta la gente comune, non le banche’]. Attivista veterano per i diritti dei lavoratori, domenica ha guidato un corteo di disoccupati diretto al Convention Centre. Nel corso della settimana, coordinerà ulteriori manifestazioni.

“Si tratta di legge marziale de facto”, ha detto, “e i veri sforzi per sovvertire il lavoro di chi protesta devono ancora cominciare. Andare a votare non porta lontano. Spesso alle elezioni non c’è molta scelta. Quando si costruiscono movimenti democratici su temi come la guerra o la disoccupazione si ottiene un’espressione più autentica di democrazia. È più organica. Fa la differenza. Questo è ciò che ci ha insegnato la storia”.

La nostra economia globale e il nostro sistema politico sono stati sequestrati e dirottati da una minuscola oligarchia composta principalmente da uomini bianchi benestanti al servizio delle corporation.

Essi hanno vincolato o raccolto la sbalorditiva cifra di diciottomila miliardi di dollari – in larga misura saccheggiando erari statali – per puntellare banche e altri enti finanziari impegnati in atti speculativi suicidi che hanno rovinato l’economia mondiale.

Hanno elaborato accordi commerciali sulla base dei quali le corporation possono effettuare speculazioni transfrontaliere su valute, cibo e risorse naturali anche quando, secondo la FAO, 1,02 miliardi di persone nel pianeta lottano con la fame. La globalizzazione ha distrutto la capacità di molti Paesi poveri di proteggere, mediante sovvenzioni o tasse sulle merci di importazione, i propri generi alimentari di prima necessità, come mais, riso, fagioli e frumento.

L’abolizione di tali misure di salvaguardia ha permesso a gigantesche fattorie meccanizzate di spazzare via decine di milioni di piccoli agricoltori – due milioni nel solo Messico – portando alla bancarotta e scacciando dai propri terreni molta gente. Persone che in passato erano in grado di nutrirsi ora non riescono a trovare cibo a sufficienza, mentre i governi più ricchi usano istituzioni quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio come fossero mastini, per stabilire la propria supremazia economica. Sembra che la maggior parte dei governi sia in grado di fare poco per contrastare tutto questo.

Ma ora la verità è venuta a galla e l’inganno è svelato. I sogni utopici della globalizzazione sono stati smascherati per l’imbroglio che sono. All’elite rimane solo l’uso della forza.

Stiamo vivendo uno dei grandi capovolgimenti sismici della civiltà. L’ideologia della globalizzazione – come ogni utopia spacciata come ineluttabile e irreversibile – si è trasformata in una farsa. L’elite al potere, perplessa e confusa, si aggrappa ai disastrosi principi della globalizzazione e al suo linguaggio obsoleto per mascherare il vuoto politico ed economico che ci si prospetta. La crisi è stata causata dall’assurda idea che il mercato debba, da solo, determinare i costrutti economici e politici. Quest’idea ha portato il G20 a sacrificare sull’altare del libero scambio altre questioni importanti per l’umanità: condizioni di lavoro, tassazione, lavoro minorile, fame, sanità e inquinamento.

Ha lasciato i poveri del mondo in condizioni ancora peggiori, e gli Stati Uniti con i più ingenti disavanzi della storia umana. La globalizzazione è divenuta una scusa per ignorare il caos. Ha prodotto un’elite mediocre che cerca disperatamente di salvare un sistema insalvabile e, cosa più importante, salvare se stessa. “La speculazione”, ha una volta detto l’allora Presidente della Francia Jacques Chirac, “è l’AIDS delle nostre economie”. Abbiamo raggiunto lo stadio terminale.

“Tutti i punti di forza della Globalizazzione hanno in qualche modo rivelato un significato opposto”, ha scritto John Ralston Saul nel suo The Collapse of Globalism. “L’attenuazione degli obblighi di residenza in territorio nazionale per le corporation si è trasformato in un imponente strumento di evasione fiscale. L’idea di un sistema economico globale ha misteriosamente fatto sì che la povertà locale sembrasse irreale, persino normale. Il declino della classe media – vera e propria base della democrazia – è sembrato semplicemente una di quelle cose che capitano, incresciosa ma inevitabile.

Il fatto che gli appartenenti alla classe lavoratrice e alla classe medio-bassa, persino a porzioni della classe media, potessero sopravvivere solo con più di un lavoro a persona sembrava essere la naturale punizione per non essere riusciti a tenere il passo. In un mondo globalizzato sembrava inevitabile il contrasto tra i bonus senza precedenti assegnati a manager qualsiasi, al vertice, e le famiglie con quattro lavori, in basso.

Per due decenni un elitario consenso ha insistito sul fatto che l’insostenibile debito del terzo mondo non potesse essere accantonato in una sorta di ‘riserva svalutazione crediti’ se non al costo di tradire i principi essenziali e gli obblighi morali della Globalizzazione, tra i quali figurava l’irriducibile rispetto della santità dei contratti internazionali. Nel 2009 agli stessi individui sono bastate due settimane per dimenticare detta santità e proporre – quando si è trattato dei propri debiti, di gran lunga più consistenti – banche speciali per la gestione dei crediti inesigibili”.

Le istituzioni che un tempo fornivano una fonte alternativa di potere – la stampa, il governo, le istituzioni religiose, le università e i sindacati – hanno dato prova di essere in bancarotta morale. Non costituiscono più uno spazio per voci di autonomia morale. Nessuno ci salverà ora, a parte noi stessi.

“La cosa migliore capitata all’Establishment è l’elezione di un presidente nero”, ha detto Holmes. “Questo frenerà la gente per un po’, ma il tempo sta per scadere. Supponiamo che succeda qualcos’altro. Supponiamo che si versi un’altra goccia. Cosa succederà quando ci sarà una crisi delle carte di credito o un collasso nel settore degli immobili commerciali? Il sistema finanziario è molto, molto fragile. Gli stanno togliendo la terra da sotto i piedi”.

“Obama è nei guai,” ha continuato Holmes. “Questa crisi economica è una crisi strutturale. La ripresa è ripresa solo per Wall Street. Non è sostenibile, e Obama ne sarà incolpato. Sta facendo tutto ciò che Wall Street esige. Ma non sarà essere un vicolo cieco. È piuttosto una ricetta per il disastro tanto per Obama, quanto per i Democratici. Solo i gruppi come il nostro danno speranza. Se i sindacati muovessero il culo e smettessero di concentrarsi solamente sulle vertenze dei propri iscritti, se tornassero ad essere associazioni sociali che abbracciano cause più ampie, avremmo una possibilità di riuscire produrre un cambiamento. Se questo non avviene, ci sarà un disastro destroide”.