venerdì 25 settembre 2009

Un Paese marcio

Qui di seguito una serie di articoli che offre a 360 gradi una pietosa quanto reale immagine dell'Italia di oggi.
Punto.

Lo scudo della vergogna
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 25 Settembre 2009

Il divo Giulio difensore dei poveri ha gettato la maschera. Dopo aver incassato il 22 settembre l’approvazione in Consiglio dei Ministri della finanziaria 2010, il presunto no-global alla guida del dicastero dell’economia italiana ha pensato bene di benedire l’ultima porcata, in ordine di tempo, del governo Berlusconi.

Quello che era nato come l’ennesimo regalo ai tanti evasori fiscali che ingrassano le file dei sostenitori della destra nostrana si è trasformato, dopo l’approvazione dell’emendamento proposto dal senatore del Popolo della Libertà, tale Salvo Fleres, in un vero e proprio mostro giuridico.

Non bastava sanare il comportamento illecito di quanti avevano esportato all’estero capitali che avrebbero dovuto dichiarare in Italia evitando di pagare le dovute imposte; non bastava far pagare un ridicolo obolo come premio per la condotta antigiuridica; non bastava estendere una simile misura a dichiarazioni inerenti ad anni fiscali sui quali la Guardia di Finanza ancora stava indagando. Si è dovuto andare oltre e permettere quello che mai un Governo dovrebbe permettere: il vilipendio dell’ordine legale e costituzionale del paese.

Lo chiamano «Scudo ter». È infatti questa la definizione con cui si indica lo scudo fiscale varato quest'anno, dopo quelli del 2001 e del 2003, e che consente di far riemergere capitali e patrimoni che si trovavano all'estero fino al 31 dicembre 2008 e non erano in regola con le norme sul monitoraggio dei capitali, né erano riportati nelle dichiarazioni dei redditi.

L’infame scudo immaginato dal paladino Tremonti proteggerà i più furbi tra tutti i contribuenti italiani non solo da tutti i reati fiscali e societari commessi al fine di evadere il fisco e trasferire il denaro all'estero, ma anche dai delitti di frode fiscale, emissione e utilizzazione di false fatture, falso in bilancio e persino le cosiddette ''frodi carosello''. Reati che potranno dunque essere ''sanati'' con il pagamento di una somma pari al 5% dell'imposta evasa.

"Il diritto penale richiede certezza ed effettività della pena, e non può tollerare un così frequente ricorso ad amnistie o sanatorie, in particolare nel settore delicatissimo dei reati economici e fiscali". Questa la posizione dell'Associazione nazionale magistrati che esprime "preoccupazione" per l'allargamento dello scudo fiscale. ''Si tratta – continua l'Anm – di reati oggettivamente gravi, puniti con una pena massima di sei anni di reclusione, per i quali lo Stato rinuncia alla punizione, in tutti i casi e indipendentemente dall'importo non dichiarato''.

E poteva andare anche peggio. Fortuna infatti che nel pomeriggio di quello stesso tristissimo giorno le commissioni di Bilancio e Finanze del senato avevano modificato il testo dell’emendamento, che nella sua versione originale prevedeva l’estensione della sanatoria anche ai procedimenti in corso.

Lo stesso Luigi Zanda, senatore del Partito Democratico non nuovo ad emendamenti lampo di questo tipo (si ricordi su tutte la questione poi scoperta dalla trasmissione Report riguardante un presunto emendamento alla prima finanziaria del governo Prodi che prevedeva di fatto una norma salva Parmalat), tuona indignato: “Per fortuna lo scudo non è stato esteso ai procedimenti penali in corso, ma resta molto grave. Della portata di queste modifiche ce ne accorgeremo con il tempo, scoprendo quante e quali persone si nasconderanno dietro lo scudo fiscale per evitare di dover rispondere di falso in bilancio una volta scoperte”.

Ancora più diretto è il commento della presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, che dopo aver definito il provvedimento sullo scudo fiscale ampliato «una vera porcata» incalza: «Era più onesto il cartello di Medellin. Si è presentato con i suoi capi, con nome e cognome, al Governo colombiano per offrirgli di far rientrare i capitali dall'estero e aiutare così il bilancio pubblico. Il Governo colombiano non accettò. Ma da noi no. In violazione di tutte le norme si fanno rientrare capitali sulla cui costituzione nessuno indagherà mai e si garantisce l'anonimato».

Un’allusione simile a quella sbandierata dal partito di Di Pietro che direttamente nell’aula del Senato dà luogo ad una protesta che ha il sapore dell’amara verità non raccontata. Una decina i cartelli comparsi fra i banchi dei senatori con slogan alternati: «Governo antitaliano» e «Mafiosi e evasori ringraziano». Il fedele tributarista del papi italiano non può, però, essere tacciato di incoerenza: se le grandi banche internazionali derubano gli Stati sovrani, che anche i cittadini furbi siano messi nelle condizioni di rubare. Un ragionamento che sarebbe un ossimoro ovunque, ma non in Italia.

La situazione è, infatti, più che critica, quasi pietosa. Se tre indizi non fanno una prova aiutano certo a farsi un’idea della reale situazione dei conti pubblici. L’ultimo in ordine di tempo è la benedizione all’emendamento Fleres, quello appunto che stringe i tempi dello scudo e ne allarga i confini. Il primo è invece contenuto nell’obbligo stabilito a gennaio per la Sace – un gruppo finaziorio di assicurazione del credito, protezione degli investimenti, cauzioni e garanzie finanziarie – di garantire i crediti nei confronti delle amministrazioni statali: una brillante trovata per non far pesare fino al 2011 l’extra-debito degli enti locali sul rapporto defecit - Pil. Il secondo indizio è l’emessione lampo da 2 miliardi di BPT (scadenza 2025), effettuata il 18 settembre a poche ore da una conference-call con le banche d’affari.

Ora questo scudo a caccia di soldi ”pochi, maledetti e subito”, dopo un’intera estate passata a fare da moralizzatore del sistema bancario. Tutto lascia presagire tempi cupi. Ma gli italiani possono stare tranquilli: il governo non metterà le mani nelle loro tasche. Il Robin Hood dei ricchi le tasse non le aumenta. È disposto a trasformare questo paese in una latrina del terzo mondo ma le tasse non le aumenta.


Gli eroi dell'ipocrisia

di Fabio Mazza - www.movimentozero.org - 23 Settembre 2009

Lo spettacolo di questi giorni ha un solo nome: ipocrisia allo stato puro. Il rivoltante spettacolo di un Emilio Fede, di un Costanzo, e, orrore di una Barbara D’urso e di un Bracchino, che recitavano la sceneggiata napoletana, strappandosi le vesti per il dolore di queste “povere vite di eroi, spezzate tragicamente”, ha qualcosa di paradossale e grottesco.


Puntualizziamo subito che non gridiamo di gioia, come fa qualche frangia anarcoide-marxista, alla notizia dei soldati caduti.
Il pacifismo “senza se e senza ma” di queste “anime belle” della sinistra per noi è risibile quasi quanto il falso, perbenista e conformistico patriottismo di facciata della classe di governo, e dei loro sodali dei mass-media. Analizziamo però i fatti.


Primo. La manovra di questi giorni, ha tutta l’aria di voler cementare il consenso intorno ad una “missione umanitaria”, di cui nessuno, in realtà, capisce realmente il motivo. Questo è desumibile dal fatto, che quando in passato sono caduti in servizio poliziotti, carabinieri ed altri esponenti delle forze dell’ordine sul territorio nazionale, che a rigor di logica avrebbero meritato, se proprio necessario scomodarlo, il titolo di “eroi” molto più dei soldati impegnati in Afghanistan, visto che difendevano il cittadino dalle minacce della microcriminalità, non ci sono state simili esequie.

E cosi via al “tiro a segno mediatico” a chi la spara più grossa, in un revival patriottico che non si vedeva dai tempi di Fiume italiana e della “vittoria mutilata”. Del resto la servitù al padrone americano va celata dietro motivazioni profonde, ideali, e il “patriottismo de noaltri” non vede miglior collante di un bello spauracchio “terroristico” e estremista islamico per far stringere attorno al focolare le pie famiglie italiane, preoccupate che la nostra solida e giusta società venga minata da questi demoni, che hanno anche il coraggio, questi fanatici, di morire per le loro idee, questi kamikaze!


Secondo. Queste persone sono volontari, pagati intorno ai diecimila euro al mese (e parliamo di soldati semplici o poco più), che fanno a gara per andare in missione all’estero non certo per “portare la pace”, quanto per comprare casa e macchina di lusso quando ritornano in patria. Non è cosi per tutti, ma per una buona percentuale. L’eroe di solito, nella accezione del termine più usata, non è qualcuno che viene pagato cifra spropositate, ma qualcuno che si sacrifica per qualcosa di più alto ed importante che non il denaro.


Quello che i bravi cittadini che improvvisamente si riscoprono ardenti di orgoglio nazionale non sanno (o fingono di non sapere) è che nessun afgano è mai venuto in territorio italico a compiere atti di aggressione, che meritassero una risposta militare. Da questo si deduce che questa è una guerra di aggressione.
Ora, da che mondo è mondo, quando qualcuno invade un paese, il popolo che lo abita ha diritto (e dovere) di difendere la propria terra dall’ingerenza dello straniero. E questo è quello che fanno i talebani in questo momento.


I talebani sono terroristi? Può darsi, ma questo non sta all’occidente stabilirlo. Se i talebani hanno la forza, morale o armata non importa, di prevalere sugli avversari interni, che l’Afghanistan sia governato da loro. Se il popolo afgano non sarà d’accordo sarà suo interesse ribellarsi e instaurare un governo che gli aggradi, che sia una teocrazia, una democrazia all’occidentale, una dittatura e via dicendo.

Ma il compito di stabilire cosa è buono e giusto per gli afgani non spetta certo all’occidente, che non ha per questo il diritto di imporre la “democrazia” a paesi, che per storia, costumi e tradizione, non la conoscono e non ne sono estimatori.

Terzo. La guerra si è sempre fatta. Dall’alba dei tempi. È un istinto dell’uomo, un istinto vitale che è sempre stato tenuto nella massima considerazione. Un mezzo, come nota Massimo Fini nel suo “elogio della guerra” per sfogare le tensioni interne di un gruppo sociale e per cementare le comunità (e si potrebbe vedere qui un motivo dell’aumento esponenziale degli atti criminosi, dell’uso di droghe e di suicidi, nei periodi di “pace”), per creare e distruggere equilibri, per costruire imperi.

Questo formidabile “momento formativo” della vita dell’individuo e dei popoli, ha conosciuto con la tecnologia moderna, che come in ogni altro campo, anche qui è stata “cattiva maestra”, un incremento devastante della capacità distruttiva delle armi utilizzate.

Cambiando le armi, sono cambiati anche i valori della guerra. Il valore, l’onore, la strategia, lo sprezzo della morte e del pericolo di un uomo non c’entrava quasi più nulla nella guerra. Non certo nella guerra di trincea del 15-18, dove la “carne da cannone” aveva ben poche occasione di dimostrare qualità guerriere e umane, nonostante quello che cedettero i giovani che vi aderirono entusiasticamente. Non certo nella seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti a tappeto sui civili, resero la guerra “totale”. Poi arrivo l’atomica, e sotto la minaccia del nucleare la guerra divenne un tabù, e il pacifismo post-68, falso e rivoltante, un obbligo, viste le conseguenze di un possibile conflitto mondiale.

Da quel momento le guerre si sono chiamate “missioni di pace”, “operazioni di peace keeping”, di “polizia internazionale”, “umanitarie” e via dicendo. Ma guerre no. E via con il demonizzare e demistificare anche tutto il passato guerriero dell’occidente, considerato come il “male del mondo”, una cosa da esaltati fascistoidi guerrafondai, quasi come se la guerra di oggi, cosi disumanizzata e senza onore, fosse sempre stata la stessa. Se un tempo la guerra non avesse avuto un altro senso, e un altro spirito.

In questa disperazione per sei militari morti, quando è la normalità morire in guerra, (ci si dovrebbe disperare di più per i giovani che perdono la vita per un incidente d’auto o per i morti “bianchi” sul lavoro), si nasconde una dimostrazione ulteriore di quanto questo mondo e questa società abbiano rimosso la morte.

Oggi sembra eccezionale che sei soldati siano uccisi in guerra, ma quanti morti ci sono stati nelle guerre precedenti? Milioni. E lo spirito che accoglieva quelle scomparse non era certo quello che abbiamo visto in questi giorni.

È come se questo occidente rammollito, ormai preda dell’Islam perché non ha alcun sistema di valori forti e condivisi da opporgli, se non un becero e sterile “a casa loro” di padano conio, che non risolve il problema di fondo, quello della perdita della nostra identità comune, ormai volesse che tutto si risolvesse come in uno dei tanti reality show di cui va pazzo.

Facciamo la guerra, ma come in un war game, magari premendo un bottone e, a distanza, cancellando interi villaggi, ma ci meravigliamo se poi i “selvaggi”, gli “straccioni”, i “terroristi”, non ci stanno e rispondono colpo su colpo.
Vogliamo giocare ad un gioco senza rispettarne le regole. La legge della guerra è una sola, semplice e crudele, ma non priva di dirittura: puoi uccidere ed essere ucciso.

E allora sicuramente oggi è un giorno di dolore per le famiglie di questi soldati che hanno diritto di celebrare i loro morti, ma che ci venga risparmiato questo buonismo di stato, tanto più repellente in quanto viene da uno stato che si proclama “democratico” e “liberale” e che quindi dovrebbe essere alieno da forme di paternalismo cosi meschine e puerili come quelle che abbiamo visto in questi giorni.


A proposito di puttane...

di Marco Francesco De Marco - www.movimentozero.org - 24 Settembre 2009

Usiamo lo stile di Travaglio. E’ così di moda e di successo. Chissà che non si riesca anche noi, nel nostro piccolo, a diventare tanto famosi da guadagnarci un bel contratto in Rai. Un sogno che inseguiamo fin da bambini.

A proposito di puttane e puttanopoli. Alcuni giornalisti italiani lanciano il ricorrente allarme: “siamo in un regime”. Non c’è libertà di espressione, c’è la censura, le nostre idee sono minacciate. Poveretti. Come li capisco. Vorrebbero scrivere che il popolo italiano paga una tangente chiamata “interesse sul debito pubblico” di oltre 70 miliardi di euro, e la paga ad una associazione a delinquere fatta di banche e banche centrali, “criminali che andrebbero processati per crimini contro l’umanità, tra i quali Draghi (parole di Elio Lannutti dell’Italia dei Valori)”.

Ma nessun editore permette ai valorosi giornalisti italiani di scrivere su questi temi così importanti. Così le nostre migliaia di “penne libere”, gli alpini della verità, i Santoro, Travaglio, Floris, Colombo, Maltese, Giannini, Padellaro, Mauro, Beha e compagnia cantando, sono costretti a negare il giusto risalto a notizie come quella sull’assoluzione di Angelo Rizzoli, depredato dalla solita banda di banchieri, pescecani, affaristi, malavitosi ed alti prelati.

I nostri eroi, impegnati nella crociata contro Silvio il Saladino, schierati sul fronte opposto, ovvero a favore della lobbie che gli contende il potere, cioè il sottopotere, hanno ignorato la notizia sulla vera storia del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, che oggi appartiene ai soliti noti parassiti, e che secondo giustizia non dovrebbe essere loro, perché è stato illegalmente e con modalità truffaldine sottratto ad Angelo Rizzoli. Il quale, giusto per continuare a parlare di puttane, puttane vecchie, navigate ma ancora in servizio, è stato incarcerato dai soliti magistrati al servizio dei potentati economici, al fine di distruggerlo, nel fisico e nella mente, al solo scopo di sottrargli il patrimonio di famiglia.

In quei giorni, Gianni Agnelli, con la freddezza tipica dei rettili e la finezza di uno scaricatore di porto, chiamò Rizzoli appena uscito dal carcere per dirgli: “Siamo nel mondo degli affari dove vale la legge della giungla: il più forte vince il più debole. E lei, dottor Rizzoli, in questo momento è il più debole”. Questo era il raffinatissimo “principe” dell’aristocrazia piemontese: un magliaro (definizione estratta da Dagospia)!

Lo stesso magliaro che fu l’idolo dei giornalisti italiani per mezzo secolo, il Papi ante litteram, visto che anche lui “cantava canzoni napoletane” alla diciottenne (e chissà da quanto tempo, forse da quando era minorenne) Monica Guerritore, come sapevano in tanti anche se mai nessuno osò scriverlo. “Con la vicenda Corriere ho perso 26 anni di vita - prosegue Rizzoli”. “Mio padre ci è morto d’infarto nel 1983, mia sorella Isabella, la più piccola, si è suicidata nel 1986. Mi hanno incarcerato tre volte e portato in cinque carceri diverse. Porto i segni sulla pelle di quello che mi hanno fatto”.

Ma non state in pensiero, amici miei. Ora arriva Padellaro e sistema tutto, con l’aiuto di Colombo e Travaglio, e a quanto sembra anche Massimo Fini. Cosa ci farà in mezzo a queste scarpe vecchie è un mistero, è ovvio che li lega solo l’odio per Berlusconi.

Tuttavia, mentre quella di Fini è un’avversione ideale e culturale, quella dei soliti noti ha il suo nucleo negli interessi di parte, la sponda di De Benedetti e della finanza vampirica italiana ed internazionale, la stessa che sussurrava all’orecchio di Ciampi, Amato e Prodi, e che non vede l’ora di liberarsi di Berlusconi e Tremonti e di quei cafoni dei leghisti. Credo che Massimo Fini durerà poco in questa compagnia di vecchie combattenti del marciapiede, giusto il tempo di farsi censurare qualcosa sull’Afghanistan e sull’Iraq, vista la presenza dei filo-israeliani e filo-americani Colombo e Travaglio.

Ciò non di meno attendiamo con trepidazione di poter leggere che il comparto bancario italiano (insieme a tutto quello occidentale) impedisce autentiche indagini per conoscere le vie finanziarie del riciclaggio del mondo della droga. Scopriremo che alcune multinazionali vendono inspiegabilmente medicine cancerogene, che il latte artificiale è dannoso per i nostri bambini, che l’Europa paga la tangente agli USA per non volere autorizzare il commercio di carne agli estrogeni.

A proposito di puttane, puttane di lunga carriera, travestite da verginelle, questi non scriveranno niente di tutto questo, se non nella solita maniera generica, pavida ed alibistica con la quale si sono creati la fama di “Ernesti sparalesti” della verità, senza mai e dico mai scrivere qualcosa contro i veri poteri.

D’altronde sono gli stessi cresciuti e pasciuti all’epoca del consociativismo, della spartizione delle tre reti Rai, una alla Chiesa, una ai socialisti ed una ai compagni e compagnucci. A proposito di vecchie zoccole e delle loro notti accanto al fuoco, questi sono gli stessi che si sono scaldati per decenni accanto ai fuochi del clientelismo, delle raccomandazioni, delle lobbie, degli amici degli amici.

La loro ennesima, squallida, povera campagna di terz’ordine contro Berlusconi non è degna di passare per battaglia per la libertà. La libertà di stampa in Italia non esisteva prima di Berlusconi e non esisterà dopo. E quando si potrà tornare a scrivere liberamente, non sarà certo per merito loro. A proposito di puttane, quelle di Berlusconi, al cospetto di queste vecchie baldracche, sono delle educande dodicenni che studiano in un collegio di orsoline.


"Videocracy" o del fascismo estetico
di Andrea Inglese - www.nazioneindiana.com - 24 Settembre 2009

La negligenza, e quasi la cecità, della sinistra e della sua intellighentsia dinanzi a questo fenomeno deriva dalla situazione con cui hanno guardato alla cultura delle masse, che è stata considerata sempre marginale rispetto al potere presunto vero, cioè alla dimensione politica ed economica (Raffaele Simone).

Essere spettatori di Videocracy è un’esperienza profondamente sgradevole. Durante la proiezione del documentario è percepibile un diffuso imbarazzo, che ogni tanto è rotto da qualche risata liberatoria. Ma quelle risate, appena risuonano, più che liberare incatenano maggiormente alla propria vergogna.

Poi c’è lo schifo. Uno schifo da tagliare col coltello. E quindi la nausea di nervi, veri e propri crampi. E quando ti alzi e vedi gli altri spettatori come te, e sai già fin d’ora che se ne andranno come se niente fosse, come si esce ogni sera da un cinema, un po’ stralunati e un po’ eccitati, ti piomba di nuovo addosso la vergogna, quasi fossimo tutti quanti testimoni passivi e docili di un crimine detestabile, concluso il quale ognuno se ne va solitario, omertoso e impotente a casa propria. Strano effetto, davvero.

Ma come? Non avevo io letto Anders, Debord, Baudrillard, Bauman? Non avevo letto Barbaceto, Travaglio, Perniola, la Benedetti, Luperini? Non conoscevo già tutta questa vicenda a memoria? Non avrei dovuto essere immune dallo shock? Non ho forse letto analisi e ascoltato dibattiti sul genocidio culturale, sulla rivoluzione mediatica degli anni Ottanta? Sul grande smottamento antropologico, cominciato con Drive in?

Non sono forse un tipico esemplare di quella classe media acculturata che, grazie ad una certa memoria storica e ad una formazione umanistica, si sente sufficientemente critica nei confronti del mondo che lo circonda? Addirittura, non sono forse un esemplare medio di quello che è una volta si sarebbe chiamato intellettuale di sinistra, uno cioè che crede nel valore della ricerca e del dibattito pubblico, nel valore della scienza e della letteratura, per rendere il mondo più giusto?

E non sono, infine, un insegnante di liceo, che ha quasi ogni giorno un contatto diretto con le “nuove generazioni”? Io, dunque, non sapevo? Non ne sapevo abbastanza di com’è l’Italia, di come è diventata? Ma non lo sappiamo tutti, da tanto tempo? Ma allora perché quel senso desolante e irrimediabile di umiliazione, che solo un antidolorifico coi fiocchi, un oppiaceo in polvere, avrebbe potuto lenire?

La prima risposta che trovo, non so quanto corretta, è questa: il mio sapere è stato a lungo scisso dal mio sentire. Il mio sistema morale deve aver trovato una strategia alquanto vigliacca di sopravvivenza, da un lato mandava avanti la mente libresca, la nutriva di dati e concetti, dall’altro ottundeva il sensorio, lo teneva al riparo dalla “malvagità del banale”, per utilizzare una formula letta da qualche parte e che rovescia assai ragionevolmente il titolo della Arendt.

Non è forse stato il mio (il nostro) un ritiro sull’Aventino? Non già un ritiro parlamentare, una rinuncia politica, una protesta sterile e controproducente. No, un ritiro estetico, e non della classe politica, bensì di una certa società civile. Abbiamo fatto di tutto per non percepire, mentre intanto blandivamo la coscienza, nutrendola di letture e tavole rotonde sull’informazione.

Da tempo immemorabile la sinistra grida “al lupo al lupo”, parlando di regime, di guasto della democrazia, di monopolio dell’informazione. La sinistra istituzionale, quella che fa riferimento al PD, dovrebbe su questa questione tacere per sempre. Forse per inconsapevole terrore di quella stessa ideologia, di cui è stata prigioniera nel suo remoto passato di PCI filosovietico, forse per consapevole contrabbando politico con Berlusconi, essa ha rinunciato ad ostacolare la frana in corso. Nessuna legge ha intralciato il massivo esperimento antropologico del Grande Intrattenitore.

Sanare i conti, è stata la priorità dei governi di centro-sinistra, mentre le menti, quotidianamente, si guastavano. Ma poiché il partito si era finalmente de-ideologizzato, poco si curava di questo versante e di coloro che in esso moltiplicavano cantieri. Quanto a certa sinistra radicale, la sua vocazione al settarismo l’ha completamente immunizzata dal problema.

Essendo i compagni autentici una ristretta e gelosa élite, e vivendo essi tra di loro, perfettamente adeguati alla psicologia dell’assedio, e dotati infine della celebre pazienza rivoluzionaria, possono attraversare deserti estetici e antropologici senza battere ciglio. La dura necessità della lotta li ha anestetizzati in partenza.

Quando dunque si parla di attacco ai diritti civili e si addita con scandalo, da Repubblica al manifesto, la costituzione bistrattata, si spara in parte fuori bersaglio. Non che ognuno di questi allarmi sia fasullo, ma essi ignorano l’isolamento estetico da cui vengono lanciati.

Chi pensa alla costituzione ha una mente libresca, chi continua ad amare Berlusconi ha una mente televisiva. Questa banale affermazione ha conseguenze, storicamente, tragiche. Nel senso più tecnico e appropriato del termine. Le condizioni di vita, nel paese, possono peggiorare per un numero sempre più ampio di persone, senza che ciò alzi di un grado la cosiddetta conflittualità sociale. Questa è l’implacabile legge di quello che io chiamerei “fascismo estetico”.

Che cos’è il “fascismo estetico”? Le sequenze iniziali e finali di Videocracy lo illustrano perfettamente. Il “fascismo estetico” è quella lotta per la salvezza sociale che impegna ogni componente dei ceti popolari, nella più assoluta solitudine, sul terreno della propria immagine. Nell’epoca della fine della mobilità sociale e del lento disfacimento della classe media, il nemico di classe non esiste più, come non esistono più alleati nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita. Vi è un’unica fede, quella della trasformazione individuale. Non una religiosa rivoluzione interiore, ma una laica e materialista metamorfosi della propria immagine.

Il giovane operaio bresciano che è intollerante nei confronti del proprio lavoro, che si rifiuta ostinatamente a un destino di tornitore a vita, ha di fronte a sé un’unica via di salvezza che, tragicamente, è in realtà la sua maledizione. Egli vive da anni nella costruzione di un personaggio televisivo attraverso una dura disciplina fisica, che lo rende straordinariamente atletico e prestante. Ha ininterrottamente lavorato sulla propria immagine, ossia sul proprio corpo, sulla gestualità, sugli abiti. Ma per lui, probabilmente, non verrà alcuna salvezza.

Ruoterà per sempre, come in un girone infernale, intorno alla ribalta televisiva, senza mai poter abbandonare il suo posto di spettatore ed accedervi. Per lui, il salto sociale non avverrà mai, anzi si cumuleranno, su un terreno nuovo e diverso da quello della fabbrica, delle umiliazioni ulteriori. Passerà di casting in casting, calcherà gli studi televisivi, solo per mettersi tra le sagome indifferenziate di coloro che ridono e applaudono. Non diventerà, nonostante le ore quotidiane di palestra, la dieta, i sacrifici di tempo e denaro, famoso, e quindi neppure ricco, e quindi neppure attraente da un punto di vista sociale. Resterà un qualsiasi operaio non qualificato, di quelli guardati con sufficienza dalle compagnie femminili di paese.

Per le giovani e giovanissime donne, il fascismo estetico presenta un quadro, se possibile, più cinico e disperato. In un mondo del lavoro ancora sessista, la via della realizzazione professionale passa per la prostituzione spontanea. Si parla sui giornali della propensione del premier erotomane per le minorenni. Si parla con orrore di violenza sulle donne, di abusi e aggressioni sessuali. Nell’ultima sequenza di Videocracy, un gruppone di giovanissime aspiranti veline è ripreso mentre ancheggia a suon di musica, nel modo che ognuna immagina il più sensuale e provocante possibile. Quanti di questi corpi sono volontariamente sacrificati ai molteplici intermediari dell’industria dell’immagine?

Sotto l’occhio complice della famiglia, del gruppo di amici, della comunità di paese, che preferisce ignorare il prezzo imposto dal raggiungimento di una tanto agognata apparizione televisiva?

Anche qui non sfugge la condizione tragica che impone al mondo femminile di raggiungere la propria salvezza sociale – l’autonomia professionale – attraverso la dura prova del baratto sessuale, poiché l’unica merce di scambio che una donna può offrire, in quel mercato gestito dall’uomo, è il corpo. Se poi sia peggio, quanto a prostituzione spontanea, quella dei corpi, riservata alle donne, rispetto a quella delle menti – e quali menti! –, riservata agli uomini, non sarò certo io a dirlo, che non sono avvezzo né all’una né all’altra.

Insomma, nonostante tutto ciò che che sapevo (o supponevo sapere), la visione di Videocracy mi ha prodotto uno shock cognitivo, che mi ha spinto ad elaborare il nuovo concetto di “fascismo estetico”. Innanzitutto ho pensato che ci è davvero mancato un Pasolini, come cronista di questo terrificante esperimento di massa. Non il Pasolini che viene sempre invocato, quello del genocidio culturale e della fine del mondo contadino. Il Pasolini degli anni Settanta, quello delle Lettere Luterane per intenderci, non scopre niente, da un punto di vista intellettuale.

Dice cose che altri studiosi e scrittori, filosofi e sociologi, hanno già detto almeno una decina d’anni prima. La forza e la necessità dell’urlo di Pasolini viene dal fatto che, quello che altri hanno saputo prima, lui lo sente dopo. Altri, più lucidamente di lui, avevano analizzato la rivoluzione antropologica, che stava segnando la scomparsa della cultura popolare e contadina. Ma lui è stato in grado di patire fino in fondo l’esperienza di questa scomparsa, proprio in virtù di quel contatto con i ceti popolari di cui era continuamente alla ricerca. Lui l’ha vissuta su di un piano estetico più che politico e intellettuale. E proprio per questo ne ha misurato più coraggiosamente di altri la portata.

Molti di noi, nel trentennio di ascesa della videocrazia, si sono difesi proprio dall’esperienza estetica che il nuovo regime imponeva. Mi prendo come esempio, in quanto so bene di non rappresentare un’eccezione, semmai una minoranza. In un momento imprecisato, all’inizio degli anni Novanta, ho smesso di guardare la televisione. Ho compiuto questo gesto semplice: ho portato in solaio il televisore, e da allora guardo la tele assai raramente, a casa di qualcun altro. È una colpa? Posso andarne fiero? Potevo fare altrimenti? (Una delle frasi che appaiono in coda a Videocracy afferma: Oggi l’80% della popolazione italiana ha la televisione come prima fonte di informazione).

Lo ammetto, ad un certo punto mi sono rifiutato di sottopormi compiutamente all’esperimento che Silvio Berlusconi stava realizzando sul pubblico televisivo italiano. Lo avrò fatto per privilegio di classe, per intolleranza personale, per istinto di sopravvivenza… non sono sicuro di conoscerne il vero motivo, ma sicuramente l’ho fatto. Il problema è che, in questo modo, ho finito per ignorare l’entità del disastro. Aggravante ulteriore è stata la latitanza dal suolo patrio per alcuni anni. È pur vero che, ogniqualvolta mi è capitato in questi anni di vedere un programma d’intrattenimento, faticavo a credere ai miei occhi e alle mie orecchie.

Mi dicevo: “Ma come è possibile che le donne italiane accettino questo?” (Non parlo qui d’informazione. Delle mezze verità dei telegiornali, della censura spontanea o imposta, della manipolazione e della propaganda. Parlo proprio dei programmi di puro intrattenimento, con la presenza del pubblico: dai quiz ai reality show.)

Ma le occasioni di spaesamento si moltiplicavano anche nella vita reale. L’avvento in città di automobili sempre più implausibili: le fuoristrada con la sbarra di metallo antibufalo, o quelle nere con i vetri oscurati da gangster. La moltiplicazione davanti a qualsiasi locale dalla luminaria un po’ esotica d’ingombranti e inutili buttafuori. Ricordo la scoperta di ambienti a tal punto ridicoli, da sembrare irreali. Un conoscente una sera m’introdusse, con un paio di amici, al “Just Cavalli Café”, un locale esclusivo – o che si pretende tale – di Milano, frequentato da gente della moda, del calcio e della televisione. C’erano due ragazze in tailleur all’entrata con le liste degli invitati: una miscela di doganieri, hostess, e maestrine terribili: serie come la morte.

Nel ristorante dei Vip – o presunti tali – gli uomini sembravano controfigure più o meno riuscite di Fabrizio Corona, ma generalmente col cranio rasato; le donne, presentatrici più o meno plausibili alla ricerca disperata di contatti importanti. Sociologicamente nulla di speciale: nuovi arricchiti. Atmosfera: Mosca anni Duemila, magari senza pistole automatiche nella giacca. Ma l’arredamento, gli abiti, la gestualità erano ciò che più mi sorprendeva.

Tutto si svolgeva come su una ribalta televisiva, ma mi sfuggiva la regola del gioco, dal momento che di spettatori non ce n’erano. Quando si dice “apparire”, non si è detto ancora nulla. Uno, infatti, pensa subito ad una politica dell’apparire, all’apparenza come mezzo. Ma nel “fascismo estetico” – e lo capisco tardi – mezzo e fine finiscono per confondersi. La disciplina dell’apparire, il quotidiano esercizio per diventare belli ed eleganti, non ammette basse strumentalizzazioni. Raggiungere lo splendore di un’immagine si trasforma nel fine in sé.

E tutte le volte che a Milano camminavo per certe vie o passavo davanti a certi caffè o discoteche, mi chiedevo: “Ma chi sono questi?” Era snobismo? È stato snobismo smettere di avere la tele in casa? Questa è l’accusa più in voga oggi rivolta a chi rimane estraneo ai grandi compiti imposti dal “fascismo estetico”.

Le mie ragioni, però, non sono state sociali, ma estetiche: era una vigliacca necessità di preservarmi da tanta bruttura e banalità, da tanto conformismo, che mi ha reso cieco alle grandi trasformazioni. Non ne ero ignaro, ma non percepivo il disegno unitario e la macchina potente che le governava.

Ora vedo l’enorme sforzo di essere belli, il rovello perenne, la disciplina marziale dell’apparire, a cui una gran quantità di giovani italiani è sottoposta. È affascinante constatare fino a che punto, in certi caffè o per certe vie, ci siano solo ragazze accuratamente truccate che indossano abiti vistosi e attraenti, e ragazzi con muscolature e tatuaggi opportuni. Tutte e tutti abbronzati. L’unica nota inquietante in tanta bellezza è lo spettro aleggiante della clonazione. Tutti questi belli e queste belle, disinvolti e ridanciani, si assomigliano maledettamente. Hanno lo stesso taglio di capelli, gli stessi occhiali, le stesse magliette, gli stessi tatuaggi. Non solo, ma il loro sforzo perenne, la loro aspra disciplina, li rende anche tremendamente aggressivi.

Questa è una caratteristica del “fascismo estetico”: vi è un sovrano disprezzo per colui che non si piega alla stessa rigida regolamentazione. Costui non è visto semplicemente come un “brutto”, uno “sfigato”, perché privo di opportuna abbronzatura e tatuaggio, ma è considerato in qualche modo una minaccia, anzi uno sberleffo vivente di fronte allo zelo dei belli-a-tutti-i-costi. Vi è un grande risentimento in questi “sacerdoti del corpo scolpito e dell’abito perfetto” per colui che non appartiene alla loro tribù. E mostra di vivere, di divertirsi, di amare, senza intrupparsi nel loro corteo e senza condividere i loro riti impietosi.

Non m’interessa più di tanto, in realtà, proporre una fenomenologia dell’italiano dedito all’ossessiva e conformista cura della propria immagine. Ognuno ha di fronte a sé una quantità di esempi sufficientemente eloquenti. Il punto è un altro. E riguarda la mia (e di altri) grande capacità di astrazione e di oblio di fronte a tutto ciò. Accettare fino in fondo quanto è accaduto, guardarlo in faccia senza schermi intellettuali, è un compito arduo. Lo è soprattutto per chi vive ancora tra due mondi, tra quello della lettera e quello dell’immagine, tra la cultura del libro e l’impero della televisione.

(La discussione scaturita da questo post, grazie alle osservazioni e testimonianze emerse nei commenti, mi ha fornito materiale di ulteriore riflessione. E davvero diversi sarebbero i filoni di discussione possibili. Per conto mio proverò a metterne a fuoco uno, quello relativo alla formula suggestiva, ma per certi versi opaca, che mi si è imposta rievocando scene di Videocracy: il “fascismo estetico”.)

Vorrei cominciare con due citazioni tratte da un post di Lorella Zanardo, intitolato I corpi liberati. (La Zanardo è l’autrice del documentario-saggio Il corpo delle donne).

“E’ da sempre enorme il potere d’attrazione del corpo delle donne, oggi però ne abbiamo più consapevolezza e ne restiamo noi stesse sorprese.
In particolar modo le giovanissime, come Silvia, paiono godere di questa scoperta: la loro è forse la prima generazione a nascere e crescere dentro un corpo liberato che non ha dovuto lottare per uscire da costrizioni e sottomissioni millenarie.
Io credo ci sia qualcosa di vero e forte in questa scoperta.
Intendo che Silvia, Belen e molte altre si avvicinino ad una scoperta potentissima senza riuscire a portarla a compimento.”

“La televisione attrae proprio per la sua proposizione ossessiva di corpi, lontani però da ogni forma realmente espressiva perché imprigionati in gesti ripetitivi e costretti dalla finzione intrinseca al mezzo televisivo.”

Che rapporto c’è tra il “corpo liberato” e il “corpo dominato”? Apparentemente i due concetti sono antitetici: dove c’è l’uno non ci può essere l’altro. Ma uguale conclusione sorgerebbe se si associassero altri due concetti, “individuo emancipato” e “individuo soggiogato”.

Qual è stata la forza di attrazione, per certi versi rivoluzionaria, della tv berlusconiana in Italia? Quella che ha contribuito a costituire il partito mediale di massa, secondo la definizione di Ilvo Diamanti.

Le tv private del Grande Intrattenitore hanno avuto la capacità di sollecitare esigenze d’emancipazione soprattutto presso i ceti popolari, liberando energie nuove, salvo poi, puntualmente, imbrigliarle, parassitarle e sfruttarle nel proprio obiettivo di espansione commerciale e di egemonia culturale. La pietra angolare del partito mediatico, l’industria televisiva, ha agito come uno straordinario commutatore: ha attirato a sé una gran quantità di energie giovanili desiderose di emancipazione, per sottoporle a un rigido regime dell’intrattenimento, che riusciva, paradossalmente, a provocare sul pubblico un effetto di regressione culturale.

Strappare giovani e giovanissime donne da legami locali e comunitari, per portarle sulla ribalta televisiva a livello nazionale, è indubbiamente un fattore d’emancipazione (sfuggire alla tutela familiare e della comunità locale). Possiamo immaginare che un fenomeno concomitante di questa emancipazione sia, nella giovane donna, la piena consapevolezza del potere d’attrazione del proprio corpo.

Il corpo voleva liberarsi, ha avuto un’occasione per farlo, sfuggendo a vincoli e condizionamenti tradizionali, ed ora è disponibile, come un’energia potenziale, che può esprimersi in varie forme. Questa occasione d’emancipazione è data però da una soglia stretta: l’immagine. Ci si libera e si misura la potenza della propria liberazione accedendo all’immagine, ossia sottoponendosi all’iter complesso della selezione, della formazione, della cooptazione nell’industria televisiva. Dove sta il fascismo in tutto questo? Il fascismo sta nell’esistenza di un unico Codificatore, rigido e autoritario.

Se la grande occasione d’emancipazione (dei ceti popolari, della donna) sta nella soglia stretta dell’immagine, chi diviene padrone di essa, della sua codificazione, della sua produzione e della sua diffusione, ha un potere coercitivo e di controllo enorme. Non solo, ma egli si nutre della potenza dei corpi in via di emancipazione, si nutre dei sogni che questi corpi sprigionano, nel momento stesso in cui percepiscono una possibilità di emanciparsi.

Berlusconi e il suo sistema televisivo si sono posti come unico Codificatore, fornendo una speranza concreta a migliaia di persone: “liberatevi dalle vostre catene, portate la vostra energia fino alla porta stretta dell’immagine, lì dove si organizza l’apparizione televisiva.” Ciò che si perde così facendo è poi, tragicamente, la propria espressività. Perché la si perde? Perché gli Avanguardisti Tronisti e le Giovani Italiane Veline sono, per la gioia del Codificatore, persone incompiute, malleabili, le cui spinte espressive non hanno ancora preso una definitiva direzione.

Ed è su questa malleabilità espressiva che avviene la violenza del fascismo estetico: ossia la codificazione rigida dei ruoli, dei tempi, dei vestiti, dei gesti, dei toni, secondo un copione fisso.

L’azione violenta e prevaricatrice che contraddistingue il carattere fascista di questa operazione avviene a due livelli: a livello alto, in quanto monopolio televisivo (illegale), e quindi imposizione, a livello nazionale, di un solo Codice, con marginalizzazione e discredito di Codici concorrenti; a livello basso, in quanto imposizione – in termini di addestramento – di un unico paradigma espressivo, senza nessuna considerazione per altri alternativi.

Tutto questo sistema, inoltre, ha un’altra conseguenza “fascista”, ossia il carattere mortifero e mortificante delle poche espressioni consentite. E qui il documentario di Lorella Zanardo è sufficientemente eloquente. L’accanimento sui volti delle donne, passati sotto l’opera di cancellazione chirurgica della loro espressività, riconduce alla levigata uniformità della maschera mortuaria.

L’accanimento nel ricondurre la donna ad un alfabeto limitato di posture – a carponi sotto un tavolo ad esempio –, riconduce alla mortificazione sadica, ma senza ombra di quella parità di ruoli che, nella vita intima e privata, dovrebbero essere il presupposto di ogni espressività erotica. Non è il gesto in sé ad essere mortificante, lo è la sintassi rigida del gesto, la sua ricorrenza all’interno di un sistema chiuso di gesti e di ruoli codificati.

Infine, il “fascismo estetico” ha un’altra conseguenza: il razzismo. Un razzismo che, ovviamente, tocca la sfera dell’immagine e dell’espressività. Ciò vale non più soltanto all’interno della fabbrica mediatica, ma nelle sue propaggini reali, per strada, nel paese. Chi non corrisponde all’immagine codificata è sospetto. Anziani, neonati, immigrati con abiti da lavoro o con abiti della festa non europei, barboni, “originali”, ecc. Ricordo l’incontro in un vagone affollato del metrò con un gruppo di ragazzoni provenienti da un quartiere popolare di Milano.

Il loro era lo stile solito, stile unico, stile televisivo. Uno di essi era ubriaco o impasticcato, e attaccabrighe. Tra le tante persone presenti, due scatenarono la sua aggressività. Uno era il classico “originale”. Un ragazzo che si dava un po’ di arie da misterioso, vestito con una camicia e un capello neri, barba e ciuffo sugli occhi, scarpe a punta con fibbie strane. Il tizio flippato cercò di aggredirlo, di strappargli il cappello. Ma lo tennero fermo i suoi compagni. Poi, girandosi, vide che lo guardavo. E si lanciò su di me, gridando “E tu quattr’occhi!” (alludendo ai miei occhiali).

Si vede che anche gli occhiali erano un segno, per lui, di minorità, e andava quindi punito. Possiamo immaginarci le varie tappe del suo ritorno a casa: una coppia di gay che si baciano, una ragazza con una minigonna e delle calze a rete rosa shocking, un venditore bengalese con quattro cappelli da cow-boy in testa, ecc.

Lele Mora che lavora ai piani alti dell’industria televisiva, essendo un selezionatore potentissimo di chi accede all’immagine, un guardiano della porta stretta di Mediaset, non è solo una delle eminenze grige del “fascismo estetico”, è anche una fascista tout court e vecchia maniera, con tanto di “Faccetta nera” registrata sul suo video-telefonino, svastiche e aquile naziste. È quanto ci mostra una delle sequenze più agghiaccianti di Videocracy. Nostalgia del regime fascista e fascistizzazione dell’immagine possono andare perfettamente a braccetto.

A livello più generale, il “fascismo estetico”, come paradigma culturale rigido e tendenzialmente unico (grazie al monopolio mediale), si alimenta, per poi amplificarlo, di quello che Raffaele Simone definisce uno dei principali postulati dell’ideologia della neodestra: il postulato di superiorità (“io sono il primo, tu non sei nessuno”).

Nella logica del fascismo estetico, la conquista dell’immagine (l’apparizione mediatica) si può ottenere con tutti i mezzi. Detto in altri termini, non si diventa primi solo per il principio meritocrato che vige in democrazia (“sei il primo, perché il migliore”). Si diventa primi, anche se si è il peggiore. L’inganno, la forza, la frode, il crimine sono tutte vie altrettanto legittime, e probabilmente più comode, per l’accesso all’immagine.

Chi accede all’immagine, acquisisce uno statuto incomparabile con quello di qualsiasi altro cittadino privo d’immagine. Il primo è chi sta nel fascio di luce mediatica, quale che siano le sue caratteristiche morali, professionali e intellettuali. Nessuno sono tutti gli altri, quelli fuori dal fascio, quali che siano le loro caratteristiche morali, ecc.

Nella discussione seguita al mio post su Videocracy è, ad un certo punto, emerso uno strano schema. Parlando di coloro che più si conformano al paradigma culturale della tv berlusconiana – coloro che aspirano all’apparizione televisiva, la anticipano, in qualche modo, nella loro vita reale – è sorto il problema del giudizio. Posto che uno si senta estraneo a questi modelli culturali, e ne abbia coltivati altri, come giudica i “clonati” o le “clonate”? Qui secondo me c’è un punto fondamentale. Si potrebbero ovviamente fare tante precisazioni possibili. Ad esempio, coloro che appaiono “clonati” esteticamente, magari sono persone civilissime, consapevoli, ecc. Semplicemente assumono in forma superficiale un modello, mantenendo rispetto ad esso una distanza critica.

Siamo d’accordo. Ma quegli altri, invece? Quelli che accolgono il pacchetto in blocco? Le aspiranti veline pronte al sacrificio di sé senza nessuna garanzia di contropartita? L’operaio bresciano che attende la salvezza sociale dal casting e ne esce ogni volta frustrato? Nella discussione è emerso uno conflitto tra giudizi morali: chi vede queste persone come colpevoli, colluse, e quindi non meritevoli di alcuna compassione o simpatia, e chi le vede come vittime, o anzi vede – come mi sembrerebbe più giusto – tutti noi come vittime di questo paradigma culturale. Questa divergenza di opinioni riguardava poi anche il giudizio sul grado di attività o passività, quindi di responsabilità, di queste persone nel meccanismo impietoso a cui si esponevano.

Noi, quando ragioniamo così, facciamo riferimento a due modelli che mi sembrano riduttivi: il primo è quello individualista, e dice: se non c’è coercizione evidente, c’è l’autonoma volontà del soggetto. A lui va tutta la responsabilità di ognuna delle sue azioni. Il secondo, di ascendenza sociologico-positivista, dice: siamo tutti socialmente condizionati, la nostra libertà è illusoria, o minima.

Nel mio post ho introdotto il concetto di “tragico”. E anche se non è espresso da lei esplicitamente, trovo che le riflessioni di Lorella Zanardo citate all’inizio vadano nella stessa direzione. Mi permetto una citazione da Peter Szondi (Saggio sul tragico): “la tragicità non si compie nel declino dell’eroe, ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi”.

Lo schema tragico non è familiare a noi moderni, eppure rende questa specifica vicenda più intellegibile che gli schemi individualisti e socio-positivisti. L’eroe tragico è una vittima, pur essendo del tutto responsabile delle proprie azioni. La sua volontà, che lo rende attore consapevole del dramma, non esclude in lui una parziale cecità. Il clonato o la clonata, nell’ottica tragica, sono persone spinte da un desiderio di emancipazione forte, che rischia ad ogni momento di precipitarle in una condizione di nuova e inedita prigionia.

Questo li rende allo stesso tempo colpevoli e innocenti, o forse più semplicemente illustra la vanità di un nostro giudizio morale. Non solo, ma la stessa diabolica industria televisiva berlusconiana ha custodito in sé elementi d’emancipazione sociale che non erano visibili altrove nel panorama culturale italiano. L’autoritario-populista Berlusconi potrà ribattere a certi ambienti culturali di sinistra: “Ma voi siete classisti!” E questo è vero.

Vogliamo considerare il grado di mobilità e permeabilità del PD di fronte alle forze nuove, giovani, che premono al suo interno o che potrebbero essere coinvolte in esso? Vogliamo andare a vedere cosa succede nei feudi della cultura del libro, ossia nelle università, anche nei dipartimenti politicamente e culturalmente orientati a sinistra? Sono forse luoghi di sicura emancipazione? Sono forse luoghi immuni dal baratto sessuale? Sono forse luoghi in cui è sconosciuto il postulato di superiorità “io sono il primo (io ho la cattedra), tu non sei nessuno (tu hai un contratto annuale, un assegnino, una borsa di studio)?

Non voglio suggerire equivalenze che non ci sono. Voglio mostrare gli elementi di emancipazione nella tana dell’Orco e della sua cultura fascistoide così come voglio mostrare elementi di schiavitù e inciviltà nelle biblioteche più selezionate e libertarie. E nonostante le enormi differenze, e indipendentemente dalle coloriture politiche, sono ambienti in cui non solo le normali illusioni della giovinezza vengono macinate brutalmente, ma anche le più vitali e legittime aspirazioni a una vita normale. Questo fa sì che la torsione tragica sia presente ogni qualvolta, io mente libresca e anti-televisiva, guardo in faccia un “clonato”. Io ho creduto nello studio, nella ricerca artistica, nel lavoro intellettuale, nell’indipendenza di giudizio, nell’impegno sociale e, qui in Italia, sono stato bellamente fregato.

Lui, nel peggiore dei casi, avrà creduto nella palestra, nell’abbronzatura, negli abiti firmati, nelle discoteche dei vip, nei casting televisivi, nella forza bruta, e magari è già partito fregato, e molto presto, magari fin dalla nascita, nel quartiere o nella famiglia in cui si è trovato a vivere, e comunque c’è il caso che continui ad andargli male, anche così, anche con gli occhiali a goccia, quelli giusti.

Se c’è un punto da cui possiamo ri-partire, è quello di cui parla Lorella Zanardo quando si riferisce “alla scoperta del potere d’attrazione del corpo delle donne”. Io allargherei il discorso, non so quanto debitamente. Sarebbe importante che ognuno ri-scoprisse la quantità d’energie fisiche e intellettuali, creative, che si liberano quando smette di stare al proprio posto, sia dentro l’immagine e i suoi codici, sia dentro i discorsi e i suoi codici.

Smettere di stare al proprio posto, in Italia, significa rimettere in discussione tante vie di salvezza sociale, che si sono rivelate, nell’universo dell’immagine come in quello dei libri, vicoli ciechi, zone morte, limbi dove pochi privilegiati ci tengono in attesa di una vita che non verrà mai, che arriverà troppo tardi o troppo presto. Smettiamo di attendere davanti alla porta della Legge, nutrendo il suo guardiano con le nostre energie fisiche e mentali. Smettiamo di essere dei nessuno, che attendono di diventare il primo.

Non è questa una risposta al che fare. È un’immagine libresca. Un sogno vivido. Se la truppa di aspiranti veline e il karateka bresciano avessero mollato per un giorno i casting, e fossero venuti in manifestazione, ancheggiando e scalciando in aria, con i precari della scuola, sabato 5 settembre a Milano, la gente in moto e in macchina, invece di inveire contro noi manifestanti per il blocco del traffico, ci avrebbe forse seguiti, affascinata da quei corpi provocanti e da quei calci atletici.