martedì 2 agosto 2011

Crisi economica - update

Il Congresso Usa è riuscito in extremis a raggiungere un accordo stiracchiato che non ha impressionato i mercati azionari. Tutt'altro.

Le principali Borse mondiali hanno infatti registrato perdite - con in testa Piazza Affari che tra ieri e oggi è crollata di circa il 6,5% e lo spread Btp-Bund che ha toccato oggi i 385 punti base, un "record" dall'avvento dell'euro.

Si preannuncia inoltre un downgrading da parte delle agenzie di rating nei confronti del debito Usa, anche se non è così scontato.

Domani invece Berlusconi, dopo settimane di silenzio assoluto, andrà in Parlamento a dire non si sa bene che cosa e con una credibilità pari a zero.

Buone vacanze...


Stati Uniti, come ti globalizzo il debito
di Roberto Marchesi - www.rinascita.eu - 1 Agosto 2011

Non c’è niente di divertente per i cittadini nel sapere che il debito pubblico del proprio paese, gli Usa, sia giunto a dimensioni di dichiarazione di bancarotta (o “insolvenza” di cassa).

Il sinistro ticchettio di quell’orologio-contatore rivela come il debito sia già arrivato alla soglia “stellare” di 14.354 miliardi di dollari e che per di più continua a crescere imperterrito al ritmo di 3.810 milioni al giorno (più di due milioni e mezzo al minuto).

Con il risultato che il comune cittadino (neonati compresi), è già caricato del cospicuo e preoccupante debito di circa $46.150 a cranio.

Ma si tratta di una farsa spettacolare. Il “tetto” dei 14 trilioni e mezzo di debito stabilito per lo scattare dello shut-down è infatti soltanto un tetto simbolico. La soglia potrebbe giungere a 15 o 16 trilioni, ma il giudizio, in termini finanziari sulle potenzialità del paese, cambierebbe poco o nulla.

Senza quell’artificioso (e pericoloso) limite le agenzie di rating valuterebbero il debito e l’economia Usa per quello che è, non per quello che dice un numero messo là a caso.

E se non fosse per le “amicizie” e le “connivenze” che convivono nel sistema finanziario globale a favore degli Usa, il declassamento sarebbe già arrivato da un pezzo, perché il problema del debito pubblico non nasce certo il primo agosto 2011, ma quasi esattamente 10 anni fa, quando il nuovo presidente USA (Bush) decise di utilizzare il surplus del budget lasciato da Clinton per generosi sconti fiscali a tutti, ma in particolare alle classi più abbienti del paese (che non ne avevano certo bisogno).

Quindi tutta questa sceneggiata ha solo motivazioni politiche. Dato che però nel mondo non tutti sono disposti a “scherzare” su queste cose, potete scommettere che l’intesa su quanto alzare il tetto è scontata.

Ma la paura amplificata artificialmente dai media, sarà sufficiente a far digerire all’inconsapevole cittadino la “purga” micidiale di qualche trilione di dollari di tagli alle spese sociali (ricordo che 1 trilione vale mille miliardi). E Obama firmerà senza batter ciglio la nuova legge e il nuovo tetto.

Vediamo di riassumere brevemente dove sono stati spesi grossomodo questi 14 trilioni di debito. Circa 3 trilioni sono arrivati in eredità da Clinton.

Un debito normale per gli States, considerando anche il budget lasciato in surplus, cioè le entrate di cassa superavano le uscite (con quel trend il debito sarebbe stato azzerato nel giro di qualche anno).

2 o 3 trilioni si sono aggiunti per il costo degli sconti fiscali concessi da Bush (e adesso da Obama) in dieci anni. 5 o 6 trilioni (o più) sono il costo delle guerre in Iraq e Afganistan.

Da 2 a 4 sono le spese sostenute per la crisi finanziaria del 2008. Cioè soldi per sostenere la liquidità del sistema, ovvero le banche, e in minima parte il sostegno sociale alla disoccupazione e il naturale incremento dei costi legati alla sanità pubblica.

Pertanto la parte di debito per costi sociali è soltanto di due o tre trilioni, che verrebbero tranquillamente coperti recuperando gli sconti fiscali concessi da Bush ai benestanti. Gli altri sono denari che qualcuno si è messo in tasca arricchendosi smisuratamente a colpi di guerre e di spregiudicate speculazioni finanziarie, e che adesso lo sprovveduto cittadino è chiamato a rifondere per intero.

Con l’approvazione del Congresso su spartito orchestrato ad arte dai repubblicani con il beneplacito dei democratici e grazie alla firma conclusiva di Obama sull’ingegnoso misfatto.


Debito USA: there is no way
di Eugenio Benetazzo - www.cadoinpiedi.it - 2 Agosto 2011

Adesso il rischio è il downgrade del titolo di Stato. Nessuno si augura un nuovo conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per rilanciare l'economia. Obama ha dimostrato di essere una pedina sacrificabile agli interessi delle lobby.

Raggiunto negli Usa l'accordo per l'innalzamento del tetto del debito. Un'intesa che allontana, almeno per il momento, il rischio default degli Usa, ma che non sembra placare i mercati, sui quali anche oggi si registrano importanti perdite. Per analizzare la situazione, abbiamo rivolto alcune domande all'economista Eugenio Benetazzo.

"Quello che è accaduto nella giornata di ieri per alcuni aspetti non è nulla di sorprendente in quanto nella storia degli Stati Uniti si sono già ripetuti in altri occasioni episodi similari in cui il tetto del debito rapportato al deficit è stato innalzato.

La domanda che ci dobbiamo fare è perché ancora una volta si decide di intraprendere questa strada, quella cioè di consentire un aumento dell'indebitamento per la confederazione degli Stati.

La risposta è abbastanza ovvia, nel senso che non c'era altra via d'uscita, there was no way come dicono loro, nel senso che un mancato recepimento del nuovo tetto di indebitamento avrebbe prodotto una situazione di default degli Stati Uniti con conseguenze disastrose a livello planetario, al cui confronto la Lehman Brothers sarebbe stata un piccolo ricordo del passato.

Come molti di voi leggono e sanno il debito pubblico statunitense è detenuto in questo momento da vari interlocutori istituzionali che hanno un peso non irrilevante sullo scenario planetario, come la stessa Cina che è arrivata a contendersi il primato insieme al Giappone.

Pariteticamente a questo disegno si affianca anche la minaccia o il monito ricevuto dall'agenzia di rating Standard & Poor's alcuni mesi fa circa una possibile revisione dell'outlook economico per gli Stati Uniti e soprattutto di un'emissione di un downgrade del titolo di Stato e questo forse è l'aspetto più problematico che interessa direttamente il piccolo risparmiatore e investitore. Cosa significa la revisione del downgrade?

Che l'obbligazione di Stato americana passerà dalla tripla A ad una doppia A
, quindi perderà il primato di titolo più solido, uno tra i più solidi al mondo, sempre per chi crede in questo tipo di rendicontazione e garanzia legata alla capacità di rimettere un debito di un determinato soggetto.

Quello che sta emergendo a livello planetario è che quello che 3 anni fa doveva essere sano e tutto sommato credibile nel medio e lungo termine, si sta dimostrando marcio, e sostanzialmente quasi tutto il mondo occidentale sta subendo una profonda rivisitazione della propria credibilità finanziaria e poi della stessa solidità.

Paradossalmente invece in Oriente quelle che erano un tempo le aree considerate in via di sviluppo o paesi del terzo mondo hanno una qualità del credito e soprattutto un grado di indebitamento che è notevolmente inferiore rispetto alla media europea o a quella statunitense."

Cosa comporta questo accordo? Chi ne farà le spese?

"Comporta un ulteriore innalzamento della possibilità per la confederazione di aumentare il proprio livello di debito in questo momento accorpato da anni e anni di esercizio, le spese sono a carico della fiscalità diffusa, in quanto presuppongono un aumento degli oneri finanziari per l'aumento l'indebitamento dal punto di vista quantitativo e quindi si rifletteranno ahimè o con un aumento della tassazione o con una diminuzione della spesa pubblica. Purtroppo la strada che stanno percorrendo tantissimi paesi occidentali è sullo stesso binario, questo purtroppo è un problema di natura strutturale.

Ad oggi forse ci dovrebbe essere un governo un po' più coraggioso che, anche a costo di minare il consenso dell'elettorato, avanzi proposte che facciano capire che per l'Occidente è arrivata la medicina amara o la pillola rossa come qualcuno l'ha definita, nel senso che non è più possibile continuare a mantenere in piedi il meccanismo di tutela e protezionismo e garantismo sociale che vige negli Stati Uniti come in Europa e andare a ridimensionare, drasticamente la spesa pubblica.

Uno dei primi step operativi da mettere in piedi anche in Italia è la legge sul deficit di bilancio, non deve essere possibile per qualsiasi governo chiudere l'esercizio ogni anno fiscale con un deficit perché se noi continuiamo ad avere una macchina che drena costantemente risorse all'apparato statale è chiaro che nel medio e lungo termine non saremo mai in grado di assorbire il peso dell'indebitamento che si è andato a creare.

L'unica exit strategy che in questo momento viene paventata anche da interessanti, prestigiosi contenitori mediatici internazionali e dalla stampa di settore sembra sia il ricorso all'inflazione.

Oggi per chi governa in Occidente un'inflazione non dico galoppante ma comunque accentuata, quasi al 10% dal punto di vista reale potrebbe essere la soluzione per ridimensionare il peso del debito nei primi 3 o 4 anni, storicamente è quello che è accaduto soprattutto negli Stati Uniti.

Quindi l'idea che circola è quella di inflazionare il mercato, aumentando ulteriormente il tetto del debito e della spesa, sapendo che da qui a 3 anni con i tassi di interesse ridotti a zero e un'inflazione che potrebbe viaggiare al 7, 8, 9% riuscirebbero a ridimensionare significativamente il peso del debito e quindi la crisi del debito sovrano che in questo momento, come abbiamo potuto vedere ha colpito tutto il mondo occidentale, facendo presagire che la strada più plausibile anche viste le politiche monetarie delle banche centrali, sia improntata a questo tipo di percorso."

Dopo l'11 Settembre gli Usa hanno incrementato i propri investimenti in armi sino a 500 miliardi di dollari all'anno, un terzo della spesa mondiale. Perché continuano a comprare armi malgrado la crisi? C'è il rischio che vogliano risollevarsi aprendo un nuovo fronte di guerra?

"L'economia statunitense ha come principale traino gli appalti alla difesa del dipartimento di Stato, quindi non è una novità il fatto che il paese per correre, per continuare a essere la locomotiva del pianeta ha bisogno di poter finanziare un conflitto in qualche parte del globo terrestre.

Adesso cominciano a emergere problematiche che sono strutturalmente ben diverse da quelle a cui erano abituati gli statunitensi, a cominciare dall'affiancamento di un player planetario, di cui avevano forse conteggiato male il potenziale, non tanto la Cina, ma proprio la "Cindonesia", questa macroarea geografica fatta da Cina e India e tutto il complesso indonesiano. Nessuno si augura l'aspettativa di un conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per non dico risanare, ma trainare, rilanciare l'economia interna.

Non dimentichiamo quello che sta accadendo al Presidente sinora più osannato in assoluto, Obama, adesso probabilmente uno dei peggiori per sentiment popolare, peggiore addirittura di George Bush prima degli attentati dell'11 settembre.

L'aspettativa che in questo momento sta emergendo nei confronti di Obama è che qualora si dovesse ripresentare, difficilmente sarà in grado di essere rieletto perché ha disatteso profondamente sia il programma politico che aveva presentato e soprattutto dimostrato che anche lui ahimè è una pedina sacrificabile che ha dovuto mettersi al servizio delle potenti lobby bancarie statunitensi e delle lobby militari che si occupano degli approvvigionamenti alla difesa."

Il default è stato davvero scongiurato o solo rinviato?

"Il default non se lo augura nessuno, perché un default degli Stati Uniti significherebbe azzerare, non ho idea di quanti trilioni di dollari di ricchezza sul pianeta. Certo, sarebbe un'operazione colpo di spugna che consentirebbe forse di ripartire con un'economia americana un po' più sgravata da incombenze e peso debitorio. E' plausibile aspettarsi anche per loro nei prossimi anni una ristrutturazione del debito a fronte in ogni caso di un downgrade, quindi una perdita di appeal, una perdita di solidità e credibilità finanziaria che oltretutto è già stata recentemente accennata.

Quindi gli Stati Uniti hanno, per fortuna o per loro sorte, la capacità di poter intervenire per drenare le risorse finanziarie attraverso la fiscalità diffusa, molto più facilmente di come potrebbe avvenire nei paesi europei, Italia compresa.

Un fallimento rappresenterebbe uno shock finanziario senza precedenti, perché metteremmo in discussione la prima economia del pianeta che a quel punto farebbe da esempio anche a altre, si potrebbe instaurare un meccanismo a catena con effetto domino di successive crisi a cascata.

Non è nell'interesse di nessuno far fallire un paese
, a meno che com'è capitato in passato, il paese nello specifico non riesca a dimostrare una propria capacità di reazione e non abbia soprattutto il peso, l'onere del debito pubblico che ha detenuto per la stragrande maggioranza da investitori istituzionali ed esteri, e così facendo crea il malcontento al di fuori dei confini nazionali e non quelli interni.

Però prima di arrivare a una situazione di in questa portata ne dobbiamo vedere ancora di peggioramenti e di scenari, ricordiamo sempre comunque che gli Stati Uniti detengono la prima riserva aurea al mondo, oltre 12 mila tonnellate di oro che danno ancora una notevole credibilità alla confederazioni di stati, anche a fronte dello scenario che sta caratterizzando il prezzo del metallo giallo, costantemente in salita negli ultimi 5 anni."



Il collasso della classe media americana
di Spengler - Asia Times - 1 Agosto 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Le persone sembrano agire irrazionalmente quando non hanno più nulla da perdere. In guerra spesso si vede che la parte sconfitta ha un tributo di sangue e di risorse ancor maggiore quando la sua posizione diventa senza speranza.

Gli Americani del Sud, nella Guerra Civile, hanno subito la maggior parte delle perdite dopo il luglio 1863, quando la duplice sconfitta di Gettysburg e di Vicksburg rendeva le loro posizioni indifendibili. Atene ha sofferto il maggior numero di vittime per la scommessa siciliana alla fine della Guerra del Peloponneso.

Gli Spagnoli hanno rovinato il proprio impero e spopolato le province più importanti nella seconda metà della Guerra dei Trent’Anni del 1618-1648 piuttosto che cedere il dominio alla Francia.

La Germania ha avuto la gran parte dei morti dopo Stalingrado. Il Giappone si era preparato a sostenere un numero enorme di vittime dopo Okinawa, e la sua resistenza è terminata con un attacco nucleare.

Alcuni degli aspetti nel comportamento apparentemente suicida nelle grandi guerre potrebbe essere presente nell’odierno stallo per il tetto del bilancio a Washington, dove la destra Repubblicana e la sinistra Democratica potrebbe riuscire a disfare un compromesso.

Non credo che questo accada, ancora. Ma gli estremi della polarizzazione nel corpo politico americano sono differenti da qualsiasi cosa a cui ho assistito nel corso della mia vita.

Se il Tea Party avesse voluto più di ogni altra cosa governare, avrebbe dichiarato che un governo così frazionato non può realizzare il programma per cui i suoi membri sono stati nominati al Congresso, e che le elezioni presidenziali del 2012 dovrebbero essere un referendum nazionale sul futuro dell’America.

Si sarebbe accordato per un compromesso temporaneo sul tetto del debito. Il guaio è che sia il
Tea Party che il Presidente Barack Obama hanno ragioni di sopravvivenza per forzare una crisi. Obama, come ho scritto due settimane fa, affronta una probabile sconfitta con un’economia in bonaccia e potrebbe beneficiare da una crisi nella quale ritagliarsi il ruolo di salvatore (vedi Obama could stir a Tea Party crisis, 19 luglio).

Gli aderenti al Tea Party potrebbe capire che non esiste compromesso che possa andare a loro vantaggio, e quindi decidere di mandare all’aria il sistema per vendetta.
C’è anche una ragione di fondo per questo confronto: la cura per l’economia americana non è necessariamente una cura per la maggioranza della classe media.

L’unico recupero fino a questo momento (e anche l’unico recupero possibile con queste circostanze) è avvenuto nei profitti aziendali e nelle quotazioni azionarie. Ma questo va a vantaggio solo della piccola minoranza di famiglie ricche americane che hanno titoli finanziari. La gran parte degli americani detiene la maggioranza della propria ricchezza in beni reali (principalmente nelle loro case).

Non hanno alcun tipo di ripresa e nessuna prospettiva. E il cammino più rapido per il recupero è quelli di offrire anche a loro qualche beneficio.
La bolla del mercato immobiliare si è nutrita di un fiume di investimenti stranieri in titoli garantiti dalle ipoteche e in altri asset degli Stati Uniti; gli americani hanno risparmiato ben poco, perché gli stranieri hanno mandato i loro risparmi fuori dall’America.

Dopo la crisi i risparmi sono saliti bruscamente e il deficit delle partiti correnti si è ridotto della metà. E questo è quello che si pensava accadesse: da un punto di vista macroeconomico, questa è stata la ragione per cui la crisi era così necessaria.


I risparmi ristagnavano mentre il deficit delle partite correnti si allargava:
dopo la crisi, l’esatto opposto

Fonte: Bureau of Economic Affairs

I risparmi del resto del mondo sono stati investiti nel mercato immobiliare americano già ipertrofico, con poche prospettive di recupero. Il dentifricio non si può far rientrare nel tubetto.
L’America ha bisogno di compensare i suoi anni di mancati risparmi, e il modo normale per farlo è esportando di più altri paesi e mettere da parte i ricavi (oppure importare di meno).

La riduzione del
deficit delle partite correnti è un risultato corretto, in modo particolare se è provocato da un salto nelle esportazioni.


Le esportazioni statunitensi di beni e servizi
Fonte: Bureau of Economic Affairs

Solo una piccola parte della forza lavoro americana, comunque, contribuisce all’incremento delle esportazioni. La produzione negli US è così basata sul capitale che un notevole incremento nel prodotto ha un impatto trascurabile sull’occupazione.

L’America sta esportando e risparmiando. Un incremento dei risparmi equivale a un incremento della domanda di beni. Ma il bene scelto alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli ‘00, gli immobili, continuano a soffrire un declino delle richieste.


I prezzi delle abitazioni (30 maggiori mercati metropolitani)
Fonte: S&P Case-Schiller Index

L’immobiliare deve affrontare un vento contrario che potrebbe durare in modo indefinito, come ho mostrato nello studio del maggio 2009 per First Things intitolato "Demografia e Depressione." Come scrissi:

La popolazione degli Stati Uniti è salita da 200 a 300 milioni dal 1970, mentre il totale delle famiglie di due genitori con figli è oggi lo stesso di quando fu nominato Richard Nixon, circa 25 milioni.

Nel 1973 gli Stati Uniti avevano 36 milioni di unità abitative con tre o più stanze, non molte di più delle famiglie di due genitori con prole, il che significa che l’offerta di case era più o meno in linea con il numero delle famiglie.

Nel 2005 il numero delle unità abitative con tre o più stanze è raddoppiato giungendo a 72 milioni, anche se gli Stati Uniti avevano lo stesso numero di famiglie con due genitori e figli.

E la cosa andrà a peggiorare, non a migliorare: l’economista di Virginia Tech, Arthur C. Nelson, prevede che negli Stati Uniti le famiglie con figli nel 2025 saranno solo un quarto del totale, in confronto al 50% del 2010, proprio quando i Baby Boomers andranno in pensione, e che la domanda per la case singole di ampia metratura cadrà del 40%.

Tutto questo lascia la gran parte delle famiglie americane nei guai: secondo il più recente sondaggio della Federal Reserve sulla ricchezza personale, gli immobili delle famiglie americane valgono circa un terzo in meno del 2006, ossia 16,1 trilioni contro 22,7 trilioni.

Il problema è che la maggior parte degli statunitensi, che nel 2007 si avvicinavano all’età della pensione, ha la maggior parte della propria ricchezza netta in beni non finanziari.

A parte l’immobiliare, la seconda più grande componente della ricchezza della classe media era formata da azioni delle piccole imprese. Le piccole imprese non hanno avuto alcuna parte nel recupero.

Un metro approssimativo degli introiti delle piccole imprese è fornito dalle entrate degli imprenditori non agricoli, riportato nelle tabelle del PIL.

Come indica la tabella sottostante, i profitti delle grandi aziende hanno raggiunto il massimo, ma le entrate degli imprenditori sono rimaste al di sotto livello di picco precedente alla recessione.

Giudicando dai sondaggi pubblicati dalla National Federation of Independent Business e da altre organizzazioni, le piccole imprese rimangono in piena crisi.

E la cosa non sorprende per le ragioni elencate in un recente studio degli economisti della New York Federal Reserve. La gran parte della crescita delle piccole imprese nel corso dello scorso decennio era dovuta alla bolla immobiliare.



I profitti delle grandi aziende salgono
mentre i redditi dei piccoli imprenditori ristagnano

Fonte: Bureau of Economic Affairs

Quando i profitti aziendali salgono, lo stesso avviene per le azioni. Il problema è che il 10% delle famiglie più ricche americane per patrimonio netto possiede circa l’80% di tutte le azioni possedute dalle famiglie.

Questo dato non prende in considerazione i fondi pensione aziendali, il veicolo tramite il quale i meno abbienti riescono a partecipare al mercato azionario.

Ciononostante, la vasta maggioranza delle famiglie statunitensi ha concentrato la propria ricchezza nell’immobiliare nel decennio che ha preceduto la crisi, e apparentemente per buone ragioni.

Con i prezzi delle case che salivano del 10% l’anno e le banche che chiedevano un anticipo del 10% o anche meno per la gran parte dei mutui, il tasso di resa on equity per un proprietario di case a questi termini era spesso del 100% all’anno. Nessun altro genere di asset poteva offrire un così alto ritorno a disposizione per le grandi masse.

Il cammino degli Stati Uniti verso il recupero si poggia sulle esportazioni. Non c’è altro sistema. Il tasso di crescita delle nazioni emergenti con popolazioni giovani che lottano per entrare nel mondo moderno supera di molto quello delle economie mature, compresi gli Stati Uniti. Gli americani devono risparmiare, e le esportazioni generano ricavi da risparmiare.

Ma il tipo di esportazioni in cui l’America eccelle, tra cui i prodotti agricoli, impiega una frazione irrisoria della forza lavoro. E i benefici finanziari di questo cambio di approccio – nella forma quotazioni più alte per le azioni – toccherà principalmente il 10% delle famiglie più ricche.

Il Tea Party riflette le frustrazioni della classe media, specialmente la classe media di mezz’età in posti dove non riesci a vendere la casa, a tirare avanti un’impresa e pagarsi la pensione.

Crede che i taglio del deficit sia il problema e un bilancio più equilibrato sia la soluzione. Hanno una parte di ragione. Il deficit federale è il mostro che ha divorato il mercato del credito. La crescita del debito pubblico corrisponde esattamente al declino delle somme prese a prestito.



Il collasso dei mutui contemporaneo all’ascesa
delle somme prese a prestito dal governo

Fonte: SIFMA

Eliminando il debito pubblico (che al momento vorrebbe dire ridurre le spese governative di circa il 10% del PIL) non porterebbe, comunque, a un recupero della quantità di mutui, ma a un schianto economico sul livello del 1933. l’idea che un bilancio equilibrato risolva i problemi dell’America ha il fetore di un culto millenario. L’America sta spendendo davvero troppo, e ha bisogno di rimettere in sesto le sue finanze.

Ma questo richiede la crescita economica e alzare le entrate fiscali, e un taglio massiccio alla spesa non porterebbe quasi a niente. Per questo, gli Stati Uniti hanno bisogno di deregulation e di tagli alle tasse, e questo porterebbe a vivere con il deficit un po’ più a lungo.

È stato Ronald Reagan che scioccò la saggezza convenzionale nei primi anni ’80 quando disse al paese di non preoccuparsi del deficit e i suoi tagli alle tasse fecero ripartire l’economia.

Il Tea Party ha la possibilità di diventare un catalizzatore per un cambio economico fondamentale. Ma potrebbe anche diventare la Ghost Dance della bolla immobiliare americana, un movimento millenario ispirato dalle situazioni più angoscianti, come la patetica resistenza degli Indiani delle pianure già sconfitti dopo il 1890, o i culti dei cargo in Nuova Guinea negli anni ’40.

La cura economica di cui gli Stati Uniti hanno bisogno beneficerà lentamente la bersagliata classe media, e troppo tardi per impedire la miseria di molti.

Se i fondamentali dell’economia lasceranno la classe media al freddo, allora il nocciolo dell’elettorato della sinistra più radicale sarà ben congelato. Lo stato sociale sta collassando perché non ci sono soldi per sostenerlo.

I governi locali e statali hanno eliminati 400.000 posti di lavoro dall’agosto del 2008, e stanno tagliando le spese al tasso annuale del 2,4%. Tutto questo devasta i sindacati del settore pubblico, il cuore degli attivisti nell’elettorato del Partito Democratico.

Inoltre, gli statunitensi più poveri e meno istruiti non hanno visto traccia del recupero. Gli studenti che hanno abbandonato le superiore hanno un tasso di disoccupazione del 13%, mentre quelli con una laurea hanno un tasso pari al 4,5%.

La discrepanza è molto più acuta, perché la partecipazione alla forza lavoro di quelli che hanno lasciato le superiori è solo del 46% contro il 77% dei lavoratori che hanno completato gli studi superiore.

Né i Repubblicani della classe media che seguono il Tea Party, né il cuore dell’elettorato Democratico che ha eletto Barack Obama possono fare molto per gli esiti del dibattito sul bilancio. Questo spiega il perché il tetto del debito è diventato come una parete di roccia da scalare, per lo sgomento dei mercati finanziari.

Non credo che l’America questa volta sorpassi il limite. Gli aderenti al Tea Party accetteranno alla fine l’idea di dover tenere delle polveri asciutte per le elezioni presidenziali del 2012.

Ma la polarizzazione della politica americana peggiorerà, e non farà altrimenti, e la crisi della governance verrà ritardata ma non disinnescata se il congresso e il presidente raggiungeranno questa settimana l’accordo sul bilancio.



Lasciamo stare il compromesso
di Ellen Brown - Asia Times - 1 Agosto 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

La crisi del tetto del debito degli Stati Uniti potrebbe essere evitato facendo rispettare il Quattordicesimo Emendamento, che obbliga il governo a pagare i suoi debiti già contratti, incluse le pensioni.

Ciò concerne la social security, che è un "diritto", nel senso originario della parola. Ne abbiamo diritto perché ce la siamo pagata con le tasse.

Il gioco della roulette russa a cui è sottoposto il debito pubblico statunitense è stato definito un "grottesco carnevale" e un ricatto politico. Queste proteste sono motivate da uno statuto che è presente solo negli Stati Uniti e che non ha mai avuto alcun senso.

Approvato per la prima volta nel 1917 e rivisto da allora varie volte, impone un limite quantitativo al debito federale. La cosa senza senso è che lo stesso congresso che ha votato sullo statuto ora vota sul bilancio che periodicamente eccede il limite, richiedendo così la revisione dello statuto.

Il tetto del debito è stato innalzato 74 volte dal 1962, 10 dal 2001. Il più recente aumento, portato dalla H. J. Res. 45 a 14,294 triliardi di dollari, è stato convertito in legge il 2 febbraio del 2010.

Le tasse non vengono raccolte prima che il budget annuale sia passato, e così il congresso non può sapere in anticipo se o quanto prestito supplementare sia necessario.

Inevitabilmente, ci saranno alcuni anni in cui il bilancio spinge il debito oltre il limite, richiedendo così una nuova regolamentazione.

E inevitabilmente, ora che questa tattica è stata scoperta, ci sarà sempre una battaglia rovinosa per l’incremento, perdite di tempo nel congresso, la destabilizzazione dei mercati e una turbativa per la fiducia dei sistemi finanziari e politici statunitensi. Ci saranno continui ricatti, bracci di ferro e concessioni. La situazione è insostenibile e pretende una soluzione definitiva.

Fortunatamente, esiste. Un gruppo di studiosi di legge stanno facendo raccomandazioni per eliminare la questione tutti insieme giocando una briscola costituzionale. Il Quattordicesimo Emendamento riporta nella Sezione 4:

La validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato per legge, che comprende i debiti contratti per i pagamenti delle pensioni e le ricompense per i servizi svolti per la repressione delle insurrezioni o delle rivolte, non può essere messa in discussione.

Quando lo statuto e la costituzione si scontrano, la costituzione prevale. Che il governo debba pagare quanto dovuto e già contratto, non è materia di negoziazione. È un mandato costituzionale.

E queste sono proprio le somme si cui stiamo parlando, come il Presidente Barack Obama ha evidenziato nei suoi interventi sull’argomento lo scorso venerdì. Ha detto:

Alzare il tetto del debito offre semplicemente al paese la possibilità di pagare i conti che il congresso ha già approvato. Lo voglio sottolineare. Il tetto del debito non determina quanti soldi in più possiamo spendere, ci autorizza semplicemente a pagare le somme già dovute. Offre agli Stati Uniti d’America la capacità di mantenere la propria parola.

Ignorare il limite posto dal tetto del debito da un punto di vista costituzionale non farebbe, come ha dichiarato Michelle Bachmann, del Presidente Obama un "dittatore". Significherebbe semplicemente che sta seguendo il suo mandato costituzionale per pagare i conti del governo in tempo e per intero.

Le pensioni non sono una forma di welfare

Il presidente potrebbe avere le idee chiare sull’argomento, ma non ne sta ben approfittando. Invece, sembra essere pronto a buttare le vecchiette sotto al tram tagliando le pensioni, Medicare e Medicaid, tutto in nome del "compromesso".

Il Quattordicesimo Emendamento dice che i debiti già contratti non possono essere messi in discussione, "compresi i debiti per i pagamenti delle pensioni". Che includono la social security, che è un "diritto" nel vero senso della parola: ne abbiamo diritto, perché ce le siamo pagato.

Infatti, il Social Security Act fu originariamente fatto accettare al congresso e alla nazione nel 1935 non come un sussidio del governo, ma come un programma di risparmi per la pensione.

Già quest’anno l’Urban Institute ha pubblicato una studio per valutare il programma in questo modo, e ha concluso che il lavoratore medio che va in pensione oggi riceverà dalla social security proprio l’esatto ammontare che ha messo da parte negli anni, con un modesto 2% di tasso d’inflazione reale (dopo l’inflazione).

Un accordo è un accordo. Lo abbiamo pagato, è nostro e il governo degli Stati Uniti farà il suo. Per cambiare i termini dell’accordo ex post è sia una rottura del contratto che una violazione della costituzione.

Dove prendere i soldi

Una nazione sovrana può sempre trovare il denaro per pagare i debiti con una propria valuta. Gli Stati Uniti potrebbero, se volessero, pagare i conti usando le banconote libere dal debito o greenbacks, come fece il Presidente Abraham Lincoln per evitare un debito paralizzante durante la Guerra Civile.

Alternativamente, potrebbe eliminare il deficit con il piano del Parlamentare Ron Paul, che raggiunge gli stessi risultati. Come ha spiegato Stephen Gandel per esporre la soluzione di Paul sul Time Magazine:

Nell’ultimo anno o due la Fed ha sempre comprato i bond del Tesoro per cercare di abbassare i tassi di interesse e di stimolare l’economia. L’ultimo giro di acquisti è stato nominato QE2, e al suo avvio era già attorniato da una fitta rete di critiche, anche se la gran parte degli economisti erano d’accordo sul fatto che generalmente si tratta di una misura utile. Il risultato è che la Fed adesso detiene circa 1,7 triliardi di dollari di debito.
Ma si tratta di un debito fasullo. Il Tesoro paga gli interessi sul debito per conto del governo degli Stati Uniti alla Fed, che in cambio restituisce il 90 per cento dei pagamenti che ottiene ancora al Tesoro. Comunque, quel triliardo e sette di obbligazioni che la Fed possiede, malgrado il gioco delle tre carte dei pagamenti, è ancora conteggiato nella somma del tetto del debito, che fa arrivare il totale del debito federale a 14,3 trilioni.
Il piano di Paul: facciamo sì che la Fed e il Tesoro straccino il debito. È comunque un debito fasullo. E alla Fed sarà permesso legalmente di restituire il debito al Tesoro per essere distrutto. Un triliardo e mezzo di dollari è pari alla stima della spesa che supererà le entrate fiscali per il 2011.

Il più grosso svantaggio del piano, come dice Gandel, è solo che "non sembra una buona cosa". Dà l’impressione che il governo stia ripagando i propri debiti stampando moneta.

Ma questa è l’emissione di moneta da parte di un governo: una banconota che attesta un debito dovuto e posseduto dal pubblico, che corrisponde a un valore equivalente che viene scambiato sui mercati.

Una banconota degli Stati Uniti o greenback e una banconota della Federal Reserve o una fattura in dollari sono sempre promesse di pagamento.

Il governo può emettere allo stesso modo una fattura in dollari, come una banconota in dollari e un’obbligazione in dollari, come Thomas Edison aveva già indicato negli anni ’20.

L’obiezione a questa soluzione è che provocherebbe inflazione, ma come l’economista Richard Koo dimostra graficamente, gli alleggerimenti quantitativi della Fed non hanno avuto fino a questo momento pratica alcun effetto inflazionistico per l’emissione di moneta:


Le politiche male indirizzate della Fed hanno invece causato un triliardo e sei di "riserve in eccesso" che sono nei bilanci delle banche, come già spiegato in un precedente articolo.

In modo opportuno, l’eccesso delle riserve può essere usato come collaterale per i contratti di future e derivati, e questo è proprio quello che alcune banche sembrano fare con questo denaro: garantire gli scambi sul mercato finanziario.

Questa sorta di speculazione, ossia soldi che fanno soldi senza che ci siamo un incremento di produttività, può e farà innalzare i prezzi.

Se le somme fossero state destinate direttamente al governo per spenderle sul budget nazionale, sarebbero potute arrivare nell’economia reale per ottenere qualcosa di buono. Il budget del governo verrebbe impiegato non per la speculazione, su per merci e servizi.

Un aumento di domanda pilotato dal governo provoca un incremento dell’offerta, facendo convergere domanda e offerte, evitando così l’inflazione dei prezzi mentre viene stimolata l’attività economica.

È l’ora di fermare l’inganno

La crisi del debito è stata creata, non da una rete di sicurezza sociale comprata e pagata dai contribuenti, ma da un sistema bancario conquistato dai giocatori d’azzardo a Wall Street.

Hanno perso le loro scommesse e sono stati salvate a spese dei contribuenti; e se qualcuno dovesse essere ritenuto responsabile, lo si dovrà trovare tra loro.

La crisi del tetto del debito è stata prodotta, architettata per estorcere concessioni che vincoleranno la classe media nello schiavismo del debito per i prossimi decenni.

Il Congresso è autorizzato dalla costituzione a emettere la moneta che serve per pagare i suoi debiti. Abraham Lincoln lo fece; Barack Obama lo potrebbe fare. Probabilmente non lo farà, ma deve rispettare il suo mandato costituzionale per pagare i conti del governo come e quando dovuto.

Lo statuto che impone un tetto al debito nazionale è aggirato dal Quattordicesimo Emendamento, rendendolo ridondante e non necessario. Lo statuto dovrebbe essere abolito.



Le colpe cerchiamole in casa
di Alberto Bisin - La Stampa - 2 Agosto 2011

Un’altra giornata di passione in Borsa. Nei mercati italiani in particolare: record di perdite alla Borsa di Milano e nuovo record sullo spread tra i titoli del Tesoro italiano e quello tedesco. Lungi da me provare a interpretare il crollo di ieri o a prevedere se oggi la Borsa rimbalzerà.

Ad ogni prima lezione di economia finanziaria gli economisti insegnano che l’andamento di Borsa giorno per giorno è essenzialmente imprevedibile. Quanto sta succedendo sui mercati finanziari in Europa e negli Stati Uniti da alcuni mesi è però perfettamente comprensibile.

Come ho argomentato su queste colonne la scorsa settimana, la questione del default Usa era ed è irrilevante. Esso sarebbe stato un default tecnico, una questione fondamentalmente legislativa e contabile.

La prova di questo è che i tassi sui titoli americani sono rimasti bassi e invariati durante l’intera fase di negoziazione: gli investitori non hanno cioè mai cessato di prestare allegramente al Tesoro americano.

Quegli osservatori che in questi giorni, senza badare a questi fatti, hanno correlato il possibile default Usa con la volatilità delle Borse europee, stavano evidentemente cercando di convincere se stessi oltre che i lettori.

La controprova è che le Borse sono crollate anche ieri dopo l’annuncio dell’accordo al Congresso.

L’andamento delle Borse in Europa e negli Stati Uniti ha una motivazione chiara: la ripresa economica è ovunque anemica o inesistente e i mercati scontano una crescita futura inferiore alle previsioni.

Negli Stati Uniti in particolare i dati sull’occupazione fanno temere il peggio. Il rischio di una sorta di decennio di bassa crescita stile Giappone anni ‘90 è sempre più elevato e i mercati naturalmente ne risentono.

La spesa e l’indebitamento pubblico americano influiscono sui mercati mondiali solo nel medio-lungo periodo, se è vero che essi sono una delle cause della scarsa crescita.

Anche la situazione italiana è chiara: basta non avere paura di guardare in faccia i fatti, anche quando non ci piacciono. Il Paese non cresce da almeno 15 anni. Le cause strutturali della mancata crescita sono ovvie ai più: il mercato del lavoro è ingessato e conflittuale, i servizi pubblici sono inefficienti (basti pensare alla giustizia civile), il carico fiscale è soffocante e reso iniquo dall’evasione, le rendite e la corruzione sono rampanti, il sistema produttivo è mal posizionato nella competizione internazionale.

Nulla di nuovo; ma in generale una congiuntura mondiale sfavorevole ha effetti più gravi sui Paesi più deboli e quindi i mercati caricano sull’Italia maggiormente che su altri Paesi gli effetti del ridimensionamento della crescita globale (che l’Italia abbia retto meglio di altri in Europa la recessione e la crisi è refrain comune ma, dati alla mano, semplicemente falso).

Infine, l’Italia ha un debito pubblico ipertrofico che la espone ad ogni tempesta finanziaria e che nessun governo ha mai tentato seriamente di affrontare (che l’Italia abbia mantenuto i conti in ordine in questi ultimi anni è un altro refrain comune ma, dati alla mano, semplicemente falso).

Se è vero che la ricchezza privata italiana è elevata, è anche vero che il carico fiscale è tale da non lasciare alcun reale margine di manovra fiscale che non comporti ingenti (e dolorosi) tagli alla spesa.

La manovra di luglio ha chiaramente dimostrato che il Paese ed il suo sistema politico non sono in grado di produrre quell’inversione nella politica fiscale che sarebbe necessaria: invece di affrontare il problema, o anche solo di riconoscerlo, il governo ha deciso di rimandare a dopo le elezioni, prevedendo di perderle, ogni reale aggiustamento.

La questione degli speculatori che affossano il nostro debito e le nostre banche (che tanta parte di quel debito hanno in portafoglio), mi spiace dirlo, non è che una favola per anime semplici: chi si appresti a prestare denaro al Tesoro italiano richiede tassi elevati perché la crisi della Grecia, l’incapacità dell’Unione Europea a gestirla, e soprattutto la manovra fiscale di luglio hanno reso più probabile che i conti italiani non siano riordinati a medio termine.

Non fossimo nell’euro avremmo già svalutato (cioè ripagato i debitori con valuta deprezzata, che equivale ad un parziale default).

Senza riordinare i conti, una qualche forma di default parziale è inevitabile e chi presta soldi all’Italia lo fa solo ad un tasso che sconti una probabilità di tale default.

La retorica anche poco originale del capro espiatorio, siano gli Stati Uniti che fanno default o gli speculatori che fanno soldi, non ci aiuterà. È il momento dei fatti.


L'esperto: vi spiego perchè Piazza Affari continua a perdere
di Paolo Annoni - Il Sussidiario.net - 2 Agosto 2011

Nonostante l’accordo raggiunto tra Repubblicani e Democratici sull’innalzamento del tetto dell’indebitamento del governo americano, ieri le borse di mezza europa, con le ormai usuali differenze, hanno vissuto l’ennesima giornata di sofferenza.

Motivare l’ennesima debacle delle borse con l’incertezza relativa all’approvazione del piano del governo americano attesa per la notte (ieri per chi legge) non è sufficiente.

La particolarità delle circostanze economiche attuali è abbastanza evidente dato che, fino a prova contraria, il debito americano di cui si discute il fallimento in questi giorni è lo stesso a vantare ancora una tripla A delle agenzie di rating.

Il fatto che fosse opinione comune tra i gestori americani che il voto sarebbe arrivato proprio tra lunedì e martedì aiuta a comprendere quali siano i reali problemi che stanno spingendo le borse al ribasso; la scommessa sul fallimento degli Stati Uniti e sul mancato accordo non era molto di moda settimana scorsa.

Nonostante questo, gli stessi che scommettevano su un esito positivo delle trattative potevano rimanere pessimisti sulle prospettive economiche. I fatti stanno dando ragione a questa tesi.

Ieri non è stato un problema di accordo raggiunto o meno, dato che la scommessa degli investitori era chiara, né un problema di “tipo di accordo” gradito o meno dalla borsa. L’ism manifatturiero degli Stati Uniti, comunicato ieri, è sceso a 50,9 a giugno da 55,3 di luglio contro le attese di 54; il punto centrale è che in una situazione oggettivamente difficile per debiti sovrani fuori controllo, la principale economia del pianeta mostra inquietanti segnali di rallentamento in una fase in cui evidentemente non è più possibile attendersi politiche di stimolo all’economia reale.

Questa fase di rallentamento arriva in un momento in cui i dati sul mercato del lavoro rimangono ancora preoccupanti con le richieste di sussidio ancora nettamente superiori alla norma (per non parlare del settore costruzioni, residenziale, ecc.) mentre il deleveraging, la diminuzione dei debiti, personale e statale, deve ancora arrivare con tutte le conseguenze del caso.

Quando tutti si concentrano sui debiti il mercato si dimostra stranamente razionale mettendo in primo piano la crescita dell’economia e ponendo l’accento sulla capacità di ripagare il debito. Se non c’è crescita questo obiettivo può essere raggiunto solo con maggiori sacrifici, più tasse o tagli alla spesa, e con un generale impoverimento.

Pretendere che il mercato decida ora se questi sacrifici daranno o meno i frutti nel medio-lungo periodo è decisamente troppo in questa fase turbolenta; l’unica possibilità è rimanere sulle poche certezze attuali e sul fatto che non preludano a miglioramenti nel breve periodo

Fare previsioni sulla conclusione definitiva di questa fase è decisamente difficile; al momento rimane evidente che il mercato distingue tra economie deboli e forti e stati più o meno indebitati. Rimane anche chiaro che data la fase di incertezza colpire anche al di là delle reali colpe è più facile e redditizio del solito.

Se queste sono le premesse, la volatilità sul debito italiano non sembra destinata a ridursi nel breve e anzi gli stessi che prevedevano l’accordo e dubitavano delle prospettive economiche dell’America si spingono a scommettere su un ulteriore allargamento dello spread Btp-Bund ben al di sopra dei massimi finora raggiunti; il mercato del debito italiano è sufficientemente grande per permettere guadagni per tutti.

Il clima di estrema incertezza politica attuale in Italia con un Governo traballante e un ministro dell’Economia in difficoltà per la vicenda Milanese non fa che aumentare gli appetiti su quella che dopo tutto rimane la terza economia dell’area euro.

Davvero, come già sottolineato da Il Sussidiario ieri, le analaogie con il ’92 per quanto riguarda l’Italia si sprecano. A quelli che oggi si stracciano le vesti per P3, P4 e P5, macchine del fango, bande bassotti e “anomalia Berlusconi” bisognerebbe ricordare che il ‘92 ci ha “regalato” anni di zero crescita, privatizzazioni sballate e regalate ai soliti noti e infine “l’anomalia Berlusconi”.

L’Italia oggi è potenzialmente uno dei più grandi e facili affari del mercato. Pensare di poter prendere scelte libere senza un governo e sotto la pressione dei mercati che fanno schizzare il costo del debito italiano e bastonano un giorno sì e l’altro pure la borsa e le banche italiane è un’illusione imperdonabile.

La lettura dei giornali autorizza ogni pessimismo; tutte le condizioni giuste perché la razzia accada stanno velocemente maturando con le solite “buone intenzioni” teleguidate. L’unica, assai flebile, speranza è che in America trovino il modo di lavorare di più e ritornare a crescere il prima possibile, accorciando il purgatorio dell’Italia.


E ora l'Italia finisce anche nel mirino della Germania

di Mauro Bottarelli - Il Sussidiario.net - 2 Agosto 2011

Ma tu guarda, il Congresso Usa ha trovato l’accordo sul tetto di debito! E, meglio ancora, Barack Obama ha annunciato l’avvenuto compromesso in tv proprio dieci minuti prima dell’apertura delle Borse asiatiche, che combinazione!

Eppure le Borse europee crollano (per Milano l’ennesimo bagno di sangue) e gli spread tra titoli di Stato italiani e tedeschi volano alle stelle, oltre i 350 punti base, ovvero oltre il 3,5% di differenziale!

Ma cosa succede, il mondo è impazzito? No, cari lettori. Da almeno una settimana ilsussidiario.net dice chiaro e tondo che l’ipotesi di default non era nemmeno da mettere sul tavolo e che se c’è qualcuno che rischia davvero, questi non sono gli Usa e il loro debito, ma l’Europa.

La pensa così anche Ambrose Evans-Pritchard, che ieri titolava la sua rubrica del lunedì sul Daily Telegraph, “L’America è meramente ferita, l’Europa rischia di morire”. Una bella soddisfazione, non c’è che dire, per noi. Ecco perché appare inutile descrivere nel dettaglio quanto deciso a Washington, per il semplice fatto che i numeri interessanti sono altri e non le promesse di tagli e aumenti del limite di indebitamento.

Primo, la massa monetaria. Stando a dati della Fed di St. Louis, quella M2 (ovvero circolante, conti correnti liberi bancari e postali, assegni circolari, vaglia cambiari e depositi in conto corrente presso il Tesoro più certificati di deposito bancari, depositi bancari a risparmio e in conto corrente vincolati, libretti postali) negli Usa è salita a un tasso annuale del 6,4% nel secondo trimestre, con un accelerazione al 12,2% nel mese di giugno.

Nelle recenti settimane, la percentuale di aumento su base annualizzata supera il 40%. La massa monetaria M3 (comprendente M2 più i grossi depositi di risparmio), sempre negli Usa, sta poi crescendo a un tasso ottimale del 5%.

E in Europa? Dati freschi freschi della Bce ci dicono che la massa monetaria M3 della zona euro relativa al mese di giugno è aumentata del 2,1%, rispetto al 2,5% del mese precedente e al 2% di aprile: nel trimestre aprile-giugno la variazione è stata pari al 2,2%.

La massa monetaria M1 (comprendente gli averi che si possono impiegare in qualsiasi momento per effettuare pagamenti, come contanti in circolazione e depositi a vista presso le banche e la posta) è cresciuta dell’1,2%, come a maggio e dopo l’1,6% di aprile, mentre sui tre mesi si è attestata a +1,4%.

E cosa significa contrazione della massa monetaria M3? Che le banche centrali, in questo caso la Bce, drenano liquidità.

Insomma, partendo da questi numeri e accantonando la farsa dei 14,3 trilioni di debito da non sfondare (di fatto, quel limite è già stato infranto, visto che con un trucchetto contabile degno della accoppiata Tanzi-Tonna, Tim Geithner ha disinvestito 120 miliardi di fondi pensione federali per pagare interessi e cedole senza così far formalmente salire il debito), chi si aspettava un rally borsistico dopo il “sì” di Washington rischia di restare molto deluso.

Soprattutto perché il dato di venerdì della crescita Usa ha portato a un taglio delle stime per il terzo trimestre da parte di moltissime istituzioni finanziarie, mentre per venerdì è atteso il dato sulla disoccupazione Usa di luglio, destinato a battere al ribasso le previsioni. Il problema grave, comunque, resta l’Europa e il focus per tutto il mese di agosto sarà il mercato obbligazionario, con Italia e Spagna in prima linea.

Non è un caso che ieri, giorno in cui le Borse avrebbero dovuto mettere il turbo per festeggiare la sventata Apocalisse negli Usa (l’oro doveva crollare, è sceso invece solo dello 0,65% restando a quota 1620 dollari l’oncia), Madrid già all’ora di pranzo virasse in negativo a -0,60% e a Milano il Ftse Mib guadagnasse meno dello 0,505 salvo perdere anch’esso l’1,21% nel momento in cui Wall Street apriva le contrattazioni, con il Dow Jones a +0,80% e il Nasdaq a +1,13%.

Di più, i cinque peggiori titoli per ribassi erano tutti legati ai settori più critici, assicurativo e bancario: Fondiaria Sai, Banco Popolare, Ubi Banca, Monte dei Paschi e Intesa SanPaolo. Insomma, il nostro paese e la Spagna sono sotto attacco. Pesante. Poi, l’apocalisse nell’arco di un’ora, con Milano che vedeva l’indice Ftse Mib chiudere al -3,87%.

Un disastro, ma con un lato positivo. Finalmente, infatti, l’accordo raggiunto a Washington ha fatto crollare il muro di ipocrisia che contornava i guai europei, per molti osservatori e analisti legati «all’incertezza per la situazione del debito Usa». Balle.

La questione è una sola: se il fondo salva-Stati, l’Efsf, non viene portato dagli attuali 440 miliardi di euro ad almeno 1,5 trilioni, garantendo così a Italia e Spagna uno scudo contro la speculazione sul mercato obbligazionario secondario, l’ondata di vendite non finirà e lo spread tra titoli decennali italiani e iberici continuerà a crescere.

Prendiamo quello italiano, il Btp a dieci anni. In apertura di contrattazioni lo spread, ovvero il differenziale di rendimento rispetto al Bund tedesco a pari scadenza, era a 332 punti base, in discesa fino al minimo di 315 punti base toccato a mezzogiorno.

Poi, dal primo pomeriggio una costante crescita fino a stabilizzarsi attorno ai 329 punti base, solo cinque punti base dal massimo di 334 pbs toccato venerdì scorso. Infine, con l’aggravarsi della situazione in Borsa, l’assalto speculativo spediva lo spread a quota 355 punti base, un balzo di 21 punti base dal record registrato venerdì scorso e rompendo la soglia psicologica dei 350 punti base.

Ma come, nel giorno della scampata Apocalisse, si comprano beni rifugio come i Bund e non ci si lascia andare ad atteggiamenti di investimento più “da toro”? I mercati, si sa, a differenza della politica, non perdono tempo in chiacchiere e, soprattutto, non hanno le fette di salame sugli occhi.

Dagli a Italia e Spagna, quindi! La Germania cambierà atteggiamento? Ma come potete sperarlo, visto che la principale speculatrice sull’Italia è proprio Berlino!

Deutsche Bank, attraverso il suo trading desk londinese, non solo ha scaricato la quasi totalità della sua esposizione al debito pubblico italiano, passata da 8 miliardi di euro a meno di 1, esattamente 997 milioni, ma, a fronte della vendita dei nostri titoli di debito, ha provveduto a comprare credit default swaps (cds) italiani per proteggersi dal rischio-Paese.

In parole molto povere, siamo sotto attacco speculativo dei nostri partner europei: l’atteggiamento di Deutsche Bank, da questo punto di vista, appare quindi ancora più sfacciato, poiché a fronte di una riduzione quasi totale della sua detenzione di debito italiano, fa incetta di credit default swaps.

È un po’ come se il vostro vicino di casa stipulasse un’assicurazione sulla vostra abitazione o sulla vostra macchina: voi farete di tutto per preservare i due beni e rendere il contratto soltanto una garanzia precauzionale, mentre lui potrebbe avere tutto da guadagnare a incendiarvi la casa o rubarvi la macchina per intascare il premio a fronte di una perdita pari a zero.

Inoltre, mano a mano che passano i giorni emergono sempre più succosi dettagli dal famoso secondo salvataggio greco deciso due giovedì fa a Bruxelles, visto che cifre alla mano la Grecia non avrà alcun sollievo fiscale se non sarà spinta verso un default.

Stando ai calcoli di Citigroup, l’effetto netto del piano farà aumentare il debito ellenico di un ulteriore 4% del Pil, portando l’anno prossimo la ratio debito/Pil al 160%.

Quindi, prepariamoci a un terzo salvataggio di Atene (ah scusate, delle banche tedesche, mentre quelle francesi tremano per questa volontà teutonica di sacrificare Italia e Spagna, visto che Parigi è la principale detentrice del nostro debito e il suo stesso cds è salito alla quota da allarme di 122 punti base).

Insomma, tutto male? No. Ieri, come ogni primo giorno del mese, è stato pubblicato l’indice Pmi, un rapporto di ricerca che riguarda il settore manifatturiero a livello nazionale, basato su un’indagine svolta tra i dirigenti degli acquisti di circa 400 aziende industriali.

Tra gli indicatori presentati, quello più seguito è appunto il Purchasing managers’ index (Pmi), ritenuto molto tempestivo, affidabile e importante dai mercati poiché considerato una misura affidabile del ciclo economico Usa.

Un suo incremento può indicare una ripresa, o una prosecuzione, di un ciclo economico positivo. Una crescita dell’indice, quindi, specie se inattesa, è valutata positivamente e solitamente muove al rialzo i principali indici dei mercati finanziari.

Una sua diminuzione, al contrario, può portare ad una flessione. Come è andata? L’indice Pmi dell’Eurozona è sceso al 50,4 dal 52 di giugno, peggior risultato dal settembre 2009 e di poco superiore al mark dei 50 punti che divide crescita da contrazione.

In Germania, la locomotiva d’Europa, l’indice è sceso al livello più basso da 21 mesi a questa parte, con ordinativi in contrazione per la prima volta in due anni. Detto fatto, a un’ora dall’apertura anche Wall Street virava in negativo con tutti gli indici a causa proprio dell’indice Pmi che segnava per gli Usa un deludente 50,9, peggior dato da due anni a questa parte: altro che debito pubblico e buffonate di Washington, i mercati prezzano la realtà, non i teatrini politici e gli accordi farsa!

Cosa c’è di buono, quindi? L’unico dato in controtendenza è stato quello italiano, con l’indice Pmi manifatturiero tornato a mostrare un attività in espansione: il dato di luglio ha infatti evidenziato un rialzo a 50,1 punti dai 49,9 di giugno (le previsioni erano per un calo a 48,5 punti), indicando quindi una crescita dell’attività del settore.

Insomma, l’Italia che produce è viva, resiste, combatte. Peccato che sia rappresentata politicamente da un casta di incapaci che si preoccupa di aprire ministeri a Monza, allungare le liste dei testimoni ai processi e, soprattutto, nascondere o depotenziare le porcherie fatte, a destra come al centro come a sinistra, nessuno escluso.

O ci si dà da fare subito, decidendo il destino di Giulio Tremonti al Tesoro entro 24 ore e non entro mesi o annullare l’asta di obbligazioni poliennali del 12 agosto non servirà a nulla, se non a rendere ancora più chiara al mercato la percezione della nostra debolezza e prezzarla all’asta successiva, affondandoci.

Con il Ftse Mib a -4% e lo spread che punta ai 350 punti base, non si può stare con un ministro delle Finanze sotto ricatto e depotenziato: rischia il Paese e la sua tenuta, non il governo. Questa volta la situazione non è seria. È drammatica.


I giganti della Terra verso il grande crash

di Mike Davis* - www.energybulletin.net - 26 Luglio 2011

«Usa, Europa e Cina - i tre pilastri dell'economia globale - corrono come folli verso la crisi, sebbene da posizioni diverse. La collisione è imminente, e sarà letale».

Secoli fa, a 14 o 15 anni, io e la mia vecchia banda bramavamo l'immortalità nel catorcio fumante di una brontolante Ford 40 o di una Chevy 57. Il nostro J.K. Rowling era Henry Felsen, l'ex-marine autore dei best-seller Hot Rod (1950), Street Rod (1953) e Crush Club (1958).

Felsen era il nostro Omero dell'asfalto, che esaltando giovani eroi destinati alla morte ci invitava a emulare la loro leggenda. Uno dei suoi libri si conclude con uno scontro apocalittico presso un incrocio, che stermina l'intera classe di laureandi di una piccola città dello Stato dell'Iowa.

Amavamo così tanto questo passaggio che eravamo soliti rileggerlo a voce alta l'un l'altro.

Difficile non pensare al grande Felsen, morto nel 1995, quando si sfogliano le pagine economiche di questi tempi. Dopo tutto, ci sono i repubblicani del Tea Party, con l'acceleratore spinto violentemente, che ghignano come demoni mentre si avvicinano alla Deadman's Curve (John Boehner e David Brooks, nei posti posteriori, muoiono di paura.)

L'analogia con Felsen sembra ancora più forte quando si prospetta una visione globale. Dall'alto la situazione economica mondiale si profila chiaramente come uno schianto in attesa di accadere.

E da tre direzioni distinte Stati uniti, Unione europea e Cina stanno accelerando alla cieca verso lo stesso incrocio. La domanda è: qualcuno sopravviverà per partecipare al ballo di fine anno?

Tremano i tre pilastri del McWorld

Riprendiamo dall'ovvio, tuttavia raramente discusso. Sebbene il giorno del giudizio per il limite di indebitamento sia scongiurato, Obama ha già impegnato la fattoria e venduto i capretti.

Con una straordinaria noncuranza per l'ala liberal del suo partito, si è offerto di mettere i sacrosanti resti di quella che era la rete di sicurezza del New Deal sul podio del banditore, per placare un ipotetico «centro» e vincere di nuovo le elezioni a ogni costo (Dick Nixon, vecchio socialista, dove sei ora che abbiamo bisogno di te?).

Risultato: come i Fenici nella Bibbia, sacrificheremo i nostri figli (e i loro insegnanti) a Moloch, che oggi si chiama Deficit. La strage nel settore pubblico, insieme a un brusco taglio delle indennità di disoccupazione, andrà a propagarsi sull'intero lato della domanda dell'economia, fino a quando la disoccupazione avrà raggiunto la doppia cifra percentuale e Lady Gaga canterà: «Fratello, avresti dieci centesimi?».

Non dimentichiamo: viviamo in un'economia globalizzata, in cui gli americani sono i consumatori di ultima istanza e il dollaro è ancora il porto sicuro per il plusvalore accumulato dall'intero pianeta.

La nuova recessione che i repubblicani stanno impunemente architettando metterà in dubbio di colpo tutti tre i pilastri del McWorld, già assai più traballanti di quanto si pensi: consumo americano, stabilità europea e crescita cinese.

Dall'altra parte dell'Atlantico, l'Unione europea si dimostra per quello che è: un sindacato di grandi banche e mega creditori, accanitamente determinato a far sì che i greci svendano il Partenone e che gli irlandesi emigrino in Australia.

Non c'è bisogno di essere keynesiani per capire che, se ciò dovesse accadere, la situazione non farà altro che precipitare in futuro (se i posti di lavoro tedeschi sono ancora salvi è solo perché la Cina e gli altri BRICs - Brasile, Russia e India - hanno acquistato tante macchine utensili e Mercedes).

Ovvio, oggi la Cina sostiene il mondo, ma la domanda è: per quanto tempo ancora? Ufficialmente, la Repubblica popolare cinese è nel bel mezzo di una transizione epocale da un'economia basata sulle esportazioni a una basata sui consumi.

Il fine ultimo di un simile passaggio non è solo trasformare il cinese medio in un automobilista di periferia, ma anche spezzare la dipendenza perversa che lega la crescita cinese al deficit commerciale americano che Pechino è obbligato, a sua volta, a finanziare per evitare che lo Yen si apprezzi.

Ma sfortunatamente per i cinesi, e forse per il mondo intero, il previsto boom dei consumatori si sta rapidamente trasformando in una pericolosa bolla immobiliare. La Cina ha contratto il virus Dubai, e ora ogni città con più di un milione di abitanti (sono almeno 160, all'ultimo conteggio) aspira a differenziarsi con un grattacielo di Rem Koolhaas o un mega centro commerciale, prossima meta dello shopping mondiale. Il risultato è stato un'orgia di edilizia.

E nonostante l'immagine rassicurante dei saggi mandarini di Pechino che controllano a sangue freddo il sistema finanziario, la Cina oggi sembra funzionare come 160 ripetizioni della serie Boardwalk Empire, dove i grandi capi politici della città e gli speculatori immobiliari privati stipulano i loro patti segreti con le gigantesche banche di stato.

In effetti, si è sviluppato un vero e proprio sistema bancario ombra grazie alle grandi banche che spostano i prestiti dal loro bilancio verso società fiduciarie fasulle, evadendo i tappi ufficiali sul prestito totale.

La scorsa settimana l'agenzia di rating Moody ha riferito che il sistema bancario cinese nasconde un trilione e mezzo di dollari in prestiti sospetti, soprattutto per mastodontici progetti municipali. Un altro servizio di rating ha avvertito che i «cattivi crediti» potrebbero costituire fino al 30% dei portafogli bancari cinesi.

Nel frattempo la speculazione immobiliare sta asciugando i risparmi domestici via via che le famiglie urbane, di fronte ai prezzi delle case alle stelle, si precipitano a investire negli immobili prima che questi siano spazzati via dal mercato (ricorda nulla?). Secondo Business Week, gli investimenti nell'edilizia residenziale costituiscono ormai il 9% del Pil, contro il 3,4% del 2003.

Una Lehman Brothers cinese?

Chengdu diverrà la nuova Orlando, e la China Construction Bank la prossima Lehman Brothers? Strana la credulità di così tanti «esperti» peraltro conservatori, convinti che la leadership comunista cinese abbia scoperto la legge del moto perpetuo creando un'economia di mercato immune dai cicli economici o dalle manie speculative.

Se la Cina avrà un atterraggio a dir poco duro, lo stesso sarà per i principali fornitori come Brasile, Indonesia o Australia. Il Giappone, già impantanato in una recessione in seguito a tre mega catastrofi, è estremamente sensibile a ulteriori shock provenienti dai suoi principali mercati.

E la primavera araba rischia di trasformarsi in inverno se i nuovi governi non riusciranno ad aumentare l'occupazione o a contenere l'inflazione dei prezzi alimentari.

Mentre i tre grandi blocchi economici mondiali accelerano verso una depressione sincronizzata, devo dire che non sono più tanto entusiasta, come lo ero a 14 anni, dalla prospettiva di un classico finale alla Felsen - metallo aggrovigliato e giovani corpi dilaniati.

* da Il Manifesto