domenica 8 gennaio 2012

Il caos libico

Apriamo il nuovo anno tornando a parlare di Libia, ben lungi ovviamente dall'essersi stabilizzata dopo l'uccisione di Gheddafi e la fine dei bombardamenti NATO.



Il 2012 porterà la guerra tribale in Libia?
di Franklin Lamb - www.countercurrents.org - 1 Gennaio 2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Il tempo a Tripoli in questa settimana di capodanno è inaspettatamente glaciale con le pesanti piogge che allagano le strade, ricordandomi più una tetra Londra che la costa meridionale magrebina del Mediterraneo.

Il mio albergo fuori dalla via Omar Muktar, gestito da una modesta famiglia, è pulito ed economico, ma la mia stanza non ha riscaldamento a parte quello che si può riuscire a ottenere con una sfilza di coperte turche in felpa.

Sia io che l’unico altro ospite registrato, un ingegnere libico di Sirte la cui casa è stata incendiata dai ribelli all’inizio di ottobre, stimiamo molto il proprietario dell’albergo che ha riaperto ai primi di novembre dopo la chiusura che andava avanti da marzo.

È un’enciclopedia di conoscenze e di opinioni sulla “situazione odierna”. Ma il proprietario dell’albergo e i suoi due figli che parlano inglese non sono i soli che non possono tacere sulla realtà della “nuova Libia” a quasi due mesi dalla sedicente vittoria della NATO, che ha praticamente ridotto in macerie questo paese, da un punto di vista militare, del Terzo Mondo con i più sofisticati arsenali del Primo.

La mia fortuna in questo viaggio è stata quella di ritrovare il mio migliore amico dei mesi che ho trascorso in Libia la scorsa estate. “Ahmad”, che come quasi tutti i contatti, era svanito senza lasciare traccia il 22 agosto dopo la presa di Tripoli da parte delle truppe della NATO.

Come gia sapevamo, quelli che avevamo frequentato quest’estate erano fuggiti, sono stati imprigionati o uccisi. “Ahmad” è riapparso a settembre con un’email per spiegarmi dove si stesse nascondendo.

Era sceso nella Libia del sud in una piccola città sahariana che non figura sulle carte geografiche, figuriamoci su Google Earth. Poi, dopo qualche settimana Ahmad è scomparso di nuovo quando si è avventurato per fare visita alla famiglia vicino Tripoli.

Era stato tradito dagli amici per i soldi delle milizie, è stato arrestato, torturato e imprigionato senza imputazione solo sapevano che la sua famiglia sosteneva Gheddafi.

Nell’ultima settimana di prigionia di Ahmad, che è terminata solo perché una delle guardie era un suo compagno di classe, lui e più di altri cento - tra cui Sheik Khaled Fantouch, tutti detenuti in una grande stanza di una prigione improvvisata a Misurata – non hanno ricevuto niente da mangiare e si sono divisi le bottiglie d’acqua per sopravvivere.

La vita in Libia è diventata per tutti più difficile, visitatori stranieri compresi. Un esempio: tornando all’estate, prima del 21 agosto, se ci si trovava di fronte sul marciapiede qualcuno pesantemente armato e corrucciato era una buona idea sussurrare “Allah, Muammar, Libya, al bas” (“è tutto quello che ci serve!”) e c’erano buone possibilità di essere salutati calorosamente.

Ora è molto più complicato. Più di 55 milizie dei ribelli, per un totale di oltre 30.000 combattenti armati, controllano parti di Tripoli, alcune con una lasca protezione e direzione di Belhaj, il Comandante Militare di Tripoli del CNT. Belhaj, prima in Al Qaeda, ha trascorso qui sette anni di prigione quando gli Stati Uniti e il Regno Unito lo spedirono al regime di Gheddafi seguendo un programma di catture forzate.

Il suo partito, che si è formato all’interno della Fratellanza Musulmana, probabilmente vincerà le elezioni del prossimo giugno. È nella terza più potente milizia di Tripoli. La più grande è guidata da Salh Gait, da Tripoli, e secondo il suo vice ha 5.000 combattenti e altri si stanno aggiungendo.

In questi giorni, in Libia è una buona idea memorizzare il nome della maggiore milizia locale e dei suoi leader, e così, quando si viene avvicinati da qualche soggetto poco amichevole e pesantemente armato si possono sfregare i due diti indice e dire il nome del capo aggiungendo “Mieh, mieh”, “Bene, bene”.

Si vuole evitare di dire il nome sbagliato della milizia e del leader perché oggi c’è una strana calma a Tripoli dopo alcune settimane fitte di schermaglie poco riportate sulla stampa.

Poco riportate per la seguente ragione. Il governo di transizione sbandiera con quotidianità la nuova libertà della stampa, parlando dell’esistenza di 43 nuovi giornali o riviste.

A prima vista sembra una cosa positiva e ogni settimana il numero varia quando i finanziatori locali e stranieri non riescono a recapitare i soldi promessi o altri iniziano a pubblicare un quotidiano o un settimanale.

La cosa da rimarcare “sulla nuova Libia libera, sui nuovi media liberi” è che è al 100% solidale col “nuovo governo”. Mi è stato detto che solo in parte viene dalla paura delle conseguenze che verrebbero da non seguire il copione di un sostegno generalizzato per il CNT.

Un'altra ragione, secondo un ambasciatore occidentale che ha risposto a questo post, è che i nuovi media provengono dalla miriade di milizie e hanno un problema psicologico nel criticare i problemi che sembrano lievitare giorno dopo giorno.

Ahmad puntualizza: “Erano così vicini alla NATO e ai ribelli che non vogliono ammettere che si erano sbagliati su molte questioni e allora ignorano quello sta avvenendo davanti ai loro occhi.

Ho assistito ieri a un esempio in Piazza Verde. Il proprietario dell’albergo mi ha spiegato che quasi tutti continuano a chiamarla Piazza Verde invece di Piazza dei Martiri secondo la ridenominazione del CNT “perché è stata la Piazza Verde per decenni e cosa c’è di sbagliato in quel nome? Se dici a qualcuno di incontrarsi in ‘Piazza dei Martiri’, la cosa sembra stupida. Cosa succederebbe se il nuovo governo egiziano desse un altro nome a Piazza Tahrir? La gente in Egitto lo accetterebbe?”

Ieri sono stato sorpreso dall’assistere a due ben nutrite manifestazioni contro il governo indette alle opposte estremità di questo grande spazio. Una era organizzata da due donne che avevo conosciuto durante l’estate che erano e apertamente sono ancora sostenitrici del regime di Gheddafi.

La prima guidava la scorsa estate un gruppo di donne avvocato e l’altra un gruppo di donne. Questa dimostrazione chiedeva la cittadinanza per i mariti e i bambini delle mogli e delle madri libiche. La stessa lotta che prosegue da decenni in Libano.

L’altra dimostrazione, tenuta da una signora avvocato che avevo visto parlare a una conferenza al Corinthia Hotel pochi giorni prima della caduta di Tripoli, era organizzata da un gruppo che chiedeva giustizia per quelli che erano scomparsi e che a decine sono stati confinati nelle prigioni segrete delle milizie in tutto il paese.

Secondo la ricerca del suo comitato, oltre ai 7000 e più lealisti di Gheddafi che sono stati imprigionati dal CNT – l’80% identificato per nome -, il Comitato per la Giustizia degli Scomparsi afferma che sono più di 35.000 i libici reclusi segretamente dalla milizia che sono fuori dal controllo e talvolta persino ignoti al fondamentalmente esautorato CNT.

Ahmad ritiene corretti questi dati da quello che ha potuto capire in prigione e mi ha spiegato che, se mi avesse portato in una scuola nei pressi dell’albergo prima della riapertura del 7 gennaio, se si cammina di notte senza il rumore del traffico si possono sentire le grida delle guardie e le urla dei prigioni.

A me sembra che, almeno per il momento, le manifestazioni vengono permesse anche se c’è una pletora di osservatori che controllano tutto e tutti capiscono quali sono quelli del CNT e delle forze di sicurezza della milizia.

Ahmad è appena arrivato a prendermi e mi ha informato che nessuna manifestazione è stata riportata sui giornali di questa mattina grazie ai nuovi media libici, così magnanimi da non fare mai critiche al nuovo governo.

La signora che guida l’altro consesso ha proposte varie questioni che il suo gruppo vuole sollevare. Una è il fatto che molte donne sono scomparse dalle vie e che non se ne sente più parlare. Lei sospetta che alcune siano finite nelle case che prima erano dei parenti di Gheddafi e dei sostenitori del regime.

Ritiene che solo a Tripoli più di novanta di queste case - tutte in zone pregiate, spesso sul mare – siano state saccheggiate da varie gang dei ribelli e derubate dei beni che si possono ora trovare in vendita nei suk. Vedendo la distruzione di queste proprietà, molti membri della milizia hanno avuto un’idea migliore.

Perché tornare a Bengasi, Misurata o in qualsiasi altro posto quando possono vivere qui a Tripoli in un relativo lusso? Sono centinaia gli uomini delle milizie che stanno facendo questo, secondo “Mara”, l’attivista per le donne. “Sono ben armati, vivono di una piccola paga della milizia, ma più che altro di svariati delitti, stanno iniziando a riparare quello che hanno prima distrutto e si sono trasferiti per rimanerci, tanto da affittare stanze ai nuovi arrivati”.

Mara ha aggiunto, “Se vedono una casa vuota, specialmente se è bella, ritengono, spesso giustamente, che fosse dei parenti, dei funzionari o dei sostenitori di Gheddafi e pensano quindi che sia a loro disposizione. E se la prendono. E sfidano chiunque, le altre milizie e l’inesistente nuovo governo a cercare di farli sgomberare. Non hanno alcuna intenzione di tornare da dove sono venuti, tanto meno di posare le armi. Al contrario, si stanno accaparrando sempre più armi ed esplosivi, sia per la sicurezza che per aumentare il proprio potere contrattuale in campo politico. Sembra proprio che la Libia sia terreno di conquista per molte operazioni, sia locali che provenienti dall’estero.”

La stessa signora mi ha detto che la popolazione di Tripoli è aumentata di un milione e i locali vogliono che gli “estranei” ritornino alle loro città e che permettano ai veri residenti di Tripoli di prendersi cura della propria. Gli estranei aggiungono problemi al traffico e provocano problemi di sicurezza, tanto che le persone non escono la sera.

Alcuni degli invasori di queste case hanno spostato le proprie famiglie dalle altre zone della Libia, altri sono accusati dai gruppi di tutela delle donne di tenere recluse le lavoratrici domestiche straniere e di aver sequestrato ragazze nelle strade e di averle schiavizzate nei propri rifugi.

Ma molti sono infuriati perché il nuovo “governo” non riconosce neppure l’esistenza del problema, visto che non ha alcun desiderio di assistere a un’indagine della Corte Penale Internazionale sui crimini delle due parti, e non vuole controllori che vadano in giro a fare domande.

I libici all’interno del paese e quelli che cercano sicurezza nelle nazioni vicine si stanno sempre più affidando alle dieci maggiori tribù per porre fine a questa situazione e a tanti altri problemi.

Un problema che si pensa sia sul punto di esplodere con violenza viene dalle aree di Bani Wallid e Sirte, dove la NATO e le forze locali hanno ucciso molti civili di cui nessun gruppo a sostegno dei diritti umani è venuto a conoscenza.

Un comandante di una milizia locale ha spiegato a me e altri due colleghi qualcosa che ha appreso mentre stava aiutando a gestire una prigione segreta: “Anche se un anno fa erano già presenti divisioni intra-tribali o geografiche, ora sono 500 volte peggiori. Le tribù si stanno armando e hanno dato al governo diverse scadenze sugli impegni per ricostruire le abitazioni e le aziende distrutte, per aiutare le famiglie senza casa, per togliere le armi dalla strada e rispedire le bande armate nei posti di provenienza. Al momento il governo non ha fatto niente e la gente è sempre più arrabbiata.”

Uno dei problemi che crea più attrito è l’aumento generalizzato dei prezzi, a parte l’elettricità che, secondo le mie fonti, nessuno sta pagando in tutta la nazione dallo scorso febbraio.

Ma le interruzioni del servizio sono analoghe a quelle dei bombardamenti della NATO. La mancanza di soldi è un problema per i cittadini a cui non è consentito prelevare più di 750 dinari al giorno.

Il denaro è ancora relativamente scarso e, oltre ai 7 miliardi che sono stati portati via dalle banche libiche dagli ex funzionari e dagli uomini d’affari la scorsa primavera, altri 8 sono stati ritirati durante l’estate dai cittadini in preda al panico prima che venisse imposto dal governo di Gheddafi il limite di 500 dinari al mese.

Mi è stato suggerito, sia nelle nazioni vicine che in Libia dai rappresentanti delle Tribù, che la guerra potrebbe già arrivare il 1° marzo: “La nostra storia, la nostra cultura, la nostra dignità, sono in pericolo. È responsabilità delle Tribù ripulire il paese da questi fuorilegge come abbiamo fatto con i colonizzatori italiani.”

Nel corso di una riunione in un paese confinante, un lealista di Gheddafi ha spiegato: “Conosciamo le tribù che hanno collaborato con la NATO e che hanno svenduto i nostri diritti di nascita. Era successa la stessa cosa con gli italiani e negli anni con le compagnie petrolifere straniere. Lotteremo per rimettere in sella il popolo libico, sapendo che il regime di Gheddafi ha fatto degli errori, ma anche che il sostegno oggi va dal 90% nelle aree della Tribù Wafala come a Bani Walid a quasi il 60% a Tripoli. Lui non tornerà, ma lo faranno molte delle sue buone politiche, enshallah.”



Libia, rischio guerra civile
di Michele Paris - Altrenotizie - 6 Gennaio 2012

A oltre due mesi dalla cattura e dall’assassinio di Muammar Gheddafi, la situazione in Libia non sembra aver fatto molti passi verso la tanto attesa transizione “democratica”.

I sanguinosi scontri che continuano a verificarsi soprattutto nelle strade di Tripoli raccontano piuttosto di un paese ancora nell’anarchia e in mano alle milizie armate che, grazie all’appoggio determinante delle forze NATO, avevano provocato la caduta del precedente regime.

Le decine di gruppi armati formatisi sotto l’impulso dei paesi occidentali e dei loro alleati nel mondo arabo, in prima linea contro Gheddafi, si ritrovano ora con vasti arsenali a disposizione e nessuna intenzione di sottomettersi all’autorità centrale rappresentata dal Consiglio Nazionale di Transizione (CNT).

Ognuna di queste milizie controlla un proprio settore nella capitale e, spesso, si fronteggiano l’un l’altra a colpi di arma da fuoco per cercare di estendere le rispettive zone di influenza. La conservazione delle armi serve anche a garantire loro uno strumento di pressione sul governo provvisorio, così da ottenere maggiori concessioni all’interno del nuovo sistema statale libico.

Lo strapotere delle milizie, conseguenza anche della struttura tribale della società libica, rischia però di gettare il paese in una sanguinosa guerra civile, come ha ammesso qualche giorno fa durante un incontro pubblico a Bengasi lo stesso presidente del CNT, Mustafa Abdel Jalil. Per stessa ammissione di quest’ultimo, i progressi fatti dalle autorità centrali con la creazione di un nuovo esercito e di una nuova forza di polizia sono molto lenti.

“Non esiste sicurezza perché i combattenti non hanno consegnato le loro armi, nonostante le possibilità che abbiamo dato loro di farlo tramite i consigli locali”, ha affermato l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi.

Gli scontri tra le milizie avvengono in genere quando i membri di un gruppo di ex ribelli sconfinano nel territorio controllato da una banda rivale, oppure quando si rifiutano di fermarsi ad un posto di blocco o ancora quando vengono arrestati. Proprio quest’ultimo motivo sembra aver scatenato il più recente conflitto tra gli appartenenti a due milizie in una delle strade più affollate di Tripoli e che ha spinto Jalil a sollevare lo spettro della guerra civile.

Secondo alcune ricostruzioni, quando martedì scorso una milizia di Tripoli ha proceduto all’arresto di alcuni combattenti di Misurata, i compagni di questi ultimi avrebbero attaccato con armi pesanti l’edificio dove erano detenuti.

Un’altra testimonianza sostiene invece che le due milizie si sarebbero affrontate per il controllo dell’edificio assaltato, già sede di una unità di intelligence del vecchio regime. In seguito al confronto a fuoco, ad ogni modo, sono state uccise quattro persone.

Tra gli altri episodi più gravi, va ricordato anche lo scontro tra due gruppi armati lo scorso novembre presso un ospedale di Tripoli. In seguito al dilagare delle violenze, il premier ad interim, Abdurrahim El-Keib, aveva successivamente imposto un ultimatum alle milizie, imponendo loro di lasciare la capitale entro il 20 dicembre. Nonostante lo smantellamento di numerosi check-point entro quella data, varie bande armate di ex ribelli continuano tuttavia a controllare la città.

A Tripoli le due principali milizie tuttora attive sono quelle sotto il comando dell’ex jihadista - nonché già sottoposto a “rendition” dalla CIA - Abdel Hakim Belhadj e di un suo rivale, Abdullah Naker.

Altre fazioni controllano poi i punti nevralgici della capitale ed ognuna di esse riunisce gli ex ribelli provenienti da una specifica località del paese. Così, ad esempio, la milizia di Zintan è installata nell’area dell’aeroporto internazionale, mentre quella di Misurata, dopo aver lasciato il centro città, si è trasferita in una zona periferica.

Per cercare di porre fine all’anarchia, il CNT all’inizio di quest’anno ha nominato il capo di stato maggiore del nuovo esercito nazionale, una condizione che le stesse milizie avevano chiesto per acconsentire a deporre le armi ed essere assorbite nell’esercito stesso.

Il generale di Misurata Yousuf al-Manqoush ha subito fatto sapere che le procedure per l’assimilazione degli ex combattenti nell’esercito sono quasi pronte e che, una volta emanate le disposizioni, le milizie dovranno decidere se adeguarsi al nuovo ordine oppure continuare a sfidare le autorità centrali col rischio di far precipitare il paese nella guerra civile.

La situazione in Libia, in ogni caso, sembra tutt’altro che promettente e il persistere delle violenze minaccia quanto meno di ritardare l’assalto alle risorse del paese per le quali lo scorso mese di marzo è stata scatenata la guerra contro Gheddafi.

Il caos prodotto dalla presenza delle milizie armate a Tripoli e altrove conferma inoltre l’irresponsabilità dei governi di Washington, Parigi e Londra, i quali hanno fatto ampio affidamento su combattenti di ogni sorta per rovesciare il regime (estremisti islamici compresi), senza preoccuparsi affatto della sicurezza o dei diritti umani della popolazione libica che, ufficialmente, pretendevano di voler difendere.


Tripoli: sparatorie e morti tra milizie e Cnt. Proteste e abusi

di Marinella Correggia - www.contropiano.org - 3 Gennaio 2012

È salito a sei morti il bilancio delle vittime del violentissimo scontro a fuoco avvenuto oggi nel centro della capitale libica Tripoli, iniziato quando - secondo la tv satellitare 'al-Arabiya' - un gruppo di miliziani provenienti dalla città di Misurata si è rifiutato di rispettare un ordine di sgombero da parte del Cnt.

I giovani miliziani islamici si sono asserragliati nel vecchio palazzo dei servizi segreti della capitale aprendo il fuoco contro la sicurezza agli ordini del ministero dell'Interno libico. Per stanarli, gli uomini del Cnt hanno sparato contro di loro dalla vicina sede del ministero degli Esteri.

Secondo l'emittente di Dubai, analoghi scontri si sono registrati oggi anche in altri quartieri della città dove sono presenti altri gruppi di combattenti di città in cui le milizie rifiutano di disarmare e di smobilitare.

Secondo alcune fonti la sanguinosa sparatoria sarebbe scaturita da futili motivi, dopo che un miliziano di Misurata era stato arrestato perchè ubriaco e molesto. All'inizio alcuni media avevano diffuso la notizia che a scatenare lo scontro a fuoco fossero stati alcuni esponenti del 'vecchio regime'.

La stessa interessata interpretazione era stata data sulla sparatoria avvenuta al confine con la Tunisia. Uno scontro a fuoco aveva opposto la scorsa notte una pattuglia della guardia di frontiera tunisina ad un gruppo di armati libici che, a bordo di vetture fuoristrada, tentavano di varcare illegalmente la frontiera.

L'episodio, accaduto a El Mrissa (delegazione di Ben Guerdane, nel sud della Tunisia), segue di pochi giorni uno simile, quando alcuni miliziani libici si sono impossessati di un automezzo della guardia di frontiera tunisina dopo aver ferito il capo della pattuglia, mentre tre agenti riuscivano a mettersi in salvo.

La situazione, evidentemente, è assai meno tranquilla e pacificata di quanto i nuovi padroni di Tripoli vogliano lasciar credere.

NUOVE DALLA LIBIA

Il 3 gennaio l'Ambasciata del nostro paese - il quale ha fortemente contribuito a tutto ciò soprattutto con le sue strategiche basi - avverte gli uomini d'affari di scontri armati intra-vincitori, al centro di Tripoli: "Gentili connazionali, sono attualmente in corso nelle zone centrali della citta’di Tripoli degli scontri a fuoco tra esercito del CNT ed alcune milizie di Zintan e Misurata.

Si raccomanda la massima cautela negli spostamenti e si consiglia di limitare i movimenti in centro soltanto a quelli strettamente necessari. Si sara’ grati se la presente informazione verra’ fatta circolare tra i dipendenti delle vostre rispettive societa’".

In dicembre l’inglese Viv è entrata a Sirte con un gruppo di musulmani residenti nel Regno Unito che portavano ambulanze alla Mezzaluna libica. Ha visto una città “azzerata”. Sono stati in un’area dove la Mezzaluna offre pasti e assistenza a chi è rimasto o tornato.

Pochi, comunque, perché la quasi totalità delle case sono quantomeno pericolanti e senz’acqua potabile. L’elettricità è tornata in certe aree da pochi giorni. Sirte era una città prospera.

E’ stata ridotta a quello stato “preindustriale” che Bush padre nel 1991 promise all’Iraq. Un addetto umanitario ha detto che le persone sopravvivono grazie ai parenti che hanno la campagna. Vedendo in giro fornelli rudimentali fatti con lamiere, Viv ha chiesto come le persone cuociano i loro cibi. Risposta: legna da ardere raccattata qui e là.

L'attivista e legale statunitense Franklin Lamb (Palestinian Civil Rights) è nuovamente in Libia (visto - ormai difficilissimo da ottenere- ottenuto fortunosamente grazie alle conoscenze doganali di un'agenzia turistica egiziana!) per fare qualcosa sul fronte dei numerosissimi prigionieri senza processo (forse oltre diecimila) e per indagare sui crimini di guerra. Riferisce che ci sono state due manifestazioni di donne appunto contro le detenzioni arbitrarie e contro le numerose sparizioni.

Una imprenditrice presente a Tripolilamenta che malgrado siano stati sbloccati a favore del governo del Cnt i fondi dello stato libico congelati a febbraio (e nonostante siano riprese le esportazioni di petrolio, v. oltre, ndr) i ministri non firmano nulla e negli ospedali le persone muoiono per mancanza di beni essenziali.

A Tripoli, dice Abdulmola, imprenditore attualmente disoccupato, ogni tanto le famiglie di libici neri che gli armati di Misurata hanno cacciato in massa (una deportazione) dalla cittadina di Tawergha protestano perché vorrebbero tornare a casa; da mesi vivono in situazioni provvisorie come gli accampamenti di ex lavoratori cinesi.

Ma in un recente reportage di Presstv dalle loro case abbandonate e devastate, un armato di Miusrata parla chiaro: non torneranno mai, questa adesso si chiama ‘Nuova Misurata’; del resto, da premier, a settembre, Mahmoud Jibril ha dato via libera a questa punizione collettiva.

Walid, ingegnere esperto di energia solare, dice sempre da Tripoli che l’unica cosa che fiorisce in Libia sono i partiti: ne nasce uno ogni giorno. Ospita amici di Sirte che hanno avuto la casa distrutta nell’assedio.

Dice che tanto gli abitanti di Sirte quanto quelli di Tawergha sono ora dispersi, chi da parenti, chi nel Sud della Libia, chi in campi profughi. Da quel che gli risulta non li aiuta nessuno salvo i vicini e parenti e la Mezzaluna.

Comunque Al Jazeera adesso, solo adesso, dice che a Sirte il Cnt ha usato armi indiscriminate. Intanto la gente si chiede come il governo usi i soldi del petrolio, visto che non sta pagando nemmeno le cliniche tunisine che da mesi curano i “ribelli” feriti. Probabilmente fra poco tempo non ci saranno più i soldi per i salari dei dipendenti pubblici.

Alcune donne libiche scappate a Tunisihanno raccontato la loro storia a un gruppo di pacifisti. Riferisce Kamal: una di loro aveva un lavoro di responsabilità rispetto all’organizzazione di congressi e all’accoglienza di ospiti stranieri; è stata licenziata dal nuovo governo per le sue idee politiche.

Un’altra ha avuto a Tripoli la sua casa saccheggiata; l’ha poi assegnata a una famiglia di sfollati da Sirte. Dicono che diverse donne libiche scappate in Tunisia denunciano stupri da parte dei “ribelli”. Ma naturalmente a loro non crederà nessuno.

Intanto, conclude Kamal, la Tunisia ha deciso di estradare l’ex primo ministro libico Al Baghdadi. E i tunisini sono inerti rispetto alle minace di guerra in Siria (come fu per la Libia) mentre avevano tanto protestato contro la guerra contro l’Iraq nel 2003…Per Kamal, "oppio è stato servito al popolo".


L'allarme di Jalil: «Sull'orlo di una nuova guerra civile»

di Tommaso Di Francesco - www.ilmanifesto.it - 7 Gennaio 2012

Dopo Bruxelles e Parigi, la prima capitale straniera che Mario Monti visiterà sarà, tra due settimane, Tripoli. Al primo posto ci sono i contratti dell'Eni, che il nuovo potere libico minaccia di «rivedere».

Ma resta ancora in ballo il Trattato d'amicizia, riattivato già con la visita del presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil in Italia a metà dicembre, e che ora Monti confermerà.

Il Trattato, sottoscritto da Berlusconi e Gheddafi nel 2008 a Bengasi, riconosce i misfatti coloniali italiani attraverso il risarcimento di 5 miliardi di dollari distribuiti in 20 anni, da impiegare nella costruzione di una mega-litoranea.

Ora poi si presenta - mentre accorrono in Libia ministri francesi e anche quelli della Germania che non ha partecipato alla guerra - l'affare della ricostruzione di quello che la guerra civile e i bombardamenti della Nato hanno distrutto.

Ricostruzione che, secondo l'Economist, darà alla Libia nel 2012 un «rimbalzo» eccezionale con un tasso di crescita del 25%. Per i nuovi affari l'Italia farà contare, in perfetta continuità con il governo Berlusconi, il peso rilevante della sua iniziativa militare nella guerra.

Ma dietro c'è ancora la vicenda sporca interna al Trattato, cioè l'impegno del nuovo governo libico a «contenere» - con i campi di concentramento come faceva Gheddafi e con il pattugliamento a mare e sui confini interni - l'immigrazione dei disperati in fuga dalla miseria e dalle guerre dell'Africa dell'interno.

Il Cnt e Jalil hanno già dato ampie rassicurazioni a proposito. Solo a parole, purtroppo, il ministro della cooperazione Riccardi ha detto che l'Italia avrebbe «rivisto» il Trattato.

Tutto si tiene sul delicato equilibrio di due interrogativi: chi ha vinto realmente in Libia e qual è la situazione a Tripoli. Una situazione che si racconta da sé. Due mesi dopo la cattura e il linciaggio di Gheddafi, la Libia è sull'orlo di una nuova guerra civile. L'allarme di questi giorni è dello stesso Jalil, dato più volte per dimissionario dalla presidenza del Cnt da tutte le tv arabe.

«La Libia rischia di precipitare in una guerra civile se non riuscirà a tenere sotto controllo le milizie rivali che continuano a fronteggiarsi nel paese», ha denunciato da Bengasi dopo una furiosa battaglia scoppiata nel centro di Tripoli solo martedì scorso, che ha provocato sei vittime ufficiali ma in realtà più di dieci morti secondo Al Arabiya.

Che ha raccontato di violenti scontri a fuoco in diversi quartieri, nati dopo che un gruppo di miliziani provenienti dalla città di Misurata, asserragliati nel vecchio palazzo dei servizi segreti, si era rifiutato di rispettare un ordine di sgombero da parte del Cnt.

Altre fonti hanno parlato di «milizie filo-monarchiche contrapposte a islamisti». Ora gli scontri armati sembrano essersi radicalizzati «politicamente».

Giovedì scorso due dei principali gruppi di ex insorti libici hanno preso posizione contro la recente nomina da parte del Cnt del nuovo capo di stato maggiore dell'esercito, Yussef al-Mangush, definendola «illegale».

Si tratta della Coalizione dei rivoluzionari (Thwar) libici, che riunisce fazioni di Bengasi, Misurata e Zintan, e del Consiglio militare della Cirenaica. Si teme il peggio, visto che i due gruppi dispongono di grandi quantitativi di armi, tra cui pezzi di artiglieria e carri armati.

E' in questa Libia «reale» che arriveranno il presidente del Consiglio Monti e il comitato d'affari che si porterà dietro.


Guerra alla Libia con 700 super bombe italiane

di Antonio Mazzeo - http://antoniomazzeoblog.blogspot.com - 5 Gennaio 2012

“Le operazioni condotte nel 2011 sui cieli libici hanno rappresentato per l’Aeronautica Militare italiana l’impegno più imponente dopo il 2° Conflitto Mondiale”. È orgogliosissimo il Capo di Stato maggiore delle forze aeree, generale Giuseppe Bernardis.

L’Italia repubblicana ha conosciuto i teatri di guerra dell’Iraq, della Somalia, del Libano, dei Balcani, dell’Afghanistan e del Pakistan, ma mai avevamo sganciato tante bombe e tanti missili aria-terra come abbiamo fatto in Libia per spodestare e consegnare alla morte l’ex alleato e socio d’affari Muammar Gheddafi.

Una guerra record di cui però è meglio non andare fieri: secondo i primi dati ufficiali - ancora parziali - i nostri cacciabombardieri hanno martoriato gli obiettivi libici con 710 tra bombe e missili teleguidati.

Cinquecentoventi bombe e trenta missili da crociera a lunga gittata li hanno lanciati i “Tornado” e gli AMX dell’Aeronautica; centosessanta testate gli AV8 “Harrier” della Marina militare. Conti alla mano si tratta di quasi l’80% delle armi di “precisione” a guida laser e GPS in dotazione alle forze armate.

Un arsenale semi-azzerato in poco più di centottanta giorni di conflitto; il governo ha infatti autorizzato i bombardamenti solo il 25 aprile 2011 (56° anniversario della Liberazione) e la prima missione di strike in Libia è stata realizzata tre giorni dopo da due caccia “Tornado” decollati dall’aeroporto di Trapani Birgi.

“Le munizioni utilizzate dalle forze aeree italiane sono state le bombe GBU-12, GBU-16, GBU-24/EGBU-24, GBU-32, GBU-38, GBU-48 e i missili AGM-88 HARM e Storm Shadow, con una percentuale di successo superiore al 96%”, elenca diligentemente lo Stato Maggiore dell’AMI.

Inutile chiedere cosa o chi sia stato colpito nel restante 4% degli attacchi dove sono state sganciate più di trenta bombe di “precisione”. Dettagliata è invece la descrizione del documento “Unified Protector: le capacità di attacco dell’AM” (6 giugno 2011) sulle caratteristiche tecniche di questi strumenti di distruzione e di morte.

“I sistemi d’arma a guida laser sono stati sviluppati negli anni ‘80 con i primi test eseguiti dalla Lockheed Martin e sono stati utilizzati nei più recenti conflitti, dalla guerra del Golfo alle operazioni sui Balcani, Iraq e Afghanistan”, scrivono i comandanti delle forze aeree.

“La GBU-16 è un armamento a guida laser Paveway II, basato essenzialmente su bombe della serie MK83 da 495 Kg. Della stessa famiglia di ordigni fa parte la GBU-12 (corpo bomba MK82, 500 libbre).

La GBU-24 è invece un armamento basato essenzialmente sia sul corpo di bombe della serie MK da 907 Kg. che delle bombe penetranti BLU-109 modificate con un kit per la guida laser Paveway III. Sviluppato per rispondere alle sofisticate difese aeree nemiche, scarsa visibilità e limitazioni a bassa quota, l’armamento consente lo sgancio a bassa quota e con una capacità di raggio in stand off (oltre 10 miglia) tale da ridurre le esposizioni”.

Ancora più sofisticate le bombe GBU-24/EGBU-24, guidate con doppia modalità GPS e laser ed usate “per distruggere i più resistenti bunker sotterranei” e le GBU-32 JDAM (Joint Direct Attack Munition) da 1.000 e 2.000 libbre, che possono essere lanciate in qualsiasi condizioni meteo, sino a 15 miglia dagli obiettivi, “per ingaggiare più target con un singolo passaggio”.

“Lo Storm Shadow è un missile aviolanciabile con telecamera a raggi infrarossi a guida Gps che può colpire obiettivi di superficie in profondità, a prescindere dalla difesa aerea, grazie alle sue caratteristiche stealth”, recita il report dell’Aeronautica.

Sviluppato a partire dal 1997 dalla ditta inglese MBDA, il vettore è lungo cinque metri, pesa 1.300 Kg, ha un raggio d’azione superiore ai 250 km e può trasportare una testata di 450 kg. “È utilizzabile contro obiettivi ben difesi come porti, bunker, siti missilistici, centri di comando e controllo, aeroporti e ponti. La carica esplosiva è infatti ottimizzata per neutralizzare strutture fisse corazzate e sotterranee”.

Le coordinate del target e la rotta di volo dello Storm Shadow vengono pianificate a terra e successivamente inserite all’interno del missile durante la fase di caricamento sul velivolo. “Una volta lanciato, raggiunge l’obiettivo assegnato navigando in ogni condizione di tempo, di giorno o di notte in maniera assolutamente autonoma utilizzando gli apparati di bordo e confrontando costantemente la sua posizione con il terreno circostante”.

L’altro missile aria-superficie impiegato dai caccia italiani è l’AGM-88 HARM (High-speed Anti Radiation Missile) della Raytheon Company, ad alta velocità e un raggio d’azione di 150 km, in grado di individuare e “sopprimere” i radar nemici.

Secondo il generale Bernardis, nei sette mesi di operazioni in Libia, “i velivoli dell’Aeronautica Militare italiana hanno eseguito 1.900 missioni con oltre 7.300 ore di volo, pari al 7% delle missioni complessivamente condotte dalla coalizione internazionale a guida NATO”.

Attacchi e bombardamenti sono stati appannaggio dei cacciabombardieri “Tornado” versione IDS (Interdiction and Strike) del 6° Stormo di Ghedi (Brescia) e dei monoreattori italo-brasiliani AMX del 32° Stormo di Amendola (Foggia) e del 51° Stormo di Istrana (Treviso).

Per la “soppressione delle difese aeree” e il controllo della no-fly zone sono stati impiegati i “Tornado” ECR (Electronic Combat Reconnaissance) del 50° Stormo di Piacenza, i cacciabombardieri F-16 del 37° Stormo di Trapani-Birgi e gli “Eurofighter 2000” del 4° Stormo di Grosseto e del 36° di Gioia del Colle (Bari).

“L’AMI ha pure impiegato i velivoli da trasporto C-130 “Hercules”, i tanker KC-130J e Boeing KC-767 per il rifornimento in volo e, nelle ultime fasi del conflitto, gli aerei a pilotaggio remoto Predator B per missioni di riconoscimento”.

Sui cieli libici hanno pure fatto irruzione un velivolo G.222VS “per la rilevazione e il contrasto delle emissioni elettromagnetiche” e un C-130 per quella che è stata definita dal comandante di squadra aerea, Tiziano Tosi, come una “PsyOP - Psycological Operation”, finalizzata a “influenzare a proprio vantaggio la coscienza e la volontà della popolazione interessata”.

Su Tripoli e altre città libiche sono stati lanciati centinaia di migliaia di volantini, il cui testo è stato concordato con il Comitato nazionale provvisorio di Bengasi. “La Libia è una e la sua capitale è Tripoli”, il titolo. “Vi chiediamo di unirvi tutti e prendere la decisione giusta e saggia. Unitevi alla nostra rivoluzione. Costruiamo a Libia lontano da Gheddafi. Libia unificata, libera, democratica”.

Quasi tutti i velivoli da guerra italiani sono stati schierati sulla base aerea di Trapani nell’ambito del Task Group Air Birgi, da cui dipendevano anche gli aerei senza pilota Predator B, operanti però dallo scalo pugliese di Amendola. Pisa e Pratica di Mare, gli aeroporti per le operazioni dei velivoli da trasporto o rifornimento.

“Le operazioni d’intelligence, sorveglianza e ricognizione sono state effettuate grazie alla disponibilità di speciali apparecchiature elettroniche Pod Reccelite in dotazione ai “Tornado” e agli AMX”, scrive ancora lo Stato Maggiore. “Sugli oltre 1.600 target di ricognizione assegnati ai velivoli italiani, sono state realizzate più di 340.000 foto ad alta risoluzione, mentre circa 250 ore di filmati sono stati trasmessi in tempo reale dai Predator B”.

Le missioni di attacco al suolo sono state pianificate e condotte “contro obiettivi militari predeterminati e definiti, o contro target dinamici nell’ambito di aree di probabile concentrazione di obiettivi nemici”.

Probabile, dunque e non certa la concentrazione degli obiettivi militari. E gli effetti collaterali si confermano elemento integrante delle strategie di guerra del Terzo millennio…

I condottieri dell’Aeronautica Militare forniscono infine la percentuale delle ore di volo relative alle differenti tipologie di missione: il 38% ha riguardato pattugliamenti e “difese aeree” (DCA); il 23% attività di “sorveglianza e ricognizione” (ISR); il 14% l’attacco al suolo contro “obiettivi predeterminati” (OCA); l’8% la “neutralizzazione delle difese aeree nemiche” (SEAD); un altro 8% il rifornimento in volo (AAR); il 5% la “ricognizione armata e l’attacco a obiettivi di opportunità” (SCAR); il restante 4% “la rilevazione e il contrasto delle emissioni elettromagnetiche” (ECM). Come dire che ogni quattro velivoli decollati, uno serviva per colpire, ferire, uccidere.

Anche la Marina militare ha fornito dati numerici sull’intervento dei propri mezzi in Libia. Otto aerei a decollo verticale AV8 B Plus “Harrier”, stazionati sulla portaerei “Garibaldi”, hanno effettuato missioni di interdizione ed attacco per complessive 1.223 ore, utilizzando i missili aria-aria a guida infrarossa AIM-9L “Sidewinder”, quelli a medio raggio a guida laser “AMRAAM”, gli aria-terra “Maverick” e le bombe del tipo Mk82 ed Mk20.

Una trentina gli elicotteri EH-101, SH-3D ed AB-212 assegnati ad Unified Protector, per complessive 3.311 ore di volo. Tremila e cinquecento gli uomini e le donne imbarcati su due sottomarini (“Todaro” e “Gazzana”) e quattordici unità navali (tre delle quali, “Etna”, “Garibaldi” e “San Giusto”, utilizzate in periodi diversi come sedi del Comando per le operazioni marittime NATO).

Come sen non bastasse, i vertici delle forze armate fanno sapere che l’80% circa delle missioni aeree alleate sono partite da sette basi italiane (Amendola, Aviano, Decimomannu, Gioia del Colle, Pantelleria, Sigonella e Trapani Birgi).

“In questi aeroporti, l’Aeronautica Militare ha assicurato il supporto tecnico e logistico, sia per gli aerei italiani sia per i circa 200 aerei di undici paesi della Coalizione internazionale (Canada, Danimarca, Emirati Arabi Uniti, Francia, Giordania, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Turchia), schierati sul territorio nazionale.

In sostanza, il personale e i mezzi della forza armata sono stati impegnati in maniera continuativa per fornire l’assistenza a terra, il rifornimento di carburante, il controllo del traffico aereo, l’alloggiamento del personale, ecc.”.

Piattaforma avanzata per il 14% di tutte le sortite aeree di Unified Protector lo scalo siciliano di Trapani, da cui sono transitati pure 300 aerei cargo e circa 2.000 tonnellate di materiale. Dalla Forward Operating Base (FOB) di Birgi, uno dei quattro centri di cui dispone la NATO nello scacchiere europeo, hanno operato anche gli aerei radar AWACS, “assetti essenziali alle moderne operazioni aeree per garantire una efficace capacità di comando e controllo”.

Lo Stato Maggiore AMI ricorda infine “l’importante supporto di personale specializzato nel campo della pianificazione operativa offerto ai vari livelli della catena di comando e controllo NATO, attivata in tutta Italia”, all’interno del Joint Force Command di Napoli e del Combined Air Operation Center 5 di Poggio Renatico (Ferrara).

No comment invece sul costo finanziario sostenuto per le tremila missioni e le oltre 11.800 ore di volo dei velivoli italiani impiegati nella guerra alla Libia. Possibile però azzardare una stima di massima tenendo conto delle spese per ogni ora di missione dei cacciabombardieri (secondo Il Sole 24Ore, 66.500 euro per l’“Eurofigher 2000”, 32.000 per il “Tornado”, 19.000 per l’F-16, 11.500 per il C-130 “Hercules” e 10.000 per l’“Harrier”).

Prendendo come media un valore di 20.000 euro e moltiplicato per il numero complessivo di ore volate, si raggiunge la spesa di 236.220.000 euro. Vanno poi aggiunti i costi delle armi di “precisione” impiegate (dai 30 ai 50.000 euro per le bombe a guida laser e Gps, dai 150.000 ai 300.000 per i missili “intelligenti”).

Limitandosi ad un valore medio unitario di 40.000 euro, per le 710 munizioni sganciate sul territorio libico il contribuente italiano avrebbe speso non meno di 28.400.000 euro. Così, solo per “accecare” radar, intercettare convogli e bombardare a destra e manca abbiamo sperperato non meno di 260 milioni. Fortuna che c’era la crisi.