domenica 22 gennaio 2012

News Shake

Qualche notizia a caso, ma non per caso....il primo News Shake del 2012.



Vivere (bene) senza denaro
di Riccardo Luna - La Repubblica - 19 Gennaio 2012

Se pensate che qui, in Italia, non si possa vivere senza l' euro, andate in Sardegna. E provate a dire in giro che voi pagate in Sardex.

Cosa? A parte benzina, farmaci ed energia elettrica, potrete comprare tutto, sia beni che servizi. E quindi alberghi, dentisti, falegnami, elettricisti, meccanici, consulenti di marketing, sale congressi, corsi di lingua inglese, pubblicità sui giornali locali, vestiti, mobili, ristoranti e persino la connessione Internet.

Oltre al cibo, vino e carni, tutto rigorosamente sardo, come il resto. Il Sardex è la "moneta a chilometro zero".

Solo che non è una moneta, nel senso che fisicamente non esiste, non ne hanno stampato nemmeno una banconota: esiste solo su Internet.

E quindi potremmo dire che tutti i Sardex in circolazione - oltre un milione, ma il dato cresce ogni giorno - stanno su un server, un computer in un piccolo comune agricolo tra Cagliari e Oristano: Serramanna.

Qui, in un bel casolare, l' hanno inventato quattro ragazzi, sardi naturalmente, non solo di nascita, ma di cultura. Fieri della loro terra. Quattro ragazzi che si erano stufati di sentirsi dire che i sardi sono "pochi, matti e divisi" come al tempo degli aragonesi; o che se un sardo deve chiedere qualcosa a dio sapendo che un suo vicino avrà il doppio, il sardo dirà: dio, cavami un occhio.

Luoghi comuni.

Il Sardex lo sta già dimostrando. Perché si basa su due principii di vita: il primo è che se il tuo vicino guadagna, stai meglio anche tu; e il secondo afferma che nessuno se ne va col bottino e nessuno resta solo. Sembra il nuovo vangelo. Ma uno di quelli apocrifi, come vedremo.

Questa parabola inizia nel 2006: Carlo Mancosu, Piero Sanna, Giuseppe e Gabriele Littera sono in giro per l' Europa e la sera si sentono su Skype. Non hanno studiato economia ma sono affascinati dal tema delle monete complementari, le alternative currencies. Nel mondo ce ne sono centinaia, spinte dal web e dalla fiducia reciproca invece che da una imposizione legale.

Secondo il Wall Street Journal, con la crisi di dollaro ed euro, rappresentano un possibile futuro dell' economia. Alcune sono molto controverse, al limite della legalità, come i Liberty Dollars o i Bitcoin; altre stanno avendo un buon successo come il Res belga o la sterlina ecologica di Brixton.

In Italia il fenomeno non è nuovo, racconta Pierluigi Paoletti, 52 anni, ex consulente finanziario dall' aria mite che oggi guida un piccolo movimento che sostiene da tempo cose non molto diverse da quelle di Occupy Wall Street. Per esempio: «La moneta è solo un sistema di sopraffazione che serve a fare i ricchi più ricchi».

Torniamo alla storia. «Il primo esperimento italiano - ricorda Paoletti - risale al luglio del 2000 quando il giurista Domenico Auriti, che si batteva contro l' usura, emise il Simec nel suo piccolo comune natale di Guardiagrele, in Abruzzo; decise che valeva il doppio delle lire, i pensionati si entusiasmarono per questa improvvisa iniezione di liquidità ma la guardia di finanza ne decretò bruscamente la fine. Tre anni dopo in Calabria il presidente del parco dell' Aspromonte Tonino Perna fece stampare alla Zecca dello Stato l' Ecoaspromonte: era bellissimo, troppo forse ed ebbe breve vita».

Arriviamo così al 2007 a Napoli: l' associazione Masaniello, che si ispirava alle cose che Paoletti scriveva in rete sul suo blog centrofondi. it stampa gli Scec, «lo sconto che cammina».

Spiega Paoletti, che oggi guida l' arcipelago Scec fatto di 10 mila associati con duemila imprese: «Formalmente e fiscalmente è uno sconto. In realtà è un dono che tu faia un altro membro della comunità affinché lui spenda i suoi soldi lì».

I modelli sono tanti, quindi. Ma nell' estate del 2006 i quattro ragazzi sardi si entusiasmano per l' antica vicenda del Wir, una moneta creata in Svizzera da 16 imprenditori per superare la crisi del ' 29: oggi rappresenta una rete di 80 mila aziende locali.

La Sardegna potrebbe fare lo stesso, pensano. E nel luglio del 2009 varano il Sardex: per semplicità decidono che un Sardex varrà un euro ma spiegare la moneta senza moneta non è affatto semplice.

Ci vogliono nove mesi a mettere a segno la prima transazione: da allora è un crescendo continuo, 420 aziende affiliate e un totale delle transazioni quadruplicato in un anno. Come funziona una moneta che non c' è? «Come una camera di compensazione di crediti e debiti», spiegano. Quando un' azienda entra nel circuito le vengono assegnati dei Sardex: «È un fido bancario ma senza interessi».

L' assenza di interessi è un punto fondamentale: non si fa denaro con il denaro, i soldi servono solo a scambiarsi beni e servizi. Questa apparente eresia si chiama finanza etica. E quindi i Sardex assegnati a chi aderisce rappresentano l' importo di beni e servizi che ciascuno è disposto a vendere e a comprare nel network.

Entro dodici mesi, quella posizione va pareggiata: se una azienda è in difficoltà si muovono tutte le altre e se proprio è impossibile tornare in pareggio - ma non è ancora mai accaduto - , la posizione viene saldata in Euro.

È questo intervento umano che fa dire al loro presidente Gabriele Littera, 26 anni, che «non abbiamo dietro un algoritmo, ma relazioni, cioé i nostri broker, che cercano di far combinare affari aiutando chi è più debole. La tecnologia è un ausilio».

L' euro però non scompare: e non solo perché ogni azienda decide di usare i Sardex per smaltire le possibili giacenze di magazzino, i probabili tavoli vuoti al ristorante, le ore inoperose di un artigiano.

Ma perché in euro si pagano l' Iva, le altre imposte, i contributi previdenziali. E questo rende il business legale oltre che trasparente (l' evasione nel mondo dei Sardex è impossibile essendo tutto tracciato in tempo reale).

I veri vantaggi sono altri, però. «La ricchezza resta sul territorio e vengono valorizzati i prodotti locali». E con la crisi in corso non è poco. Per questo il Sardex va.

Renato Soru, l' inventore di Tiscali, ne è un sostenitore entusiasta e prevede una espansione in tutta Italia: in Sicilia sta partendo un network gemello che si chiama Sicanex; a Torino in consiglio comunale il Popolo della libertà e i grillini concordano sulle necessità di creare il Taurino; e a Nantes, in Francia, due italiani sono al lavoro per creare il Bonùs.

Qualcosa sta cambiando insomma. E molto. Lo scorso 8 dicembre Giuseppe Littera si è messo la coppola ed è andato alla City di Londra dove è stato invitato a svelare l' arcano sardo a una platea di investitori internazionali; nel frattempo i dirigenti della Banca Centrale dell' Ecuador sono stati qualche giorno a Serramanna per imparare.

E finalmente sono arrivati i soldi (in euro) di un venture capital per sviluppare il progetto con obiettivo stratosferico: in dieci anni transare il 10% dell' economia sarda, due miliardi e rotti di euro.

Ci riusciranno? Dipende da come andrà il passaggio da moneta fra aziende (com' è adesso) a moneta per consumatori, previsto in primavera. Prima però è previsto un lancio atteso con molta curiosità in questo mondo: quello del Dropis.

Un sistema con il quale ciascuno diventerà banca centrale di se stesso. Lo stanno realizzando due giovani italiani, Sebastiano Scrofina e Dario Perna che stanno scrivendo righe su righe di codice per realizzare una moneta peer-to-peer senza confini: «Sarà lo Skype dello banche», sogna Scrofina, forte del recente sostegno di due investitori storici del mondo internet italiano.

Il Dropis funzionerà così: chiunque voglia vendere qualcosa in rete, si assegna via Internet dei Dropis pari al prezzo che vuole incassare. «I Dropis sono baratti di promesse» spiega Scrofina. Che valore hanno? «Quello che uno gli vorrà riconoscere. Quei soldi sono garantiti dai beni o servizi disponibili e sono subito spendibili in rete per chi li vuole accettare. È troppo poco? Con la crisi di liquidità che c' è in giro, è moltissimo».

Comunque vada a finire, l' impressione è che la guerra all' euro sia appena iniziata.


Decreto Liberalizzazioni, Clamoroso: art. 44, arrivano le carceri private

di Deborah Billi - http://crisis.blogosfere.it - 21 Gennaio 2012

Carceri affidate ai privati, con obbligo di partecipazione delle banche. Ecco cosa si nasconde nell'art. 44. La mafia ringrazia: finalmente potranno gestirsi le carceri da soli.

Mentre eravamo tutti intenti a preoccuparci di tassisti, crociere e forconi, guarda guarda cosa ti infilano nel decreto "liberalizzazioni" i nostri amici seduti al governo. Una ventina di righe all'articolo 44, mica niente di che, che ancora nessuno ha letto e di cui nessun giornale ha fatto ancora parola.

Il provvedimento si chiama Project financing per la realizzazione di infrastrutture carcerarie, ed in sintesi realizza un sogno da tempo coltivato: quello di affidare le carceri ai privati. Si sa, le carceri son piene, mica vorremo un indulto al giorno con tutti i delinquenti che ci sono oggidì.

Leggetelo, lo trovate qui.

Non solo si permette ai privati costruire le carceri, ma si scrive nero su bianco che

al fine di assicurare il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario dell'investimento, al concessionario è riconosciuta, a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell'infrastruttura e per i servizi connessi, ad esclusione della custodia.

Questo significa che la gestione carceraria, escluse le guardie, è affidata a privati imprenditori. Riuscite ad immaginare cosa significa ciò in Italia, con infiltrazioni mafiose a tutti i livelli ed in special modo nell'edilizia? Che le carceri saranno gestite dai delinquenti.

Quelli di serie A, naturalmente, perché quelli di serie B saranno il "prodotto", ovvero coloro su cui si farà business. Un tot a carcerato. E il carcere, naturalmente, dovrà essere sempre pieno altrimenti non conviene: non buttate più cartacce per terra, mi raccomando.

C'è dell'altro: Il concessionario nella propria offerta deve prevedere che le fondazioni di origine bancaria contribuiscano alla realizzazione delle infrastrutture di cui al comma 1, con il finanziamento di almeno il 20 per cento del costo di investimento.

In soldoni, è fatto obbligo di far partecipare le banche alla spartizione della torta. Torta di denaro pubblico, perché è sempre lo Stato che paga. A meno che non si voglia far lavorare a gratis i detenuti, in concorrenza con le aziende, e con il compenso intascato dall'"imprenditore carcerario".

Funziona così, in USA. Siamo fiduciosi che, nel decreto "privatizzazioni", si privatizzerà anche il lavoro schiavo dei carcerati.

Io credo che un provvedimento del genere avrebbe meritato un dibattito pubblico in un "Paese normale". Che una simile cessione di democrazia, di controllo e di libertà da parte dello Stato dovrebbe essere ben conosciuta dai cittadini e dall'opinione pubblica, e non infilata di soppiatto tra gli articoli mentre il gregge è distratto a pensare ai taxi.



Le elite globali stanno nascondendo 18 trilioni di dollari nelle banche offshore
da http://theeconomiccollapseblog.com - 20 Gennaio 2012
Traduzione per
www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Negli ultimi giorni, il fatto che Mitt Romney avesse parcheggiato milioni di dollari nelle Isole Cayman è comparso sulle prime pagine in tutto il mondo. Ma quando si parla delle banche offshore, quello che ha fatto Mitt Romney sono bazzecole.

La verità è che l'élite globale sta nascondendo un ammontare quasi incredibile di denaro nelle banche offshore.

Secondo una scioccante ricerca del FMI, l'élite globale detiene un totale di 18 trilioni di dollari nelle banche offshore. E questo dato non conteggia i soldi che sono in Svizzera. È una quantità sbalorditiva di soldi. Ricordiamoci che il PIL degli Stati Uniti nel 2010 è stato solo di 14,58 trilioni di dollari.

Quindi perché l'élite globale va così lontano per nascondere i soldi nelle banche offshore? Bene, ci sono due ragioni principali. Una è il riserbo bancario e l'altra è la bassa tassazione.

Il riserbo è un buon argomento per coloro che sono coinvolti in attività illegali come lo smercio di stupefacenti, ma la ragione più grande per cui le persone spostano soldi nelle a banche offshore è per evitare di pagare le tasse.

Alcuni aprono conti bancari all’estero perché vogliono legalmente ridurre le loro tasse e altri aprono conti bancari all'estero perché vogliono illegalmente evitare le tasse.

Sareste assolutamente sbalorditi nel sapere cosa fanno le grandi aziende e le persone ricche per liberarsi dal pagamento delle imposte.

Sfortunatamente, la vasta maggioranza delle persone non ha le risorse o la conoscenza per fare questi giochi, e allora siamo tassati nell’oblio.

E allora perché le chiamano “banche offshore”?

Il termine si sviluppò originariamente perché le banche delle Isole del Canale erano "di fronte alla costa" (ndt: offshore) del Regno Unito. La maggior parte delle banche offshore si trova ancora nelle isole. Le Isole Cayman, le Bermuda, le Bahamas e l'Isola di Man sono un esempio. Gli altri "centri bancari offshore", come Monaco, non sono proprio "di fronte alla costa", ma il termine si riferisce anche a loro.

Tradizionalmente, questi centri tecnici bancari e lungo la costa sono stati molto attraenti a criminali ed all'élite globale perché loro non direbbero a nessuno (incluso governi) sui soldi che chiunque aveva parcheggiato là.

Oggi alcuni governi (particolarmente quello degli Stati Uniti) stanno tentando di dare una sterzata, ma non assisteremo alla fine delle banche offshore molto rapidamente.

La quantità di soldi che confluiscono in queste banche offshore è assolutamente sbalorditiva.

È stato stimato che l’80 per cento di tutte le transazioni bancarie internazionali avviene tramite attraverso queste banche offshore. 1,4 trilioni di dollari sono detenuti nelle banche delle isole Cayman.

Un articolo del Guardian ha valutato che un terzo di tutta la ricchezza del pianeta è stipato nelle banche offshore, mentre altri ritengono che almeno la metà di tutto il capitale mondiale affluisca in qualche momento nelle banche offshore.

Evidentemente, tutta questa elusione fiscale significa che i governi di tutto il mondo si stanno lasciando scappare un bel gruzzolo.

È stato stimato che il governo statunitense sta perdendo 100 miliardi di dollari l’anno a causa delle banche offshore. Altri ancora alzano ancora di più questo dato.

Evitare di pagare le tasse è un gioco che l'élite globale padroneggia. Giocano a una partita totalmente diversa da quella che giochiamo noi. Non se ne stanno fermi come idioti, schiaffeggiati dalle tasse. Assumono invece i migliori esperti e si affidano a ogni trucco possibile per trattenere più soldi che possono.

Al giorno d’oggi, avvantaggiarsi dei paradisi fiscali non è troppo complicato. Ciò che segue è un estratto di un recente articolo di Politico:

Uno scenario plausibile può essere questo: assumo una contabile. Nel fare il suo lavoro, la mia contabile mi dice che, se firmo alcuni documenti legali e instrado i miei soldi in una piccola isola caraibica, potrei trattenere dei soldi e pagare un aliquota più bassa. Avrei potuto guadagnare i miei soldi negli Stati Uniti, ma legalmente posso dire che, in effetti, sono stati guadagnati in un paradiso fiscale.

Se è legale, forse dovremmo soffermarci un po’ di più.

Dopo tutto, se questi giochi sono così positivi per Mitt Romney, perché non dovrebbero esserlo anche per noi?

Durante una sosta nella campagna elettorale Romney ha detto di recente:

Io vi posso dire che noi rispettiamo le leggi fiscali.

Certamente gli credo quando lo dice. Ma è quello che dice dopo che è sconcertante:

E se c'è un'opportunità per evitare le tasse, come chiunque altro in questo paese non ci lasceremo scappare quest'opportunità.

Gli credo anche su quest’ultima affermazione.

ABC News ha di recente rivelato che Bain Capital ha addirittura 138 fondi offshore nelle Isole Cayman.

Deve essere qualcosa di buono se ti va di farlo 138 volte.

Ma Bain Capital era anche molto occupata in altri centri bancari offshore.

Una delle più grandi società fittizie che Bain ha formato nei Caraibi è stata chiamata Sankaty High Yield Asset Investor Ltd. Non aveva un ufficio nelle Bermuda e non aveva personale nelle Bermuda. Ma ha aiutato i di Bain Capital a evitarsi un sacco di tasse.

Il prossimo è un articolo del 20007 del Los Angeles Times:

Nelle Bermuda Romney è stato il presidente e il solo azionista per i quattro anni di Sankaty High Yield Asset Investors Ltd. Ha incanalato soldi negli hedge fund Sankaty di Bain Capital che investono in obbligazioni e altri titoli emessi dalle corporations, così come prestiti bancari.

Come migliaia di altre entità finanziarie, Sankaty ha un ufficio o personale alle Bermuda. La sua unica presenza consiste di una targhetta nell'ufficio di un avvocato nel centro di Hamilton del centro, capitale dell’isola del territorio britannico.

"È solo una cassetta postale", ha detto Marc B. Wolpow che ha lavorato con Romney per nove anni in Bain Capital e che formò Sankaty Ltd. Nell’ottobre del 1997 senza mai visitare le Bermuda. "C'è nessuno che ci lavora a parte gli avvocati."

La quantità di soldi che sono versati con l'imbuto in Sankaty è sempre più stupefacente:

Oggi Bain Capital gestisce 60 miliardi di dollari in assets, secondo un portavoce. Il totale include 23 miliardi di dollari in debito di Sankaty e fondi di credito. Mezza dozzina di affiliati di Sankaty ora è attivo alle Bermuda, come riporta il registro delle aziende.

Gli hedge fund di Sankaty sono organizzati come associazioni in Delaware che producono reddito tassabile investendo in obbligazioni a tasso fisso e in altri strumenti di debito. In base alle leggi fiscali, anche le istituzioni statunitensi esentate dalle tasse devono affrontare una tassa del 35% se investono direttamente in questi hedge fund. Investendo invece in un'azienda delle Bermuda, le tasse sono legalmente bloccate, dicono gli esperti.

Ovviamente, tutto questo è perfettamente legale.

Quindi nessuno si mette nei guai.

Tenendo i soldi offshore, anche quelli che gestiscono questo tipo di fondi possono evitare di essere tassati.

Victor Fleischer, professore alla University of Colorado Law School ha da poco spiegato come funziona:

L'idea che sta dietro ad alcune delle strategie delle isole Cayman era che il reddito ricevuto dai direttori dei fondi per gestire i soldi sarebbe stato tenuto offshore nelle isole Cayman, e il beneficio maggiore è che si può posticipare la tassazioni di questi introiti a una data futura, e che si possono reinvestire i soldi nelle isole Cayman e nessuno di questi fondi reinvestiti viene tassato finché non se ne esce."

Quindi Romney stava facendo questo?

Non lo potremo mai sapere, a meno che non ci mostri le sue denunce dei redditi.

Noi sappiamo che Romney ha milioni di dollari della propria ricchezza investiti in paradisi fiscali.

Ciò che segue arriva da ABC News:

Oltre a pagare l’aliquota più bassa sui profitti del suo investimento, Romney ha almeno 8 milioni di dollari investiti in almeno dodici fondi elencati nel registro delle Isole Cayman. Un altro investimento, che Romney riporta con un valore che va tra i 5 milioni e 25 milioni di dollari, è stato domiciliato alle Cayman, come mostra una registrazioni titoli.

Ma Romney non ha investito soldi solo nelle Isole Cayman. Sembra che i suoi soldi siano investiti in una pletora di paradisi fiscali offshore.

La citazione seguente è di un articolo della Reuters:

I fondi Bain in cui Romney ha investito sono sparpagliati dal Delaware alle Isole Cayman fino alle Bermuda, dall’Irlanda a Hong Kong, secondo un'analisi della Reuters sulle registrazioni titoli.

C'è qualcosa di sbagliato in tutto questo?

Beh, dipende da cosa si intende per "sbagliato".

Quello che sta facendo Romney è perfettamente legale.

Ma è pessimo. L’avvocato di Washington Jack Blum ha detto di recente a ABC News ciò che segue sulle finanze di Romney:

Le sue finanze personali sono un memorandum di ciò che è sbagliato nella tassazione degli Stati Uniti.

Ora possiamo avere alcuni indizi sul perché Romney non voglia rilasciare le sue vecchie denunce dei redditi.

Ma, come riportato sopra, quello che fa Romney sono bazzecole in raffronto a quello che fanno gli ultra-ricchi.

Il Congresso sta cercando di mettere un freno alle banche offshore, ma gli ultra-ricchi sono sempre avanti due o tre passi avanti.

Gli ultra-ricchi saranno pronti a tutto pur di evitare di pagare le tasse.

Infatti il Washington Post ha riportato che un numero sempre maggiore di ricchi sta decidendo di rinunciare alla cittadinanza invece di affrontare l’ira dell'IRS.

Gli ultra-ricchi non sono comunque troppo disturbati dal privarsi della cittadinanza nazionale. Se volessero influenzare un'elezione, possono averne ancora di più donando qualche milione di dollari a un "Super PAC " di quanto possono fare con i pochi voti che hanno a disposizione.

In un articolo precedente, ho descritto come gli ultra-ricchi utilizzino le banche offshore come un “sistema bancario ombra" che gioca con regole di cui la maggior parte delle persone ignora l’esistenza.

È un sistema bancario ombra di cui la gran parte degli Americani non sa niente. La gran parte degli Americani non ha le risorse per poter formare compagnie fittizie in una mezza dozzina di paesi diversi così da poter “filtrare” i profitti. La maggior parte degli Americani non sa niente di complicati piani di esenzione fiscale usati dai fiscalisti, come il “Double Irish” e il "Dutch Sandwich". La maggior parte degli Americani non avrebbe idea di come piazzare la maggior parte degli introiti nelle Bermuda per evitare di pagare le tasse.

Molti che fanno parte dell’élite globale semplicemente non si preoccupano che il debito degli USA sta arrivando alla stratosfera. Tutto ciò che vogliono è tenersi i soldi in tasca il più possibile.

Ci sono ovviamente eccezioni a questa regola. Warren Buffett ha vergato di recente un assegno al Tesoro degli Stati Uniti di poco più di 49.000 dollari per aiutare a pagare il debito nazionale.

Ma considerando il fatto che il debito nazionale degli Stati Uniti sta aumentando di più di 100 milioni di dollari l’ora, non ha fatto molto per aiutare.

Il nostro sistema è davvero a pezzi e l'élite globale sta scappando con il cadavere insanguinato. Nel corso dei decenni hanno attentamente plasmato le regole di modo che sempre più ricchezza vada a finire nelle loro tasche, e hanno attentamente plasmato di modo che sempre più ricchezza rimanga nelle loro tasche.

Naturalmente, se riusciremo a liberarci della tassazione personale e di quella alle imprese, sostituendola con un sistema totalmente nuovo, potremmo liberarci di questo gioco una volta perInserisci link tutte.

Ma che probabilità date a un’eventualità del genere?



L’Iran determinato a sostenere Bashar al-Assad fino alla fine
di Georges Malbrunot - Le Figaro - 19 Gennaio 2012
Traduzione a cura di Simone Santini

Ufficiali della guardia repubblicana siriana si addestrano a Teheran.

Salvare l'alleato siriano e aiutarlo, anche a prezzo di dolorose riforme: dopo dieci mesi di rivolta contro il regime di Bashar al-Assad, l'Iran reste più che mai fedele all'appoggio strategico verso Damasco, cosciente che gli Occidentali e le monarchie sunnite del Golfo continueranno a fare di tutto per privare Teheran del suo principale sostegno nel mondo arabo.

Dal mese scorso, come abbiamo appreso da una fonte attendibile, i guardiani della rivoluzione (pasdaran) hanno cominciato ad addestrare in Iran una cinquantina di ufficiali della guardia repubblicana siriana.

L'addestramento durerà nove mesi e riguarda l'unità 101 di questa struttura di élite, forte di 15mila uomini, il meglio delle armate di Assad e membri, soprattutto, della minoranza alauita cui appartiene lo stesso presidente.

Da quando la quarta divisione è stata dislocata alla periferia sud di Damasco, è proprio la guardia repubblicana a controllare, invece, gli accessi a nord della capitale, il cui centro è stato risparmiato, finora, dall'insurrezione.

Questa cooperazione giunge nel momento in cui gli Stati Uniti sono «convinti» che l'Iran continui a rifornire armi per aiutare la repressione contro i manifestanti da parte del regime siriano. La visita a Damasco, ad inizio gennaio, del generale Qassem Suleimani, a capo della unità al-Quds, il braccio armato dei guardiani della rivoluzione fuori dall'Iran, è, secondo Washington, il segnale più concreto che questo aiuto comprende anche materiale militare (munizioni, soprattutto).

L'aiuto militare prosegue.

«Siamo certi che Suleimani è stato ricevuto dalle più alte cariche del governo siriano, compreso il presidente Assad», ha dichiarato di recente un funzionario americano.

A giugno l'Unione europea aveva posto sotto sanzioni personali sia Suleimani che il capo dei pasdaran, il generale Mohammed Ali Jafari, nonché Hussein Tayyeb, coordinatore del sostegno logistico a Damasco.

In due riprese, qualche settimana prima, armi iraniane destinate alla Siria erano state intercettate da Israele attraverso l'aeroporto turco di Diarbakyr e via mare. L'Iran è altresì sospettato di aver spalleggiato la Siria nella cyber guerra contro gli insorti.

«L'Iran aiuterà la Siria in caso di attacco militare straniero contro Damasco», ha affermato mercoledì al canale al-Arabiya un dirigente dei guardiani della rivoluzione. Questi rispondeva all'emiro del Qatar, Sheikh Hamad al-Thani, che, sabato scorso, è stato il primo leader arabo a prospettare l'invio di truppe arabe in Siria. In questo modo sia gli Iraniani sciiti che gli Arabi sunniti hanno marcato le loro posizioni sul dossier siriano.

Ma l'aiuto iraniano a Damasco non si limita alle armi. Attraverso l'Iraq, Teheran avrebbe promesso a Damasco di accollarsi, segretamente, il petrolio che l'Europa ha deciso di non acquistargli più.

Regolarmente, da sei mesi, intermediari iraniani approcciano anche gli oppositori siriani in esilio, secondo quanto rivela un dirigente dei Fratelli musulmani, Mohammed Faruk Tayfur, al giornale saudita al-Hayat. «Ci hanno proposto di entrare a far parte della direzione del governo a condizione che rinunciamo a chiedere la destituzione di Bashar al-Assad», ha detto Tayfur.

Anche a Parigi, un altro dirigente dell'opposizione siriana, stavolta laico, è stato contattato in tal senso, negli ultimi mesi, da emissari iraniani che l'avevano già incontrato in estate. Non avendo ricevuto risposte da Teheran circa le condizioni che aveva formulato, l'oppositore ha declinato le sollecitazioni iraniane.



Giornalista francese ucciso in Siria. "Sono stati i ribelli"
di Georges Malbrunot - Le Figaro - 20 Gennaio 2012
Traduzione a cura di Simone Santini

«Sappiamo che è stato un grossolano errore commesso dall'Esercito siriano libero» ha confidato a Le Figaro un responsabile della Lega araba, confermando quanto annunciato da un dirigente di una organizzazione dei diritti dell'uomo.

Qualche ora dopo l'attacco che ha provocato la morte di Gilles Jacquier, inviato di France 2 a Homs, mercoledì 11 gennaio, un dirigente di una organizzazione dei diritti dell'uomo della città aveva confidato ad un responsabile dell'opposizione siriana in Francia che si era trattato di «una bestialità» commessa dagli avversari di Bashar al-Assad.

«Al telefono, il mio interlocutore, che conosco da tanti anni, mi ha detto in arabo che era stata una "djahachaneh", come dire una sciocchezza priva di senso da parte degli oppositori».

Secondo quest'ultimo, il suo interlocutore sapeva bene chi si trovava dietro il mortaio che ha ucciso sul colpo il giornalista di France 2, in visita quel giorno a Homs, epicentro della rivoluzione contro il potere di Assad.

«Subito dopo l'attacco si è saputo rapidamente, in certi ambienti di Homs, chi aveva sparato», ha aggiunto la fonte. Immediatamente oppositori e potere si erano vicendevolmente accusati della morte di Gilles Jacquier.

Questo esponente dell'opposizione si era confidato il giorno successivo l'attacco. Ma era necessario avere altri riscontri prima che Le Figaro potesse divulgare la notizia. Così, il giorno stesso, giovedì 12 gennaio, la nostra fonte trasmise il contenuto della conversazione con il suo interlocutore a Nabil al-Arabi, segretario generale della Lega araba.

Nel quadro di un piano di uscita dalla crisi, l'organizzazione panaraba disponeva di osservatori sul posto a Homs. «Li abbiamo sollecitati affinché fosse fatta piena verità sulla questione», confidava mercoledì scorso un diplomatico del Quai d'Orsay.

I ribelli «spinti all'errore»

Sul terreno, le ricerche degli osservatori arabi hanno progredito molto rapidamente. Venerdì, un responsabile della Lega araba dichiarava a Le Figaro «sappiamo ormai che c'è stata una sventatezza commessa dall'Esercito siriano libero.

L'Esl è stato spinto all'errore dai miliziani pro-Assad, che sfidavano i loro uomini da molti giorni. I disertori hanno voluto dare loro una lezione e intimidirli. Sappiamo che i tiri sono venuti da Bab Sbah», un bastione dell'opposizione che fronteggia il quartiere di Nouzha, popolato da alauiti pro-Bashar, dove Jacquier è stato ucciso.

Per ragioni di sicurezza, il responsabile dell'organizzazione dei diritti dell'Uomo a Homs e il suo contatto dell'opposizione in Francia hanno chiesto di conservare l'anonimato.

Ma quest'ultimo è pronto a testimoniare davanti a una commissione d'inchiesta. «Aspetto che un giudice indipendente venga nominato. Anche se il caso ci sfavorisce, la verità deve essere chiarita», ha sostenuto l'uomo, che ha confidato di aver ricevuto, negli ultimi giorni, altre telefonate da Homs confermanti la tesi della responsabilità dell'Esercito siriano libero.

Queste rivelazioni contraddicono l'ipotesi di manipolazione da parte del potere siriano alimentate dalle testimonianze di diversi giornalisti presenti accanto a Gilles Jacquier nel momento dell'attacco, ovvero «elementi inquietanti» come il brusco allontanamento dei militari incaricati della loro sorveglianza dal momento del primo tiro di mortaio. Secondo loro il regime avrebbe voluto discreditare i suoi oppositori mostrando al mondo che i giornalisti erano presi di mira da «bande armate».

Gilles Jacquier, 43 anni, si trovava a Homs in compagnia di diversi giornalisti, svizzeri, belgi e libanesi. Il loro soggiorno era stato organizzato da Suor Maria-Agnese, una religiosa libanese residente a Homs.

Molti siriani hanno trovato la morte in quello stesso giorno nei quartieri di Nouzha e Akrima, colpiti durante sparatoie nello spazio di una mezzora, poco dopo la morte di Jacquier.

«Secondo me i colpi provenivano dal quartiere di Bab Sbah» ha sostenuto giovedì sera a France 2 il fotografo libanese Joseph Eid, dell'AFP, che si trovava nel gruppo dei giornalisti colpiti.

Secondo membri dell'opposizione, i disertori dell'Esercito siriano libero possiedono mortai. «Questi armamenti sono troppo imprecisi per una missione di "esecuzione" mirata», ci hanno confermato numerosi generali francesi.Inserisci link


Iran: la santa alleanza?
di Michele Paris - Altrenotizie - 20 Gennaio 2012

In un clima di crescenti minacce e aperte provocazioni verso l’Iran, gli Stati Uniti stanno intensificando lo sforzo diplomatico con i loro alleati per aumentare le pressioni sul governo di Teheran e, ufficialmente, convincerlo a rinunciare al suo discusso programma nucleare.

Pur mantenendo aperta ogni ipotesi, compresa quella militare, è l’arma dell’embargo sulle esportazioni di petrolio che Washington sta promuovendo in questo inizio d’anno per colpire l’economia iraniana e destabilizzare il regime.

La campagna diplomatica anti-iraniana è in pieno svolgimento in questi giorni con delegazioni americane inviate in vari paesi per spingere i rispettivi governi a sottostare al dettato delle sanzioni unilaterali firmate dal presidente Obama lo scorso 31 dicembre. Le nuove disposizioni USA prevedono l’esclusione dal mercato americano di qualsiasi entità - pubblica o privata - che faccia affari con la Banca Centrale iraniana, la quale gestisce appunto le transazioni relative alle esportazioni di greggio.

Le attenzioni dell’amministrazione Obama si stanno concentrando in particolare sugli alleati asiatici. Martedì, il consigliere speciale del Dipartimento di Stato, Robert Einhorn, e l’assistente al Segretario al Tesoro per i crimini finanziari, Daniel Glaser, hanno incontrato a Seoul il vice ministro degli Esteri sudcoreano, Kim Jae-shin, al quale hanno manifestato la richiesta di ridurre sensibilmente le importazioni di petrolio dall’Iran.

Secondo il quotidiano locale Dong-A Ilbo, gli Stati Uniti vorrebbero vedere dimezzate le forniture di petrolio dall’Iran alla Corea del Sud, mentre quest’ultima sarebbe disponibile a valutare al massimo un taglio del 30 per cento.

Seoul paga tramite la Banca Centrale iraniana le forniture di greggio, che ammontano a circa il 10 per cento del totale del proprio fabbisogno energetico. Nonostante la promessa di collaborare con Washington, i sudcoreani si sono mostrati piuttosto cauti, poiché temono per la propria sicurezza energetica e per una possibile impennata del prezzo del petrolio che farebbe lievitare l’inflazione, con conseguenze nefaste per le chances di rielezione del presidente conservatore, Lee Myung-bak, a pochi mesi dal voto.

Dopo la visita in Corea del Sud, la delegazione americana si recherà in Giappone, altro importatore di greggio iraniano cui verrà chiesto di sottostare alle nuove sanzioni USA.

Le resistenze di altri paesi a limitare i rapporti commerciali con Teheran appaiono decisamente più esplicite. L’India, ad esempio, tramite il ministro degli Esteri Ranjan Mathai, ha fatto sapere martedì di voler continuare ad acquistare il petrolio iraniano senza chiedere alla Casa Bianca di essere esentata dalle sanzioni, come prevede la legge licenziata a dicembre dal Congresso.

In sostanza, Nuova Delhi ha deciso di ignorare del tutto le misure decise a Washington, anche perché, malgrado alcune dispute sui pagamenti nel recente passato, l’Iran è per l’India il secondo fornitore di petrolio dopo l’Arabia Saudita.

Ancora più ferme nella loro opposizione a qualsiasi misura contro l’Iran sono poi Cina e Russia. Pechino è il primo partner commerciale di Teheran, da cui riceve il 22 per cento delle proprie importazioni di petrolio e, come previsto, ha respinto le sanzioni americane.

Il governo cinese vuole proseguire la collaborazione con la Repubblica Islamica, nonostante abbia recentemente ridotto le importazioni di greggio dall’Iran a causa di una contesa sul prezzo.

La sicurezza energetica per la Cina viene prima di tutto e Pechino, per assicurarla, intende mantenere rapporti cordiali sia con l’Iran che con i paesi alleati degli USA in Medio Oriente, come dimostra la visita in corso nella regione del premier, Wen Jiabao, il quale ha appena siglato una serie di accordi in ambito petrolifero e nucleare con il regime saudita.

Mosca, da parte sua, appare anche più esplicita nel condannare integralmente la politica USA nei confronti dell’Iran, come ha confermato mercoledì il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov. In una dichiarazione riportata dalla Associated Press, il capo della diplomazia russa si è detto seriamente preoccupato che un attacco militare contro Teheran possa innescare una “reazione a catena” che finirebbe per destabilizzare l’intero pianeta. Lavrov ha anche criticato l’imposizione delle sanzioni, le quali penalizzano l’economia iraniana colpendo soprattutto la popolazione.

Se Cina e Russia pongono al primo posto i rispettivi interessi riguardo la questione iraniana, l’atteggiamento dell’Unione Europea sembra al contrario privilegiare l’alleanza con gli Stati Uniti a scapito degli interessi di molti paesi membri.

L’UE sta infatti valutando l’adozione di un embargo totale sul greggio iraniano e la decisione definitiva dovrebbe essere presa nel corso di un summit in programma il prossimo 23 gennaio.

Alcuni paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna, appoggiano in pieno il provvedimento, mentre altri - tra cui Italia e Grecia, le quali importano quantitativi importanti di petrolio da Teheran a prezzi vantaggiosi - hanno posto delle condizioni.

Come ha fatto notare qualche giorno fa in un’intervista diffusa dall’agenzia di stampa Mehr il rappresentante iraniano all’OPEC, Seyyed Mohammad Ali Khatibi, “uno scenario nel quale le esportazioni di petrolio verso l’UE vengono bandite corrisponderebbe ad un suicidio economico per i paesi membri”.

Secondo alcune statistiche, l’Iran esporta verso l’Europa circa 800 mila barili di petrolio al giorno e un eventuale embargo provocherebbe un ulteriore aumento del prezzo del greggio, peggiorando la crisi economica in atto.

A confermare l’autolesionismo dei governi europei è stato il ministro degli Esteri di Madrid, José Manuel Garcia-Margall, il quale mercoledì ha affermato che il suo paese potrebbe appoggiare le sanzioni anche se esse causeranno “gravi danni” ai due principali importatori spagnoli di petrolio iraniano.

Per far fronte al possibile venir meno del petrolio iraniano sul mercato internazionale - circa 2,2 milioni di barili al giorno - il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, Ali Naimi, l’altro giorno in un’intervista alla CNN ha promesso di aumentare la produzione di greggio del proprio paese fino a 2,7 milioni di barili al giorno, portandola complessivamente a 11,8 milioni di barili.

L’uscita di Naimi ha suscitato le ire di Teheran, da dove il ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, ha invitato i sauditi a “riflettere e a riconsiderare la proposta”. Per Salehi, quelli che provengono da Riyadh sono “segnali poco amichevoli” e potrebbero creare problemi tra l’Iran e l’Arabia Saudita.

Oltre alla campagna diplomatica e alla guerra economica, gli USA e i loro alleati continuano a portare avanti anche operazioni segrete contro Teheran, i cui effetti si sono visti solo pochi giorni fa con l’assassinio nella capitale dell’ennesimo scienziato nucleare iraniano, Mustafa Ahmadi Roshan.

Come ha messo in luce un’indagine del Sunday Times pubblicata il 15 gennaio, l’operazione è con ogni probabilità da attribuire al Mossad israeliano, verosimilmente con la collaborazione dell’organizzazione terroristica sunnita attiva in Iran, Jundallah. Azioni simili, ovviamente non commentate o smentite da Washington e Tel Aviv, sono mirate a provocare una reazione da parte iraniana, così da giustificare un’aggressione militare.

Un attacco preventivo contro le installazioni nucleari iraniane non sembra in ogni caso imminente. Qualche segnale di cautela da parte di Israele è giunto negli ultimi giorni. Non solo è stata rimandata un’esercitazione militare congiunta tra USA e Israele che avrebbe potuto alimentare le tensioni con Teheran, ma anche il ministro della Difesa Ehud Barak nel corso di un’intervista alla radio militare israeliana mercoledì ha affermato che la decisione da parte del suo governo di attaccare l’Iran è ancora “molto lontana”.

Queste rassicurazioni contribuiscono in ogni caso ben poco a dissipare i timori di un nuovo conflitto in Medio Oriente dalle conseguenze rovinose. Stati Uniti e Israele sembrano infatti disposti a tutto pur di spezzare l’asse di resistenza nella regione che si fonda precisamente sulla Repubblica Islamica.

Minacce, sanzioni e operazioni segrete di stampo terroristico rimarranno così all’ordine del giorno fino a quando a Teheran non verrà installato un regime meglio disposto verso i loro interessi.



Attenti, la guerra all’Iran è già cominciata: in Siria
di Giorgio Cattaneo - www.libreidee.org - 21 Gennaio 2012

Misteriosi gruppi armati sparano sulla polizia, che risponde al fuoco e fa i primi morti, subito elevati al rango di “martiri”. E’ l’inizio della “narrazione del genocidio”, modello Libia. In pochi mesi, il governo è isolato dal resto del mondo e costretto a rincorrere l’emergenza.

Ma il resto del mondo non sta a guardare: si affretta anzi ad ammassare uomini e mezzi alla frontiera, preparando un “corridoio umanitario” da cui gli “insorti” scateneranno l’offensiva finale.

Si scrive Siria, ma si legge Iran: la caduta di Damasco, pianificata a tavolino dagli Usa, provocherà il crollo di Hezbollah in Libano e il totale isolamento di Teheran, vero obiettivo della prossima guerra americana che il presidente Barack Obama sta costruendo giorno per giorno.

La guerra con l’Iran è già cominciata, avverte Aisling Byrne su “Asia Times” in un reportage ripreso da “Megachip”, citando fonti israeliane: nulla indebolirebbe il paese degli ayatollah più della perdita della Siria, sostiene il sovrano saudita Abdullah. Lo conferma Tom Donilon, consigliere di Obama per la sicurezza nazionale: la fine del regime di Bashar Assad «rappresenterebbe il peggior scacco per l’Iran in tutta la regione».

Grandi manovre, come ammette Jeffrey Feltman, sottosegretario di Stato per il Medio Oriente: obiettivo, «sostenere l’opposizione e strangolare diplomaticamente e finanziariamente il regime siriano fino a quando il risultato non sarà raggiunto».

Come sempre, circolano dossier illuminanti: da quello del Brooking Institute redatto già nel 2009 (titolo, “Quale strada per la Persia?”), al recentissimo “Verso una Siria del dopo-Assad”, firmato da John Hannah e Martin Indyk, entrambi ex funzionari neoconservatori dell’esecutivo Bush-Cheney ed entrambi fautori del rovesciamento del governo siriano, magari col solito “aiutino” di personaggi legati ad Al Qaeda.

La prima battaglia, cruciale, è quella della disinformazione a tappeto, ovvero la «deliberata costruzione di una narrativa in larga parte menzognera, che raffigura dimostranti democratici disarmati mentre vengono ammazzati a migliaia mentre protestano pacificamente contro un regime oppressivo e violento, una “macchina per uccidere” guidata dal “mostro” Assad», sintetizza Aisling Byrne.

Il precedente perfetto è quello della Libia, dove i media hanno denunciato “stragi di civili” senza una sola notizia realmente accertata. Strumenti cardine nell’operazione Siria sono Al Jazeera e Al Arabiya, televisioni di regime controllate dalle monarchia petrolifere del Qatar e dell’Arabia Saudita, decise a far cadere il governo di Damasco.

Per “Asia Times”, «a dieci anni di distanza dalla guerra in Iraq, pare che nessuna delle lezioni del 2003 – dalla demonizzazione di Saddam Hussein alle armi di distruzione di massa che non c’erano – sia stata imparata».

Nessun controllo sulle fonti del presunto “genocidio”: l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani è basato in Gran Bretagna e finanziato attraverso un fondo con sede a Dubai, eppure «ha avuto un ruolo guida nel fornire sostegno alla narrativa dei massacri di migliaia di manifestanti pacifici ad opera di infiltrati, di “fatti appurati” e di altre ed esagerate attestazioni di “massacri”».

Totalmente ignorata l’unica vera notizia: secondo un recente sondaggio di “YouGov” commissionato dalla Qatar Foundation, il 55% dei siriani non vuole la caduta di Assad.

«Il fatto che nessuno dei quotidiani di primo piano del mainstream e nessun notiziario televisivo abbiano riportato i risultati del sondaggio di “YouGov” non è strano: non si adattavano alla loro narrativa», ironizza Aisling Byrne.

Persino fonti dell’intelligence americana ammettono che realtà è ben altra: «La maggior parte delle asserzioni più serie fatte dall’opposizione siriana si sono rivelate esagerazioni grossolane o menzogne pure e semplici, rivelando più l’inconsistenza dell’opposizione che non l’instabilità del regime siriano», avverte Stratfor, importante struttura dei servizi segreti statunitensi. E l’“American Conservative” rivela che «gli analisti della Cia non nascondono il loro scetticismo nei confronti di questa marcia di avvicinamento alla guerra».

Il rapporto alle Nazioni Unite che parla di 3500 civili finora uccisi dai soldati di Assad «è basato in larga parte su fonti che stanno coi ribelli e non è suffragato da prove», tant’è vero che «la Cia ha rifiutato di sottoscriverne l’appello».

Questo però non significa che piano proceda comunque, anche se con tempi più lunghi: «E’ chiaro – afferma il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov – che l’obiettivo è quello di provocare una catastrofe umanitaria, in modo da avere il pretesto per pretendere un’intromissione da parte di paesi esteri».

Guida pratica per il rovesciamento dei governi: il terzo capitolo di “Una via per la Persia” tratta proprio della Siria, e scrive: «Sostenere di nascosto l’insurrezione consentirebbe agli Stati Uniti di poter negare in modo plausibile di averlo fatto, riducendo i contraccolpi sul piano diplomatico e politico».

Infatti, «dopo che il governo sarà per alcune volte finito sotto scacco, ci sarà anche il pretesto per agire». Secondo questa relazione, l’intervento militare dovrebbe essere intrapreso solo dopo il fallimento di ogni altra opzione: davanti a questi fallimenti la “comunità internazionale” messa davanti al fatto compiuto riterrebbe che è stato il governo a “tirarsi addosso l’attacco militare” dopo aver rifiutato ogni miglior via d’uscita.

L’agenda americana è esplicita: si tratta di finanziare gruppi di opposizione siriani, incrementarne le capacità operative, fornire armi ed equipaggiamenti, e soprattutto «mettere in piedi una narrativa adeguata, col pieno appoggio dei media sostenuti dagli Stati Uniti».

E poi il passo successivo, la creazione di un “corridoio sul terreno”, in un paese confinante, per «sostenere lo sviluppo di una infrastruttura a sostegno delle operazioni».

Detto fatto: con la piena collaborazione di Francia e Gran Bretagna, «che hanno dato forma fin dall’inizio all’opposizione siriana», il piano si sta ora perfezionando con l’aiuto strategico della Turchia, che a Iskenderun ospita il “Libero esercito siriano” nonché miliziani reduci dalla Libia, mentre la base Nato di Incirlik si sta trasformando nel centro nevralgico della nuova guerra “umanitaria” in programma.

Al “regime change” collabora anche la Germania attraverso l’Swp, l’istituto tedesco per gli affari internazionali, che sta “allevando” il Consiglio Nazionale Siriano per prepararlo ad assumere il potere.

L’investimento in termini di intelligence è stato enorme, rivela il “Washington Post” citando Wikileaks: il Dipartimento di Stato americano ha finanziato con milioni di dollari vari gruppi siriani in esilio – compreso il Movimento per la Giustizia e per lo Sviluppo con sede a Londra, un’organizzazione vicina ai Fratelli Musulmani – e vari individui singoli fin dal 2006, tramite una “Middle East Partnership Initiative” amministrata da una fondazione statunitense, il Democracy Council.

Fin da quando tutto è cominciato, aggiunge “Asia Times”, sono state esercitate pressioni significative affinché la Turchia realizzasse un “corridoio umanitario” lungo la sua frontiera meridionale con la Siria.

Lo scopo principale, come indicato in “Una via per la Persia”, è quello di fornire una base cui possano appoggiarsi gli insorti sostenuti dall’estero e da cui essi possano lanciare i loro attacchi.

L’obiettivo di un simile “corridoio umanitario”, scrive Aisling Byrne, «è umanitario come le quattro settimane di bombardamenti aerei su Sirte che la Nato ha messo a segno esercitando il proprio “dovere di proteggere la popolazione”, secondo il mandato approvato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu».

Tutto questo non significa che la Siria non chieda democrazia, né che non siano stati commessi abusi anche sanguinosi nella repressione. Ma dimostra che la rappresentazione dei media non è veritiera, e che l’obiettivo non è quello dichiarato. Nel mirino c’è Iran, e la Siria è solo l’anticamera della nuova guerra destinata a incendiare il Medio Oriente.

«Aerei da combattimento della Nato privi di contrassegni stanno arrivando nelle basi militari turche vicine a Iskenderun lungo la frontiera siriana, trasportando armi e volontari del Consiglio Nazionale di Transizione libico», scrive esplicitamente l’“American Conservative”.

Il conto alla rovescia è già cominciato. E le grandi manovre congiunte Usa-Israele, annunciate per la primavera 2012, non faranno che aumentare la tensione. Si avvicinano scenari da Terza Guerra Mondiale, mentre le televisioni delle peggiori dittature petrolifere filo-occidentali raccontano che il popolo siriano lotta contro il feroce regime di Assad.