domenica 11 marzo 2012

News Shake

Ritorna News Shake, notizie a caso ma non per caso....



Del Boca: la Libia è una nuova Somalia
di Tommaso Di Francesco - http://nena-news.globalist.it - 9 Marzo 2012

«L'autonomia armata dell'Est getta il Paese, già diviso dalle fazioni che hanno deposto Gheddafi, nel caos a tre mesi dal voto di giugno. Per l'Onu i diritti umani sono violati. Interessi italiani a rischio»

Roma, 9 marzo 2012, Nena News – Un'assemblea delle tribù e delle milizie della Cirenaica riunita a Bengasi due giorni fa ha dato vita al Consiglio provvisorio di Barqa (Cirenaica) chiedendo la piena autonomia della regione da Tripoli.

Mustafa Abdel Jalil, presidente del Cnt fino alle prossime elezioni di giugno, ha definito l’iniziativa la «sedizione dell’est» accusando non meglio precisati «paesi arabi» di avere fomentato la «cospirazione».

E ieri ha minacciato: «Devono sapere che gli infiltrati e i fedelissimi dell’ex regime tentano di utilizzarli e noi siamo pronti a dissuaderli. Anche con la forza». E anche Hamid Al-Hassi, capo militare del Consiglio di Barqa ammonisce: «Siamo pronti a dare battaglia. Siamo dunque a quel rischio di guerra civile che lo stesso Jalil paventava di fronte all’anarchia delle milizie che spadroneggiano in Libia. Ne parliamo con Angelo Del Boca, storico della Libia e del colonialismo.

La Libia sembra diventata quella «nuova Somalia», in preda alle milizie islamiche» che profetizzava Gheddafi, linciato solo nell’ottobre scorso, poche settimane prima della fine della guerra aerea della Nato fatta «per proteggere i civili»…

In un certo senso sì, proprio una nuova Somalia. Per 42 anni Gheddafi era riuscito, più con le cattive che con le buone, a tenere insieme il Paese e a guidarlo in mezzo a burrasche non da poco. Morto lui sembra che tutto vada nel disastro. Perché le milizie non mollano le armi, il governo provvisorio fa di tutto per raccoglierle ma non ce la fa. Siamo arrivati addirittura al pronunciamento da Bengasi per dividere il paese, fatto non in maniera provvisoria, perché a capo di questo fantomatico governo c’è addirittura Ahmed Al Senussi, pronipote d re Idris. Quindi non è solo una divisione amministrativa ma soprattutto politica. Al Senussi è un personaggio poco noto perché sono passati tanti anni dal colpo di stato con cui Gheddafi depose re Idris, è stato per molti anni nelle galere del raìs per avere tentato un golpe contro di lui nel 1970, poi è stato liberato negli anni Ottanta. Ma certo rappresenta almeno la memoria della monarchia libica. Non dimentichiamo che in Cirenaica la rivolta l’hanno fatta con la bandiera dei Senussi, della monarchia. Lì è scoppiata la vera resistenza che ha dato filo da torcere agli italiani e alla fine, quando gli inglesi hanno deciso di consegnare la Libia a un personaggio di rilievo, l’hanno messa nelle mani di Al Senussi, re Idris, nato e vissuto a Tobruq. Inoltre la Senussia oltre ad essere stata una organizzazione politica è anche una confraternita religiosa con più di cento anni di vita.

Che cos’è la Cirenaica quanto a interessi petroliferi della Libia?

Diciamo che i porti più importanti sono proprio in Cirenaica che presenta il più alto numero di giacimenti e di raffinerie, a Ras Lanuf con 220mila barili al giorno, a Marsa el Brega e a Tobruq. Certo ce ne sono anche in Tripolitania e nella Sirte, molti pozzi sono anche in mare, ma la parte principale di queste «oasi del petrolio» sono proprio in Cirenaica. Ricca, non dimentichiamolo, anche di acqua. Il grande progetto di Gheddafi, il famoso River, il fiume sotterraneo – che anche gli insorti chiesero alla Nato di non bombardate – scorre da Kufra fino al mare, prosegue lungo tutta la costa e risale da Tripoli verso Gadames. È costato circa 30 miliardi di dollari e non si sa quanto durerà quest’acqua. È una enorme bolla sotterranea dalla quale attingono tutte le aree vicine, così gigantesco che è stata costruita una fabbrica per allestire manufatti addatti alla canalizzazione. È il rubinetto della Cirenaica e della Libia. Chi lo controlla controlla il Paese. Qundi non ci sono solo gli introiti petroliferi ma questo «rubinetto» di una fonte come l’acqua decisiva quanto s enon più del petrolio. Un’acqua che ha creato una fertilità che da tempo ha dato quasi l’autonomia alimentare alla Libia, trasformando il litorale nell’orto che produce per i sei milioni di abitanti.

Quale «paese arabo» potrebbe esserci «dietro»questo pronunciamento della Cirenaica? Shalgam, l’autorevole ambasciatore all’Onu della Libia, prima con Gheddafi e poi passato agli insorti, ripete che non vuole «una Libia controllata dal Qatar»…

Indubbiamente il Qatar è interessato. C’era un inserto straordinario di Le Monde la scorsa settimana tutto dedicato ai nuovi interessi strategici della petromonarchia del Qatar, sul Medio Oriente, in Africa e nel mondo intero dove ha comprato terre ovunque. Il Qatar punta ad avere riserve di petrodollari enormi. E non dimentichiamo che fra le milizie che combattevano contro Gheddafi c’erano alcune centinaia – migliaia per altre fonti – di militari del Qatar. E hanno anche capacità d’intelligence e di forniture di armi.

L’unico accordo possibile in Libia è sull’Islam, che finirà nella nuova Costituzione. Per il resto, le milizie spadroneggiano in armi e cresce il ruolo degli integralisti islamici con il capo militare di Tripoli Belhadj…

Peggio. Il rapporto dell’Onu conferma le denunce di Amnesty International, le stragi contro i vinti, le carcerazioni arbitarie, con quasi 8.000 i detenuti, la pratica diffusa della tortura contro i civili lealisti. Mi chiedo come in questo enorme disordine si potrà arrivare alle elezioni di giugno, così vicine. E si aprono problemi per l’Italia che sta cercando nuovi scambi industriali e di recuperare investimenti e ruolo. Dopo le mega-promesse di Gheddafi, nulla sarà più facile. E poi c’è la questione della famosa litoranea che dovevamo costruire in 25 anni: adesso i nuovi dirigenti della Libia chiedono che venga fatta in cinque anni e con un esborso enorme di finanziamenti.



Siria: intervista a Talal Khrais
di Marco di Donato - Osservatorio Iraq - 8 Marzo 2012

Nel tentativo di comprendere cosa accade in questi giorni in Siria, ho deciso di rivolgere alcune domande al dott. Talal Khrais. Giornalista laico e corrispondente in Italia del libanese As-Safir, responsabile esteri di Centro Italo-Arabo e del Mediterraneo*, e relazioni internazionali per la sede sarda di Assadakh.

Talal Khrais ha gentilmente risposto alle mie domande, provando a descrivere da un punto di vista inedito la situazione siriana. Grazie alle attività del suo centro infatti, ma soprattutto grazie alla sua enorme esperienza sul campo, quest'intervista assume un valore particolare.

Il dott. Khrais è infatti stato recentemente in Siria e ci ha potuto descrivere, come pochi altri possono oggi fare, come la situazione sia sul campo. Parlando con la gente, guardando ed osservando le cose in prima persona può fornirci testimonianze dirette.

Ci ha spiegato cosa sta succedendo ad Homs e perché secondo lui, che pur riconosce la legittimità della protesta pacifica, oggi ci troviamo anche dinanzi ad una guerra fatta su procura dei poteri occidentali.

Cosa sta accadendo in Siria in queste ultime settimane?

Frequento la Siria dal 1984. In Italia si parla poco del fatto che questo paese è nell'occhio del ciclone dal 1967, anno in cui Israele occupò vasti territori arabi. Per far fronte alla superiorità militare di Tel Aviv, il governo di Damasco si alleò con l’Unione Sovietica scegliendo un modello socialista per creare una base socio-economica allargata ed un sistema di garanzie sociali.

Il regime credeva che sfamare la gente e creare occupazione fosse sufficiente per rispondere alle esigenze del popolo siriano.

Dopo la morte del padre Hafez al Assad, il figlio Bashar ha fatto delle riforme economiche che hanno contribuito alla crescita delle piccole e medie imprese, ma senza toccare l’art 8 che garantiva il dominio del partito Baath al potere.

L’art. 8 è stato superato con il referendum del 26 febbraio 2012 sulla nuova Costituzione prevedendo una chiara partecipazione di tutte le forze politiche attraverso un inedito multi-partitismo.

All’inizio del conflitto interno, esattamente un anno fa, sono cominciate le manifestazioni che personalmente considero legittime e giuste.

I manifestanti infatti rivendicavano più libertà. Tuttavia, parallelamente, in Siria si preparava una guerra, una guerra per procura, semplicemente per rompere la forte alleanza tra Siria, Iran e Hezbollah.

Un'alleanza che aveva cambiato gli equilibri politici regionali nella guerra del 2006, quella tra Hezbollah e Israele, con lo Stato ebraico che usciva sconfitto dal confronto con migliaia di combattenti della milizia islamica libanese.

Secondo i dati della Croce Rossa si parla di migliaia fra morti e feriti, lei ha dati diversi o maggiormente precisi in merito?

Noi corrispondenti che ci occupiamo di conflitti conosciamo bene le conseguenze di una guerra. In Siria esiste una vera guerra. Non penso che l’esercito siriano, uno dei più grandi e più numerosi del Medio Oriente, stia affrontando da un anno solo manifestanti ed un'opposizione pacifica .

Quando nel 1976 l’esercito siriano occupò il Libano riuscì, malgrado la feroce opposizione armata dell’OLP e del Movimento Nazionale Libanese, a controllare ogni quartiere di Beirut in soli 15 giorni.

Quando sono stato in Siria il mese scorso mi sono reso conto che non si tratta solo di manifestazioni o di forme di opposizione pacifica, ma di una guerra sofisticata contro il regime. Ho visto civili innocenti morti, ma tanti altri militari siriani uccisi da bande armate.

Il paese è davvero sull'orlo di una guerra civile? Secondo la sua esperienza sul campo, quanta gente supporta il regime di Assad e quanta vuole invece la sua caduta?

Finora, ad un anno di distanza dall'inizio del conflitto interno, non vediamo fenomeni simili a ciò che avvenuto in Libia o altri paesi arabi. Ad esempio nessun diplomatico ha disertato e l’esercito libero della Siria, capeggiato da un generale a cui vengono attribuiti i recenti attentati (compiuti in realtà da altri), è un fenomeno limitato.

L’Occidente è miope e partecipa ad interventi militari contro altri Paesi senza comprenderne le conseguenze.

Si chiede al presidente siriano di andarsene. Un presidente che ha l’appoggio di una ampia base popolare e il sostegno del 90% dei militari perché mai dovrebbe lasciare?

Lasciare significherebbe far regnare il caos. Il cambiamento deve arrivare quando la società civile è matura e quando si terranno libere elezioni. Andarsene e lasciare il paese nel caos, quello si significherebbe scatenare una vera e propria guerra civile.

Ci spiega cosa è accaduto e cosa sta accadendo ad Homs?

La situazione senza dubbio a Homs, e nel quartiere di Baba Amr, è la più tragica, dove la popolazione sta pagando il prezzo più alto.

Dopo l’evacuazione di Homs da parte dei gruppi armati si è scoperto che la città era un quartiere generale con depositi di armi sofisticate e i cosiddetti passaporti per il paradiso (spesso usati da attentatori suicidi) con reti di collegamento sotterranee lunghe ben dieci chilometri.

Secondo lei sono veritiere le notizie che vorrebbero truppe speciali di Gb e Qatar al finaco dei ribelli?

Si, penso che truppe e armi di nazioni straniere si trovino sul territorio siriano. Sia il Qatar che l’Arabia Saudita non nascondono il loro diretto sostegno ai ribelli, mentre sia Londra che Parigi hanno finora garantito forme di sostegno indiretto.

Qual è una via di uscita possibile a questa crisi che ormai dura da più di un anno?

La crisi può essere risolta solo con una soluzione politica. Oggi l’Occidente vuole imporre solo sanzioni, mentre Cina e Russia sostengono la riconciliazione nazionale. A mio parere non esiste una altra via della situazione siriana, poiché forzando la mano il rischio è quello di destabilizzare tutta la regione.


*Assadakah - Centro Italo-Arabo e del Mediterraneo: è un'associazione italo-araba senza fini di lucro, con sede a Roma, Cagliari e Lecce, che oggi portano insieme dopo l’intesa tra le tre filiali il nome Federazione Assadakah. Insieme ai rappresentanti all’estero nei paesi arabi anni opera nella realtà italiana per la promozione di scambi culturali, politici ed economici tra l'Italia ed i paesi arabi e del Mediterraneo. A tal fine, l'associazione organizza incontri, conferenze, studi, promuove iniziative e viaggi, sollecita contatti tra le realtà politiche ed imprenditoriali ed elabora progetti di cooperazione internazionale, volti alla reciproca conoscenza e all'interscambio, infine realizza progetti di cooperazione allo sviluppo.



Siria, una cospirazione rivelata
di Felicity Arburthnot - www.informationclearinghouse.info - 1 Marzo 2012
Traduzione per
www.comedonchisciotte.org a cura di ADL

Abbiamo trovato il nostro nemico: siamo noi.

Walt Kelly, 1913-1973

Nel novembre del 2006 l'analista politico Mahdi Darius Nazemroaya scrisse in dettaglio i piani degli Stati Uniti per il Medio Oriente: “L'espressione «Nuovo Medio Oriente» fu presentata al mondo nel giugno 2006 a Tel Aviv dal Segretario di Stato degli Stati Uniti Condoleezza Rice (che secondo la stampa occidentale avrebbe coniato questa espressione), a sostituzione di quella più vecchia e imponente «Grande Medio Oriente».”

Il buon senso imporrebbe di considerarlo una fantasia violenta eccessiva e troppo remota, finché non ci si rende conto che l'autore della mappa di questo Nuovo Mondo, preparata nell'ambito del “Nuovo Ordine Mondiale” del Nuovo Mondo, fu il tenente colonnello Ralph Peters, che, in uno dei più agghiaccianti articoli mai pubblicati, scrisse nel 1997:

Non ci sarà pace. In ogni momento, per il resto delle nostre esistenze, saranno in corso molteplici conflitti, e in forme mutevoli, in giro per il globo. I conflitti violenti domineranno le prime pagine dei giornali […] Il ruolo che le forze armate statunitensi assumeranno di fatto sarà quello di mantenere il mondo sicuro per la nostra economia e di prepararlo a ricevere la nostra invasione culturale. Con questi obiettivi, faremo un bel po' di stragi.

All'epoca Peters era in carica presso l'Ufficio del Vice-capo di Stato Maggiore per l'Intelligence, dove era responsabile della “guerra futura”. I suoi piani per l'Iraq hanno funzionato alla grande, salvo che dal punto di vista degli iracheni.

Un mese dopo la pubblicazione dell'articolo di Nazemroaya, William Roebuck, direttore dell'Agenzia dell'Ufficio per gli Affari del Vicino Oriente del Dipartimento di Stato, stava elaborando una strategia di fine anno per la Siria presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Damasco dove lavorò tra il 2004 e il 2007, raggiungendo la carica di Vicedirettore della Missione.

L'argomento era: “Influenzare il SARG (Governo del Regime Arabo Siriano) alla fine del 2006.”

Il SARG termina il 2006 in una posizione interna e internazionale molto più forte di quella che aveva nel 2005.” Parlando della “crescente sicurezza di sé” del presidente Assad, Roebuck sentiva che la situazione poteva portare ad “errori e […] decisioni poco sensate […] che possono fornirci nuove opportunità”. Anche se “ulteriori pressioni bilaterali o multilaterali possono avere degli impatti sulla Siria”, evidentemente egli aveva progetti ben più ambiziosi:

Questo cablogramma riassume le nostre valutazioni delle […] vulnerabilità e suggerisce che potranno esserci azioni, affermazioni e segnali che il governo degli Stati Uniti può produrre e che aumenteranno le possibilità che tali opportunità si presentino.

Le proposte dovrebbero essere “arricchite e convertite in azioni concrete, e noi dobbiamo essere pronti a muoverci velocemente per trarre vantaggio da queste opportunità”. (No, non si tratta di Le Carré, Forsyth o Fleming, ma di un “diplomatico” che lavora a Damasco).

Con l'approssimarsi della fine del 2006”, scrisse Roebuck, “Bashar sembra […] più forte di quanto sia mai apparso negli ultimi due anni. Il paese è economicamente stabile […] le questioni che riguardano la regione vicino-orientale sembrano aver preso una piega favorevole per la Siria.”

Ad ogni modo, “alcuni punti deboli e alcuni problemi incombenti possono fornire opportunità per aumentare la pressione su Bashar […] Parte di questi punti deboli (compresa la difficile situazione del Libano) possono essere sfruttati per mettere il regime sotto pressione. Rientrano tra i nostri interessi tutti gli atti che possano portare Bashar a perdere l'equilibrio e ad accrescere la propria insicurezza.”

È difficile predire gli errori che [il presidente Assad] potrà commettere e i benefici derivanti possono cambiare a seconda dei casi, se siamo pronti a muoverci rapidamente e avvantaggiarci delle opportunità [...]

Un “punto debole”, ha scritto Roebuck, era il fatto che Bashar al-Asad proteggesse la “dignità e la reputazione internazionale della Siria”. Orgoglio e “protezione”, concetti evidentemente scioccanti.

Questo punto debole poteva essere sfruttato alla luce della proposta di istituire un Tribunale sull'attentato all'ex Primo Ministro libanese Rafiq Hariri (occorso il 14 febbraio 2005), nel quale persero la vita anche il suo amico ed ex Ministro dell'Economia Basel Fleihan e venti tra colleghi e guardie del corpo (una potente bomba esplose al passaggio delle loro automobili).

Accuse non corroborate da prove hanno di volta in volta indicato come responsabili dell'ennesima tragedia mediorientale Israele, la Siria, Hezbollah e molti altri, ma Roebuck l'ha ritenuta una “occasione per sfruttare questo nervo scoperto senza aspettare che venga istituito un tribunale apposito”.

Un'altra idea che è stata prospettata, sempre classificata sotto la voce “punti deboli”, era la sempre più solida alleanza tra Siria e Iran. “Una strategia di intervento possibile” avrebbe potuto “giocare sulle paure sunnite di un'influenza iraniana”. Benché esse fossero “spesso esagerate”, erano pronte per essere sfruttate:

Le rappresentanze egiziana e saudita in Siria […] prestano crescenti attenzioni al problema e noi dovremmo coordinarci di più con i rispettivi governi per dare maggior visibilità al tema, e concentrarvi sopra l'attenzione della regione.

Bisogna anche plasmare i capi religiosi sunniti interessati. È chiaramente il tipo di strategia divide et impera già adottato in Iraq.

Ovviamente, la strategia di propiziare divisioni interne doveva essere indirizzata anche alla famiglia del Presidente e alla cerchia dei legislatori, con “sanzioni mirate (che) devono sfruttare le crepe preesistenti e indebolire la coesione interna del gruppo delle persone al potere, invece che determinarne un consolidamento”.

Il pubblico dovrebbe anche essere sottoposto a “continui riferimenti alla corruzione [...] dovremmo trovare i modi per ricordarlo alla gente”.

Un altro elemento da sfruttare era il “fattore Khaddam”.

Abdul Halim Khaddam è stato vicepresidente dal 1984 al 2005 e presidente nel 2000, nel periodo intercorso tra la morte di Hafez el-Asad e la nomina da parte del figlio Bashar nella carica da lui ricoperta.

Fu sospettato di ambire alla carica presidenziale e, dopo la morte di Hariri, ci fu una separazione aspra tra Khaddam e Bashar. Le accuse di alto tradimento a carico di Khaddam sono fondate.

Il partito al potere, scrive Roebuck:

Segue con notevole partecipazione emotiva ogni notizia che coinvolga Khaddam. Dovremmo continuare ad incoraggiare i sauditi e gli altri a dare a Khaddam accesso ai loro media […] fornendo a costui le sedi per rivelare pubblicamente gli affari sporchi del governo siriano.

Conseguenza di ciò fu una attesa “reazione eccessiva del regime, che incrementerà il suo isolamento e la sua alienazione rispetto agli stati arabi confinanti”.

Il 14 gennaio 2006 Khaddam ha dato vita a un governo in esilio, e ha poi annunciato la caduta del governo di Assad entro la fine dell'anno.

Attualmente è considerato un capo dell'opposizione, e ha dichiarato, alla televisione israeliana Channel 2, di ricevere finanziamenti dagli Stati Uniti e dalla Unione Europea per rovesciare il governo siriano.

Gli ulteriori piani del sempre creativo Roebuck prevedono anche di “incoraggiare le voci e i segnali di complotti esterni”. A questo scopo, “alleati regionali come l'Egitto e l'Arabia Saudita dovrebbero essere incoraggiati ad intrattenere rapporti con personaggi come Khaddam e Rifat al-Asad, con opportune fughe di notizie a seguito degli incontri che organizzano con loro. Ciò […] aumenta le possibilità di una reazione sproporzionata e controproducente.”

Rifaat al-Asad è lo zio di Bashar, e comandava le Brigate della Difesa che uccisero circa trentamila persone e rasero al suolo interi quartieri della città di Hama nel febbraio 1982. Abbastanza per scatenare incessanti e diffuse preoccupazioni per “violazioni dei diritti umani”. Rifaat al-Asad vive in esilio e al sicuro a Londra. Khaddam vive a Parigi.

Ecco un ragionevole motivo di preoccupazioni per chi vuole operare il rovesciamento: “Bashar continua a dar luogo regolarmente a una serie di iniziative di riforma, e probabilmente crede che esse costituiranno il suo lascito alla Siria […] Questi suoi passi hanno finora determinato il rientro in Siria degli investimenti dei siriani migranti [...] (e) una crescente apertura.”

Qual è la soluzione? “Trovare il modo di mettere pubblicamente in discussione gli sforzi riformatori di Bashar.” In sostanza, si tratta di fare tutto il possibile per sminuirli e ridurne la portata.

Inoltre, “la Siria ha goduto di un notevole quantitativo di investimenti stranieri diretti”, per cui bisogna “scoraggiare” gli investimenti stranieri.

Nel maggio 2006, lamenta Roebuck, i Servizi Segreti Militari siriani hanno protestato, perché “ritenevano che gli Stati Uniti si stessero adoperando per addestrare militarmente e rifornire di armi i curdi siriani”. Ancora una volta, traspare la strategia già usata per l'Iraq.

La risposta fu quella di “mettere in evidenza le lamentele dei curdi”. Tuttavia ciò “andrebbe fatto con cautela, dal momento che mettere in risalto nel modo sbagliato le istanze dei curdi siriani potrebbe dar luogo a ulteriori ostacoli ai nostri sforzi […], considerato lo scetticismo [...] della società civile siriana nei confronti degli obiettivi dei curdi.”

Per “concludere”, questo documento imbarazzante e meschino afferma che “in sostanza, Bashar si appresta a cominciare il nuovo anno in una posizione di maggior forza rispetto a quella in cui si è trovato per anni” e ciò significa che bisogna individuare i suoi “punti deboli”: “Se siamo pronti a sfruttare la situazione, ci offriranno le opportunità per sconvolgere le sue strategie decisionali, tenerlo fuori equilibrio e fargli pagare ampiamente i suoi errori.”

Il cablogramma è stato inviato per conoscenza alla Casa Bianca, al Segretario di Stato degli Stati Uniti, al Tesoro degli Stati Uniti, alla delegazione statunitense alle Nazioni Unite, al Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, al CENTCOM e a tutti i paesi della Lega Araba e dell'Unione Europea.

L'unica altra ambasciata americana che lo ha ricevuto per conoscenza è quella di Tel Aviv. Quando William Roebuck ha lavorato all'ambasciata di Tel Aviv (2000-2003, quindi fino all'anno dell'invasione dell'Iraq), è “scampato per un pelo alla morte”. Forse anche da quelle parti qualcuno lo sopportava a fatica.

Nel 2009 era Consigliere Politico a Baghdad “a dirigere gli sforzi per lo svolgimento delle elezioni politiche irachene del 2009, particolarmente critiche”. Elezioni “libere, pulite e democratiche”, in cui la gente subiva anche minacce di veder morti i propri figli se non avesse votato nel modo “giusto”.

Il risultato fu l'elezione a Primo Ministro di Nuri al-Maliki, con tutte le sue milizie assassine. Durante il suo mandato da Ministro dell'Interno, i soldati americani scoprirono numerosi prigionieri torturati e lasciati a morire di fame.

Il cablogramma di Damasco è stato reso pubblico da Wikileaks. Il tenente colonnello Peters ha fatto appello, su Fox News, affinché il suo fondatore, Julian Assange, sia ucciso. Vale la pena ascoltare il relativo filmato di 40 secondi.

Il colonnello scrive anche storie di finzione e gialli con lo pseudonimo di Owen Patterson. Forse sogna ad occhi aperti.



Impunità e salvacondotti
di Giulietto Chiesa - Il Fatto Quotidiano - 10 Marzo 2012

Parafrasando Bettino: da oggi siamo tutti un pò più mafiosi. Anche se, dopo la decisione della Cassazione, si può affermare che la mafia non esiste. Perché se non esiste il concorso esterno (o se “non ci crede più nessuno”) ciò equivale a dire che non esiste nemmeno la mafia, che è tutta un “concorso esterno”, salvo quando ti fa saltare in aria con le bombe, o ti spara un colpo in bocca e ti incapretta.

Certo, nostro malgrado, ma è così.

Parafrasando Pasolini potremmo dire che, pur non avendo le prove, sappiamo quasi tutto quello che si deve sapere.

Qualche giornale ha scritto che ieri il cellulare di Dell’Utri parlava spagnolo, lasciando intendere che, forse, il braccio destro di Berlusconi stava aspettando la sentenza fuori dai confini patrii.

Io penso che quella segreteria telefonica fosse una interferenza casuale. Volete che non sapesse come sarebbe andata a finire? Quello, citando Leonardo Sciascia, è un “vero uomo”, mica un “quaqquaraqquà” qualunque.

L’eroe del nostro tempo, liberato dalla mafia, è un signore, Francesco Iacoviello, che, nella sua qualità di Procuratore Generale delle Cassazione, (grazie alla ferrea memoria di Travaglio, che ha fatto l’elenco) ha nel suo curriculum “la richiesta e l’ottenimento dell’annullamento delle condanne di Squillante per IMI-Sir e di De Gennaro per il G8, e la conferma dell’assoluzione di Mannino e della prescrizione per Berlusconi nel caso Mondadori”. Giustizie sono state fatte.

Resterà nei libri di storia, meritoriamente. Nei libri di storia scritti dai vincitori. Solo in quelli, naturalmente, ma poiché sono quelli che contano, buon per lui. Arriverà alla pensione con tutti gli onori.

Noi, che siamo saltati in aria – moralmente – insieme a Falcone e a Borsellino, non dobbiamo lamentarci o piangere. Questo è il risultato dei rapporti di forza politici in cui si trova questo nostro disgraziato paese.

L’unica cosa che dobbiamo proporci è di rovesciare questi rapporti di forza, sempre che ne abbiamo ancora l’intenzione e il coraggio.



Salvacondotto pacificato per Silvio
di Luca Telese - Il Fatto Quotidiano - 11 Marzo 2012

È arrivata la sanatoria occulta? Non siamo (solo) noi perfidi cattivacci del Fatto, a parlarne, ma l’icastico Roberto D’Agostino, che ieri ci regalava una mirabile sintesi politica: “Essì, il salvacondotto giudiziario per l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi esiste davvero, e lotta insieme a noi”.

Dopotutto ci sono giorni in cui basta una sentenza dell’immancabile Claudio Scajola per capire che aria tira: “Credo che si incominci a capire – ha dichiarato festante l’ex ministro asuainsaputezza – che questo paese ha bisogno di pacificazione”.

E la pacificazione, ovviamente, sarebbe l’annullamento della sentenza per Marcello Dell’Utri, l’ennesimo giro di valzer, l’ennesimo gioco dell’oca nell’Italia in cui mentre i poveracci vanno in galera, chi si può permettere una buona difesa è già mezzo assolto.

La sanatoria occulta
è una costellazione di fatti giudiziari e non, tutti apparentemente casuali, che – guardacaso – hanno iniziato miracolosamente a manifestarsi in parallelo con l’avvento dell’era Monti.

Nel tempo dei professori sembra che le istituzioni si siano sincronizzate magicamente sulla prima legge della tecnocrazia all’italiana.

Ovvero: se c’è in gioco un verdetto, o si parla di un provvedimento sgradito alla sinistra, entrambi vengono approvati prima ancora di mettersi al tavolo. Se invece c’è in gioco un verdetto, o si parla di un provvedimento sgradito alla destra, potete star certi che la palla non andrà in buca.

Solo dietrologia? Prendete la sentenza della Corte Costituzionale sul referendum anti-Porcellum. Due settimane prima del giudizio i due più importanti quotidiani italiani scrivono che la Corte è intenzionata a raccogliere una tesi che da tempo circola negli ambienti berlusconiani. Se il referendum dovesse andare in porto ad entrare in crisi sarebbe il governo.

Nulla di strano: il Porcellum, come questo giornale scrive da tempo è l’architrave strutturale del governissimo, l’unica possibile ciambella di salvataggio del Pdl, la legge che qualsiasi segretario di partito si sogna la notte: gli permette di mettere i suoi brocchi in lista senza che debba rendere conto a nessuno.

E così ecco un’altra coincidenza provvidenziale sulla via della pacificazione: la Corte boccia il quesito sostenendo che non sarebbe auto applicativo (a giugno, in un altro clima, per difendere la volontà dei proponenti aveva addirittura riscritto il testo di uno dei referendum).

Ma poi si passa al processo Mills. Se Berlusconi dovesse essere condannato, il leader del centrodestra finirebbe nei guai, la fedina penale resterebbe macchiata, il Cavaliere potrebbe essere costretto, anche solo per difendere la sua immagine, a scuotere le fondamenta della maggioranza. Però come si fa a non condannarlo in un processo in cui il principale testimone ha ammesso (ed è stato anche condannato) il suo illecito?

Ecco che, proprio quando persino il granitico Ghedini rinuncia ad ogni speranza arriva la provvidenza. Una nuova coincidenza che stavolta si manifesta sotto forma di prescrizione. Vabbè, d’accordo, sono solo due coincidenze.

Ma la prima legge di Conan Doyle ci spiega anche che tre coincidenze fanno un indizio. Nessuna paura. Arriva anche la terza.

C’è una condanna a Marcello Dell’Utri, quello che abbracciato al Cavaliere gridava alla curva sud azzurrina che “Mangano è un eroe”. Quello che ci ha raccontato – mitico – che si è ritrovato (a Londra!) invitato al matrimonio del boss Jimmie Fauci solo perché era andato a una mostra sui vichinghi. Lì ha incontrato un amico (causalmente mafioso), Tanino Cinà, e quello lo ha invitato a una festa.

E dispiace che uno si ritrovi in un processo per mafia solo perché ama le mostre e ha una passione per il popolo di Odino. Dopodiché si potrebbe paragonare l’attenzione che Monti e la Fornero hanno avuto per una questione che era vitale per i suoi elettori (il destino dei senza pensione “esodati”), pari a zero.

E la ridicola manfrina del beauty contest. Il ministro Passera è andato da Fazio a dire che Mediaset doveva pagare. Cosa annunciata, nulla di fatto. Fedele Confalonieri viene ricevuto con gli onori di un capo di Stato. La legge Gasparri non si tocca. E le coincidenze continuano. Pacificazione sia, Ale-oo.


Visco ci vuole tutti schiavi a vita
di Valerio lo Monaco - www.ilribelle.com - 7 marzo 2012

"Lavorare di più e più a lungo"

Per fare cosa è chiaro.

1) Pagare contributi tutta la vita e morire sul posto di lavoro prima di arrivare a percepire la pensione

2) Cinesizzarsi per riuscire appena ad arrivare alla fine del mese. E spesso neanche quello

3) Continuare a stare alla macina, come animali, per pagare gli interessi sugli interessi imposti dalla speculazione internazionale (di cui Visco fa parte)

4) Abbrutirsi di fatica. E vivere unicamente per lavorare, peraltro guadagnando sempre meno

A questo punto, la vera ribellione è cercare di lavorare meno. Sempre meno. Sempre meno. E passare il resto del tempo in altre attività.

Senza salario. Per se stessi. È il discorso che Maurizio Pallante porta avanti da anni, e spiega con precisione scientifica, per chi si prenda la briga di leggere (tra gli altri) i suoi libri.

Il concetto chiave è quello che vuole indicare come "occupate" unicamente le persone che percepiscono un salario, mentre le altre - tutte le altre: dalla madre che cresce i figli, a chi ripara da sé la propria casa, a chi produce da sé ciò che gli serve per mangiare, a chi dona se stesso per accudire altre persone e via dicendo - sono semplicemente "disoccupate".

Sia chiaro, è evidente che nel nostro mondo (per ora) si debba necessariamente fare qualche lavoro che comporti il ricevere denaro in cambio, perché, molto semplicemente, ci sono merci (soprattutto merci, ma anche pochi altri veri beni) che necessitano di essere acquistati.

Ma il punto, volenti o meno, è esattamente questo: meno si necessita di cose che è indispensabile acquistare, più si è liberi. Più, finalmente, si può lavorare di meno.

È essenziale che tutti quelli che sentono disagio in questo mondo, tutti quelli animati da seri moti di ribellione, evitino di cadere in una trappola terribile: pensare che semplicemente cambiando alcune regole del gioco, di questo gioco, si possa tornare a vivere una vita più degna di essere vissuta.

Così come quelli che credono che prima o poi, pur rimanendo in questo modello, qualcosa possa cambiare. Grossomodo attendono un miracolo con un atto di fede.

Ora, impostare tutta la propria vita su un atto di fede - fede peraltro in questo sistema di sviluppo - equivale alla donnina che gioca al gratta e vinci. Ecco, si deve spazzare via questo concetto.

È indispensabile capire che per cambiare davvero le proprie condizioni si deve decidere proprio di sottrarsi a questo gioco. Si deve uscire, per quanto più è possibile, da questo casinò. Perché è proprio nella sua natura intrinseca obbligarci a vivere per lavorare e per consumare. La cosa comporta delle rinunce, è inevitabile.

Si tratta di capire se sono più insopportabili queste rinunce oppure è più insopportabile pensare di vivere tutta la vita come schiavi. Non ci sono mezze misure: il sistema ci ha portato, di fatto, a una situazione di guerra.

Come è possibile non considerare come una dichiarazione di guerra le parole di Visco? Come è possibile soprassedere alle imposizioni che questo modello, soprattutto oggi, con le conseguenze della crisi economica attuale dalla quale - è evidente -non usciremo, ci infligge?

Ci hanno già tolto buona parte di quello che avevamo: le pensioni, il welfare, la dignità di fare un lavoro che almeno ci permettesse di arrivare alla fine del mese senza affanni. E ora ci intimano di dover rimanere in questa situazione per tutta la vita.

Insomma delle due l'una: o si accetta tutto, o camusianamente si "dice no". E si cercano altre strade. I più, a un discorso di questo tipo, generalmente rispondono con sufficienza e sdegno, evitano di entrare nel cuore del problema semplicemente rispondendo che una strada differente non esiste, e che siamo condannati a vivere in questo modo.

Sono persone asfissiate dalla catena che hanno al collo. In buona parte sono persone già pronte, consciamente o meno, a vivere una vita di questo tipo. Il che equivale a dichiararsi già morti.

Ma la ribellione è dei vivi. Costi quel che costi. Anche dover percorrere altre strade che non si conoscono. O anche doverne costruire di nuove passando per il bosco con un machete. Perché il resto, la vita che ci prospettano i visco attuali, è peggio.


IMU: la tassa che "costringe" al sistema
di Debora Billi - http://crisis.blogosfere.it - 9 Marzo 2012

Qualcuno segnala una breve riflessione di Nicola Porro sul Giornale, riguardante l'IMU sulla prima casa. Se avete orrore a cliccare, eccone l'estratto più significativo:

Si paga per il solo fatto di avere in proprietà una casa. Un migliaio di euro l'anno per un immobile che sulla carta vale meno di 300mila euro è roba forte. È come se lo Stato ci dicesse: o continuate a produrre reddito per pagare le tasse sulla casa oppure prima o poi la dovete vendere.

Se ci pensate, qualunque tassa è legata a quel che si guadagna, o a quel che si acquista. Le imposte sono quindi strettamente correlate al nostro inserimento nel sistema economico: si lavora, si spende, si partecipa insomma. E in un certo senso, più partecipi a tutto il balletto più paghi.

In un momento di crisi, molti restano senza lavoro. Molti altri, per obbligo o per scelta, optano per uno stile di vita frugale. Nell'ipotesi più estrema, tutt'altro che fantascienza visto quel che succede in Grecia e persino in Giappone, si finisce totalmente fuori dal sistema economico: niente servizi, niente energia, cibo autoprodotto o dalle mense pubbliche, scambio, baratto o riciclaggio di beni con altre persone nelle medesime condizioni. Si vive comunque, così, si tira avanti.

Ma la tassa sulla prima casa lo impedisce: dovete comunque mettere insieme quei mille euro l'anno in più, altrimenti finite senzatetto. Siete quindi costretti a trovare un lavoro qualsiasi, sicuramente sfruttato, al nero, pagato una miseria, per restare almeno proprietari di casa vostra.

Un paradosso? A qualcuno sembrerà che chi ha una casa è già "fortunato" o "ricco" di suo. Beh, è esattamente quel che pensa il governo: se avete una casa siete ricchi, quindi cacciate il quattrino.

Peccato che questa sia una limitazione alla libertà. Se uno, restando disoccupato, decidesse di scaldarsi a legna, vivere di orto, scambiare oggetti o abiti con altri, non potrebbe farlo: dovrebbe comunque trovarsi un padrone per continuare ad possedere la sua casa.

Dovrebbe restare nel sistema economico, continuare a disperarsi ed a pregare, continuare a piegare la schiena, insomma tutta la trafila prevista per il disoccupato durante la crisi.

Questa tassa, in un Paese dove l'80% dei cittadini è proprietario di casa, sembra fatta apposta per mantenerti nel tritacarne anche qualora decidessi di mandare tutto al diavolo e renderti autosufficiente.

Non credo siano così astuti, proprio no, però il dubbio un po' viene.



No Tav? sì, la stampa ha sbagliato
di Marcello Foa - http://blog.ilgiornale.it - 6 Marzo 2012

So di andare controcorrente, ma quando il movimento No Tav accusa la stampa di non aver fatto il proprio dovere ha ragione. Sia chiaro: non giustifico le violenze, però se esaminiamo ciò che hanno scritto i giornali in questi anni, ci accorgiamo che

a) hanno parlato della Tav solo quando ci sono state manifestazioni clamorose.

b) per molto tempo nessuna delle grandi testate ha spiegato al pubblico le ragioni dell’opera, i costi, le implicazioni eccetera.

Il primo fenomeno è noto e riccorrente: solo “chi fa casino” ovvero crea un evento spettacolare (spesso violento) ottiene l’attenzione dei media.

Il secondo è altrettanto ricorrente ma per nulla dibattuto. Molto spesso gli editorialisti assumono posizioni di principio su argomenti decisivi, senza spiegare le ragioni più profonde e più logiche della loro posizione. Assumono, insomma, un atteggiamento fideistico.

Pensate alla moneta unica, all’atteggiamento acritico nei confronti dell’Unione europea e delle grandi istituzioni internazionali, o all’atteggiamento tenuto durante la suina o l’aviaria. Stesso schema, stessa logica. Tutti hanno convinzioni ferree, che però pochi hanno l’umiltà di spiegare e argomentare.

Sulla No Tav, un professore dell’Università di Ancora, Antonio Calafati, che ho già citato altre volte su questo blog e che stimo molto, scrisse nel 2006 un libricino in cui analizzò la argomentazioni del sì. Il risultato fu sconcertante e infatti intitolò quello studio “Dove sono le ragioni del sì?”.

Calafati con i suoi studenti , cercò le ragioni del sì alla Tav in Val di Susa nei principali quotidiani italiani, certi di trovarle. E invece non trovò nulla che assomigliasse a una ragione, a una argomentazione razionale.

Calafati si accorse, prima sorpreso e poi sconcertato, dell’incapacità di giornalisti e politici di organizzare un pensiero sul tema della Tav in Val di Susa che avesse un significato, una logica, un senso.

Eppure i giornalisti e politici erano a favore dell’opera – risolutamente, ostinatamente, inspiegabilmente. “Iniziare cercando le ragioni del sì alla Tav in Val di Susa e terminare riflettendo, sconfortati, su che cosa possa essere accaduto ai nostri maggiori quotidiani. Giungere a pensare che, forse, il declino italiano nasce da qui, da questa incapacità del giornalismo italiano di fornire un resoconto attendibile, pertinente e fondato, degli effetti delle politiche pubbliche”, scrisse Calafati nel 2006.

Da allora poco è cambiato e solo recentemente qualche articolo esplicativo e intellettualmente onesto è uscito. Troppo poco, troppo tardi. Le critiche alla stampa sono, ahimè, meritate.


Due pesi e due marò
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 10 Marzo 2012

Ancora un passo e siamo al “Sakineh, subito libera!”. Per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i fucilieri di Marina in stato di arresto in India, tutta la destra ma anche parte della sinistra si sono mobilitate al grido di “Riportiamoli subito a casa”, “Salviamo i nostri marò”, “Siamo tutti con voi”.

L’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, quasi in lacrime ha dichiarato: “I nostri ragazzi devono tornare in Italia ed essere restituiti alle loro famiglie”. Si è invocato l’intervento della Nato e dell’Unione europea.

Il Giornale ha scritto: “La parte sana del Paese difende i suoi soldati” e vedendo una parte della sinistra un po’ tiepida ha sottolineato, in polemica col sindaco di Milano Pisapia, che a Giuliana Sgrena e alle ‘due Simone’ “nessuna istituzione ha mai negato solidarietà e partecipazione durante i difficili momenti della prigionia”.

Non ho alcuna simpatia per le Sgrene e le Simone, ‘vispe terese’ del turismo di guerra, ma a parte che una cosa è un sequestro altra un arresto ordinato dalla magistratura di uno Stato, qui c’è il piccolo particolare che Girone e Latorre sono accusati di aver ucciso due pescatori indiani scambiandoli per pirati somali. All’inizio i due fucilieri si sono difesi dichiarando: “Abbiamo sparato in aria e poi in acqua, contro un’imbarcazione con cinque uomini armati”.

Tesi incautamente fatta subito propria dal nostro governo (sia mai che dei ‘bravi ragazzi’ italiani sparino per uccidere, sia pur dei presunti pirati) che in seguito ha più prudentemente ripiegato sulla questione della giurisdizione: la nave da cui i due avrebbero sparato è italiana, i due sono italiani, l’incidente è avvenuto in acque internazionali, quindi la giurisdizione appartiene alla magistratura italiana.

Non c’è dubbio che se l’incidente fosse avvenuto a bordo della Enrica Lexie, che è territorio italiano, così sarebbe. Ma la cosa è avvenuta a trecento metri dalla nave e quindi in ‘territorio’ internazionale e perciò neutro.

A chi spetta in questo caso la giurisdizione, al Paese dei presunti assassini o a quello delle vittime? Come scrivevo sul Fatto (22/2) all’indomani di questo tragico episodio: “Se due pescatori di Mazara del Vallo di un peschereccio che naviga al largo delle coste siciliane, sia pur in acque internazionali fossero uccisi da militari indiani imbarcati su un mercantile indiano, qualcuno dubiterebbe, qui da noi, che la competenza spetta al Paese delle vittime?”. È quel che pensano, nel caso dell’Enrica Lexie, gli indiani. A ragione.

Smettiamola quindi di fare i gradassi con quell’atteggiamento neocoloniale che abbiamo assunto da qualche tempo a imitazione degli angloamericani dal ‘grilletto facile’ che han la pretesa, che anche noi adesso avanziamo, dell’immunità.

Se i due fucilieri hanno sbagliato devono risponderne. Un processo in Italia, lo capisce chiunque, anche un indiano, sarebbe una farsa, i due marò sarebbero accolti come eroi e finirebbero in breve all”Isola dei famosi’.

Troppo facilmente ci si dimentica che, pur se a migliaia di chilometri, qui ci sono due morti, anche se non se ne fanno mai i nomi come se fossero delle comparse irrilevanti in questa brutta faccenda.

Si chiamavano Ajesh Binki e Valentine Jelastine e avevano anch’essi, caro La Russa e cari italiani, delle famiglie e degli affetti. Come Franco Lamolinara, ucciso in Nigeria in seguito a uno sconsiderato blitz degli inglesi, per la cui morte giustamente ci indignammo. Come gli indiani si indignano per le loro.