mercoledì 28 marzo 2012

Update italiota

Uno sguardo sulle ultime "novità" partorite dal governo Monti...


Governo, decretino per le banche
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 25 Marzo 2012

In sordina, alla chetichella, ma alla fine il mini-decreto salva-banche è arrivato.

Il governo lo ha varato con disinvoltura venerdì scorso, infilandolo fra due provvedimenti che giustamente hanno catalizzato un'attenzione molto maggiore da parte dei media e dell'opinione pubblica: la riforma del lavoro e la delega fiscale.

Fatto sta che, dei tre testi su cui si è discusso nell'ultima infinita riunione del Consiglio dei ministri, quello in favore degli istituti di credito è l'unico ad entrare immediatamente in vigore. Morale della favola: nessuno tocchi le commissioni bancarie.

In sostanza, l'ennesimo decreto approvato dalla squadra Monti ha come unico scopo quello di annullare una norma inserita nel pacchetto sulle liberalizzazioni, il cosiddetto "cresci-Italia", che è diventato legge appena giovedì scorso con l'approvazione definitiva della Camera.

La misura -introdotta al Senato con un emendamento del Pd, cui il governo aveva dato parere contrario - prevedeva il taglio delle commissioni bancarie su crediti, fidi (l'impegno a mettere una somma a disposizione del cliente) e sconfinamenti (l'utilizzo di fondi oltre il limite accordato dalla banca tramite il fido).

Niente da fare, abbiamo scherzato: con l'ultimo decreto il governo limita la nullità delle commissioni a quelle banche che non si adegueranno alle future disposizioni sulla trasparenza dettate dal Cicr (il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio). Un modo politicamente corretto per dire "nessuna banca".

Il dato più interessante è che questa correzione in extremis ha incontrato una larghissima approvazione in Parlamento. Anzi, il decreto ricalca praticamente alla lettera un ordine del giorno presentato dalla maggioranza, con in calce le firme di esponenti Pd, Pdl e terzo polo.

Un elemento in più - se mai ce ne fosse bisogno - per valutare la labirintite che affligge gli uomini del Partito democratico, ridottisi a chiedere di cancellare un emendamento che loro stessi avevano presentato.

Ma per quale ragione la correzione non è stata inserita all'interno dello stesso provvedimento sulle liberalizzazioni? E in ogni caso, con la bulimia legislatrice di questi tempi tecnici, non si poteva infilare in uno qualsiasi dei testi che attualmente viaggiano in Parlamento? No. E la ragione ha del fantozziano.

Il governo ha scelto di non modificare l'emendamento durante la discussione alla Camera perché questo avrebbe reso necessaria una terza lettura al Senato, mettendo l'intero decreto "cresci-Italia" a rischio scadenza (fissata per il 24 marzo).

All'inizio si era pensato di procedere con un nuovo emendamento, stavolta al decreto semplificazioni, ma anche in questo caso l'aggiunta avrebbe imposto una terza lettura a Palazzo Madama. Tutte lungaggini di Palazzo che le banche non potevano permettersi.

La norma che avrebbe dovuto annullare le commissioni è entrata ufficialmente in vigore domenica, con la pubblicazione del decreto liberalizzazioni in Gazzetta Ufficiale. Se l'annullamento della misura fosse arrivato anche solo con qualche ora di ritardo, per gli istituti di credito sarebbero stati dolori.

Non solo per i minori introiti e per i fastidi legati all'obbligo di modifica delle procedure interne, ma anche perché poi avrebbero rischiato una serie di contenziosi legali, soprattutto con le agguerritissime associazioni dei consumatori. Era quindi vitale che il virus anti-banche e l'antidoto salva-banche arrivassero esattamente allo stesso rintocco d'orologio.

Così è stato, e ora l'Abi può esultare. A inizio mese i vertici dell'Associazione bancaria italiana si erano dimessi proprio per ottenere questo risultato. Dopo qualche settimana, quando ormai si era capito che il pressing sull'Esecutivo aveva dato i suoi frutti, le dimissioni erano state "congelate". C'è da scommettere che non ne sentiremo più parlare.

L'Abi ha espresso "soddisfazione e apprezzamento" per la "sensibilità" dimostrata dalla politica italiana. Secondo l'Associazione, l'eventuale annullamento delle commissioni sulle linee di credito avrebbe causato agli istituti una perdita da 10 miliardi di euro, mettendo a rischio addirittura 80 mila posto di lavoro.

Ricordiamo che a dicembre il sistema bancario italiano ha incassato 116 miliardi di euro dei 489 messi a disposizione dalla Bce nell'ambito dell'operazione Ltro, che garantisce prestiti triennali al tasso ridicolo dell'1%. A febbraio la seconda puntata (Ltro2) ha portato nel nostro Paese altri 139 miliardi, su 529 complessivi.

Il tutto con la possibilità per gli istituti di acquistare con quei soldi titoli di Stato e speculare sulla differenza dei rendimenti (oggi il tasso d'interesse sui Btp decennali è superiore al 5%). Ma di questo ovviamente ci siamo già dimenticati.



La doppia faccia del governoInserisci linkdi Loris Mazzetti - Il Fatto Quotidiano - 28 Marzo 2012

Questo governo sempre meno Robin Hood sempre più Sceriffo di Nottingham. Sull’articolo 18 Elsa Fornero non arretra di un passo. La sua più che a una riforma assomiglia sempre più a una relazione di Marchionne al cda della Fiat. Il presidente Monti arriva al ricatto minacciando le dimissioni “se il Paese non è pronto posso anche lasciare”.

Il Parlamento va sempre ascoltato altrimenti è la democrazia a perdere. L’immagine all’estero di Monti e dei sui tecnici è molto positiva. Oggi il presidente Obama si alza per andare a stringergli la mano mentre prima faceva finta di non sentire B. quando lo chiamava ad alta voce.

L’aspetto del governo parrebbe solido, ma nel momento in cui si occupa di settori di interesse del Cavaliere, come Rai e Giustizia, d’incanto i duri e puri diventano teneri come ricotta.

Il primo giorno di primavera è stato pubblicato in Gazzetta il decreto di delega del ministro Passera che assegna al professor Massimo Vari la competenza, in qualità di sottosegretario, degli affari che riguardano i settori delle telecomunicazioni: poste, radio e televisioni, informatica e telematica, rete e frequenze.

L’amico di Gianni Letta, che B. avrebbe voluto a capo dell’Agcom (Autorità di garanzia nelle comunicazioni ) e che al momento della nomina a sottosegretario lo ha fatto esultare: “Grande Passera”, ha reso felice anche Fedele Confalonieri che prima aveva minacciato seri licenziamenti a Mediaset, fa annunciare a Pier Silvio il cambio di rotta: “Nessuna cacciata solo tagli ai costi”. Vari nella vita si è sempre occupato di Pubblica amministrazione e mai di telecomunicazioni.

Ciò significa che il vero stratega del ministero sarà Roberto Sambuco, l’uomo di Bisignani (dalla P2 alla P4). Il primo atto ufficiale di Passera appena insediato allo Sviluppo economico è stato quello di confermare Sambuco (noto per aver inventato il beauty contest) a capo del Dipartimento delle telecomunicazioni del ministero.

Tanto valeva lasciare Paolo Romani che aveva trasformato il ministero nella sede romana di Mediaset.

La nota conclusiva riguarda il solito Gasparri. Se fossi nei panni del direttore generale Lei starei attento a usarlo come avvocato difensore d’ufficio. L’ultima riguarda il debito della Rai che, a detta degli esperti, ammonterebbe a circa 350 milioni, previsto a suo tempo dall’ex Mauro Masi, oggi negato da Gasparri nonostante gli ultimi dati pubblicitari dell’azienda registrino una perdita del 17% nel primo trimestre del 2012 sull’anno precedente che a sua volta era in perdita rispetto al 2010.

Domanda alla portata dell’avvocato Gasparri: come fa Mediaset a perdere solo l’8,1% di pubblicità pur battuta in tutte le fasce orarie dalla Rai?


Il ricattatore
di Giulietto Chiesa - www.cadoinpiedi.it - 27 Marzo 2012

Monti lancia l'aut aut: "Se il Paese non è pronto siamo pronti a lasciare". E' solo il ricatto di un uomo in difficoltà. La sua cura non salverà l'Italia, perché è una cura sbagliata. Quando parla di mosse "eque e solidali" usa il linguaggio di Orwell per nascondere la realtà.

Monti è stato chiaro: "Se la riforma non è condivisa ci facciamo da parte". Un ricatto agli italiani?

Capisco che questa dichiarazione indica una difficoltà. Il Signor Monti comincia a capire che la cura che sta cercando di imporre all'Italia non sarà facilmente accettata, le resistenze stanno apparendo e non sono soltanto delle resistenze della coalizione che lo sostiene, ma sono resistente che vengono dal Paese reale e che indicano l'insopportabilità per la gran parte della popolazione, di una cura come quella che lui vorrebbe imporci, lui e l'Europa innanzitutto.

Dunque, credo che sia il segno di una profonda debolezza strategica. E siccome Monti è persona intelligente, non credo che spenda inutilmente parole in questa direzione se non perché avverte un serio pericolo.

Ci ricatta, sostanzialmente. Ricatta tutti, dicendo che questa è l'unica cura possibile. Naturalmente questo ragionamento è un ragionamento capzioso e falso. Non è vero che questa è l'unica cura possibile, ma dal suo punto di vista lo capisco perfettamente.

Io credo che la soluzione migliore sarebbe quella di mandarlo a casa, perché, molto semplicemente, la sua cura non sanerà il problema del debito italiano. La sua cura, anzi, farà aumentare il debito dell'Italia e di tutti i paesi più deboli dell'Unione Europea attuale.

L'unica cura vera sarebbe quella di rivedere radicalmente la Costituzione europea, i trattati di Lisbona, e di mandare in soffitto il Trattato di Maastricht che costringe gli stati europei, per finanziare il loro debito, a fare ricorso a un mercato truffaldino che è il mercato della finanza mondiale.

Ma se Monti va via, non c'è il rischio che la Bce ci "spari" contro? Il rischio che si finisca in una situazione più disastrosa di quella attuale?

Più disastrosa di quella attuale credo sia impossibile. Non credo che abbiamo molto da perdere: se dovessi fare una citazione divertente dovrei dire che non abbiamo da perdere che le nostre catene. La Bce ci potrebbe sparare contro? Ma guarda che bella situazione è quella in cui ci troviamo secondo cui la Bce, che dovrebbe essere al servizio nostro, ci può sparare contro.

Questa frase è nella mente di molti dei nostri governanti. Non credo sia normale ritenere che la Bce possa minacciarci. La Bce è un'espressione del nostro lavoro, o dovrebbe essere tale, e pensare che ci sia qualcuno sopra di noi che ci può sparare addosso, essendo un nostro dipendente, trovo sia francamente sconcertante.

Di fatto la Bce è una banca privata che svolge gli interessi della grande finanza internazionale, anche essa privata, e per questa ragione effettivamente ci può sparare contro. Ma la mia risposta è molto semplice: se le cose sono così è bene che la gente lo sappia, perché avere un mitra puntato su di noi e non saperlo è molto più pericoloso che saperlo.

Monti continua a ribadire che le mosse del suo governo sono "eque e solidali". Cosa ne pensa?

Credo sia l'utilizzazione più spregiudicata della neolingua di George Orwell. Suggerisco a molti italiani che hanno ancora dei dubbi di rileggersi 1984 di Orwell, perché definire questo scenario "equo e solidale" significa usare la neolingua che è stata usata proprio per nascondere la realtà. La neolingua è quella in cui tutte le parole perdono il loro significato.

Equo e solidale, mentre questa situazione mette decine di migliaia di persone in condizioni di essere espropriate del diritto di vivere. C'è gente che ha lavorato tutta la vita che viene completamente privata di pensione e lavoro contemporaneamente. Ci sono circa 1 milione di persone che hanno ormai raggiunto e superato i 45/46 anni, che sono senza lavoro e non potranno più trovarlo.

Aggiungiamo questo e scopriremo che ci sono 4 o 5 milioni di persone che da questa norma, vedono letteralmente distrutto non solo il loro tenore di vita, ma la loro stessa esistenza di famiglie e di diritti. E tutto ciò sarebbe equo e solidale?


La luna di miele è finita?

di Lorenzo Mazzei - www.antimperialista.it - 27 Marzo 2012

Note sintetiche sull'articolo 18 e dintorni

Per capire il valore simbolico della distruzione dell'articolo 18, bisogna fare un passo indietro di dieci anni. Esattamente il 23 marzo del 2002, le strade di Roma videro una delle più grandi manifestazioni di tutti i tempi. Il no all'abolizione dell'articolo 18 vinse, e Berlusconi dovette fare marcia indietro.

Dieci anni dopo, così come avvenuto sulle pensioni, il governo Monti ha ormai in mano lo scalpo del simbolo dei diritti dei lavoratori. Lo consegnerà alle oligarchie europee, alla signora Merkel, alla Bce. Ma proprio nei prossimi giorni andrà a farsene vanto pure in Cina e in Corea del Sud, giusto per far intendere qual è la strada intrapresa.

2. La libertà di licenziamento
Che il punto sia la libertà di licenziamento, questa volta l'hanno capito anche i sassi. Ogni discorso sull'«equità», sulla flessibilità in uscita che migliorerebbe le possibilità di entrata nel mercato del lavoro, non convincono proprio nessuno, a parte lo stuolo dei pennivendoli ben pagati per farsi convincere, e soprattutto per cercare di convincere.

Si può disquisire quanto si vuole, ma l'obiettivo sostanziale è quello di estendere la precarizzazione a tutti i lavoratori. Del resto, la loro «equità» (vedi il caso delle pensioni), prevede sempre un uguagliamento verso il basso, mai verso l'alto.

Con il Disegno di legge Monti-Fornero l'articolo 18 viene di fatto cancellato. Le aziende potranno comodamente avvalersi del licenziamento per «motivi economici», o di quello per «motivi disciplinari». Il diritto al reintegro rimane solo per i licenziamenti discriminatori, ma non sarà facile dimostrare la discriminazione.

Negli altri casi, se il lavoratore vince la causa avrà solo il diritto ad un indennizzo se licenziato per motivi economici, mentre deciderà il giudice nel caso di motivi disciplinari. Ovvio che la «motivazione economica» sarà quella privilegiata dalle aziende.

3. Non solo articolo 18
Secondo la vulgata piddina, nelle misure del governo «ci sono cose buone, ma anche cose da correggere» (Bersani, ieri a Cernobbio). Quali sarebbero queste cose buone? Il governo ha cercato di venderne due: la riduzione della precarietà per i giovani, l'intervento sugli ammortizzatori sociali.
Lacrima Fornero ha parlato di riduzione delle forme di precariato, ma dei 46 (quarantasei) tipi di contratto precario oggi esistenti nessuno verrà abolito.

Gli ammortizzatori sociali vengono in realtà ampiamente falcidiati. Si tagliano la cassa integrazione, la mobilità ed il sussidio di disoccupazione, il tutto sostituito con l'Assicurazione sociale per l'impiego (Aspi). Durata, 12 mesi.

Un taglio tremendo che, combinato con la controriforma pensionistica, lascerà tanti lavoratori anziani senza salario, senza pensione e senza alcun tipo di «ammortizzatore». E per i giovani? E' di stamani la notizia che il nuovo Aspi diminuirà le attuali tutele anche per alcune categorie del precariato (ad esempio i co.co.pro)... Dove sono, dunque, le «cose buone»?

4. L'imbroglio della famosa «equità»
Come abbiamo già visto, se il cialtrone Berlusconi era riuscito ad addormentare le masse con la promessa della ricchezza per tutti, i vampiri che l'hanno sostituito devono usare necessariamente una droga diversa, racchiusa nell'ingannevole parola «equità». Contate quante volte questa parola è stata pronunciata dal duo Monti-Fornero e saprete quante volte siete stati ingannati.

Equità non è uguaglianza, a volte ne è l'esatto contrario. Se la lotta per l'uguaglianza muove dal sentimento e dalla ragione che ci mette di fronte ai caratteri universali del genere umano, l'equità presuppone sempre un soggetto «terzo», inevitabilmente superiore ed insindacabile nelle sue sentenze.

Certo, tutti - giustamente - preferiscono avere un giudice «equo» piuttosto che «iniquo»; uno studente vorrà essere esaminato da un professore «equo», e così via. Ma chi ha stabilito che l'attuale governo - il primo della storia repubblicana a non essere neppure espressione di una maggioranza uscita da una consultazione elettorale - abbia il diritto di decidere cosa è equo e cosa no? Non c'è in questa pretesa l'evidenza di una concezione autoritaria, profondamente elitaria e dunque antidemocratica?

«Il nuovo articolo 18 varrà per tutti», ecco l'inno all'«equità» scritto nel titolo del Corriere della Sera del 21 marzo. «Varrà per tutti», sai che gioia sapere che la negazione di un diritto sarà universale.

Secondo costoro il detto «Mal comune, mezzo gaudio» - sempre escludendo, ci mancherebbe!, la loro casta dominante - sarebbe la moderna traduzione dell'umana aspirazione all'uguaglianza. Con questa logica si dovrebbe festeggiare il taglio del 50% dei salari purché uguale per tutti, la disoccupazione di massa purché equamente distribuita, e magari anche il plotone di esecuzione purché tocchi a tutti un identico numero di pallottole...

5. Perché lo fanno?
Se i contenuti del Ddl sono chiari, resta qualcosa da dire sulle ragioni della foga devastatrice del governo Monti. Insomma, perché lo fanno? Penso che la risposta vada articolata in tre punti: a) lo fanno perché richiesto dalle oligarchie europee (non scordiamoci la letterina agostana della Bce, b) lo fanno perché richiesto dall'attuale collocazione subalterna dell'Italia nella divisione internazionale del lavoro, c) lo fanno perché è connaturato con la loro ideologia.

Che quello attuale sia un vero e proprio governo Quisling lo abbiamo detto e scritto tante volte. Non dovrebbe dunque stupire tanta acquiescenza ai diktat di Francoforte. Monti ha i suoi mandanti e protettori e ad essi deve rispondere, mai dimenticarselo. Ma diventerebbe difficile capire tanto accanimento se non vi fosse anche un elemento strutturale.

L'Italia ha subito un vero e proprio downgrade non solo sul debito pubblico, ma ancora prima nella sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro. Un downgrade che fa sì che la competizione sarà sempre meno con la Germania, e sempre più con paesi come il Brasile o la Polonia. Su questo punto rimando all'articolo di ieri di Moreno Pasquinelli.

Rimane l'aspetto ideologico, che non va mai sottovalutato. Il governo dei professori è così arrogante da volerci vendere la panzana secondo cui l'abolizione dell'articolo 18 favorirà la mitica ripresa.

Questa fandonia fa il paio con quella che vorrebbe assegnare identiche proprietà taumaturgiche alle cosiddette «liberalizzazioni». Del resto che cos'è la fine del principio della «giusta causa», se non la piena deregolamentazione (e dunque liberalizzazione) del rapporto di lavoro?

I professori, ohibò, hanno un'ideologia. Più precisamente hanno una religione, quella del mercato. Di quel mercato che, rifuggendo «lacci e lacciuli», ed ogni controllo della politica, ha prodotto i disastri che sappiamo. Che non sono il frutto di qualche delinquente, ma di chi di quell'intoccabile mercato ha saputo essere il miglior interprete.

6. La partita politica interna alla maggioranza
Le decisioni assunte dall'esecutivo hanno aperto un conflitto all'interno della maggioranza che lo sostiene. Le forze politiche sono indebolite, in alcuni frangenti quasi annichilite, ma non del tutto scomparse. Quanto è reale e quanto è di facciata questo scontro? Questa è la domanda a cui bisogna rispondere.

A mio modesto parere lo scontro è vero e finto al tempo stesso. Spieghiamoci meglio: è finto riguardo alla sostanza dell'articolo 18, dato che tutti i protagonisti sono d'accordo nel modificarlo assai profondamente; è vero, perché tutti vorrebbero condurre in porto l'operazione senza perdere la faccia (ed i relativi consensi elettorali), e questo è un obiettivo ben difficile da realizzarsi. E' questo, in particolare, il problema del Pd. Ed è di questo che hanno discusso in queste settimane, non certo dei drammi della precarietà e della disoccupazione.

Ora la destra (ma non la Lega) incita Monti ad andare avanti senza incertezze, come pure la guardia del corpo casinian-rutelliano-finiana, mentre Bersani, con la rinuncia al decreto, è riuscito a prendere qualche mese di tempo. Ma il tempo passa in fretta e la mina, ora disinnescata, si ripresenterà entro l'estate.

Come finirà? Il Pd chiede una sola cosa, che anche nel caso di licenziamenti per motivi economici la decisione tra indennizzo e reintegro (oggi escluso dal governo) spetti al giudice. Un accordo non è dunque impossibile, dato che anche se passasse la linea di Bersani, l'articolo 18 ne uscirebbe comunque snaturato.

L'attuale diritto al reintegro verrebbe infatti lasciato in mano alla magistratura, il che potrà anche piacere a Di Pietro, ma non a chi sa bene a quali interessi risponda la casta dei magistrati.

Vedremo, ma Bersani ripete ogni quarto d'ora che il «voto non è in discussione», mentre Monti ha voluto la Camusso alla sua destra in un pranzo a pro della stampa (c'erano più fotografi che camerieri) sul lago Maggiore.

Esclusa dunque la rottura, non è ancora chiaro come riusciranno a venirne fuori. Di sicuro, i lavoratori faranno bene a non illudersi, dato che il tempo guadagnato verrà utilizzato contro di loro.

7. Cosa resterà dopo il governo dei professori?
In realtà la partita politica è assai complessa. C'è infatti una domanda che non ha ancora una precisa risposta: cosa resterà dopo il governo dei professori? L'attuale esecutivo rimarrà una parentesi di un bipolarismo destinato a rilanciarsi, anche se in forme diverse, o diventerà piuttosto il modello a cui adeguare la strutturazione politica e la stessa forma istituzionale?

Chi scrive non ha la risposta, ma è chiaro che molto dipenderà dall'evoluzione della situazione economica. Una sia pur relativa stabilizzazione dell'emergenza debito favorirebbe la prima ipotesi; una sua nuova esplosione, magari legata all'emergenza Portogallo (ma questa è solo una delle ipotesi tra le tante), renderebbe più probabile la seconda.

L'importante è capire che una direttrice di marcia univoca ancora non c'è. E dunque, del tutto indipendentemente dall'articolo 18, potremmo entrare in una nuova fase di turbolenze politiche.

8. La «luna di miele» è finita
Se il giudizio sulle prospettive politiche resta necessariamente in sospeso, diverso è il discorso sul futuro del governo Monti. Niente fa pensare che possa mollare la presa prima del 2013, ma la vicenda dell'articolo 18 segna probabilmente un punto di non ritorno. Come direbbero gli editorialisti anglosassoni, la «luna di miele» è finita.

I sondaggi vanno sempre presi con molta prudenza, ma ignorarli sarebbe sbagliato. Quello della ISPO/3G, commentato da Renato Mannheimer sul Corriere della Sera di oggi è piuttosto eclatante. I consensi al governo sono passati dal 62% del 6 marzo al 44% attuale, mentre i giudizi negativi sono saliti dal 34% al 54%. Sul punto specifico del progetto governativo sul mercato del lavoro, i giudizi negativi superano i due terzi degli intervistati (67%).

Dati che non hanno bisogno di troppi commenti. Naturalmente, un giudizio negativo non è un impegno di lotta, e dunque non dobbiamo farci troppe illusioni. E' tuttavia chiaro che il governo dei professori non ha più dalla sua il consenso della maggioranza degli italiani, e questo è un fatto che finirà per pesare sulle prossime vicende politiche.

9. Che Napolitano se ne vada
Chiudiamo su un punto sempre più centrale: il ruolo nefasto dell'attuale presidente della repubblica. Non più tardi di ieri Napolitano ha voluto mettere di nuovo il becco sulla questione dell'articolo 18, per sostenere a spada tratta il governo Monti.

La situazione è talmente fuori controllo che, sempre ieri, Monti - senza che nessuno sentisse il bisogno di replicare - si è permesso questa curiosa ma significativa affermazione sulla formula «salvo intese», uscita dal consiglio dei ministri: «Nessuno si illuda che forze importanti che abbiamo ascoltato ma esterne al governo, possano in qualche modo intervenire. Questa strana formula che non è uscita per assonanza con "Salva Italia", significa salvo intese fra i membri del governo e il capo dello Stato». Il «capo dello Stato»? Siamo già in una repubblica presidenziale?

Il primo comma dell'art. 87 della Costituzione così recita: «Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale». E' evidente che rappresentare l'unità nazionale significa rappresentare e garantire le diverse parti politiche, con il famoso ruolo «super partes».

Abbiamo invece un presidente che non solo se ne infischia di una parte consistente del parlamento, se ne frega pure dell'orientamento non di una parte degli italiani, ma addirittura della netta maggioranza degli stessi.

In tutta evidenza, è proprio Napolitano che si pone come primo rappresentante dei poteri forti sovranazionali che hanno commissariato l'Italia. Qui non si tratta del solo art. 18, ma di un ruolo sempre più debordante da quello assegnatogli dalla Costituzione.

Lo si è visto nell'aperta sponsorizzazione della partecipazione italiana all'aggressione alla Libia, lo si è visto nella regia del golpe bianco che ha portato il professor Quisling a Palazzo Chigi. Non è forse arrivato il momento di una forte
mobilitazione democratica contro l'uomo del Quirinale?


Monti, ricatto sul lavoro
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 27 Marzo 2012

Il primo destinatario di queste parole è naturalmente il Partito Democratico e il casus belli è la riforma dell'articolo 18. Dopo aver cancellato il concetto stesso di concertazione con i sindacati, ridotti a interlocutori occasionali con cui scambiare quattro chiacchiere di cortesia prima di imporre la propria linea, Monti sta ora svuotando di qualsiasi significato il ruolo del Parlamento.

Fin qui i tecnici bocconiani hanno operato sempre per decreto, blindando sistematicamente i testi con il ricorso alla fiducia.

Le ragioni? Sempre le stesse: dobbiamo rassicurare i mercati, tempi certi e ridotti nell'approvazione dei provvedimenti sono fondamentali per non dilapidare la ritrovata credibilità a livello internazionale.

La riforma del mercato del lavoro arriverà però in Parlamento come disegno di legge ordinario. Il governo ha scelto di seguire questa strada dopo le consultazioni con il Presidente della Repubblica, che ha giustamente fatto notare come un decreto su un tema così delicato sarebbe stato visto come un colpo di mano politicamente inaccettabile.

Il problema è che anche in questo caso sembra trattarsi più che altro di un gesto di cortesia: l'Esecutivo concede per una volta a deputati e senatori la possibilità di guadagnarsi lo stipendio, a patto che si tratti di una mera finzione. Tutto quello che devono fare è dire ancora una volta "sì", senza azzardarsi a modificare l'impostazione di fondo del Ddl.

Lo scontro si è acceso in particolare sui licenziamenti per motivi economici. La riforma Fornero cancella in questi casi la possibilità del reintegro per i lavoratori mandati via ingiustamente, che avranno diritto a un semplice indennizzo.

Si tratta di una modifica che fa scivolare l'Italia a destra della stessa Germania: il famoso "modello tedesco" prevede infatti che il giudice possa scegliere fra indennizzo o reintegro in caso di licenziamento ingiusto sia per motivi economici che disciplinari.

Senza contare che si applica alle aziende con oltre dieci (e non quindici) dipendenti e che dev’essere concertato con i sindacati. Ora, con quale faccia Bersani & Company potranno mai approvare una riforma del genere e poi pretendere il voto degli elettori di sinistra?

D'altra parte, Monti sa benissimo che nessuno dei partiti si prenderà mai la responsabilità di far cadere il suo governo. Tantomeno il Pd, che ha fatto delle divisioni interne un segno distintivo e al momento non riesce più a vincere nemmeno le sue stesse primarie.

Senza contare che, prima di andare alle urne per le politiche, molti democratici sperano ancora nella riforma elettorale, che consentirebbe di allentare gli scomodi lacci del patto di Vasto con Sel e Idv.

Forte di questa consapevolezza, il Professore tira dritto, probabilmente anche perché cedere oggi al Pd sul fronte del lavoro lo costringerebbe a dimostrarsi in futuro altrettanto arrendevole con il Pdl sul capitolo giustizia, magari con l'abolizione di quel reato di concussione che dà tanto fastidio a Berlusconi nel caso Ruby.

Non dimentichiamo però le ampie concessioni già fatte ai pidiellini nel decreto liberalizzazioni, da cui sono sparite in corso d'opera una valanga di norme che avrebbero danneggiato il bacino elettorale destrorso (tassisti in primis).

Nei sondaggi la popolarità di Monti sta inevitabilmente calando, ma questo era prevedibile. Il governo degli accademici può fare tranquillamente a meno del consenso popolare, ma i partiti che lo sostengono in Parlamento no. E fra poco ci sono le amministrative. Il Pd farebbe bene a ricordarselo.



La coccodrilla preventiva
di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 25 Marzo 2012

“Lacrime di coccodrillo”: così la Camusso ha definito il rammarico della Fornero perché la sua controriforma “non è condivisa da tutti”, cioè perché qualcuno ancora si ostina a non pensarla come lei.

Non sappiamo se madama Fornero sia un coccodrillo. Ma, se lo è, trattasi di esemplare nuovo, geneticamente modificato: il coccodrillo che piange prima. Il 18 dicembre, un mese dopo le sue lacrime in favore di telecamera, la Fornero disse al Corriere: “L’articolo 18 non è un totem” (forse voleva dire tabù).

Poi, di fronte alle prevedibili polemiche, ingranò la retromarcia: “Non avevo e non ho in mente nulla che riguardi in modo particolare l'art. 18. Sono stata ingenua, i giornalisti sono bravissimi a tendere trappole. Vogliamo lasciarlo stare questo art.18? Io son pronta a dire che neanche lo conosco, non l'ho mai visto”.

L’8 gennaio Monti smentì la retromarcia:“Niente va considerato un tabù. In questo senso il ministro Fornero ha citato l’art.18”. Il 30 gennaio la Fornero smentì la smentita: “L’art. 18 non è preminente, ma non dev’essere un tabù”.

E via a sproloquiare sul “modello tedesco”: quello che prevede l’intervento del giudice per ogni licenziamento. Invece la controriforma Fornero esclude dal reintegro giudiziario i licenziamenti per motivi economici, anche se camuffano quelli disciplinari e discriminatori.

È così, tra una bugia e l’altra, che s’è svolta tutta la trattativa su un non-problema, “non preminente”, “mai visto”: infatti alla fine l’art. 18 esaurisce praticamente l’intera “riforma del mercato del lavoro”.

Il resto è fuffa, anzi truffa. Monti dice che l’art. 18 frena gli investimenti esteri. Ma l’ha subito sbugiardato persino il neo presidente di Confindustria, Squinzi: “In linea generale non credo sia l’art.18 a bloccare lo sviluppo del Paese. Le urgenze sono altre: burocrazia, mancanza di infrastrutture, costi eccessivi dell’energia, criminalità”. Per Napolitano la “riforma è ineludibile per adeguarsi alla legislazione dell’Europa”.

Monti aggiunge che, se avesse stralciato l’articolo 18 dalla “riforma”, “l’Europa non avrebbe capito”. E allora perché l’Europa capisce benissimo la Germania, che consente a ogni licenziato, per qualunque motivo, di appellarsi al giudice che può decidere sempre fra l’indennizzo e il reintegro?

Sul Corriere, Ferruccio de Bortoli trova “inquietanti” i “toni apocalittici di molti commenti” che “descrivono un paese irreale”, “tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro.

Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti”.

Potrebbe chiedere informazioni al suo principale azionista, la Fiat, che a Melfi ha cacciato tre lavoratori solo perché facevano i sindacalisti e a Pomigliano richiama al lavoro solo i cassintegrati non iscritti alla Cgil, facendo carta straccia della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori.

Poi de Bortoli violenta due volte la logica, usando i numeri bassissimi di licenziati reintegrati per dimostrare che la controriforma dell’art. 18 non fa male a nessuno.

È vero che “solo l’1% delle pratiche di licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato in riassunzioni o reintegri”: ogni anno i giudici si occupano di 6 mila licenziati e ne reintegrano solo 60.

Ma questo dimostra l’opposto di quel che vuol sostenere de Bortoli. E cioè: l’art. 18 è un argine fondamentale contro i licenziamenti ingiusti, che con la controriforma saranno molti di più; ed è falso che oggi i giudici impediscano alle aziende di licenziare in caso di necessità.

Ergo non c’è alcun motivo di toccare l’articolo 18. E quanti lo vogliono stravolgere non sono mossi da ragioni economico-produttive, cioè tecniche. Ma politiche o, come direbbe de Bortoli, ideologiche. Ecco, per favore: ci risparmino almeno le balle.


Elsa, lacrime e olio di ricino
di Luca Telese - Il Fatto Quotidiano - 27 Marzo 2012

“Non siamo qui a distribuire caramelle”. Dopo la durezza lo scherno. Così la ministra lacrimale si è fatta vicepreside arcigna, così la Fornero è diventata “la Cattivero”. “La” con l’articolo, perché malgrado la megalomania non abbia limiti, nemmeno lei – per ora – può modificare la lingua italiana, negando ai cronisti l’articolo determinativo femminile.

In qualsiasi paese civile, alla inchiesta firmata da Bernardo Iovene per il Report di Milena Gabanelli (in onda domenica su Raitre) avrebbero fatto seguito corsivi infuocati, richieste di dimissioni e interrogazioni parlamentari. Ma chi tocca “i tecnici” nella stampa italiana trema: silenzio più completo, nemmeno un lancio di agenzia.

La ministra che doveva tutelare con rigore compassionevole è diventata la caricatura della signorina Ratched di “Qualcuno volò sul nido del Cuculo”, la caposala che si realizza vessando i propri pazienti.

Nei panni di tanti Jack Nicholson incolpevoli, però, ci sono quegli italiani che la riforma contributiva appena varata dal governo Monti manda in rovina. Li hanno simpaticamente battezzati “Esodati”.

Sono quelli che dopo la riforma resteranno senza lavoro e senza pensione, imprigionati in un limbo previdenziale anticamera della miseria. “Esodati”, come se biblicamente viaggiassero verso una terra promessa. Sono stati espulsi dal lavoro con accordi sottoscritti al Ministero da sindacati e governo.

Che esistessero si sapeva, e infatti al ministro Fornero erano stati segnalati da un suo predecessore, Cesare Damiano: “Guarda – le aveva detto lui – voteremo la riforma se ti impegni a dare loro copertura”. Macché. I soldi non ci sono.

In quei giorni di dicembre la Fornero non aveva sentito ragioni, il governo aveva bocciato tutti gli emendamenti, accettando solo un ordine del giorno non vincolante. Poche settimane fa il Corriere della Sera rivelava (fonti governative) che sono poco meno di 200 mila: per l’Inps sono addirittura 350 mila.

Ma domenica, intervistata da Report, la ministra Cattivero ha mostrato la sua faccia spietata: “Siamo stati chiamati a far parte di un governo tecnico perché c’era una lavoro sgradevole da fare. Non perché c’erano da distribuire caramelle”.

Il nodo che alla Fornero sfugge è che quel danno sociale non lo hanno creato lontani governi politici, ma la sua riforma. Per questo che l’ostentazione muscolare è più sgradevole: “Non possiamo permetterci il vecchio metodo delle promesse a go-go. Non possiamo farlo perché perderemmo credibilità”.

Poi, di fronte all’incredulo Iovene, che le chiedeva come pensa di risolvere il problema (si è impegnata a farlo entro l’estate) ha aggiunto: “Daremo un sussidio”. L’inviato ha ribattuto: “Loro vorrebbero la pensione!” (ne avevamo maturato il diritto e avevano accettato di esodare a quella condizione).

Ma la Fornero: “Possiamo dire una cosa? La pensione di quelle persone, sarà sgradevole dirsi, non è tutta pagata dai contributi”. Davvero viene da chiedere come possa essere passato per la testa, a Pier Luigi Bersani (sia pure mettendo di mezzo la sua simpaticissima figlia) di paragonare l’angelica solarità di una donna intelligente come Belén Rodriguez, alla maschera arcigna e presuntuosa della ministra.

Della sua mutazione genetica ha scritto su Repubblica, Francesco Merlo: “Quelle lacrime non furono, come pensammo in tanti, sentimento del sacrificio, ma emozione del debutto, e quindi turbamento da strategia comunicativa”.

Concludendo che le rughe che prima erano bellezza, adesso si sono fatte reticolo di ambizione: “Ora sappiamo che quel pianto era inadeguatezza, la faccia di chi purtroppo rischia di perdere la faccia”.

Non ci sarebbe nulla da aggiungere, se non che uguale intransigenza la Fornero l’ha esibita sull’articolo 18, che prima annunciò di considerare totem da abbattere, salvo poi – con un voltafaccia da politico, ma di quarta classe – accusare l’ottimo collega del Corriere, Enrico Marro, di averle teso una trappola.

Un mese dopo cambiava idea: Elsa era tornata di nuovo “la Cattivero”, al punto da presentare un articolato scomposto che un preside della Bocconi considera “a rischio di incostituzionalità”.

Per motivi sconosciuti (ma forse intuibili) se si viene licenziati per motivi economici e anche se il giudice appura che non è vero, non si viene reintegrati al lavoro. Una bella riforma.

Ora la Fornero gioca alla Cattivero si dimentica di quando millantava “paccate di miliardi” e parla di caramelle per uomini e donne in mezzo a una strada.

Proprio lei, non eletta da nessuno, e titolare di una possibile pensione retributiva. Ha ragione Milena Gabanelli a chiederle di rinunciare. Almeno a quella.


Lavorare non conviene più. Per molti.
di Valerio Lo Monaco - www.ilribelle.com - 20 Marzo 2012

La domanda alla quale vogliamo tentare di rispondere in questa circostanza è la seguente: ha ancora senso lavorare? Ancora meglio: è ancora utile farlo?

Beninteso, stiamo parlando, ovviamente, del lavoro salariato, e possiamo anche restringere ancora di più il quesito, cercando di trovare una linea di confine al di sotto della quale la risposta potrebbe non essere così scontata come invece a prima vista la maggioranza dell'opinione pubblica crede. In questo caso il punto diventa: quale è il limite al di sotto del quale lavorare non solo è avvilente, ma nei fatti diventa anche controproducente.

Il motivo di tale domanda è molto semplice: molti pensano che quando scriviamo di pensare realmente a cambiare il proprio modus vivendi, di spostarsi, cambiare attività e in senso generale cercare di crearsi un nuovo paradigma - anche pratico - per sopravvivere, parliamo di utopie che sono al di fuori della realtà.

Come vedremo, in molti casi, è molto più al di fuori della realtà rimanere in alcune condizioni piuttosto che prendere seriamente in esame un cambiamento radicale di vita.

Un lavoro, in teoria, dovrebbe consentire di soddisfare, per il lavoratore, almeno tre ambiti: economico, pratico, psicologico. Ovvero esistenziale.

Dal punto di vista economico dovrebbe garantire quanto meno di poter arrivare, proprio dal punto di vista numerico, alla piena sussistenza ogni mese. Il che significa che deve essere necessario, se non a consentire di risparmiare economicamente qualcosa per le incertezze che in ogni caso il futuro porta con sé, quanto meno a pagare i conti necessari ad avere l'indispensabile.

Alloggio e vitto, e spese accessorie collegate. Come vediamo, stiamo parlando proprio del minimo indispensabile.

Dal punto di vista pratico dovrebbe consentire di soddisfare alcune necessità, ma sopra a tutte una: poiché il tempo che il lavoro sottrae alla vita di tutti i giorni non può, siccome non abbiamo il dono dell'ubiquità, essere utilizzato per svolgere altre attività, il guadagno economico che si trae da una giornata lavorativa deve quanto meno servire a poter acquistare una serie di cose e servizi che non possiamo svolgere da soli, per ovvi motivi di tempo.

E questo, sia chiaro, ancora prima di entrare nel merito del fatto che sia giusto o meno, positivo o negativo, scegliere di lavorare per acquisire denaro per comperare cose che invece si potrebbe fare da soli.

Dal punto di vista psicologico dovrebbe infine almeno poter garantire di vivere una esistenza che dal punto di vista emotivo possa scorrere senza ansie o paure, per esempio quella, sempre più diffusa nella nostra società, di riuscire a soddisfare le proprie necessità.

Ma ancora: visto che il lavoro occupa non solo la maggior parte delle giornate, ma in senso lato la maggior parte della propria vita, dovrebbe essere essenziale pensare come imprescindibile il fatto che il lavoro che si svolge debba essere scelto e preferibile rispetto a un altro.

Fare un lavoro che non solo costa fatica (il che è anche normale) ma che non piace e che magari reca profondi scontenti, equivale a passare la maggior parte della propria vita a fare una cosa controvoglia. In altre parole, a soffrire, soprattutto emotivamente, per tutto il corso della propria vita lavorativa (il che equivale, oggi come oggi, sino quasi alla morte).

È logico a questo punto fare un bilancio del proprio lavoro e verificare se questi tre ambiti sono soddisfatti, e come, oppure se siano in varia misura e combinazione più o meno disattesi.

Ci sarà chi svolge un lavoro che non gli piace affatto, magari in un ambito che per propria inclinazione è diametralmente opposto al proprio sentire, ma che attraverso di esso soddisfa bene, diciamo ben oltre i limiti minimi che abbiamo indicato, gli altri due punti.

Oppure chi in qualcuno di questi ambiti rilevi di essere ben al di sotto di un certo limite, ma che magari la cosa sia compensata in modo rilevante da almeno uno degli altri.

Ma esiste un caso in cui tutti i tre gli ambiti siano del tutto disattesi. In cui il lavoro che si svolge non consente di percepire uno stipendio in grado di far fronte alle mere indispensabili necessità economiche, in cui non lasci il tempo di fare altro e che apporti un profondo malessere al lavoratore.

Questo è, nel nostro modello e in modo particolare negli ultimi anni, il caso più diffuso. E presumibilmente, almeno leggendo i dati economici e sentendo le dichiarazioni stesse dei nostri governanti, sarà così a lungo.

Molto a lungo: secondo Monti, ed è solo una previsione, in Italia abbiamo almeno "venti anni di regime controllato". È una situazione, dunque, che non è destinata a cambiare sensibilmente in positivo per un periodo molto lungo. Quanti anni avremo tra (almeno) venti anni?

Indichiamo un caso scuola, puramente esplicativo, che può però essere calibrato da ognuno variando i parametri relativi alla propria situazione, al luogo di residenza e alle proprie necessità. È un caso che conosciamo di persona, e non è uno dei casi limite.

Le condizioni di vita e lavorative che andremo a descrivere sono di una persona che oggi può addirittura considerarsi fortunata, rispetto alla maggioranza dei lavoratori della sua stessa età, o giù di lì.

Trentotto anni, contratto a tempo indeterminato, 1000 euro al mese di stipendio netto, per 8 ore di lavoro dal Lunedì al Venerdì. Comune di lavoro Roma, e così la residenza.

Il nostro lavoratore è single, vive in un appartamento di 35 metri quadrati in affitto, per il quale paga 550 euro al mese più 100 di condominio. E più, ovviamente, le utenze.

Come si vede, abbiamo scelto una situazione che, per chi conosce il mondo del lavoro in una grande città o comunque può immaginare quanto accade oggi in una situazione analoga, è già ben al di sopra di tante situazione che invece sono, e di molto, peggiori.

Per raggiungere il posto di lavoro, il nostro soggetto utilizza un motorino, e impiega circa 35 minuti per andare e lo stesso tempo per tornare.

Ebbene questa persona, pur avendo un contratto a tempo indeterminato nel settore privato, per riuscire ad arrivare alla fine del mese deve svolgere necessariamente un secondo lavoro (nel caso, un paio di serate in un locale).

Il motivo è semplice, tra affitto e utenze, assicurazione per il mezzo e la benzina, ciò che le resta non è sufficiente a poter comperare la quantità di cibo - meramente: il cibo - che le necessita per arrivare a fine mese. E non parliamo di altre cose: vestiario, oggetti di altro tipo, spese impreviste, svago.

Ma il punto non è solo meramente numerico. Il fatto è che le sue giornate iniziano alle 8 e terminano alle 19, spostamenti inclusi, tranne i giorni in cui lavora anche la sera, soprattutto nel fine settimana.

E ancora, in modo determinante, questa persona, in ogni caso, non è in grado di poter accedere a nulla di ciò che Roma "offre", come la varietà di cinema e teatri, concerti ed esposizioni culturali, ristoranti, locali e più in generale tutto ciò che non sia lavoro e che (per chi apprezza) è possibile avere in una grande città: non ha denaro a disposizione per potersi permettere qualcosa.

In pratica non può accedere a nulla per cui valga la pena vivere. Può solo lavorare per (tentare di) arrivare alla sopravvivenza sino alla fine del mese.

Ultimi tre punti. Il primo: svolge un lavoro impiegatizio che non le offre alcuna soddisfazione personale, che mediamente la annoia per otto ore ogni giorno e la impegna per nove ore o più. Il secondo: ha da poco scoperto che, nella migliore delle ipotesi - ovvero che l'azienda per la quale lavori non ceda alla recessione e sia costretta a licenziare, e che nel frattempo non occorrano altre manovre per la previdenza - potrà andare in pensione tra non meno di venticinque/trenta anni. Il terzo: non c'è alcuna possibilità all'orizzonte, mediamente logica o sulla quale puntare (che non sia una mera speranza) che le cose possano cambiare in meglio.

In sintesi: conduce una vita da schiavo - pur se in condizioni certamente migliori di tantissime altre - per riuscire a malapena ad arrivare alla fine del mese (quando non ci arriva si appoggia, anche solo per il vitto, a una rete di familiari) il più delle volte facendo i conti al millimetro, lavorando circa cinquanta ore a settimana in totale (tra primo e secondo lavoro) per fare cose dalle quali non trae neanche alcuna soddisfazione psicologica, senza poter godere nulla di ciò che una città come Roma offre ma soffrendone tutte le difficoltà (traffico, inquinamento, prezzi alti per ogni cosa) e con una prospettiva di condurre una vita del genere per arrivare, forse, a percepire una pensione quando avrà le forze, e il denaro sufficiente, appena per fare una passeggiata ai giardini comunali.

Nulla, a nostro avviso, vale un sacrificio simile. E stiamo parlando, ribadiamo, di una situazione infinitamente migliore di quella della maggior parte dei lavoratori della sua età, o poco più giovani. Ovvero della situazione lavorativa della generazione attuale e di quelle prossime.

Esiste dunque un limite minimo - anche se differente dal punto di vista del "quanto" in base al luogo in cui si vive, ad esempio se in una grande città oppure in provincia - al di sotto del quale lavorare diventa controproducente. Ed è, come abbiamo visto, un ragionamento prettamente logico, numerico, pratico.

Volutamente non abbiamo affrontato in questa sede, ma lo faremo a breve, l'aspetto più prettamente emotivo e se vogliamo filosofico del concetto di lavoro.

Ovvero, detto sinteticamente, il concetto di "senso" - direzione e significato - che il lavoro dovrebbe avere (rispetto a quello che la maggioranza delle persone fa e che invece, di senso, ne ha poco, in generale e per sé).

Come detto torneremo sul punto prossimamente, per ora valga almeno una riflessione: svolgere un lavoro che impegna la maggior parte delle proprie giornate e percepire che tale lavoro non ha senso se non (e non sempre) nella misura unica del ritorno pratico, economico principalmente, equivale a dire che si sarà spesa la propria vita intera senza senso.

Se questa considerazione valga poco o molto, ognuno può dire. In ogni caso, affronteremo il tema presto.

Tornando a noi, moltissimi tra i lavoratori attuali vivono proprio una situazione al limite, e molti sono direttamente al di sotto di tale limite: lavorano anche moltissimo senza riuscire a percepire uno stipendio in grado di garantirgli anche il minimo che un lavoro dovrebbe garantire.

Semplice deduzione impone dunque una seconda domanda: perché si continua a perpetrare una situazione che, in modo evidente, non è in grado di risolvere la propria esistenza?

La risposta è purtroppo brutalmente frustrante: la maggior parte di chi vive una storia del genere, pur rendendosi evidentemente conto della situazione nella quale versa, preferisce continuare a viverla piuttosto che anche solo ipotizzare la possibilità di imprimere un cambiamento radicale.

Di più: molti vivono costantemente nella speranza illusoria che qualche cosa possa cambiare. Per quale motivo, vista la situazione, non è dato sapere.

È come essere una squadra di calcio che gioca una partita evidentemente truccata, in cui ogni minuto l'altra squadra segna dieci reti, e al momento il risultato è di 70 a 1, e però pensa ancora che siccome la palla è rotonda possa accadere qualcosa di non meglio precisato in grado di far invertire la tendenza e sperare almeno in un pareggio quando invece, chiaramente, l'unica cosa da fare sarebbe lasciare il campo in segno di protesta e andarsi a trovare una nuova partita, un nuovo campionato non truccato.

E invece no, malgrado tutto, si continua a stare alla macina. Malgrado l'evidenza si continua a disperdere tutti i giorni della propria vita per stare al gioco di chi non ha altro obiettivo di continuare a farci stare al (loro) tavolo da gioco.

Capire la situazione, rinunciare a credere all'impossibile, e decidere di imprimere un cambiamento alla sfera della propria vita, con tutto quello che questo comporta, naturalmente, è dunque un atto di ribellione.

Che ovviamente non è per tutti, anche se, se fosse applicato da un numero elevato di persone e di popoli, sarebbe in grado di innescare ciò di cui ci sarebbe reale bisogno, ovvero una rivoluzione.

In ogni caso, posto che i dati sono questi, e la dimostrazione non è negoziabile, non è che si hanno poi molte altre scelte: o si continua a ignorare la realtà, oppure la si affronta, e se si ha coraggio, si scelgono altre strade. Per quanto inesplorate possano essere.

Da una parte c'è una strada certa, e sappiamo senza possibilità di essere smentiti di che tipo è, cosa comporta, e molto probabilmente che non si modificherà, almeno nel corso della nostra vita.

Dall'altro lato la possibilità, almeno la possibilità, di trovare altro. A ognuno la scelta, e ora. Non quando la vita sarà passata.