mercoledì 2 novembre 2011

La sfida del secolo: Democrazia vs. Mercati

Il governo greco è intenzionato unanimemente a tirare dritto nella convocazione del referendum annunciato due giorni fa dal premier Papandreou.

Anzi, verrà forse anticipato a dicembre e riguarderà solo il piano di "aiuti" dell'UE e non la partecipazione della Grecia all'euro.

Ma se vinceranno i NO (eventualità molto probabile) ciò comporterà automaticamente l'uscita del Paese dall'area euro e l'ufficializzazione del default, anche se c'è già nei fatti da almeno un anno e mezzo.

Intanto il ministro della Difesa greco ha comunicato ieri che i vertici della Marina, dell'Esercito e dell'Areonautica militare sono stati completamente cambiati.

Secondo un rapporto della Cia riportato dal quotidiano tedesco Bild, le voci su un "possibile colpo di stato militare in Grecia sono sempre più diffuse e sempre più autorevoli". Che sia anche ciò il motivo dell'inattesa decisione di indire il referendum??...

E infine tra due giorni ci sarà pure il voto di fiducia, ma Papandreou può oggi contare solo su 152 seggi su 300, dopo l'uscita dal suo partito di alcuni deputati contrari al referendum.

Comunque andrà a finire, la decisione di Papandreou di interpellare il popolo greco è senz'altro giusta e andrebbe presa anche in Italia perchè, come ha detto lo stesso Papandreou, "La Democrazia è al di sopra della volontà dei mercati".



Grecia, crisi di governo sfiorata e ricambio ai vertici militari
di Margherita Dean - Peacereporter - 1 Novembre 2011

Papandreu riconferma il referenudum. Destituito tuttolo stato maggiore militare, con una mossa inquietante. Cronaca degli ultimi giorni ateniesi

Il 27 ottobre, ad accordo raggiunto a Bruxelles circa la riduzione del 50 per cento del debito greco, il Primo Ministro, Ghiorgos Papandreou, ha cercato di presentare il patto fra Ue e investitori privati come un'ennesima vittoria della Grecia ''che riesce a convincere circa la serietà degli intenti''.

Eppure, dopo poche ore, alcuni dubbi erano ben presenti a tutti: l'accordo significa, per la Grecia, essere commissariata per i prossimi dieci anni, durante i quali, peraltro, le politiche di austerità non faranno che protrarsi.

Ulteriore problema, ancora non chiarito, sono le modalità attraverso le quali la casse di previdenza e pensione parteciperanno allo ''haircut'' volontario, dal momento che molte di esse sono massicciamente esposte ai titoli di stato greci.

Papandreou ha subito cercato di rispondere ai dubbi: il commissariamento e la limitazione della sovranità nazionale sarà cosa buona, ha dichiarato il Primo Ministro, visto che ''abbiamo tanto da imparare dagli europei''. Quanto alle pensioni: nessun problema, era il motto, i fondi dispongono di liquidità sufficiente e, ci fosse mai bisogno, lo Stato saprà fare la sua parte.

Più o meno così è passato il 27 ottobre. Il giorno dopo, festa nazionale, i greci hanno fatto il possibile per far capire al loro governo di non credere a tutto il buono e bello che questi prometteva in virtù dell'accordo del giorno prima.

Durante i festeggiamenti ufficiali, in molte città della Grecia hanno avuto luogo proteste che hanno fatto sì che si interrompessero le parate militari e si allontanassero, insultati e offesi, gli esponenti politici del Paese, sorte condivisa, peraltro, dallo stesso Presidente della Democrazia, Karolos Papoulias.

Dopo un fine settimana di quiete apparente, disturbato solo da un sondaggio per il quale il 58,9 per cento ha dichiarato di giudicare negativamente il patto di Bruxelles, ieri sera Papandreou ha pronunciato una parola, referendum, che dalla mattina non ha dato tregua alle borse di mezzo mondo (Atene ha chiuso con un ribasso del 7 per cento) e ha causato l'ira dell'Ue, della Cancelleria tedesca e della Presidenza francese. Merkel e Sarkozy hanno prontamente ''invitato'' a Cannes, ai margini del G20, il Primo Ministro greco ''reo'' di aver l'intenzione di chiedere ai cittadini greci il loro consenso ad attuare le previsioni dell'accordo del 27 ottobre. Contestualmente, Papandreou ha chiesto il voto di fiducia (per venerdì) al Parlamento.

I riflessi referendari del Primo Ministro, in realtà, non sono un fatto nuovo: era tarda primavera quando si sono esplicitati per la prima volta a fronte della crescente insofferenza per la politica economica ma anche per gli errori e ritardi dell'esecutivo, in seno al partito di governo Pasok e all'elettorato.

Intestardito nel non voler indire elezioni anticipate, il Primo Ministro usa lo strumento referendario come arma di ricatto e le dichiarazioni di questa sera di J.C. Junker, esplicitano la posta in gioco: o con noi o senza di noi, dice, in sostanza, Junker e Papandreou pone lo stesso dilemma all'elettorato: o accettiamo quello che ci danno, rispettando tutti i termini dell'accordo o la Grecia dichiara fallimento, rischiando anche di uscire dall'Euro.

Il referendum, però, non ha scatenato solo la paura dei mercati e l'ira delle istituzioni internazionali ed europee; ha provocato una crisi di governo. La deputato Milena Apostolaki si è dimessa dal partito, mentre sei parlamentari di Atene, membri del Consiglio nazionale del Pasok, hanno inviato una lettera a Papandreou, chiedendone le dimissioni.

Vaso Papandreou, membro storico del partito, ha dichiarato che il Paese sta rischiando molto, invitando Ghiorgos Papandreou a farsi da parte, al fine di formare un governo di ''salvezza nazionale'', come viene chiamato in Grecia, che porti a compimento il necessario per l'attuazione dell'accordo del 27 ottobre e, poi, indica elezioni.

È proprio sulle elezioni anticipate, del resto, che si trovano in accordo tutte le opposizioni che, da molti mesi, ormai, non perdono occasione per sottolinearne la necessità. Un refendum-ricatto, un quesito che pone la scelta tra la vita e la morte, non è il miglior esercizio di democrazia, sostengono le opposizioni di sinistra.

In serata sera riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri. Papandreou ha confermato la volontà di ricorrere al referendum.

Ad Atene l'aria, però, si è ulteriormente appesantita da una notizia inquietante: nel corso del pomeriggio i vertici dell'esercito sono stati tutti sostituiti per ordine del ministro competente.


Grecia, la democrazia mette paura
di Emanuela Pessina - Altrenotizie - 2 Novembre 2011

BERLINO. Solo pochi giorni dopo l’approvazione definitiva del nuovo piano europeo contro la crisi, che sembrava aver finalmente rassicurato i mercati, il primo ministro greco George Papandreou ha annunciato di voler sottoporre a referendum l’intero piano di aiuti alla Grecia, rimettendo in discussione tutte le ultime decisioni dei leader dell’Eurozona e facendo così tremare le Borse.

La posta in gioco è alta e in Europa si è già scatenato il panico: un “Sì” al referendum andrebbe certo a indebolire la crescente opposizione interna al programma di austerità del Governo greco, alleggerendo la difficile posizione di Papandreou, ma un “No” potrebbe spingere Atene fuori dall'Eurozona, con conseguenze drastiche a livello continentale.

Incomprensibile e inaspettato, l’annuncio di Papandreou ha spiazzato mercati, economisti e leader politici di tutta Europa. Il referendum mette a rischio l’intero piano di aiuti della Troika (formata dai funzionari di Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), che aveva di recente stanziato per la Grecia la seconda tranche di aiuti per 130 miliardi di euro, ma non solo. A essere messa in discussione è l’intera risoluzione anti-crisi dell’Eurozona, elaborata in mesi di vertici e svariate situazioni di emergenza.

L'eventuale bocciatura “aumenterebbe il rischio di un default disordinato e forzato" e di "una potenziale uscita della Grecia dall'euro", hanno commentato dall’agenzia di rating Fitch. Per alcuni analisti, quello della Grecia è un suicidio vero e proprio; qualcuno teme la bancarotta del Paese. Tutte possibilità che non passerebbero inosservate nel Vecchio continente.

Unica cosa sicura, l’esito negativo del referendum chiuderebbe alla Grecia qualsiasi altro tipo di aiuto da parte dell’Europa. Il presidente della Commissione Europea, Jose Manuel Barroso, e il presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, da parte loro, hanno già fatto sapere che terranno conto dell'intenzione del primo Ministro greco durante l'ultimo vertice dei leader europei. Comunque vada, l’intenzione di Papandreou rischia di avere severe implicazioni per la stabilità finanziaria dell'Eurozona.

Papandreou, da parte sua, ha presentato il referendum come “un passo democratico e patriottico“, una sorta di dovere nei confronti del proprio popolo, e certo gli si può dare torto solo con estrema difficoltà.

Il piano di austerity approvato da Atene negli ultimi mesi, condizione necessaria per ottenere gli aiuti dall’Europa, chiede ai propri cittadini sacrifici pressoché insostenibili. Oltre al licenziamento del 20% dei dipendenti pubblici, la manovra da 78 miliardi di euro prevede l’introduzione di nuove tasse, così come la vendita della maggior parte dei beni statali e la chiusura di numerose agenzie governative. Misure che rischiano di mettere in ginocchio lo Stato e la dignità del suo popolo.

Senza dimenticare i dubbi che accompagnano fin dall’inizio il piano richiesto dall’Eurozona e accordato dal Parlamento greco: per molti economisti i tagli andrebbero a frenare ulteriormente la crescita dell’economia greca - per la quale nel 2011 è previsto un calo del 4% - e la loro utilità finale è assolutamente discutibile.

Come in una spirale diabolica: risparmio significa meno investimenti e l’economia affonda. Nel frattempo la disoccupazione e le spese sociali continuano a crescere, ma di miglioramenti concreti non se ne vedono: per Papandreou diventa sempre più difficile giustificare la propria scelta pro- Europa.

E i cittadini greci, da parte loro, hanno già espresso chiaramente un’opinione a proposito, in svariate occasioni: da mesi ormai sono in centinaia di migliaia a scendere in piazza regolarmente per esprimere il loro esplicito “No”, anche in maniera violenta. C’è poco da fraintendere.

Forse è proprio questo il significato del referendum voluto da Papandreou a due giorni dal G20 di Cannes: la Grecia è arrivata al limite della sopportazione e il primo ministro non può far altro che prenderne atto, chiedendo al proprio popolo una legittimazione. In barba all’Europa e a tutti i suoi vertici.



La Grecia mette di nuovo in crisi il bailout dell'euro
di Philip Inman e Helena Smith - The Guardian - 31 Ottobre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Il Primo Ministro ha scioccato i colleghi con la proposta che il proprio paese tenga un referendum sul caposaldo del salvataggio del debito

Lunedì il Primo Ministro greco, George Papandreou, ha scioccato i dirigenti europei dopo aver proposto che il proprio paese tenga un referendum sull’accordo per il debito della scorsa settimana.

Un voto della Grecia contro l’accordo potrebbe mandare all’aria settimane di negoziazioni su come salvare l’economia del paese e per prevenire una crisi del debito pari al crollo di Lehman Brothers di tre anni fa.

I mercati azionari, che erano risaliti nelle scorse settimane data la maggiore probabilità di un accordo sostenibile, hanno reagito immediatamente alle notizia con una svendita di azioni.

A New York, l’indice Dow Jones delle maggiori compagnie è caduto decisamente mentre veniva rivelato il piano di Papandreou. L’euro è calato del 2% contro il dollaro e l’US Volatility index – detto anche l’"indice della paura" – è salito del 22%, l’aumento maggiore giornaliero dalla metà di agosto.

Papandreou non ha fornito date o altri dettagli del referendum proposto, anche se il ministro degli Interni, Haris Kastinidis, ha detto che potrebbe essere probabile in gennaio.

La scorsa settimana, dopo una forte pressione dei dirigenti globali timorosi delle ripercussioni della crisi del debito europeo, i membri dell’eurozona hanno acconsentito a tagliare il debito di Atene del 50% e di fornire altri 130 miliardi di euro per prestiti di salvataggio che costituiscono un fondo di salvataggio realizzato con il Fondo Monetario Internazionale lo scorso anno.

I greci hanno già manifestato il proprio disappunto per il pacchetto. I sondaggi hanno mostrato che il 60% degli intervistati ritengono sia una cosa pessima per il paese, rendendo così il referendum una grossa scommessa per il governo socialista.

Nella gran parte dei sondaggi i votanti hanno manifestato il loro supporto a rimanere all’interno dell’euro, ma hanno sempre più evidenziato la propria frustrazione per le misure di austerità.

I tagli del saturo settore pubblico, le riduzione degli stipendi e delle pensioni, le nuove tasse e la privatizzazione degli aeroporti, delle lotterie di stato, degli impianti per la distruzione dell’acqua e del servizio postale fanno parte del piano firmato dal governo Papandreou.

Svelando il suo progetto per il referendum, Papandreou ha detto: "I cittadini sono la fonte della nostra forza e i cittadini verranno sentiti per dire “sì” o “no” all’accordo. Non spetta ad altri decidere ma solo al popolo greco […] abbiamo fiducia nella gente. Crediamo nella partecipazione democratica. Non abbiamo paura.

"Al popolo verrà chiesto se vogliono accettare [l’accordo] o rifiutare [l’accordo]. Questo voto di fiducia sarà una pietra di fondazione su cui verrà costruita una nuova struttura, una nuova Grecia."

Il ministro greco delle Finanze, Evangelos Venizelos, ha detto che il voto popolare – il secondo dal 974, quando la democrazia è stata ripristinata dopo il collasso del governo militare – sarà ristretto a due domande: "I greci vogliono rimanere in Europa, con l’euro, in un paese che appartiene al mondo sviluppato, o vogliono tornare indietro agli anni ‘60? Credono che sia una cosa buona dovere 100 miliardi di euro alle banche o non pensano che sia una cosa positiva vivere con un debito del genere?"

Papandreou, parlando ai membri socialisti del parlamento, ha anche detto che cercherà un voto di fiducia. Il suo governo ha visto la maggioranza ridotta di tre seggi e il suo indice di gradimento è sprofondato nel pesante clima delle misure di austerità che potrebbero far rimanere il paese in recessione anche nel 2012, per il quarto anno consecutivo.

I partiti di opposizione in Grecia hanno protestato il fatto che il referendum pone forti rischi; "Il signor Papandreou è pericoloso, si gioca l’adesione della Grecia all’UE come se dovesse lanciare una moneta in aria", ha detto un portavoce del principale partito conservatore di opposizione, la Nuova Democrazia: "Non può governare e, invece di ritirarsi con onore, sta mettendo la dinamite dappertutto."

Chris Williamson, degli analisti Markit, ha detto: "Un ‘no sarebbe un incubo per l’eurozona e nel frattempo tutti diventerebbero più nervosi."

Raoul Ruparel, capo della ricerca economica al think-tank anti-federalista Open Europe, ha detto: "Se i greci voteranno ‘no’ nel referendum, la Grecia rimarrebbe senza fondi e senza governo, affacciandosi sul margine di un default disordinato e di un’uscita disordinata dall’eurozona. È giusto che il popolo greco dica la sua, ma l’eurozona deve iniziare a prepararsi per un ‘no’ e a come gestire una Grecia fallita e senza nessuno al timone, che probabilmente includerà un piano per consentirle di uscire dall’euro."

Sony Kapoor, direttore esecutivo di Re-Define, un think-tank economico, ha riferito: "Viste le dimensioni degli aggiustamenti che sono stati richiesti ai cittadini greci, un referendum sarà positivo per la democrazia e per la legittimazione, ma è dura capire come possano vincerlo."

Nel corso delle negoziazioni della scorsa settimana tra Germania, Francia e altri quindi membri dell’eurozona, i lavoratori di tutta la Grecia hanno tenuto uno sciopero generale e hanno scagliato razzi contro la polizia.

I dirigenti europei hanno sperato di sancire l’accordo nel corso della riunione del G20 che si terrà giovedì a Cannes. I leader mondiali si riuniranno per discutere come poter incrementare un fondo di arresto globale per fare da supplemento al pacchetto da un trilione di euro per sostenere Grecia, Portogallo e Irlanda e per assicurarsi contro il default degli altri due paesi vulnerabili dell’eurozona, Italia e Spagna.

Barack Obama ha definito la formazione dell’European Financial Stability Facility da un trilione di euro come un buon inizio per risolvere i problemi del debito che pesa sulla gran parte dei membri dell’eurozona.

Il presidente cinese, Hu Jintao, ha espresso la propria preoccupazione che l’accordo europeo sia fragile, anche se sta prendendo in considerazione la richiesta di Bruxelles di rifornire l’EFSF con fondi extra da Pechino.

Come il Regno Unito, il Canada e gran parte dei paesi sviluppati, Stati Uniti e Cina hanno segnalato la propria volontà di potenziare le risorse del Fondo Monetario Internazionale, ma solo nel caso di un accordo certo che coinvolga tutti i 17 membri dell’euro. La prospettiva di un referendum greco potrebbe indebolire le iniziative per forgiare una piattaforma di questo tipo.

I creditori dell’Europa si erano già agitati esprimendo preoccupazione per il fatto che il governo di Silvio Berlusconi non è stato in grado di realizzare le misure di austerità promosse da Bruxelles.

Il premier italiano è stato sottoposto a ulteriori pressioni per dimettersi dopo che il boss della Ferrari ha detto che ha oramai perso la capacità di spingere in direzione delle misure necessarie per ridurre la spesa pubblica.

Il costo del prestito per Roma è salito oltre il 6%, che gli analisti considerano inavvicinabile per una nazione che sta crescendo dell’1% da un decennio e che mostra pochi segni di ripresa per il 2012.

L’Italia ha già preso pesantemente a prestito dalla Banca Centrale Europea, dopo che era diventato troppo caro farlo dagli investitori stranieri.



Il referendum che fa paura
di Salvatore Cannavò - www.ilmegafonoquotidiano.it - 2 Novembre 2011

La decisione greca di consultare i cittadini getta nel panico mezza Europa segno dello scarto tra tecnocrazie e democrazia. Eppure, il referendum e la possibilità di decidere è l'unica strada contro gli apprendisti stregoni

Cosa c’è di meglio delle parole dell’agenzia di rating Fitch a proposito dell’eventualità di un referendum in Grecia sulle misure anticrisi, per capire cosa ci sta riservando l’Unione europea e quali fulmini si abbatteranno sui cittadini europei?

"Il referendum greco – dice Fitch - mette a repentaglio la stabilità e la vitalità stessa dell'euro".
Terrore e panico sui mercati, le borse sprofondano, la politica europea va in subbuglio. La borsa italiana, ovviamente, scende più delle altre perché chi può pensare che un governo guidato da Silvio Berlusconi e dalla sua corte possa solo pensare di risolvere una crisi di questa portata?

Il punto, però, in questo caso non è tanto Berlusconi quanto l’opposizione feroce che viene fissata tra le esigenze del risanamento e la democrazia. E così scopriamo che Sarkozy si dice "costernato" per la decisione annunciata dal premier greco Papandreou, la Germania è terrorizzata e Francoforte perde il 3,8 per cento in una sola giornata.

Secondo il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick il referendum greco è una "roulette russa" mentre il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Junker ipotizza il fallimento per Atene se si ricorrerà al voto dei cittadini. Sembra di risentire Sergio Marchionne quando avvertiva gli operai di Pomigliano sui rischi del referendum in fabbrica.

A questo punto non è più nemmeno tanto sicuro che il referendum si farà. Papandreou sta facendo dichiarazioni su dichiarazioni per assicurare che non succederà nulla mentre su diversi giornali internazionali si sottolinea il fatto che la Costituzione greca non consente referendum su materie fiscali. Insomma, non si deve votare né partecipare alle decisioni.

Sembra che l’unica forma di consultazione dei cittadini sia quella del tacito consenso. In caso contrario si può sempre spaccare qualche vetrina, così si sfoga un po’ la rabbia ma nessuna borsa viene infranta.

Il punto, invece, è che bisognerebbe proprio poter decidere. Poter essere consultati proprio quando tutti gli schemi stanno saltando e con essi tutte le regole e anche le stesse leggi, immutabili, dell’economia liberista.

Del resto, la Grecia dimostra che ci si muove su coordinate inedite. Si pensi alla decisione di svalutare i titoli del debito del 50 per cento in possesso delle banche, con il loro consenso.

Come sempre avviene di fronte a ipotesi di fallimento, i creditori sono i primi a favorire la capacità di rimborso dei debitori anche se costretti a pagare qualche prezzo. Ma è sempre meglio incassare il 50 per cento che nulla anche perché i mercati hanno già scontato quella svalutazione.

Però, se sono "gli indignati" a proporre una moratoria sul debito e una sua ricontrattazione, giudicando quale sia quello legittimo e quale, invece, quello da non rimborsare, scatta subito l’accusa di utopismo o di scarso senso della realtà.

Il problema è che se davvero si dovrà agire sul piano della riduzione consistente e visibile dei debiti pubblici le stangate saranno di una durezza impensabile. Se solo si pensa che il debito pubblico italiano è di circa 1900 miliardi di euro mentre il Pil non arriva a 1600 miliardi, si capisce che per arrivare a una percentuale del debito sul Pil, poniamo del 100 per cento, servirà, in assenza di crescita economica, una manovra da 300 miliardi. E non è un caso che circoli la cifra di 400 miliardi. Un governo di unità nazionale dovrà servire proprio a questo.

Mai come in questo momento servirebbe la presenza sulla scena politica di movimenti e cittadinanza in grado di dire la propria, di decidere cosa è possibile sacrificare e chi dovrebbe fare questi sacrifici.

In un paese che, secondo i dati di Bankitalia, ha una ricchezza netta di circa 8600 miliardi di cui il 44 per cento è concentrato nelle mani del 10 per cento delle famiglie, noi non abbiamo dubbi su chi debba pagare il risanamento.

Ma proprio per questo la più ampia discussione e, quindi, anche lo strumento del referendum, costituirebbe l’unica garanzia di procedere sulla giusta strada. Anche perché i vari capi di governo si sono rivelati finora dei perfetti apprendisti stregoni (e quello italiano, nemmeno apprendista).



La finanza è incompatibile con la democrazia?
di Gad Lerner - www.gadlerner.it - 1 Novembre 2011

Se fosse vero (ma non lo credo) che il crollo delle Borse odierno è dovuto alla decisione del primo ministro greco Papandreu di convocare un referendum popolare sugli accordi raggiunti con l’Ue, beh, allora si porrebbe un dilemma grave.

Possibile che le regole della finanza non possano sopportare il vincolo della sovranità popolare?

Capisco che la scelta è drammatica: il governo greco sottopone a referendum provvedimenti che sa essere molto impopolari, perchè non gode di forza e autorevolezza sufficienti a imporli con le sole prerogative istituzionali di cui gode.

E’ dunque molto probabile che, come già in Islanda, pure in Grecia gli accordi internazionali verrebbero bocciati nel referendum dalla maggioranza dei cittadini.

Con la conseguenza di ratificare un default -la bancarotta- di cui altrimenti nessuno osa assumersi la responsabilità. Sono scelte che nessuno può valutare con leggerezza.

Ma è impressionante constatare il timore che rasenta il panico con cui i mercati finanziari accolgono il ricorso alla democrazia diretta. Quasi che per funzionare il sistema finanziario dovesse per sua natura contrapporsi al principio della sovranità popolare.



La rivincita della Nazione Sovrana
di Ambrose Evans-Pritchard - http://blogs.telegraph.co.uk - 1 Novembre 2011
Traduzione per
www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

La sorprendente decisione della Grecia di indire un referendum – "un atto supremo di democrazia e di patriottismo" con le parole del premier George Papandreou – ha più o meno ucciso l’accordo dell’UE della scorsa settimana.

I mercati non possono attendere tre mesi per scoprire il risultato, e né la Cina presterà altro denaro al fondo di salvataggio EFSF fino a che non verrà esaurito.

L’intera struttura è ora a rischio di crollo. Société Générale questa mattina è calata del 15 per cento. L’indice FTSE MIB a Milano ha perso il 7 per cento. Lo spread delle obbligazioni italiane è salito a 450 punti base.

A meno che la Banca Centrale Europea non intervenga molto presto e in scala massiccia per tirare in salvo l’Italia, il gioco è finito. Avremo una catastrofe spettacolare.

Se gestita male, l’insolvenza disordinata del terzo più grande debitore al mondo con 1,9 trilioni di debito pubblico e circa 3,5 trilioni di debito totale sarebbe un evento molto più grande della caduta di Credit Anstalt nel 1931. (Lasciatemi aggiungere che l’Italia non è fondamentalmente insolvente.

È in questi pasticci perché non ha un prestatore di ultima istanza, una banca centrale sovrana o una moneta sovrana. La struttura dell’euro ha trasformato uno stato solvente in uno insolvente. Ha invertito l’alchimia.)

La debacle di Anstalt portò al collasso bancario europeo, provocando scossoni a Londra e New York, e mutò la recessione in depressione. In quattro mesi l’ordine finanziario globale era essenzialmente disintegrato.

Questo è il rischio attuale quanto la realtà della situazione europea si fa più chiara.

Il referendum greco, se non verrà sopraffatto da un collasso precedente del governo, ha lasciato i funzionari a Parigi, Berlino e Bruxelles furiosi e senza parole. Che ingratitudine.

Il portavoce del presidente francese Nicolas Sarkozy (lui stesso per metà greco, di Salonicco) ha detto che l’iniziativa è “irrazionale e pericolosa”. Rainer Brüderle, il leader dei Liberi Democratici al Bundestag, ha affermato che i greci sembrano voler “sgusciar via” da un impegno solenne. Andranno incontro a una solenne bancarotta, ha detto infuriato.

Ebbene sì, ma almeno i greci hanno fatto a pezzi le affermazioni egocentriche degli stati creditori, secondo cui il loro pacchetto di “salvataggio” era per “salvare la Grecia”.

Non sono niente del genere. La Grecia è stata soggetta alla più grande stretta fiscale mai tentata in uno stato industriale moderno, senza uno stimolo monetario o una svalutazione a compensazione.

L’economia è quindi collassata dal 14 al 16 per cento dal picco – dipende a chi si chiede – e si sta incartando a un ritmo vertiginoso.

Il debito è esploso sotto il programma della Troika UE-FMI. Si sta incamminando verso il 180 del PIL per il prossimo anno. Anche con l’accordo per gli haircut, il debito greco sarà del 120 per cento del PIL nel 2020 dopo nove anni di depressione. Non si tratta di una cura, ma di una sentenza punitiva.

È stato verificato che tutti i pronunciamenti degli ispettori all’uscita del Memorandum non corrispondevano al vero. I fatti sono così distanti dalla verità che è difficile credere che qualcun abbia mai pensato che potessero funzionare.

Ai greci è stato fissato un destino di sofferenza del FMI senza la solita cura del FMI. Ciò è stato fatto per un solo proposito, guadagnare tempo per le banche e altri stati del Club Med per innalzare le proprie difese.

Non era una strategia irragionevole (anche se una GROSSA BUGIA) e poteva non aver fallito integralmente se l’economia globale avesse recuperato rapidamente quest’anno e se la BCE si fosse comportata con un barlume di buon senso. Invece la BCE ha scelto di stringere.

Quando verranno scritti i libri di storia, credo che gli studiosi saranno davvero duri con la manciata di uomini che hanno gestito le politiche monetarie dell’UEM negli ultimi tre o quattro anni. Non sono così cattive come quelle della Chicago Fed dal 1930 al 1932, ma non sono molto meglio.

Quindi, come gli spartani, i tebani e i tespiesi al passo delle Termopili, i greci sono stati sacrificati per guadagnare tempo per l’alleanza.

Il referendum è un promemoria salutare del fatto che l’Europa è una collezione di democrazie sovrane, legate da un trattato per certe disposizioni. È un’unione solo di nome.

Alcuni architetti dell’UEM hanno calcolato che la moneta unica sarebbe diventata un catalizzatore per far compiere un passo in avanti all’integrazione che non si poteva ottenere altrimenti.

Furono avvisati dai propri economisti della Commissione Europea e della Bundesbank che il processo non avrebbe funzionato senza un’unione fiscale e che sarebbe stato probabilmente catastrofico se esteso all’Europa meridionale.

E la visione ideologica fa corrispondere ancora ogni trauma a una “crisi benefica”, che deve essere sfruttata per far avanzare il Progetto.

Questo è stato il Metodo Monnet del fatto compiuto e della realtà delle cose. Questi grandi manipolatori del destino dell’Europa possono aver avuto successo, ma fino ad ora la crisi non ha avuto il minimo beneficio.

La nazione sovrana tedesca ha bloccato ogni mossa per un’unione fiscale, che fosse Eurobond, condivisione del debito, trasferimenti fiscali e bilanci condivisi. Ha bloccato l’utilizzo della BCE come una vera banca centrale.

La grande Verfassungsgericht ha più o meno dichiarato che gli esiti desiderati da questi cospiratori dell’UEM sono illegali e vietati.

E come ha scritto il mio vecchio amico Gideon Rachman questa mattina sul Financial Times: il voto greco è “un colpo di mazza diretto al punto più sensibile dell’intera costruzione europea: la sua mancanza di sostegno popolare e di legittimazione.”

In effetti, quante volte ne abbiamo discusso nei ristoranti di Bruxelles, Stoccolma, Copenhagen, Dublino o l’Aja anni fa, ogni volta che un NO faceva immancabilmente la sua comparsa nel caso in cui un membro dell’UE avesse osato indire un referendum.

Credo che sia corretto dire che gli eventi si stanno dipanando più o meno come avevamo previsto.



Uscire dalla follia, uscire dall'euro
di Marino Badiale e Fabrizio Tringali - Megachip - 2 Novembre 2011

Pochi giorni fa le borse festeggiavano, euforiche, la notizia che il governo italiano assumeva ufficialmente l'impegno di realizzare le richieste della BCE e dell'Unione Europea: licenziamenti facili, tagli al bilancio statale, vendite di beni e servizi pubblici, attacco alle pensioni, sconvolgimento della Costituzione, distruzione del principio della divisione dei poteri.

Annunciare una tremenda limitazione della democrazia determina immediatamente un'impennata degli indici di borsa: ed è logico, perché meno democrazia significa meno opposizione alle barbare esigenze della finanza internazionale.

Oggi invece le borse crollano miseramente perché la Grecia ha annunciato un referendum sui piani di salvataggio (che sarebbe bene chiamare "piani di meditata distruzione") della troika costituita da FMI, BCE e UE.

L'idea che il popolo possa esprimere la propria sovranità scatena il panico nelle Borse. Basta questo per comprendere che il sistema nel quale viviamo è sprofondato nella più totale follia.

L'intero sistema economico-finanziario globale è incompatibile con la democrazia, così come è incompatibile con essa l'Euro.

Se domattina si tenesse un referendum sull'Euro in ciascuno dei Paesi che lo adottano, con molta probabilità l'unione monetaria sarebbe sconfitta sia in Grecia (il Paese più debole), che in Germania (il Paese più forte).

L'Euro infatti unisce economie troppo diverse fra loro, i cui differenziali di competitività impongono misure drastiche per i più deboli, a partire dalla compressioni dei diritti e dei salari (e quindi della democrazia, perché queste scelte vanno imposte), e costi sempre crescenti per i più forti, che devono contribuire a ripianare i debiti dei deboli.

Si tratta di una situazione che era prevedibile, e di fatto è stata prevista, fin dall'inizio dell'avventura dell'Euro. Dal mondo degli studiosi di economia si erano levate voci che avvertivano come l'unificazione monetaria di economie molto diverse fra loro fosse foriera di gravi problemi, che non avrebbero tardato a manifestarsi.

Ora che i nodi stanno venendo al pettine ci si rende conto di come l'Euro sia stato vantaggioso solo per la grande finanza, per le multinazionali, e per le élite dei paesi forti come la Germania, che hanno potuto crescere grazie alle esportazioni nei paesi deboli, ma che adesso non vogliono pagare il prezzo degli squilibri così generati.

Lo spiegava già diversi anni fa Massimo Bontempelli, il quale notava quanto non sia difficile orientarsi rispetto alla realtà dell'UE e dell'euro, una volta abbandonati i luoghi comuni:

“Basta osservare realisticamente di cosa consiste la nuova Europa: una moneta comune, una banca che la regola, un complesso di norme sovranazionali volte essenzialmente ad eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali e le specificità produttive di intralcio alla produzione standardizzata su larghissima scala, commissari incaricati soprattutto di regolare interessi economici d'area, e un parlamento elettivo dotato di scarsi poteri. Tutto questo mostra chiaramente che l'Europa di cui oggi si parla non è altro che un sistema normativo e un apparato tecnocratico finalizzati a promuovere il completo dominio sulla società dell'economia dei mercati finanziari globalizzati: il loro carattere sovranazionale serve appunto ad aggirare gli ostacoli nazionali alla circuitazione senza limiti, ed esclusivamente secondo i determinismi di un'economia completamente autoreferenziale, di capitali e merci”[1].

Non resta che prendere atto di queste ovvietà e fuggire da questa follia.

I costi dell'abbandono della moneta unica europea non sono affatto banali, anzi sono molto seri. Tuttavia essi sono sopportabili, soprattutto se consideriamo i vantaggi: il nostro enorme debito pubblico sarebbe svalutato e quindi molto più sostenibile.

E soprattutto riconquisteremo la sovranità nazionale e monetaria perduta a vantaggio della tecnocrazia europea.

Un passo avanti necessario, fuori dalla follia.

[1] http://www.megachip.info/tematiche/beni-comuni/6751-2001-parole-profetiche-sulleuropa.html



Il mito della dissolutezza dei greci. La distruzione del sostentamento di 13 milioni di persone
di Marshall Auerback - www.counterpunch.org - 24 Ottobre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Reio

Nel corso della storia i greci sono stati grandi creatori di miti. E il resto del mondo? Non tanto, visto che la messe di commenti espressi su questa nazione non ha valore. Leggendo la stampa ci si fa l'idea di una manica di mediterranei scrocconi e svogliati che godono uno dei più alti standard di vita in Europa, mentre i parsimoniosi tedeschi pagano il conto.

Questa è propaganda senza senso, progettata per giustificare l’adempimento continuo e collettivo di manovre per rimediare alle colpe dei padri e dei nonni. Come se la Grecia fosse l'unica ad aver falsificato i bilanci nell'Unione Europea!

Il cuore del problema sta nell'antiquato sistema fiscale che finanzia lo stato, che si traduce in un costante passivo di bilancio pari al 10% del PIL. Il 20% della popolazione che i redditi più alti in pratica non paga le tasse, perché è il prodotto di un accordo corrotto realizzato durante i giorni della Giunta fra i militari e i maggiori plutocrati greci. Non c'è da stupirsi che ci sia una crisi fiscale.

Quindi non è un problema di sprechi da parte dei greci o di uno stato sociale troppo generoso, e per questo i tipici rimedi sullo stile FMI sono destinati a fallire, come fanno tuttora.

Infatti, data l'austerity senza tregua imposta ad Atene (che ha avuto solo l'effetto di affossare ulteriormente l'economia e quindi di esacerbare il vero problema che gli ellenici stanno provando a eliminare), i greci si stanno davvero avvicinando al punto in cui dovranno solo dichiarare il default e rimandare il problema a quelli che hanno imposto l'austerity. Non potrà certo essere peggio dei supplizi che stanno affrontando oggi.

In realtà i greci hanno uno dei redditi pro capite più bassi d'Europa (21.000 euro), molto inferiore alla media dell'Eurozona a 12 (27.600) o della Germania (29.400).

Inoltre gli ammortizzatori sociali in Grecia sembrano essere molto generosi rispetto agli standard statunitensi, ma sono davvero modesti rapportati al resto d'Europa.

In media, tra il 1998 e il 2007 la Grecia ha speso solo 3530,47 euro pro capite per i sussidi di protezione sociale, poco meno della Spagna e circa 700 euro in più del Portogallo, che ha i livelli più bassi dell'Eurozona.

Al contrario, Germania e Francia hanno speso più del doppio rispetto ai greci, mentre i dodici stati originari dell'Eurozona hanno una media di 6251,78 euro.

Addirittura l’Irlanda, che è una delle economie di stampo più neoliberista della zona Euro, ha speso di più per la protezione sociale rispetto ai presunti spreconi della Grecia.

Si potrebbe pensare che, se lo stato sociale greco è stato così generoso e inefficiente come descritto di solito, allora i costi amministrativi dovrebbero essere maggiori rispetto a quelli di governi morigerati come Germania e Francia.

Ma ovviamente non è stato così, in basi ai dati di Eurostat. Anche la spesa per le pensioni, che è il principale obiettivo dei neoliberisti, è minore degli altri paesi europei.

Inoltre, se si guarda il totale della spesa sociale di alcuni paesi dell'Eurozona in rapporto al PIL per il 2005 (in base alle statistiche dell'OCSE), la spesa della Grecia era inferiore a tutti i paesi dell'Euro tranne l'Irlanda, ed era più bassa della media OCSE.

Da notare che nonostante tutti i commenti sui pensionamenti anticipati in Grecia, la spesa per i programmi di anzianità era in linea con le spese di Germania e Francia.

In realtà, la Grecia ha una delle distribuzioni del reddito più inique d’Europa e un alto livello di povertà, come dimostrano i dati. Di nuovo i fatti non sono coerenti con l'immagine dipinta dai media di un welfare troppo generoso, a meno che non si faccia un raffronto con la situazione negli Stati Uniti.

Naturalmente questi fatti non contano. Il mito prevalente è quello che risulta dalla descrizione di John Authers sul Financial Times, "un paese che ha sperperato troppo", con pochi dati a supporto di questa affermazione.

Il paese, comunque, è davvero bloccato: non possono svalutare, non possono riuscire a pagare ai prezzi correnti e nessuno li vorrà finanzierà. Quindi devono uscire e svalutare oppure abbassare i prezzi interni. Un pesante default, anche se inevitabile, è solo un passaggio.

A peggiorare il problema, i guadagni delle esportazioni sembrano affrontare il loro problema strutturale - che vengono costantemente superati dalle spese per le importazioni - e ciò significa che il debito che finanza il passivo di bilancio è sempre più in mani straniere.

Il debito viene approvato dalle leggi greche, ma ora è emesso in Euro e la Grecia non può stampare la moneta. In questo senso, ironicamente, la crisi fiscale è una conseguenza del successo greco, avvenuto dopo una lunga preparazione, per l’ingresso nell’Unione Europea, dopo cui ha rinunciato alla propria moneta.

Il punto è che, se questa analisi sulla fonte del problema è corretta, allora è improbabile che la politica tipica di austerity del FMI sia di aiuto. Se il problema non è il livello dei salari o la dimensione dello stato sociale, allora spingere i salari verso il basso e ridurre la spesa pubblica non servirà a molto.

Dopo tutto la Grecia è ancora una democrazia e, osservando gli scontri sempre più frequenti che avvengono nel paese, è difficile se la Grecia (o qualsiasi altro paese dell’Eurozona in condizioni simili) taglierà davvero le spese e aumenterà abbastanza le tasse per fare la differenza.

Questo è stato sancito implicitamente dalla "Troika" - Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea - nel corso del summit dell’Unione Europea avvenuto ieri e non c’è dubbio che ciò farà parte delle delibere per la ristrutturazione del debito greco che verranno decise il 26 ottobre.

Nella prima pagina del documento non solo c’è l’ammissione piuttosto palese e sfacciata che il consolidamento fiscale espansivo ha dimostrato di essere una contraddizione in termini - almeno in Grecia -, ma c'è anche un serio problema di incompatibilità politica, almeno per il medio termine, con le iniziative per attuare una svalutazione interna, con cui si cerca di diminuire gli stipendi per migliorare le prospettive commerciali quando si è legati a un vincolo di cambio fisso.

Anche se non sono andati oltre al fatto di riconoscere che le loro richieste e le loro imposizioni stanno scatenando un’implosione dell’economia greca a causa dell’inflazione del debito (senza considerare la rottura di qualsiasi parvenza di contratto sociale, così come la frantumazione del tessuto sociale: dopo tutto, questa è l’oppressiva "riforma" neoliberista progettata nell’Eurozona per eliminare ogni traccia di democrazia sociale e del lavoro organizzato), si tratta comunque di un’enorme concessione della Troika.

Ammettere che il consolidamento fiscale espansivo non funziona e che proseguire con la svalutazione interna aggraverà la situazione – oltre al fatto che la Grecia non riuscirà a raggiungere gli obbiettivi di bilancio -, è un grosso passo in avanti per comprendere la situazione.

Non è un qualcosa che gli economisti neoliberisti e fondamentalisti delle organizzazioni della Troika sono spesso disposti a concedere. Non è quello che le strutture per gli incentivi, formali e informali, li incoraggiano a fare.

E allora perché continuare su questa strada? Diciamoci la verità: tutto ciò ha poco a che vedere con la Grecia (anche se il mito prevalente dei media continua a diffondere l’immagine di un paese pigro, improduttivo, pieno di spendaccioni e di scrocconi), quanto il punire i paesi potenzialmente recalcitranti dal punto di vista fiscale.

Alla Grecia è toccata la sorte del capro espiatorio, per far sì che alla fine imponga il discusso “haircut” e ristrutturi il suo debito, e che anche gli altri paesi periferici - soprattutto l'Italia - non abbiano altre idee e che seguano lo stesso percorso. Questa è la strategia per prevenire quello che è eufemisticamente chiamato "effetto contagio".

In realtà è anche chiamato principio di colpa collettiva, che distrugge il sostentamento di tredici milioni di persone per ragioni politiche. Data la loro storia, i tedeschi per primi dovrebbero capire questo fenomeno.

Se il pacchetto di politiche di austerità dovesse proseguire, ci saranno ricadute sulle nazioni che esportano in Grecia. Di sicuro la Grecia è un piccolo mercato in Europa, ma i suoi problemi fiscali non sono unici.

Quando anche economie più grandi come Spagna e Italia adotteranno i tagli, tutto il continente potrà subire un collasso fiscale, anche la Germania, la cui flessione economica è diventata evidente nei mesi scorsi. Per di più, le esportazioni verso i paesi limitrofi saranno colpite dalla riduzione della domanda.

Infine, se l’austerity riuscirà ad abbassare i salari e i prezzi in una nazione, porterà a un’inflazione competitiva aggravando solo il problema, mentre questo paese cercherà di trarne vantaggio per promuovere le sue esportazioni.

Da notare che il maggiore esportatore netto, la Germania, sembra non riconoscere che la propria insistenza sull’austerità fiscale da imporre ai paesi vicini gli farà perdere la gallina dalle uova d'oro.

Ad Angela Merkel piace dire che non è possibile una vera unione economica se una parte dell’unione (la Grecia) lavora meno ore e si prende più ferie di un’altra (la Germania).

Quello che avrebbe dovuto dire è che una vera unione economica non è possibile se le plutocrazie che governano di TUTTI i paesi (non solo gli armatori miliardari greci, che probabilmente hanno già spostato i loro soldi offshore, ma anche i ricchi banchieri che non hanno subito conseguenze per le loro pratiche finanziarie fraudolente) evitano sistematicamente di pagare la loro fetta dei costi della spesa pubblica, aspettando che sia l’Unione o costringendo l’altro 80% della popolazione a farlo.

La Grecia non è speciale, ma è solo un caso esemplare di ciò che accade quando viene imposto il risanamento delle finanze pubbliche nei paesi che hanno un forte debito privato in rapporto al PIL, dove si vorrebbe risparmiare molto e dove ci sono continui deficit delle partite correnti.

Sarebbe invece necessario ridistribuire la domanda verso quelle nazioni che hanno un deficit commerciale; ad esempio, facendo spendere gli Euro alle nazioni che hanno un attivo commerciale, investendo direttamente nei paesi in deficit.

La Germania lo fece con la Germania Est. Questo meccanismo potrebbe essere istituito molto velocemente sotto l’egida della Banca Europea degli Investimenti.

Si potrebbero facilmente istituire degli incentivi efficaci per "riciclare" le eccedenze delle partite correnti tramite investimenti esteri diretti, flussi di partecipazione, aiuti esteri o acquisti di importazioni.

Se venisse fatto, sarebbe un sistema per poter far diventare la Grecia e altri paesi abbastanza competitivi da garantire il proprio futuro attraverso maggiori esportazioni.

Il non abbracciare questa possibilità di crescita offrirà poche alternative ai greci se non quella di fallire, lasciando ai politici dell’eurozona un macello ancora più grande e costoso.

Bisogna ammettere che ciò non risolverà totalmente i problemi della Grecia, quando invece potrebbero lasciare l’eurozona e reintrodurre la dracma. Si avrebbero così controlli sui capitali, e ci saranno persone che cercheranno di andarsene (dopo tutto, è un paese con molte imbarcazioni).

Se andranno in default, l’intera eurozona affronterà il destino di Sansone. Come Sansone nei suoi ultimi giorni, accecato e picchiato dai filistei, la Grecia è ora indebolita, accecata e legata.

Il default rappresenterebbe un ultimo e potente atto di coraggio con cui "abbattere il tempio" (in questo caso l’Eurozona) con le insolvenze e trascinerebbe giù tutti quanti.

La creazione del mito alle spese dei Greci non è utile a nessuno, proprio perché ci sarà ovunque una situazione di default e un collasso dei redditi in stile sovietico, una prospettiva poco allettante per l’economia globale.

Non è un finale interessante, ma è lo sbocco delle politiche crudeli, immorali e di auto-sopravvivenza della Troika. I Greci e la gran parte dei cittadini europei meritano di più.



Crollo della democrazia e crollo del buon senso
di Ida Magli - www.italianiliberi.it - 1 Novembre 2011

Nel momento in cui sto scrivendo questa breve nota (1 novembre 2011 ore 11) la borsa italiana perde più del 5% Cosa c’è di diverso da ieri?

L’Italia è sicuramente la stessa, anzi. Approfittando del giorno festivo, molti sono andati tranquillamente fuori città mentre Berlusconi, Bersani, Vendola e compagni litigano come il solito (anzi, data la festività, forse un po’ meno del solito).

I commentatori affermano tutti che: “La Grecia ha terrorizzato i mercati annunciando l’intenzione di indire un referendum popolare sui nuovi prestiti concordati con l’Ue”. Che cosa significa?

Semplicemente che, nella democraticissima unione europea, chiedere un parere al popolo su ciò che decidono i governanti, dovrebbe essere proibito, come ha già rilevato Angela Merkel con il suo sdegno per l’iniziativa del Premier greco: il loro No, infatti, è sicuro.

Non c’è dubbio che le cose stiano così. Se, però, noi, semplici cittadini privi di qualsiasi potere, non troviamo il modo per far ragionare i nostri governanti, andremo tutti a fondo partendo proprio da questo presupposto.

La debolezza dell’unione europea, infatti, causa prima della mancanza di fiducia dei mercati, dipende prima di tutto da questo dato di fatto: non esiste la comunità dei popoli, non esiste nessuno Stato a nome “Ue”.

D’altra parte, però, i singoli Stati hanno rinunciato (decisione illegittima e pertanto invalida) a battere moneta, per cui a garantire la moneta europea non c’è nessuno: né gli Stati nazionali che vi hanno rinunciato né lo Stato Ue che non esiste.

Né si dica che allora bisogna rafforzare i legami politici unendosi di più perché la comunità dei popoli, ossia la forza di uno Stato, quella che lo fa nascere e vivere, non si crea a tavolino, per finzione, come è stato fatto fino adesso per l’Europa.

Si sono create le istituzioni: parlamento, commissione, consiglio, che avrebbero dovuto costituire l’ossatura dello Stato, ma talmente vuote di realtà che giunti a dar loro un’anima, neanche i politici più ostinati nel loro europeismo sono riusciti a farle indossare l’essenza e dei simboli di uno Stato: l’Ue non possiede né Costituzione né Bandiera né Inno.

Al posto di una costituzione l’Europa ha firmato un trattato fra Stati (il trattato di Lisbona); l’inno è stato eliminato e la bandiera la si può esporre, sempre che qualcuno lo voglia, soltanto il giorno della festa dell’Europa, cosa che nessuno fa. Soltanto i governanti italiani si sono ostinati a farla sventolare ovunque: il loro spirito di finzione si rivela anche in questo.

Adesso, però, di fronte al baratro in cui stiamo sprofondando, un baratro che non è soltanto economico e finanziario, ma anche di perdita di dignità e di rispetto, dobbiamo trovare il modo per costringere i politici a riappropriarsi della sovranità monetaria e a nazionalizzare la banca d’Italia.

Lo diciamo anche soltanto in nome del buon senso. Si parla tanto di “contagio”: ebbene dalle malattie contagiose ci si salva scappando lontano dalla loro fonte. Il Premier greco sicuramente ha parlato di un referendum pensando di poter portare così, con l’avallo dei cittadini, la Grecia fuori dall’euro.

Il nostro governo non ha bisogno di referendum: esiste già da molto tempo una maggioranza di parlamentari, di economisti, di esperti e di semplici cittadini che è convinta non vi sia altro da fare.

Inutile scaricarsi le colpe gli uni con gli altri: il gravissimo errore è stato compiuto quando è stato deciso (con l’interessato entusiasmo di Ciampi e di Prodi) di far entrare l’Italia nell’euro. Perciò la situazione rimarrebbe la stessa anche se si cambiassero le persone di governo, anzi diventerebbe ancora più grave con l’aggiunta dell’instabilità.

Si pensa di far andare al governo un economista o un banchiere? Sarebbe la decisione peggiore perché, pur essendo proprio questo lo scopo degli economisti e dei banchieri che hanno voluto l’unificazione europea, il potere racchiuso esclusivamente nelle mani dei banchieri sancirebbe formalmente la fine della democrazia.

Quindi non c’è altra via d’uscita: abbandonare l’euro.