martedì 8 novembre 2011

Update italiota

Una serie di articoli sugli ultimi sviluppi in terra italiota.

Berlusconi si dimetterà tra pochi giorni, ma le nubi continueranno ad addensarsi sempre più.

La tempesta sta per arrivare, incurante di chi siederà a Palazzo Chigi...



Umiliati e commissariati
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 5 Novembre 2011

E alla fine arriva l'Europa. Al termine di un G20 vago e inconcludente come solo i vertici internazionali sanno essere, la notizia più interessante che portiamo a casa è il commissariamento del nostro Paese da parte del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea.

Ma anche per arrivare a questa meta la strada non è stata priva di ostacoli. Anzi. Ieri mattina a Cannes è andato in scena un vero e proprio giallo sulla sorte che sarebbe toccata all'Italia.

Fin dalle prime ore iniziano a circolare indiscrezioni stampa e bisbigli a mezza bocca da parte di vari e oscuri funzionari europei. La cosa davvero strana - alla luce di com’è andata a finire - è che fino al primo pomeriggio diverse fonti italiane si ostinano a negare la possibilità che il governo di Roma possa essere messo sotto controllo da Bruxelles e Washington.

Gettano la spugna solo quando, dal palco ufficiale, prende la parola Josè Manuel Barroso: "La prossima settimana - spiega il presidente della Commissione europea - sarò a Roma con i rappresentanti del Fondo Monetario per una missione che ha lo scopo di monitorare l'andamento delle misure in Italia".

Ma non è finita. La vera bomba arriva quando il portoghese specifica che "'l'Italia ha deciso di sua iniziativa di chiedere a Ue e Fmi di monitorare i suoi impegni di riforme fiscali ed economiche". Ah sì? Lo abbiamo deciso noi? E allora perché ce lo sta annunciando un portoghese?

Tanto per farci capire che aria tira, subito dopo Barroso prende la parola Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo: "Non si tratta di un diktat - ribadisce con forza - non abbiamo messo l'Italia all'angolo. La situazione è totalmente diversa dalla Grecia". E ancora sottolinea che l'invito è arrivato direttamente dal nostro Esecutivo, in modo del tutto volontario.

Poi, finalmente, un'illuminazione: "Tutto questo è estremamente importante per la credibilità delle misure annunciate". Già, perché è questo il nostro vero problema. Se fossimo lasciati a noi stessi, nessuno - mercati in primis - si fiderebbe di noi.

La vera bastonata arriva però a fine pomeriggio, quando Christine Lagarde (non una parlamentare del Pd o dell'Udc, ma nientedimeno che il presidente dell'Fmi) decide di parlar chiaro: "Il problema sul tavolo, chiaramente identificato tanto dalle autorità italiane che dai loro partner - sentenzia candidamente l'economista francese - è la mancanza di credibilità delle misure che sono state annunciate".

Se questo concetto non risultasse ancora abbastanza chiaro, è sufficiente dare un'occhiata alle dichiarazioni dispensate nel frattempo da Silvio Berlusconi. Una conferenza stampa praticamente sotto dettatura, ma come al solito il Cavaliere non rinuncia a metterci un pizzico del suo spirito.

Iniziamo dalle frasi di rito: "In questi giorni sono stato lungamente al telefono con il Presidente della Repubblica - rivela il premier - e abbiamo concordato con il Quirinale la nostra richiesta di certificazione al Fmi".

Addirittura l'istituzione di Washington ci avrebbe "offerto dei fondi", ma noi, eroicamente, "abbiamo rifiutato". In serata, poi, verrà seccamente smentito anche su questo.

Dopo di che inizia lo show. Di fronte alla crisi finanziaria che stritola come una tenaglia i conti italiani, il Presidente del consiglio liquida "l'avventarsi" degli investitori "sui titoli del nostro debito" come "una moda passeggera".

Rispolvera perfino un vecchio classico, quello del "cambio Lira-Euro che è stato fatto dal governo di allora a un livello che da sempre abbiamo ritenuto incongruo e penalizzante".

Si tratta di un vero cavallo di battaglia degli anni passati, che però, ormai da qualche tempo, non ricorreva più nella dialettica berlusconiana. Qualcuno doveva avergli spiegato che un cambio più forte di quello stabilito (1936,27 lire per un euro) avrebbe massacrato le nostre esportazioni.

Ma ecco che questa chicca riemerge proprio oggi, a Cannes, nel 2011. Quasi che per un attimo Berlusconi abbia cercato di sentirsi di nuovo quello del 2001.

Purtroppo però non è finita. A sentire il premier, la stessa crisi in sé sarebbe una mezza invenzione: "L'Italia non la sente nel modo spasmodico che appare nella rappresentazione che ne fanno i giornali".

Poi, confondendo vita privata e Paese reale: "La vita in Italia è la vita di un Paese benestante. I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto".

Frasi che riecheggerebbero soavi nei patii di Arcore, ma che in un summit internazionale hanno tutto un altro effetto. Frasi che spiegano meglio di un trattato le ragioni del commissariamento.


"Governo tecnico?" Grazie, no
di Francesco Piccioni - www.ilmanifesto.it - 4 Novembre 2011

«Presto, un governo tecnico!» Il grido che sale da Confindustria, Abi, opposizione parlamentare e malpancisti del Pdl è ormai un coro assordante. Ma cosa dovrebbe fare un governo del genere?

E chi sarebbe quella «figura al di sopra delle parti» che potrebbe riscuotere contemporaneamente i voti bipartisan nel parlamento italiano nonché la fiducia delle istituzioni europee (senza dimenticare quella ben più volatile dei mercati)?

Il nome più cliccato è Mario Monti, ex rettore e presidente dell'università Bocconi. Poi indicato dal primo governo di centrodestra come commissario europeo, presidente continentale della Commissione Trilaterale (fondata nel 1973 da David Rockefeller) e membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg. Dal 2005 è International Advisor per Goldman Sachs. Sopra le parti, insomma...

Il programma, invece, scivola via dall'attenzione, ben rimpannucciato sotto la parola-coperta-di-linus degli ultimi 20 anni: «riforme». Eppure il programma c'è: chiaro, strutturato, scolpito come le tavole della legge.

In un lungo editoriale sul Corsera, la scorsa settimana, Monti ha squadernato le ragioni della non credibilità di Berlusconi evidenziando la distanza delle «convinzioni profonde» del Cavaliere da quelle condivise dagli altri leader europei. Sull'euro come sulle «riforme», sulla durezza delle misure da prendere e sulla necessità di «presentarle in modo convincente ai cittadini».

Ma soprattutto sul tema centrale di questa fase storica: «il governo economico» continentale che «si sta creando». Un compito cui l'Italia non sta contribuendo da protagonista, ma da soggetto passivo, che «improvvisa» nel tentativo di recepire forme di governo in grado di «disciplinare» il paese.

Il rischio, palese nelle sparate berlusconiane e ancor più in quelle leghiste, è vedere il paese governato ancora da una classe dirigente «populista» e «distaccata dall'Europa».

Questa è la pars destruens che motiva la necessità di una «svolta radicale» nella gestione - liberale e liberista, sia chiaro - nel governo della cosa pubblica. Quella "costruens", non è un segreto, è tratteggiata nella «lettera della Bce» - inviata in luglio da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi - rimasta a lungo «segreta» e articolata in tre semplici punti.

Le «misure per la crescita» devono comprendere la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali»; un'«ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale» che renda gli accordi aziendali «più rilevanti rispetto agli altri livelli di contrattazione».

Senza dimenticare l'«accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti» (e, in fondo, anche un «sistema di assicurazione dalla disoccupazione»).

La «sostenibilità delle finanze pubbliche» fa sempre la parte del leone, con l'«anticipo del pacchetto del luglio 2011» e l'obiettivo del «bilancio in pareggio nel 2013»; da realizzare - manco a dirlo - «principalmente attraverso i tagli di spesa».

E quindi: «ulteriore intervento nel sistema pensionistico» («anzianità»), blocco del turnover nel pubblico impego e, «se necessario, riduzione degli stipendi». Persino il «pareggio di bilancio» nella Cosituzione e tante altre cosette che - onestamente - Berlusconi ha messo nei suoi disordinati elenchi di provvedimenti fatti, non fatti o malfatti.

Al terzo punto, infine, gli «indicatori di performance» per migliorare «l'efficienza amministrativa», l'abolizione delle province, l'accorpamento dei Comuni e tutte le frasi che sentite ripetere anche dal primo rottamatore che passa. Quando si parla di «governo tecnico», si parla di questo. E basta.


Cosa faremo
di Franco Berardi Bifo - www.facebook.com - 7 Novembre 2011

L’interminabile imbarazzante agonia del governo Berlusconi annuncia e proroga lo scontro vero. Il mammasantissima è stato così occupato a far gli affari suoi che non ha avuto tempo di portare ad esecuzione i diktat della banca centrale europea.

Per questo cercano ora di farlo fuori coloro stessi che lo avevano invece sostenuto o tollerato quando le sue colpe erano soltanto quelle di favorire la mafia e l'evasione fiscale, distruggere la scuola pubblica, comprare deputati e senatori, corrompere i giudici e seminare ignoranza e servilismo per mezzo del monopolio mediatico che gli è stato consentito accumulare.

Ora che si rivela incapace di stringere il cappio al collo della società italiana, perché non ha la forza e la credibilità per strangolarci ecco efficienti aguzzini apprestarsi a prendere il suo posto, perché a loro il polso non trema.

Incitati da un Presidente inflessibile solo quando si tratta di salvaguardare gli interessi della classe finanziaria globale, i cani latrano tirando sul laccio che li trattiene. Vogliono azzannare gli efficienti adoratori dell'impietosa divinità che si chiama Mercato

Ma non c'è più nessun mercato, in verità, solo un campo di battaglia. Di là l'esercito aggressivo dei predoni accumula bottino - privatizza i servizi, licenzia, aumenta le ore di lavoro straordinario non pagate, nega la pensione a chi l'attende con buon diritto, elimina spese inutili come la scuola e la sanità.

Di qua l'esercito disordinato dei lavoratori trasformato in esercito di precari poveri senza speranza, arretra lanciando urla che promettono una vendetta che non verrà, perdendo metro dopo metro i suoi pochi averi, il prodotto dei suoi risparmi e del suo lavoro, la speranza di mandare i figli a scuola.

I sindacati chiamano allo sciopero. Per l'ennesima volta sfileremo portando cartelli che dicono: diritto a questo e diritto a quello. E chi se ne frega dicono ai piani alti del palazzo, tanto del vostro lavoro non abbiamo più bisogno perché vi stiamo sostituendo uno per uno con schiavi che non possono scioperare.

Manifesteremo pacificamente nelle vie della città. E chi se ne frega, visto che delle vostre dimostrazioni abbiamo già perso il conto e hanno cambiato nulla visto che la democrazia non esiste più e voi siete gli unici che ci credono ancora.

Allora daremo fuoco alle auto e assalteremo le banche. E chi se ne frega visto che le automobili che trovate in strada son quelle dei vostri colleghi, e nelle banche non c'è niente di interessante poiché il potere corre sul cavo che collega i computer di tutta la terra.

Si prepara una nuova dimostrazione per l'11 novembre. Cosa faremo?

Non si sono ancora spente le polemiche del 15 Ottobre tra i violenti bruciatori di camionette e i pacifici democratici alternativi, e già si promettono servizi d'ordine per proteggere i cortei. E' come dichiarare la guerra interna.

Dal momento che siamo impotenti a fermare le rapide incursioni dei predoni finanziari, ci sfogheremo dandoci un po' di legnate tra di noi.

Quelli buoni saranno poi premiati con un seggio in Parlamento. Ma esisterà ancora il Parlamento fra un anno? E c'è ancora qualcuno che crede davvero che in Parlamento si possa far cosa diversa dal reggere la coda agli aguzzini mentre eseguono il verdetto della classe predatrice?

E i cattivi? I cattivi si leccheranno le ferite perché è loro vocazione lamentarsi. Spaccano qualche vetrina, tirano bombe carta contro un poveraccio come loro, alzano le braccia in segno di eccitazione estrema poi tornano a casa si fanno una sega e si lamentano perché gli altri non li capiscono.

Cosa dovremmo dimostrare l'11 novembre? Non c’è niente da dimostrare e nessuno cui dimostrare qualcosa. Dovremmo invece iniziare l'azione di riconquista di ciò che ci è stato tolto.

Anzitutto dovremmo portare la comunicazione alla maggioranza della popolazione, quelli che non vengono alle dimostrazioni, e vanno al supermercato, al cinema. a teatro a messa, a scuola, alla stazione, in banca, preoccupati e un po’ mesti.

L'11 novembre dovremmo andare nei supermercati nei cinema, nei teatri, nelle chiese, nelle scuole nelle stazioni e nelle banche. Sederci insieme ad altri venti o cento o mille e ascoltare le frasi di una lavoratrice precaria o di un ricercatore che dice le ragioni degli sfruttati.

E ogni frase dovremmo ripeterla ad alta voce con altri mille, in un megafono umano che si diffonde, sapendo che in un’altra banca un altro supermercato sta accadendo la stessa cosa.

Dovremmo entrare nel supermercato prendere ciò che ci occorre poi recarci alla cassa, e alla cassiera con cortesia dire: signorina legga questo foglio. E sul foglio c'è scritto il mio nome cognome indirizzo e c'è scritto TESSERA DEL PANE.

E sotto c'è scritto: “siccome non ho più i mezzi per sostenere me e la mia famiglia la prego di accettare questo documento come garanzia del fatto che pagherò non appena la Banca centrale europea avrà erogato un reddito di cittadinanza a tutti coloro che ne hanno bisogno.”

Dovremmo andare nei ristoranti di lusso, mangiare come dio comanda e alla fine lasciare cinque euro sul tavolo e una tessera del pane con nome cognome indirizzo e promessa di pagherò quando avrò un reddito che me lo consenta.

Dovremmo andare alle inaugurazioni dell'Anno accademico e alle riunioni del consiglio comunale e del consiglio di amministrazione della banca e dell'azienda e dichiarare che fin quando non si sottrarranno all'ordine di sterminio che proviene dalla banca centrale gli impediamo di agire, di legiferare, di contribuire al crimine.

Dovremmo aprire la porta di un edificio vuoto di proprietà vaticana o di una compagnia di assicurazione e renderlo accessibile alla massa crescente di coloro che non hanno casa.

Dovremmo occupare le strade metterci dei grandi tavoli e organizzare mense popolari, dove ciascuno paga il pasto con quello che può sborsare. Mangiare insieme costa meno e permette di riattivare i circuiti anchilosati dell’acting out solidale.

Noi non vogliamo la guerra, eppure ce l'hanno dichiarata. Non combatteremo la loro guerra perché la perderemmo. Vivremo come è giusto vivere da esseri umani, da eguali e da liberi. E se leggi partiti e parlamenti vorranno piegarci al ricatto dei predoni, noi disobbediremo alle leggi ai partiti e ai parlamenti.

Stanno provando a trasformarci in schiavi, a toglierci la dignità e la coscienza. Ed è bene saperlo: sono pronti ad uccidere se gli schiavi smettono di lamentarsi e si ribellano in modo intelligente e solidale. Uccideranno, perché il dio Mercato per loro è più importante della vita umana.

Noi disprezziamo il superomismo nazistoide di tutti quei Giavazzi che incitano ad accettare il rischio economico e la competizione, ma dovremo imparare umilmente a correre il rischio di morire se a rischio è la nostra dignità di esseri umani e di lavoratori.

Perché chi crede che sia meglio vivere da schiavo che correre il rischio di morire vivrà da schiavo e morirà da schiavo.


Il nodo del debito pubblico interno
di Aldo Giannuli - www.aldogiannuli.it - 8 Novembre 2011

Per quanto alcuni paesi siano particolarmente esposti verso fondi sovrani stranieri o soggetti assimilabili (è il caso degli Usa nei confronti di Cina, Emirati Arabi, Giappone ecc.), la parte più consistente del debito è regolarmente posseduta da soggetti interni: banche, enti locali, fondi pensione, università, aziende, fondi comuni, singoli risparmiatori.

Un puro e semplice azzeramento avrebbe effetti negativi prevalenti su quelli positivi ed, in qualche caso effetti devastanti: si pensi solo al caso dei fondi pensione.

Per i paesi dell’area Euro, si pone un problema di non poco conto che richiede qualche spiegazione. Classicamente, il debito pubblico si divide in due categorie:

1- il debito estero composto da quello verso altri stati e dai titoli denominati in moneta diversa dalla propria

2- il debito domestico composto dai titoli emessi in moneta propria e posseduto da singoli risparmiatori, anche non del proprio paese.

Nel caso dei titoli in valuta propria lo Stato ha sempre la possibilità di manovrare la moneta (ad esempio con la svalutazione) per ridimensionare il debito, cosa che evidentemente non può fare con i titoli denominati in valuta estera.

Si discute sulla collocazione dei titoli di debito in moneta nazionale posseduti da soggetti istituzionali stranieri (banche, assicurazioni, fondi pensione, hedge fund ecc); da un punto di vista giuridico andrebbero considerati come debito domestico, ma, dal punto di vista del concreto apprezzamento dei titoli sul mercato internazionale, le cose cambiano: lo Stato può sempre imporre (in forme più o meno costrittive) a suoi soggetti istituzionali interni di acquistare una certa quantità di suoi bond, mentre, evidentemente, non può farlo con i soggetti istituzionali stranieri.

E se il singolo risparmiatore straniero ha poche armi per difendersi, i soggetti istituzionali, con il loro comportamento possono influire pesantemente sui mercati finanziari, reagendo ad una eventuale svalutazione o altra forma di ripudio, più o meno dissimulato, del debito.

I problemi si pongono in modo più complicato nel caso dei paesi dell’eurozona, i cui titoli sono denominati, appunto in euro, per cui diventa difficile stabilire se essi sono emessi in moneta nazionale (in quanto moneta corrente in ciascun paese) o estera, proprio perchè moneta comune a più stati e, dunque, non manipolabile. Per questo aspetto, è come se tutto il debito di questi stati fosse debito estero.

Ed è a partire da questa considerazioni che occorre discutere del come alleggerire il debito pubblico in riferimento alla dimensione domestica.

Uno dei problemi più delicati dell’eventuale azzeramento del debito pubblico (sollevato anche da uno dei frequentatori di questo blog) riguarda la porzione di titoli posseduta da piccoli risparmiatori interni.

Va da sè che non è socialmente accettabile una misura che penalizzi la vecchietta che ha messo da parte un po’ di risparmi o l’operaio che ha investito la sua liquidazione magari per comperare la casa al figlio che deve sposarsi o per avere risorse disponibili in caso di una malattia particolare o per simili evenienze.

Nella maggior parte dei casi si tratta di risparmiatori che non hanno depositi superiori ai 50-60.000 euro e che, comunque, non vanno molto al di là di questa cifra.

Il secondo problema è rappresentato da quegli enti che hanno compiti sociali (come, appunto, i fondi pensione, gli enti locali, le università ecc.). La prima misura sarebbe quella di “discriminare” questi soggetti dagli altri, riconoscendo loro forme di garanzia sociale che mettano al sicuro in tutto o in gran parte il loro piccolo capitale. Questo porrebbe delicati problemi di ordine costituzionale.

Ad esempio si potrebbe dare una garanzia di copertura sino ad una certa cifra (ad esempio 100.000 euro) ed aprire un negoziato con i creditori per la parte eccedente, ma questo risolverebbe il problema dei piccoli risparmiatori, non quello dei soggetti istituzionali, fra i quali sarebbe molto difficile discriminare quelli con compiti sociali dagli altri.

Ad esempio, una cassa rurale o artigiana che gestisce il credito delle rispettive categorie, ha compiti sociali o no? E una banca popolare? La discussione potrebbe andare assai per le lunghe e sarebbe prevedibile uno sterminato contenzioso giudiziario.

Una prima misura per “sgonfiare” il debito potrebbe essere la seguente: emettere una particolare serie di bond a lunga durata (eptennali, decennali e ventennali) a basso tasso di interesse (l’1% secco) imponendone l’acquisto forzoso ad una serie di soggetti:

  • contribuenti con più di 500.000 euro di reddito annuo, in una proporzione dal 3% al 7% per i vari scaglioni di reddito;
  • deputati, consiglieri regionali, sindaci di capoluoghi, amministratori pubblici ecc. nella misura di 1/3 della propria indennità ed ex parlamentari e consiglieri regionali, in ragione di 1/5 della propria pensione;
  • Anche le consulenze di enti locali, tribunali, ministeri, enti economici pubblici ecc., potrebbero essere pagate per un decimo con questi titoli;
  • manager industriali e bancari in ragione del 3-7% per i vari scaglioni di reddito;
  • possessori di patrimoni superiori ai 2 milioni di euro nella misura dell’1%;
  • soggetti istituzionali interni in base ai titoli di stato posseduti che, alla loro scadenza , sarebbero automaticamente rinnovati nei nuovi titoli in misura di 1/10 del totale.

Questa misura si rivelerebbe anche più efficace della patrimoniale, sia perchè questo permetterebbe di collocare per un periodo abbastanza lungo, una considerevole parte del debito pubblico realizzando un considerevole risparmio sugli interessi, sia perchè questo contribuirebbe a calmierare il mercato dei bond, con ulteriore risparmio sugli interessi. Ma, soprattutto, consentirebbe di gestire la crisi del debito allungando i tempi e puntando sul maggiore gettito fiscale dovuto alla crescita economica.

Anche per il contribuente ci sarebbe un vantaggio: la sua “perdita” sarebbe riferita solo al differenziale fra l’interesse percepito per questi titoli e quello che avrebbe percepito investendo in titoli più redditizi (poniamo un 3-4% per investimenti a rischio medio o medio-alto), mentre il capitale gli verrebbe restituito alla scadenza.

Insomma, noi preleviamo 1.000 euro dal signor X, che però, gli restituiremo fra 7-10-20 anni (potremmo anche frazionare il prestito forzoso con titoli a scadenze differenziate), nel frattempo gli rendiamo 10 euro di interessi all’anno (contro i 40-50 che gli avrebbero reso quegli euro investiti diversamente).

Per il contribuente la perdita è di 30-40 euro all’anno, ma per lo stato c’è il risparmio rispetto agli interessi che diversamente dovrebbe corrispondere e, cosa più importante, c’è lo spostamento a lungo termine dei debiti a breve nella misura di 1000 euro, cioè 20 volte di più di quello che rappresenta il risparmio di interessi.

Accanto a questa misura iniziale, si potrebbe pensare ad una serie di forme di ripudio parziale del debito domestico offrendo un ventaglio di soluzioni come ad esempio:

a- distinguendo fra debiti “redimibili” (cioè rimborsabili in toto dallo Stato, con interessi più bassi), debiti “irredimibili” (cioè a “capitale perso” per i quali lo Stato paga solo gli interessi per un determinati numero di anni da determinarsi in base all’entità della cifra base ed in misura superiore agli altri) e “misti” (cioè parzialmente “redimibili” e per il resto “sterilizzati” salvo il pagamento dei relativi interessi)

b- rinegoziando le condizioni del debito con i creditori più “importanti” (cioè che vantino crediti superiori ai 200.000 euro) trattando un allungamento delle scadenze e una riduzione degli interessi.