venerdì 18 novembre 2011

E' arrivato il turno della Siria?

Alcuni articoli sugli ultimi sviluppi in Siria, le cui dinamiche sembrano ricalcare lo stesso percorso degli eventi avvenuti in Libia poco prima dell'intervento militare della Nato.


Assad sempre più solo
di Christian Elia - Peacereporter - 17 Novembre 2011

La Lega Araba concede altri tre giorni prima di dure sanzioni

Le ore di Bashar al-Assad sembrano contate. Sempre più attorno al suo regime si fa terra bruciata. Un'immagine che resterà, del passato, è quella del vertice dell'Unione del Mediterraneo.

Era il 13 luglio 2008, a Parigi. Il presidente francese Nicholas Sarkozy faceva gli onori di casa, Assad era il centro delle attenzioni. Sembrava sancita, quel giorno, la reintegrazione della Siria nel club dei paesi 'buoni'.

Lontani mille miglia gli anni dell'asse del male di George W. Bush, dell'omicidio dell'ex premier libanese Rafiq Hariri (febbraio 2005), del ritiro delle truppe siriane, che governavano nell'ombra il Libano fin dalla guerra civile finita nel 1990.

Tutto condonato, come a Gheddafi nel 2003. L'importante era riconquistare alla causa dell'Occidente un Paese importante per gli equilibri del Medio Oriente, fin dai tempi dell'Impero Ottomano e della Prima Guerra mondiale, come la Siria. E alienarlo dall'orbita dell'Iran.

Oggi di quel disegno ambizioso di Sarkozy non resta più nulla. Un disegno sostenuto anche dai democratici Usa che, prima ancora di riprendersi la Casa Bianca con Obama, nel 2009, avevano già lavorato a una pacificazione con Damasco.

Nancy Pelosi, spekear democratica del Congresso Usa, in visita in Siria nel 2007 (un viaggio che rese furioso Bush) e, nel 2010 - dopo cinque anni - l'amministrazione Obama aveva nominato un ambasciatore in Siria. Un clima idilliaco, finito in tragedia. Perché?

L'elenco delle motivazioni è lungo e tutto ancora da scrivere. Di sicuro oggi, come nel 2007, nel 2008 e nel 2010, Assad è la stessa persona e utilizza gli stessi metodi. Solo un cieco può limitare i suoi undici anni di potere agli ultimi nove mesi di repressione. La repressione è iscritta nel genoma della famiglia Assad, di padre in figlio.

Se le vittime della repressione, come sostiene l'Onu, sono più di 3500 da marzo, sono centinaia di migliaia dal 1971, anno in cui Hafez al-Assad (il padre di Bashar), prese il potere con un golpe tra i golpisti del 1966.

Ma nessuno ha mosso un dito, nessuno ha smesso di trattare quello siriano come un governo legittimo. Oggi sì, perché?

La risposta è da cercare in tutto quello che succede in Medio Oriente. Dove quello che non si è saputo rovesciare con le armi, viene rivoltato adesso con altri mezzi. Ecco che la Lega Araba, dopo un'offerta di pace ad Assad, fa marcia indietro e offre tre giorni al regime per pacificare la situazione. Un'offerta, come la prima, che non porta da nessuna parte.

L'Arabia Saudita e tutte le monarchie sunnite lo sanno benissimo. E' stato sostenuto dall'esterno un meccanismo che ormai è irrefrenabile. Assad ha anche rilasciato alcuni prigionieri politici, ma non serve più a nulla, la rabbia furiosa è fuori controllo.

L'obiettivo di medio termine è questo: rompere la catena che lega Teheran agli Hezbollah, il cui anello di congiunzione era proprio la Siria. Turchia, monarchie del Golfo Persico, Usa, Israele, Ue: tutti d'accordo.

Una Siria governata da 'amici', come la Libia e l'Egitto, fa molta gola. Damasco, dal punto di vista della realpolitik, ha avuto la sua occasione. E dallo stesso punto di vista, l'ha persa.

Ecco l'accellerazione improvvisa, come per la Libia. Massacri su massacri, in attesa che Assad (e Gheddafi) decidessero cosa fare del futuro, da che parte stare, a livello energetico (Libia) o geostrategico (Siria).

L'ultimo capitolo della vicenda umana e politica di Assad non è stato ancora scritto, ma la sceneggiatura sembra già vista.


Siria, futuro incerto
di Christian Elia - Peacereporter - 17 Novembre 2011

Intervista al prof. Campanini, docente di di Storia e istituzioni del mondo musulmano, rispetto alle prospettive della crisi di Damasco

La situazione in Siria diventa sempre più complicata. Mentre nel Paese la violenza non accenna a diminuire, il contesto internazionale isola sempre più il regime di Assad.

Dopo la Turchia, anche la Lega Araba abbandona il presidente siriano. Cosa accadrà adesso, in uno dei paesi più importanti per gli equilibri della regione?

PeaceReporter l'ha chiesto a Massimo Campanini, docente di Storia e istituzioni del mondo musulmano, che ha insegnato a Milano, all'Orientale di Napoli e a Trento, autore di numerosi saggi tra i quali Storia del Medio Oriente, edizioni il Mulino.

Cosa si aspetta che possa accadere adesso? La scadenza dei tre giorni posta dalla Lega Araba ad Assad per porre fine alle violenze può significare, in qualche modo, che una soluzione si avvicina?
La prospettiva dei tre giorni, comunque vada, è un orizzonte temporale troppo ristretto. Il regime di Assad gode tuttora dell'appoggio di una parte significativa delle forze armate, di una parte importante della minoranza alauita e di una parte - non so quanto consistente - della popolazione.

Un dittatore come lui non avrebbe potuto reggere così a lungo se non avesse avuto dei supporti dal punto di vista popolare. In Egitto, in Tunisia e in Libia, dove comunque la situazione era differente, questi dittatori sono stati in qualche modo abbandonati dall'opinione pubblica in un tempo relativamente breve e sono crollati.

Credo, possa piacere o meno, che Assad abbia ancora delle risorse sulle quali contare e delle armi sulle quali fare riferimento. Di sicuro la presa di posizione della Lega Araba, e ancor di più della Turchia, ne indeboliscono la posizione internazionale, ma sono pessimista rispetto al fatto che il regime possa abbandonare il potere in fretta.

Il rischio potenziale di una guerra civile, sul modello libico, rimane alto. Ed è molto probabile che le pressioni internazionali diventeranno sempre più forti, indebolendo ancor di più la posizione di Assad.

Credo però, anche se si può essere smentiti in un attimo, che Bashar Assad venderà cara la pelle, avendo ancora le risorse per resistere. L'orizzonte temporale della crisi siriana, secondo me, non può essere limitato a tre giorni, ma sarà più lungo.

Che idea si è fatto dell'influenza internazionale sulla crisi siriana? Magari rispetto alla crisi libica?
La situazione in Libia, almeno in parte, è stata di sicuro eterodiretta. Lo stesso non può dirsi della Siria, dove le manifestazioni e la rivolta sembrano un fenomeno più endogeno. Per molto tempo i rivoltosi non hanno goduto dell'appoggio internazionale e le grandi potenze hanno usato con Assad una maggiore cautela rispetto a quella riservata a Gheddafi.

La Siria, ad esempio, conserva tutt'ora un certo appoggio dalla Russia e anche della Cina. La posizione di Damasco è più solida di quella della Libia, che in un tempo relativamente breve è stato abbandonata al suo destino dai suoi vecchi alleati, tipo l'Italia.

La sensazione, in generale, è che al di là della presa di posizione di Turchia e Lega Araba ci sia un clima internazionale meno favorevole a un intervento esterno, anche perché una 'balcanizzazione' della Siria potrebbe avere effetti molto pesanti sulla situazione regionale, magari spingendo l'Iran a un intervento.

Israele stesso potrebbe vivere con preoccupazione un mutamento, perché in qualche modo Assad garantiva uno status quo. La pressione internazionale, rispetto alla Libia, mi pare differente e questo potrebbe allungare i tempi di soluzione della crisi siriana.

L'eventuale fine del regime di Assad come potrebbe influire nel futuro di una regione dove la Siria ha, da sempre, avuto una centralità politica, storica e identitaria molto importante?
Fino a non molto tempo fa, parlando del conflitto con Israele, si diceva che gli arabi non potevano far la guerra senza l'Egitto, ma non potevano far la pace senza la Siria. Questo è significativo, perché la Siria è sempre stata la principale esponente del panarabismo e del nazionalismo arabo, molto più dell'Egitto, a parte la parentesi del nasserismo.

E' assolutamente verosimile che l'eventuale caduta del regime di Assad possa aprire scenari imprevisti negli equilibri regionali e internazionali, anche perché non si sa chi riempirebbe il vuoto di potere. La Siria è un Paese con tensioni e divisioni di tipo confessionale. Sciiti, sunniti, drusi, alauiti, cristiani. Non è facile l'equilibrio.

Un governo sunnita, ad esempio, rispetto alla maggioranza della popolazione, ben visto dalla Lega Araba, taglierebbe lo storico legame con l'Iran e, in questo senso, indebolirebbe Teheran.

Lo stesso accadrebbe per il Libano, dove la Siria ha sempre avuto un peso particolare, che potrebbe essere abbandonato a sé stesso o vedere un ulteriore rafforzamento di Hezbollah. Un altro aspetto interressante potrebbe essere quello di chiedersi come funzionerebbe la cintura sciita composta da Iran, Iraq meridionale e Libano meridionale, della quale la Siria è stata in qualche modo garante fino a ora.



Siria, scontri in tutto il Paese
di Artuto Bandini - Altrenotizie - 16 Novembre 2011

In un chiaro segno del continuo deterioramento della situazione in Siria, questa mattina un gruppo di militari disertori ha annunciato una serie di attacchi contro alcune basi dell’esercito e dell’intelligence nei pressi della capitale, Damasco.

Il blitz condotto dal cosiddetto Esercito Libero della Siria (Free Army of Syria) contro le installazioni militari del regime, se confermato, rappresenta una svolta nella crisi in corso da otto mesi nel paese mediorientale, proprio mentre le pressioni internazionali sul governo di Assad continuano a crescere dopo la decisione di sabato scorso della Lega Araba di sospendere la Siria dall’organizzazione panaraba.

Secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, tre gruppi appartenenti all’Esercito Libero della Siria avrebbero fatto irruzione in una base dell’intelligence dell’aeronautica nella città di Harasta.

I militari ribelli hanno aperto il fuoco contro un edificio amministrativo con fucili automatici, lancia-granate e missili, infliggendo danni alle strutture prima di dileguarsi senza subire perdite. Altri attacchi sarebbero avvenuti inoltre contro check-point dell’esercito siriano nelle località di Douma, Qaboun, Arabeen e Saqba. Al momento non ci sono notizie di vittime.

Gli scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti a Damasco sono stati fino ad ora piuttosto rari. Per questo gli attacchi di oggi segnalano probabilmente un’intenzione da parte dell’Esercito Libero della Siria di allargare il conflitto con il regime anche alle città principali del paese, dove il presidente Assad raccoglie tuttora ampio sostegno.

I militari che hanno lasciato l’esercito siriano stanno trovando rifugio oltre confine, in Libano e soprattutto in Turchia. I loro leader sostengono di aver reclutato tra i 10 e i 15 mila soldati e nelle ultime settimane hanno aumentato il numero di operazioni violente, anche se finora limitate ad aree più remote del paese.

Solo due giorni fa, ad esempio, l’Esercito Libero della Siria ha ucciso 34 membri delle forze di sicurezza nella città di Daraa in uno dei giorni più sanguinosi in otto mesi di rivolta. Secondo il governo, le vittime tra soldati e forze di sicurezza sarebbero già oltre 1.100, mentre complessivamente - secondo i dato ONU - i morti dall’inizio della crisi hanno superato i 3.500.

Gli attacchi alle basi militari siriane sono giunti poche ore prima della convocazione di una riunione di emergenza della Lega Araba a Rabat, in Marocco, proprio per discutere della sospensione di Damasco che dovrebbe diventare effettiva nella giornata odierna.

Nella capitale marocchina si dovrebbe parlare anche di possibili sanzioni da adottare nei confronti del regime di Assad, come il ritiro delle rappresentanze diplomatiche dei paesi arabi a Damasco. La Turchia, da parte sua, ha invece prospettato la possibilità di tagliare le forniture energetiche al vicino meridionale.

Martedì, intanto, delegazioni delle forze di opposizione riunite nel Consiglio Nazionale Siriano hanno incontrato rappresentanti sia della Lega Araba che del governo russo. Nonostante Mosca rimanga contraria a qualsiasi sanzione contro Damasco, secondo alcuni questo incontro potrebbe segnalare una certa impazienza nei confronti di Assad.

Le discussioni tuttavia, ha tenuto a precisare la Russia, non sono andate a buon fine e, in ogni caso, servivano esclusivamente a verificare la disponibilità del CNS ad aprire un dialogo con Assad.

Sempre ieri, infine, secondo quanto scritto dalle agenzie di stampa ufficiali siriane, il governo ha liberato oltre 1.100 detenuti politici arrestati nel corso della rivolta, come richiesto dalla road map negoziata con la Lega Araba ai primi di novembre.

Visto il rapido aumento delle pressioni esterne su Damasco nelle ultime settimane, tuttavia, appare difficile che questo o qualsiasi altro gesto di apertura al dialogo da parte del regime possa invertire la rotta di una crisi che sembra avere ormai superato il punto di non ritorno.



La Siria nel mirino
di Spartaco Alfredo Puttini* - www.eurasia-rivista.org - 16 Novembre 2011

Vi sono molti modi per accostarsi alla crisi in corso in Siria.

Il primo è ripetere ciò che vanno raccontando i media, a partire dall’emittente dell’emiro del Qatar, Al-Jazeera, già ampiamente compromessa con le frottole diffuse ad arte sulla crisi libica per fomentare lo scontro settario e preparare il terreno ad un’invasione militare della Jamahiria.

È quanto vanno facendo i principali organi di informazione nazionale che sembra passino qualsiasi presunta notizia battuta dalle agenzie, senza preoccuparsi minimamente di controllarne l’attendibilità.

Per giorni siamo stati tenuti con il fiato sospeso per la sorte di Amina, la giovane blogger siriana lesbica e attivista dei diritti umani. I giornali italiani hanno dato ampio risalto alla sua storia. Amina è stata prelevata dai servizi di sicurezza siriani e di lei, non giungono più notizie¹. A dare l’allarme è la cugina, sul suo stesso blog. L’allarme è poi ripreso dalla fidanzata di Amina, una ragazza di Montreal.

Qualche giorno dopo aver martellato il pubblico italiano con questa storia cominciano a serpeggiare i primi, incontenibili, dubbi sulla vicenda. Una donna croata residente a Londra si riconosce infatti nelle foto di Amina su Facebook che sono state riprese e diffuse dai media. Ma la mobilitazione per il suo rilascio continua².

In effetti la sua stessa fidanzata non l’ha mai vista di persona, la conosce solo tramite la rete. La vicenda si tinge di giallo. Infine emerge la realtà: Amina non esiste, è un personaggio inventato. Come la sua storia del resto. In realtà, come è ormai ampiamente noto, l’autore del blog “A Gay Girl in Damascus” è un americano di nome Tom McMaster (?), e scrive comodamente da casa sua.

La bufala di Amina, bisogna ammetterlo, è piuttosto clamorosa. Ma è solo la punta dell’iceberg della disinformazione diffusa dai media per demonizzare la Siria.

Siamo in effetti sicuri di trovarci davanti solamente a presunte manifestazioni pacifiche represse nel sangue dal governo siriano, così come ci viene raccontato? Esse ricordano troppo da vicino la montante e totalmente artefatta campagna anti-libica cui abbiamo assistito per mesi ed è quindi legittimo nutrire seri dubbi. Serissimi dubbi è poi lecito nutrire circa le fonti primarie delle informazioni cui i media attingono o sulle cifre di morti e feriti che diffondono.

Ciò non significa che in Siria non stia succedendo niente. Si può in effetti sostenere che il paese arabo attraversa la crisi più grave della sua storia recente, più grave ancora dell’insurrezione islamista di Hama del 1982, se non altro perché quella rivolta fu localmente più circoscritta.

Ma vi è un altro modo di guardare alla crisi siriana. Consiste nel tentare, con i pochi e frammentari elementi di cui siamo in sicuro possesso, un analisi storica della Siria e del suo ruolo geopolitico nella regione, della portata di una sua destabilizzazione o di un suo regime-change.

L’accanimento mediatico in corso contro il governo siriano lascia infatti presupporre che gli Usa ritengano giunto il momento di chiudere i conti con un loro storico antagonista.

Il braccio di ferro con gli Usa

La Siria ha sempre rappresentato la cittadella contro le cui mura si sono infranti i progetti egemonici degli Usa sul Medio oriente³.

Dagli anni Cinquanta i vari governi patriottici che si sono succeduti hanno sempre condotto una politica estera antimperialista ed i tentativi americani di fagocitare Damasco nella loro orbita si sono tradotti nel loro contrario: nell’avvento al potere del Baath alla guida di un Fronte nazionale progressista nel quale figura anche il Partito comunista siriano e nella scelta antimperialista (e fino a che è stato possibile filo-sovietica) in campo internazionale.

Con la guerra dei Sei Giorni Israele cercò di rovesciare il regime militare baathista nato dalla rivoluzione del 1963 per spezzare il fronte arabo. Ma nonostante la secca sconfitta patita con l’occupazione del Golan la Siria restò in piedi.

E con il “movimento correttivo” che seguì la presa del potere da parte del presidente Hafez al-Assad il paese si preparò alla rivincita del 1973, con la guerra del Kippur scatenata d‘intesa con l’Egitto di Sadat. Ma l’epilogo del Kippur fu la pace separata tra l’Egitto e Israele. Sostanzialmente si tradusse nell’isolamento della Siria nella regione.

Fu in questo contesto che esplose la guerra civile libanese e il pesante coinvolgimento israeliano in essa. L’imposizione di una pax israeliana al Libano avrebbe significato una sconfitta totale per la Siria, che sarebbe stata costretta a capitolare.

Così Damasco entrò pesantemente in gioco nella crisi libanese ed Assad iniziò una complessa partita a scacchi con Israele e gli Stati Uniti (ma anche con la miriade di milizie e fazioni in cui si era frammentato il paese dei cedri).

Fu proprio in una delle fasi più delicate della partita libanese, nel 1982, quando Israele lanciò le sue forze corazzate oltre il fiume Litani in direzione di Beirut, che scoppiò la rivolta degli integralisti islamici ad Hama. Anche allora una rivolta estremamente violenta. Anche allora fomentata dall’esterno.

Il pericolo per il governo siriano fu grande ed Assad reagì con la massima fermezza facendo circondare la città dall’esercito. Il bilancio della repressione fu pesantissimo ma lasciò il regime in piedi e la Siria in grado di difendersi. Alla fine (1991) la Siria vinse il confronto in Libano. Tutti i tentativi successivi di estrometterla dal Libano per farla capitolare attuati dal 2005 in poi sono sostanzialmente falliti.

Se, a seguito dell’affaire Hariri, l’esercito siriano si è dovuto ritirare entro i suoi confini, i tentativi di utilizzare il Libano per assediare la Siria tramite l’aggressione esterna (guerra di Israele dell’estate 2006) o tramite la destabilizzazione interna (insurrezione degli islamisti a Nahr el-Bared prima e scontri da guerra civile dopo) non hanno prodotto alcun risultato.

Anzi, le posizioni delle forze filo-occidentali a Beirut sono crollate, tanto che ora il miliardario di origine saudita Saad Hariri, già fiduciario di Washington, non è più alla guida del paese e che il governo è composto unicamente dai partiti dello schieramento patriottico vicino a Hezbollah. Ed Hezbollah (come Hamas del resto) è notoriamente una forza politica sostenuta dall’alleanza tra Damasco e Teheran.

Le cose stavano dunque andando bene per Damasco. L’alleanza con l’Iran, il cauto ritorno dei vecchi partner russi sulla scena della politica mediorientale, la crescente autonomia manifestata dalla Turchia in ambito internazionale e di fronte al dossier palestinese, la vittoria politica dei propri alleati in Libano erano tutti elementi che premiavano la fermezza mostrata dalla Siria nel difficile dopo-guerra fredda.

A questi dati si potevano sommare le eventuali evoluzioni della situazione in Egitto, paese perno della regione, dove una rivolta popolare aveva costretto Mubarak alle dimissioni e dove si apriva una partita tutta da giocare per valutare il futuro allineamento egiziano.

Nonostante per il momento le aspettative di una rivoluzione paiano completamente frustrate ed il futuro si presenti fosco, tuttavia Il Cairo ha ristabilito le relazioni diplomatiche con l’Iran.

Come una bomba

Poi è scoppiata la crisi che abbiamo sotto gli occhi.

Il collasso della Siria rappresenterebbe per gli Usa e per Israele la sconfitta dell’ultimo paese arabo che può giocare un ruolo strategico nel frenarne le ambizioni nel Vicino Oriente. A quel punto l’Iran sarebbe completamente tagliato fuori dalla regione e circondato da paesi ostili.

Visto il quadro è obbligatorio chiedersi se sia un caso lo scoppio (con ben determinate modalità) di questa crisi siriana proprio ora. Cioè dopo il fallimento della strategia del salto della pulce, che consisteva nel conquistare il Libano per piegare la resistenza della Siria e nel piegare la Siria per strozzare l’Iran, e dopo le rivolte arabe che hanno fatto tremare la satellizzazione filo-statunitense di un paese dell’importanza dell’Egitto.

Quali sono le modalità con cui si è manifestata la crisi in corso in Siria?
“E’ possibile spiegare quanto sta accadendo in Siria considerandolo alla stregua di un esempio di rivoluzione popolare araba allo stato puro, come un’insurrezione caratterizzata da una protesta non violenta e liberale contro la tirannia che ha finito per imbattersi in una pura e semplice operazione repressiva? A mio parere si tratta di un’ottica completamente errata e deliberatamente messa in piedi per servire ambizioni di tutt’altro genere”⁴. E’ il parere dell’ex consigliere di Xavier Solana (non certo un invasato antimperialista dunque), Alistair Crooke.

Più tranciante è il giudizio di padre Razouk Hannoush, diocesano cristiano: “I disordini sono opera di gruppi armati, e non sono manifestazioni pacifiche. Se fossero pacifiche avrebbero utilizzato altri mezzi, senza destabilizzare il paese con la distruzione e la violenza. Siamo schierati con Assad e con il governo siriano perché non ci ha fatto mai un torto. Sono certo che la Siria supererà questa crisi, e si rialzerà contro la volontà di tutti quelli che le vogliono male”⁵.

E un prete salesiano racconta: “Quello che sta accadendo ora non sono manifestazioni pacifiche: la maggior parte sono gruppi armati con pistole e mitragliatrici che compiono atti terroristici. Due giorni fa, mentre tornavamo da un villaggio vicino Hama, siamo stati fermati da alcuni giovani armati (15/25 anni), che ci hanno controllato le carte d’identità e ci hanno perquisito, ed essendo cristiani ci hanno lasciati, dopo aver costretto uno dei nostri amici a bestemmiare contro il Presidente.

Di quale rivoluzione e democrazia parliamo? Sono ancora scosso da questo incidente, soprattutto pensando che se fossimo stati alawiti saremmo stati di certo uccisi. Sì, ci sono un sacco di ribelli armati nelle città in Siria, distruggono, seminano terrore e uccidono i civili.

Quale paese che si trova di fronte ad una rivolta armata resta immobile? L’esercito interviene per fermare queste bande armate e per riportare la sicurezza e la stabilità al paese”⁶.

Di fatto anche in Siria, come prima in Libia, non siamo di fronte a pacifiche dimostrazioni di un popolo inerme stanco di una dittatura quanto a una rivolta armata nella quale sono ben riconoscibili gruppi estremisti islamici filiazione della Fratellanza musulmana foraggiati dalle retrograde petro-monarchie assolute del Golfo.

In questa partita gioca un ruolo di primo piano presumibilmente l’Arabia Saudita, supporto degli Usa nella regione dall’incontro del Quincy e da sempre baluardo della reazione nel mondo arabo, ricettacolo delle bande legate al network del terrorismo di matrice islamico-wahhabita da noi note con il nome riassuntivo e un po’ impreciso di al-Qaida.

Indubbiamente vi sono delle tensioni endogene nella società siriana che, in relazione alla presente crisi economica mondiale, si sono acuite. Né si vogliono qui negare i lati oscuri del regime siriano. Ma non è questo il punto.

Il punto è che non pare minimamente attendibile la favola edificante presentata dai media. La forza pervasiva di questa tesi consiste nell’essere ossessivamente ripresa e data in pasto ad una opinione pubblica disinformata e disorientata.

Nel racconto della situazione siriana che viene offerto sono opportunamente passati sotto silenzio gli elementi che poterebbero indurre una riflessione critica al riguardo della tesi ufficiale e dei secondi fini dei suoi alfieri.

La Siria…e il suo contrario

La Siria ha una solida coscienza nazionale. La Repubblica gode di un certo prestigio. Il punto debole del paese potrebbe essere rappresentato dalla molteplicità delle confessioni religiose che finora hanno sempre convissuto benissimo.

La gran parte del popolo siriano è di fatto dalla parte del governo e del suo presidente. Forse perché è cosciente della diversità della Siria rispetto agli altri paesi della regione, dal punto di vista economico e sociale (nonostante tutto) e dal punto di vista della garanzie offerte dalla laicità del regime. Forse perché è orgogliosa dell’indipendenza del paese sul piano internazionale e di fronte a Israele e all’Occidente.

Forse anche perché è timorosa del salto nel vuoto. Anche in questo caso l’alternativa all’attuale regime sarebbe costituita da una guerra settaria tra confessioni e gruppi (essendo la Siria un paese pluri-confessionale) che porterebbe ad una disintegrazione dello stato sul modello irakeno.

E i siriani, che ospitano una numerosa comunità di esuli irakeni, sanno bene quale inferno esista oltre il confine dell’Iraq occupato. Comprensibile che non vogliano fare la stessa fine.

Ecco il semplice motivo delle oceaniche manifestazioni che si sono tenute in questi mesi in sostegno di Bashar al-Assad. Ma ai media occidentali è bastato non dare alcuno spazio a questa notizia.

Come del resto non ha trovato alcun eco la notizia che alcuni giornalisti ed editorialisti delle catene mediatiche arabe in primo piano nell’opera di disinformazione sulla crisi siriana abbiano dato le dimissioni in segno di protesta per la manipolazione della verità attuata.

In Siria è in corso un’opera di destabilizzazione che mira scientemente a precipitare il paese nel caos. Le iniziative di gruppi, bande e veri e propri commandos che seminano il terrore nei paesi e in alcuni quartieri di città Hama e Latakia e che si sono già macchiati di orribili delitti e nefandezze a spese della popolazione e delle forze di sicurezza (che hanno contato dall’inizio di questa serpeggiante rivolta numerose perdite) smentisce in modo eloquente le favole raccontateci da tv e giornali.

E’ noto che gli islamisti radicali cerchino la loro rivincita ed è assai probabile che ricevano supporto dall’esterno sfruttando i porosi confini del paese arabo.

Di fatto, stando a testimoni e a numerose testimonianze disponibili in rete, girano armati di mitragliatrici pesanti e dispongono di esplosivi. Non è esattamente il corredo di dimostranti pacifici.

Ma per certi lacchè dell’imperialismo anche i peggiori tagliagole possono essere venduti così all’opinione pubblica. Come i “pacifici pastori” di cui sproloquiava Bettizza nei suoi servizi sull’Afghanistan negli anni ’80: erano i mujaheddin di Bin Laden!

Il ruolo degli islamisti influenzati dall’Arabia saudita è ormai abbastanza scoperto. E le relazioni diplomatiche tra la Siria ed il Qatar sono arrivate sulla soglia della rottura. Secondo il giornalista francese Thierry Meyssan della partita sarebbe anche un’organizzazione attiva in Asia centrale con base a Londra che è stata accusata di avere organizzato attentati nella valle di Ferghana (Hizb ut-Tahrir).

Ma nonostante le questioni poste anche in sede di Camera dei Comuni non è mai stata aperta nessuna inchiesta sul gruppo, molti dei cui membri lavorano per multinazionali anglo-americane⁷.

La paura della comunità cristiana siriana di essere annientata ha fatto filtrare la notizia della presenza massiccia di gruppi integralisti. Del resto era difficile nascondere i sanguinari appelli dell’ulema saudita Saleh El-Haidan che ha invitato ad uccidere un terzo dei siriani affinché i due terzi possano vivere⁸. La scomessa sullo scontro settario è il vero scenario su cui si gioca la crisi siriana.

Lo sforzo di delegittimare il Presidente Assad perché appartenente alla minoranza alawita e perché in politica estera avrebbe favorito l’ascesa degli sciiti nella regione (dall’Iran ad Hezbollah) è di per sé eloquente.

Un messaggio che traccia la linea sottile della divisione tra le confessioni religiose in cui si articola la nazione e soffia sul fuoco dell’odio additando a male assoluto un improbabile nemico interno.

Quanto possa essere efficace e dolorosa una strategia simile nel momento in cui un paese deve già affrontare crisi economiche è ben noto. Nella storia contemporanea si possono citare numerosi esempi.

E’ un messaggio che porta la firma dell’Arabia saudita in lotta contro la rivoluzione nel mondo arabo-islamico, sia essa laica nasseriana, baathista, comunista oppure islamica come fu quella di Khomeini. Riyad si erge a baluardo della reazione islamica.

Ecco perché gli ayatollah hanno espresso la loro preoccupazione per queste sommosse dicendo che esse mirano a invertire la tendenza aperta con la rivoluzione islamica iraniana del 1979 e alimentata dalle rivolte della primavera passata.

E’ in corso un tentativo di stabilire tramite il caos un riassetto del Medio Oriente funzionale agli interessi dell’imperialismo e dei suoi alleati locali. Gli Usa sfruttano la loro ampia esperienza nella strategia di frantumazione delle nazioni puntando su forze endogene disgregatrici. Bisogna avere coscienza che queste forze possono esistere e manifestarsi in qualsiasi paese.

Qualsiasi Stato-nazione è composto da elementi più o meno eterogenei e basta un momento di crisi e del volgare mercenariato politico per accendere la miccia. Ancora una volta gli Usa, paladini dell’Occidente, cantori dell’esportazione della democrazia o profeti dello scontro di civiltà a seconda delle convenienze propagandistiche, si alleano con i terroristi islamici contro un paese laico che è sempre stato un baluardo contro queste bande.

Il coinvolgimento occidentale non è nemmeno troppo nascosto, l’ambasciatore americano e quello francese avrebbero partecipato ad un’iniziativa degli oppositori ad Hama e per questo sarebbero stati cacciati da una chiesa da Mons. Khoury, vicario patriarcale della Chiesa Ortodossa⁹.

Ma come reagiranno le altre Potenze?

Uno scenario aperto

Dopo l’aggressione alla Libia Russia e Cina lasceranno avanzare nuovamente gli Usa in Medio oriente? Dopo ciò che è successo alla risoluzione dell’Onu riguardo all’imposizione del non sorvolo sui cieli libici potrebbe essere lecito dubitarne. In fondo gli occidentali hanno abusato spudoratamente di una minima concessione per fare tutto ciò che volevano.

Ma per la Cina la Libia non rappresentava un terreno su cui si giocava la sua sicurezza nazionale. Ancor meno la Siria. Pechino si troverebbe in prima fila solamente nel caso di un progettato attacco alla Corea del Nord, al Pakistan o, molto probabilmente, all’Iran.

Per la Russia è diverso. La Siria è lo storico alleato in Medio oriente e Mosca non dovrebbe correre il rischio di perderlo. E di perdere l’unica base che le resta nel Mediterraneo. Inoltre la caduta di Damasco lascerebbe esposto l’Iran e a questo punto la sfida diverrebbe vitale.

La strategia russa di vanificare le mire statunitensi, volte al monopolio delle fonti energetiche, funziona solo se tiene l’intesa con Teheran e se l’Asia centrale resta chiusa alla penetrazione Usa.

Ma senza una stretta concertazione tra Russia, Cina e Iran è impossibile. Ecco perché un’eventuale aggressione occidentale alla Siria (già minacciata) avvicinerebbe comunque il rischio di un confronto tra le Potenze.

Per il momento pare che Mosca stia arginando l’aggressività statunitense in sede ONU. Ma la situazione permane fluida, anche per i giochi di potere in corso a Mosca in vista delle prossime presidenziali.

Gli attori regionali più prevedibili sono la Repubblica islamica iraniana (storico alleato della Siria a dispetto della differenza del regime politico al potere nei due paesi), che difficilmente potrebbe assistere impotente ad un’aggressione Usa contro Damasco, e Israele, il nemico di vecchia data.

Voci insistenti parlano di una prossima guerra israeliana. Con la Siria assorbita a gestire una delicatissima crisi interna la tentazione di attaccare nuovamente il Libano per riprendersi la rivincita dopo la sconfitta del 2006 potrebbe essere forte per Tel Aviv. Esattamente come nel 1982.

Ma che probabilità ha Israele di vincere politicamente la partita libanese e stabilizzare a Beirut un regime satellite? Ammesso e non concesso che riesca a sbaragliare sul campo Hezbollah ed i suoi sempre più numerosi alleati. Per questo è contemporaneamente possibile ma difficile credere all’eventualità di un’altra guerra a breve.

L’incognita vera è la Turchia. E qui le domande superano di gran lunga i punti fermi. Ankara si era riavvicinata a Damasco ed era in progetto la realizzazione di uno spazio doganale comune. I turchi hanno tutto da perdere da un collasso siriano.

Eppure si parla di un loro coinvolgimento nel sostegno alla rivolta. Se ciò venisse confermato dovremmo interpretarlo come un nuovo capitolo dello scontro che oppone il vertice civile e politico della Turchia (l’Akp) alle forze armate tradizionalmente filo-atlantiche? O vi è dell’altro?

Quanto pesano le relazioni tra AKP e Fratellanza musulmana? Nella prima ipotesi andrebbero valutati attentamente gli incontri che i politici turchi hanno avuto con oppositori del regime siriano.

Cioè come un modo per stabilire un percorso di composizione del braccio di ferro prima che la situazione sfugga di mano a tutti. La Turchia cercherebbe cioè di limitare i danni. E’ un’ipotesi. Ma per il momento il rapporto tra Erdogan e Assad si è raffreddato.

Più probabile, ma non in totale alternativa all’ipotesi di cui sopra, è che la Turchia annaspi, aspetti il futuro svilupparsi degli eventi per non perdere il treno della sua scommessa politica sul ritorno ad un ruolo di punta nel mondo islamico.

Non a caso mentre la Siria fronteggia le forze della sedizione, Erdogan si reca al Cairo per imbastire una relazione proficua con il nuovo Egitto. O vi è anche, in questa visita, un po’ di diplomazia parallela, di partito per così dire?

E la rottura delle relazioni con Israele e la sospensione della collaborazione in campo militare tra i due pesi sono fatti da circoscrivere solamente al caso della Freedom Flotilla? La crisi siriana non c’entra proprio nulla? O si tratta di un messaggio esplicito a non fare il passo più lungo della gamba scatenando una nuova guerra nella regione approfittando del fatto che la Siria è posta sulla difensiva?

Sono domande destinate a restare, per ora, senza risposta. Nodi che solo lo svilupparsi degli eventi potrà sciogliere.

* Spartaco Alfredo Puttini, dottore in Storia, collaboratore di Eurasia dove ha pubblicato: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200), La zuffa per l’Africa (nr. 3/2009, pp. 169-178), La rivoluzione islamica dell’Iran (nr. 1/2010, pp. 249-262).

Note:

1. Si veda per tutti “La Repubblica” del 7 giugno 2011 (versione online) http://www.repubblica.it/esteri/2011/06/07/news/blogger_rapita-17345230/
2. Si veda “La Stampa”, 8 giugno 2011 (versione online) www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/406219/
3. Per un trattazione più esaustiva di questa storia mi permetto di rinviare a: S. Puttini, USA e Siria, storia di un antagonismo; in: “Eurasia”, n.2, 2007 pp.189-200
4. A. Crooke, Una spiegazione del paradosso siriano; in: www.megachip.it
5. N. Tarcha, I cristiani nella Siria in tempesta, tra ribelli armati, Assad e l’Occidente; in: www.megachip.it
6. Ibidem
7. T. Meyssan, La contre-rèvolution au Proche-orient; www.voltairenet.org
8. Ibidem
9. N. Tarcha, op. cit.


Siria, la porta strategica dell’Occidente per la supremazia militare globale

di Rick Rozoff - Global Research - 15 Novembre 2011
Traduzione di Alessandro Lattanzio

La Lega degli Stati Arabi (Lega Araba) ha sospeso la partecipazione della Siria all’organizzazione il 12 novembre, come fece con la Libia il 22 febbraio di quest’anno.

Nel caso della Libia, la cui appartenenza è stata reintegrata dopo che la NATO ha bombardato per mettere al potere i suoi ascari, alla fine di agosto, all’epoca gli Stati membri di Algeria e Siria si erano opposti all’azione, ma si piegarono al consenso sotto la pressione da parte di otto paesi arabi governati da famiglie reali – Bahrain, Giordania, Kuwait, Marocco, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, che a tutti gli effetti ora sono la Lega Araba, con gli altri membri formali, sia vittime dei recenti cambi di regime o sia probabilmente oggetto di un simile destino.

Con la replica delle mosse di febbraio, lo scorso fine settimana, Algeria, Libano e Yemen hanno votato contro la sospensione della Siria e l’Iraq si è astenuta attraverso una combinazione di opposizione di principio e d’interesse, essendo le quattro nazioni, i possibili prossimo stati ad essere sospesi dalle monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti) e della Giordania e del Marocco (questi ultimi due hanno recentemente chiesto di aderire, anche se non si affacciano sul Golfo Persico, e il Marocco è sull’Oceano Atlantico) come l’intesa tra USA-NATO e monarchie arabe dovrebbe richiedere.
Washington sta facendo pressione sul presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh affinché si dimetta, mentre gli si mostra cortesemente la porta di un piano ideato dal Gulf Cooperation Council (GCC), oltre a chiedere lo stesso al presidente siriano Bashar Assad.

Il GCC ha schierato truppe in Bahrain a marzo, in quel caso per sostenere il governo, quello della dinastia al-Khalifa.

Qatar ed Emirati Arabi Uniti hanno fornito aerei da guerra alla NATO e armi e personale delle forze speciali al Consiglio nazionale di transizione, per i 230 giorni di blocco e bombardamento della Libia, Marocco e Giordania si unirono ai due paesi del Golfo. al vertice di Parigi del 19 marzo, che lanciò la guerra contro la Libia.

Le quattro nazioni arabe sono strette alleate bilaterali militari del Pentagono, e membri dei programmi di partenariato della NATO, del Dialogo Mediterraneo nel caso della Giordania e del Marocco, dell’Iniziativa di Cooperazione di Istanbul con il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti (EAU). Giordania e Emirati Arabi Uniti sono ad oggi, le uniche ad aver inviato ufficialmente truppe arabe per contribuire all’International Security Assistance Force in Afghanistan della NATO.

Il 31 ottobre, undici giorni dopo l’assassinio dell’ex capo dello Stato libico Muammar Gheddafi, il Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, è volato a Tripoli e ha offerto i servizi dell0unico blocco militare mondiale alla ricostituzione delle forze militari e di sicurezza interna della nazione martoriata, come la NATO sta facendo in Iraq e in Afghanistan con le missioni di addestramento della NATO – in Afghanistan e in Iraq. Ricostruzione, trasformazione e modernizzazione delle forze armate della Libia, come quelle degli altri due paesi, per raggiungere gli standard e l’interoperabilità della NATO.

Una settimana dopo, Ivo Daalder, da lungo tempo sostenitore e architetto della NATO Globale [1], ora col potere di attuare i suoi piani come ambasciatore dell’amministrazione Obama nell’alleanza militare, ha offerto il complemento inevitabile all’offerta di Rasmussen, ribadendo che “la NATO è pronta, se richiesto dalle nuove autorità libiche, a valutare come poter aiutare le autorità libiche, in particolare nella riforma della difesa e della sicurezza”.

Secondo l’Agence France-Presse “Daalder ha detto anche che la Libia potrebbe rafforzare i suoi legami con l’alleanza transatlantica unendosi al Dialogo Mediterraneo della NATO, una partnership che comprende Marocco, Egitto, Tunisia, Algeria, Mauritania, Giordania e Israele”. (I nuovi regimi in Egitto e Tunisia stanno pienamente onorando i precedenti impegni militari con Stati Uniti e NATO.)

Lo scenario esatto su cui un articolo di Stop NATO mise in guardia il 25 marzo, sei giorni dopo che l’Africa Command degli Stati Uniti ha lanciato l’Operazione ‘Odissea all’Alba’ e l’inizio degli oltre sette mesi di guerra contro la Libia:
“Se l’attuale modello libico è duplicato in Siria, come sembra essere sempre più il caso, e con il Libano già bloccato dalle navi da guerra della NATO dal 2006, in quello che è il prototipo di ciò che la NATO presto replicherà al largo delle coste della Libia, il Mar Mediterraneo sarà interamente sotto il controllo della NATO e del suo membro di spicco, gli Stati Uniti. Cipro è il solo membro dell’Unione unica europea e in effetti l’unica nazione europea (ad eccezione dei microstati) che non è – per ora – membro o partner della NATO, e la Libia è l’unica nazione africana che si affaccia sul Mediterraneo a non essere un membro del programma di partnership Dialogo del Mediterraneo della NATO”. [2]

Se davvero la Siria diventasse la prossima Libia e un nuovo regime yemenita sarà installato sotto il controllo del Gulf Cooperation Council, le sole nazioni rimanenti nel vasto tratto di territorio conosciuto come Grande Medio Oriente, dalla Mauritania. sulla costa atlantica, al Kazakistan al confine cinese e russo, a non essere legate alla NATO attraverso partnership multinazionali e bilaterali, saranno Libano (vedi sopra), Eritrea, Iran e Sudan.

Gibuti ospita migliaia di soldati degli Stati Uniti e altri stati membri della NATO. La NATO ha trasportato migliaia di truppe ugandesi e burundesi per la guerra per procura nella capitale della Somalia, oltre a stabilire una testa di ponte nella regione del semi-autonomo/autonomo del Puntland, per l’implementazione dell’operazione navale Ocean Shield nel Golfo di Aden.

I sei paesi del GCC sono inclusi nell’Iniziativa per la cooperazione della NATO di Istanbul e le ex repubbliche sovietiche di Armenia, Azerbaigian, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan sono membri del Partenariato per la Pace, il programma utilizzato per assegnare a dodici paesi dell’Europa orientale la piena adesione alla NATO, nel 1999-2009. Armenia, Azerbaigian e Armenia hanno anche singoli Piani d’azione di partenariato con la NATO e la Georgia ha un programma speciale annuale, così come un collegamento con l’Alleanza nella capitale (NATO Contact Point Embassy.)

Nel 2006, il Kazakistan è diventata la prima nazione non-europea a beneficiare di un Piano d’azione di partenariato individuale. [3]

La NATO ha anche un ufficio di collegamento in Etiopia che assiste lo sviluppo della componente orientale della Forza di pronto intervento africana, sul modello della NATO Response Force globale.

Con la partnership nel Mediterraneo, Nord Africa e Golfo Persico, in collegamento con quelli dell’Europa centrale e meridionale (la NATO ha truppe nelle basi in Afghanistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan) e oltre che con l’India e le dieci nazioni dell’Associazione del Sud-Est asiatico [4], collegandosi con i Paese di Contatto, partner del blocco militare, Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud, gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali stanno stringendo una importante cintura, una falange armata della NATO, lungo l’intero emisfero settentrionale.

Un’asse militare a guida USA, che nel linguaggio dei leader occidentali usato in tutto il periodo post-guerra fredda, va da Vancouver a Vladivostok (procedendo verso est).

Tre anni fa Malta si unì al Partenariato per la Pace, aggiungendosi così alle basi della NATO in Sardegna, Sicilia, Creta, e alle basi a Cipro della Gran Bretagna, potendone utilizzare le piste per i jet da combattimento, i rifornimenti, i depositi di armi e gli attracchi, quali punti di partenza per l’aggressione militare in Africa e nel Medio Oriente.

Libano, Siria, Cipro e Libia sono gli unici paesi del Mediterraneo che attualmente non sono membri o partner della NATO, e gli Stati Uniti e i loro colleghi della NATO, hanno obiettivi su tutte e quattro.

La Libia, unendosi al Dialogo Mediterraneo, completerà la partnership con l’Alleanza in tutto il Nord Africa, dall’Egitto al Marocco, e inserirà la sua marina, ricostruita e reclutata dagli occidentali, nelle operazioni di sorveglianza marittima della NATO Active Endeavor e alle attività di interdizione per tutto il Mar Mediterraneo, operazione ora nel suo undicesimo anno.

Il governo della Siria non è il solo, ma è il principale e solo alleato affidabile dell’Iran, tra gli attori statali nel mondo arabo. La città portuale siriana di Tartus ospita la solo base navale della Russia nel Mediterraneo. Il cambio di regime a Damasco, se effettuata, spodesterà le marine russe e iraniane dal mare, eliminando le sole strutture di attracco amichevoli.

Le conseguenze dell’installazione di un governo filo-occidentale in Siria inciderebbero anche sul vicino Libano, dove Israele e i suoi protettori occidentali avrebbero mano libera per attaccare Hezbollah e le milizie del Partito Comunista, nel sud della nazione, e insieme con gli sforzi degli Stati Uniti per tacitare la sconfitta militare dello Stato.

Nel corso degli ultimi cinque anni, eliminando ogni opposizione al controllo occidentale del paese, militare e politico.

Ad agosto, il presidente palestinese Mahmoud Abbas fece una visita al Congresso USA affinchè “la sicurezza del futuro Stato palestinese sia consegnato alla NATO, sotto il comando americano”, secondo un aiutante citato dall’agenzia di stampa Ma’an. [5]

Poteva ben vedere la NATO e le truppe statunitensi di stanza nella sua nazione, ma non nei termini da lui voluti.

Nulla avviene isolatamente, e sicuramente non nell’età delle potenze occidentali, che impiegano espressioni come unica superpotenza militare al mondo e Global NATO, e portando avanti i progetti per la loro realizzazione. La Siria non fa eccezione.

Note:

1) 21st Century Strategy: Militarized Europe, Globalized NATO, Stop NATO, 26 Febbraio 2010

http://rickrozoff.wordpress.com/2010/02/26/21st-century-strategy-militarized-europe-globalized-nato/

West Plots To Supplant United Nations With Global NATO, Stop NATO, 27 maggio 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/29/154/
2) Libyan War And Control Of The Mediterranean, Stop NATO, 25 marzo 2011

http://rickrozoff.wordpress.com/2011/03/25/3973

3) Kazakhstan: US, NATO Seek Military Outpost Between Russia And China, Stop NATO, 14 Aprile 2010

4) India: US Completes Global Military Structure, Stop NATO, 10 settembre 2010
http://rickrozoff.wordpress.com/2010/09/10/india-us-completes-global-military-structure/ …
Southeast Asia: US Completing Asian NATO To Confront China, Stop NATO, 6 Novembre 2011

5) Abbas tells US lawmakers: NATO role in Palestinian state, Ma’an News Agency, 12 Agosto 2011 http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=412599

http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=27670



La sospensione della Siria della Lega Araba avvicina l'intervento militare
di Chris Marsden - www.countercurrents.org - 14 Novembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Il voto della Lega Araba per sospendere la Siria fa avvicinare la possibilità di un intervento militare esterno in quella che è di fatto una guerra civile.

La riunione tenuta al Cairo lo scorso sabato ha sancito che la Siria verrà sospesa dalla Lega Araba e che dovrà affrontare sanzioni se non dovesse porre fine alla repressine sui manifestanti anti-governativi.<

Diciotto nazioni si sono dette a favore della sospensione, che parte da mercoledì. Solo Siria, Libano e Yemen hanno votato contro, con l’Iraq che si è astenuto.

Decine di migliaia di persone hanno contestato questa decisione nelle piazze siriane di Damasco, Aleppo, Raqqa, Lattakia, Tartous, Hasaka e Sweida, e ci sono stati attacchi agli edifici consolari dell’Arabia Saudita, del Qatar e della Turchia.

In gran parte il sostegno popolare per il regime baathista di Bashir Assad a Damasco e in altre città, malgrado il suo carattere repressivo, è dovuto alla paura per l’alternativa, l’installazione di un regime islamista sunnita che perseguiterà gli alawiti, i cristiani e altre minoranze, e dal pericolo sempre più incombente di un intervento militare straniero.

La ragione principale per la sospensione della Siria dalla Lega Araba – una conta dei morti che ha superato i 3.500 – non ha alcuna credibilità.

Non solo molti dei regimi dispotici che hanno approvato la risoluzione stanno al momento esercitando una brutale soppressione dei propri popoli, l’ospitante Egitto compreso, ma sono anche direttamente coinvolte nell’armare e nell’organizzare il movimento di opposizione.

La sospensione richiama la decisione del 23 febbraio di sospendere la Libia dalla Lega Araba che ha facilitato l’appoggio della NATO per un’insurrezione focalizzata sul cambio di regime.

L’unica differenza apparente a questo punto è nel capire se Stati Uniti, Francia, Regno Unito e le altre grandi potenze lavoreranno più in disparte in questa occasione grazie a una procura data ai regimi regionali, come Turchia, Arabia Saudita ed Egitto.

In modo eloquente, l’Assistente del Segretario di Stato Jeffry Feltman ha partecipato alla riunione. Il primo ministro del Qatar e il ministro degli affari esteri, Hamad bin Jassem bin Jabr al Thani, è stato costretto a parlare dell’ovvio parallelismo tra Libia e Siria, affermando che “nessuno sta parlando di una no-fly zone. Ci sono persone che cercano di fare confusione.”

I portavoce siriani, Assad compreso, hanno ripetutamente insistito che il movimento di opposizione è fortemente sponsorizzato e armato da potenze straniere e lo ha fatto anche dopo il voto.

Il viceministro degli esteri siriano, Faisal al-Mikdad, ha affermato che i gruppi terroristi all’interno della Siria “vengono finanziati in modo non ufficiale da Turchia, Arabia Saudita, Libano e Giordania”. In risposta a quella che era una rivolta armata, ha detto, “la Siria ha perso più di 1.150 martiri dell’esercito e delle forze di sicurezza”.

Un numero di commentatori ha parlato apertamente di quello che stava avvenendo negli ultimi mesi dietro le scene, e che ha guidato e ispirato la decisione del Cairo. Ben Wedeman della CNN ha respinto l’ipotesi pretestuosa che i dirigenti arabi in riunione erano “dei convertiti al potere dei popoli. […] Se tanti anziani autocrati arabi temono la loro gente, temono anche l’Iran.”

Wedeman ha fatto una lista di una serie di iniziative di Washington che hanno rafforzato l’influenza di Iran nel Medio Oriente. Tra queste, l’allontanamento dei talebani in Afghanistan, che fanno parte di un movimento sunnita che si oppone duramente all’Iran sciita; la deposizione di Saddam Hussein in Iraq, l’ex potenza alternativa della regione, e la sua sostituzione con un governo pro-iraniano; e la disastrosa guerra di Israele contro Hezbollah in Libano.

Contro questo scenario, c’è la diminuzione indiscriminata del potere americano nel Medio Oriente”, ha avvisato. “Ben oltre gli aspetti regionali, l’economia statunitense, e quindi il suo peso politico, è in declino. [..] In sintesi, un grosso vuoto incombe sulla regione, e l’Iran potrebbe essere il principale beneficiario.”

Questo è il motivo per cui gli stati arabi possono essere a favore di un cambio di regime in Siria, il massimo alleato dell’Iran.

È anche importante per loro concorrere con la crescente influenza turca nel Medio Oriente. Il Consiglio Nazionale Siriano è stato istituito con gli auspici della Turchia, e il Libero Esercito Siriano, un gruppo esclusivamente sunnita che dice di avere tra i 10 e i 15mila membri, ha la sua base operativa in Turchia.

Il CNS ha due gruppi principali, la Dichiarazione di Damasco – dominata da pupazzi appoggiati dagli Stati Uniti – e la Fratellanza Musulmana. Turchia, Egitto e le altre potenze arabe competono per esercitare un’influenza sugli eventi tramite la Fratellanza, che si oppone al dialogo con il regime di Assad.

Non tutte le sue componenti sono a sostegno di un intervento militare straniero, ma molte altre lo sono, sotto forma di una richiesta di una “no-fly zone” sullo stile libico.

Ci sono anche vari gruppi salafiti vicini all’Arabia Saudita e al Qatar.

La decisione di sospendere la Siria è stata accompagnata per la prima volta dalla decisione di riconoscere il Consiglio Nazionale Siriano.

Scrivendo su Ha’aretz, Zvi Bar’el ha commentato: “Così facendo, la Lega Araba sta assumendo il ruolo di ‘produttore di regimi’, che agisce invece di reagire solamente.”

La decisione potrebbe aprire la porta a simili riconoscimenti da parte delle potenze occidentali, della Russia e anche di altre, riecheggiando gli eventi libici nel caso del Consiglio Nazionale di Transizione.

Il Guardian, il 4 di novembre, conteneva un analisi di Alastair Crooke, il diplomatico britannico, agente dell’MI6 e consulente principe dei governi europei e britannico: “Il cambio di regime in Siria è un risultato strategico che sopravanza la Libia.”

Ha parlato di una riunione di quest’estate, in cui un “esperto funzionario saudita” ha “detto a John Hannah, l’ex capo dello staff di Dick Cheney, che, dall’avvio delle sollevazioni in Siria, il re ha cominciato a credere che il cambio di regime sia di gran beneficio per gli interessi sauditi: ‘Il re sa che, oltre al collasso della stessa Repubblica Islamica, niente potrebbe indebolire l’Iran più del perdere la Siria.’

“Questo è il ‘grande gioco’ odierno, il perdere la Siria. E così viene realizzato: formando un frettoloso consiglio di transizione come unico rappresentante del popolo siriano, a prescindere dal fatto che abbia un reale sostegno in Siria; alimentando gli insorti dagli stati vicini; imponendo sanzioni che colpiranno la classe media; montare una campagna dei media per denigrare ogni iniziativa siriana per le riforme; cercando di istigare le divisioni all’interno dell’esercito e dell’élite; alla fine il Presidente Assad cadrà, è la convinzione degli iniziatori.”

L’intenzione, dopo la Libia, è di plasmare “il risveglio arabo verso un paradigma culturale occidentale,” ha affermato. I progetti ipotetici per un cambio di regime “sono diventati azione concreta solo in quest’anno, con il rovesciamento del presidente egiziano Mubarak. Improvvisamente Israele è sembrata vulnerabile, e una Siria indebolita, immersa nei guai, ha assunto un valore strategico. In parallelo, il Qatar è venuto alla ribalta. Azmi Bishara, un pan-arabista che si è dimesso dalla Knesset israeliana e che ha deciso di andare in esilio a Doha, si è detto d’accordo con alcuni report locali che fanno parte di uno schema in cui al-Jazeera non solo darà notizia della rivoluzione, ma la esemplificherà nella regione. […] Il Qatar [era] direttamente coinvolto come il patrocinatore chiave delle operazioni dell’opposizione.”

Crooke, che è nella posizione per poter sapere, afferma che, dopo essersi assicurati l’accordo del presidente Nicolas Sarkozy per il cambio di regime siriano, “Barack Obama ha dato il suo contributo, cercando di persuadere il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan – già in cattivi rapporti con Assad – di fare la parte del consiglio di transizione sul confine siriano, e di dare la propria legittimazione alla ‘resistenza.”

Mentre molti commentatori come Bar’el riconoscono che la decisione della Lega Araba potrebbe “spianare la strada a un’offensiva militare in Siria, simile a quella avvenuta in Libia” e “che potrebbe anche implicare un tentativo di attaccare l’Iran”, molti rigettano la possibilità per i timori per un’eventuale conflitto regionale allargato.

Un tale ragionamento apparentemente “logico” è inconsistente. Nella politica imperialista, se un qualcosa è “troppo orribile per essere contemplato” non significa che non accadrà.

L’amministrazione Obama è preoccupata come Wedeman della CNN della posizione globale in declino degli Stati Uniti, e per questo l’innalzamento della sua interferenza militare e politica in Medio Oriente, sia per contrastare che per modellare la “Primavera Araba”, rientra tra gli interessi prioritari.

Il cambio di regime in Libia è stata la mossa iniziale di uno sforzo continuo per assicurarsi il controllo delle ricchezze petrolifere del Medio Oriente e della regione dell’Asia Centrale, una preda che le potenze imperialiste perseguiranno anche a costo di un indicibile bagno di sangue.