mercoledì 7 dicembre 2011

Update italiota

Il pranzo preparato da Monti sta per essere servito agli italioti che dovranno ingurgitare senza fiatare una serie di pietanze diverse nella forma ma accomunate dall'unico ingrediente presente: la merda.

Il tutto condito poi con una fresca vasellina da usare nella parte ad hoc onde facilitare la digestione...



Il padrone del vapore
di Mariavittoria Orsolato - Altrenotizie - 5 Dicembre 2011

Ce l’ha messa tutta Mario Monti in conferenza stampa. Prima di presentare ufficialmente quella che si era annunciata come LA manovra lacrime e sangue, il premier ha deciso di rivolgersi agli italiani per spiegare in toni paternalistici le grandi linee delle misure che a breve saranno imposte per decreto.

L’incedere lento, a tratti ipnotico, del professor Monti probabilmente mirava ad un effetto tranquillizzante sugli astanti ma quanto detto a seguito del Consiglio dei Ministri più che un discorso da “padre della nazione” ha finito per risultare l’affermazione di un “padrone del vapore”.

Partito con uno statement che più populista non si può - “rinuncio allo stipendio di Presidente del Consiglio e di Ministro dell’Economia” - Monti ha poi snocciolato una ad una le massime del neoliberismo alla Milton Friedman, spacciandole per taumaturgiche pozioni in grado di ridare respiro ai conti pubblici e con un non meglio specificato criterio di equità sociale.

Concorrenza, liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità, sacrificio: queste le parole ricorrenti con cui la squadra di Monti ci ha imboccato durante la conferenza stampa.

Sull’ultima di queste c’è persino scappato il pianto del Ministro del Welfare Elsa Fornero che, o perché colta da un attacco di pietas verso i poveri vecchietti o perché abilmente conscia della sua arma di distrazione, è scoppiata in lacrime nell’annunciare il blocco della scala mobile sulle pensioni.

Questa e altre misure di austerity che verranno commentate da più esperti “esperti” una volta reso pubblico il testo completo, verranno a breve calate dall’alto tramite il meccanismo del decreto legge, tanto deprecato durante l’era Berlusconi in quanto lesivo del dibattito parlamentare ed ora rivalutato in funzione della consolatoria quanto effimera logica del male minore.

La “tecnocrazia” propugnata da Monti e dai suoi specialisti non può infatti lasciare sufficiente respiro ad una vera concertazione e deve limitarsi ad eseguire i dettami - ufficialmente patriottici, ufficiosamente europei - che il mercato, inteso ormai come ecosistema, ordina e impone.

Gli incontri con le parti sociali e le forze politiche sono infatti avvenuti nel momento in cui il testo della manovra era già stato deciso e messo per iscritto e c’è voluta una polemica a mezzo stampa per far sì che la spiegazione di queste cruciali misure non avvenisse direttamente nel salotto di Bruno Vespa.

Da questo primo sguardo, il supergoverno Monti non sembra il Direttorio che gli sguardi entusiasti ci avevano dipinto all’indomani della fine dell’era Berlusconiana: un gran consiglio imbelle a livello politico ma abilissimo nel risanare le casse pubbliche secondo le ricette stranote e perdenti.

Mario Monti risulta autoreferenziale, sicuro delle sue scelte perché competente e assolutamente restio a confrontarsi con un idea di azione diversa dalla dottrina economica studiata nei libri di testo della Bocconi.

Chiudendosi al dialogo e rimanendo ancorata saldamente ai dettami dell’Unione Europea - o meglio dell’ipoteca tedesca sulla BCE - la nuova squadra di governo non ha fatto altro che imbellettare la causa di questa crisi economica e sociale per rivendercela come unica e auspicabile soluzione.

Nonostante si dimostri snobisticamente disinteressato alla politica, questo esecutivo ha di fatto optato per una politica di destra che non intacca lo status quo ma che, anzi, punta a conservarlo a scapito di quell’equità tanto sbandierata, ma disattesa del tutto dinanzi a quella stessa società cui si chiede di tirare la cinghia, di adattarsi, di sacrificarsi.

La titubanza, l’imbarazzo quasi, con cui Monti si è espresso nell’iniziale “monologo con i cittadini” denota se non altro la candida impreparazione dell’attuale premier a mentire consapevolmente di fronte al grande pubblico.

Nei 10 minuti del suo primo vero discorso alla nazione, il professore ha però comunque perseguito la captatio benevolentiae secondo canoni assolutamente politici. Come ha sottolineato il blogger Jumpinshark: “In più passi si percepiva come Monti stesse cercando l'eufemismo massiccio (l'opera dei passati governi), la benevolenza verso il pubblico (gli ammortizzatori sociali), la difesa a catenaccio (l'Europa ce lo chiede), l'enfasi trinciatutto (il risorgere dell'Italia) dentro i quali formare il proprio pensiero”.

Una prestazione di certo diversa nei toni - essere morigerati è un altro degli obblighi imposti dal “nuovo corso” - ma non del tutto dissimile negli intenti di depauperamento fino ad oggi previsti per una larga fetta degli italiani, giovani in primis.

Si parla ancora di aiuti alle famiglie (per i single o le coppie di fatto nessuna menzione), di aumenti minimi delle imposte sui patrimoni al rientro dai paradisi fiscali (dal già striminzito 5% al ridicolo 6,5%), di liberalizzazione delle professioni in nome di una concorrenza che in quanto libera sarà deregolamentata.

E a voler essere maliziosi viene da pensare che se Berlusconi è stato defenestrato non è perché avrebbe fatto macelleria sociale, ma perché ne avrebbe fatta troppo poca e, soprattutto, con stile deprecabile.

L’inevitabile sensazione dunque è che si sia persa, per l’ennesima volta, una preziosa occasione storica: esaurito (forse) il ventennio berlusconiano, l’Italia poteva scegliere di cambiare rotta, di sterzare verso un modello socioeconomico differente, ma il padrone del vapore ha deciso che è meglio virare solo di 30°, sperando di non urtare l’iceberg. E, meno che mai, gli interessi che lo sostengono.



Monti, la manovra della depressione
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 8 Dicembre 2011

Non ci si sono molti margini, dice Monti nel salotto ruffiano della tv, per modificare la manovra. E’ forse l’unica verità che abbiamo sentito in questi giorni, dal momento che alterarla nella sostanza, fosse pure per alcuni capitoli, implicherebbe il venir meno della ratio politica della stessa.

Che si fonda su una lettura della crisi e di come uscirne tutta a vantaggio dei poteri forti a favore dei quali il governo Monti lavora.

Una manovra, quella orchestrata, che definire iniqua è un eufemismo, visto che toglie diritti e salvaguarda privilegi. Non fatta, come dice il professore, per salvare l’Italia, ma per ristrutturarla in favore delle nuove necessità di chi comanda.

Preliminarmente va detta una cosa: i facili entusiasmi che si sono scatenati per la riduzione dello spread, andrebbero attribuiti a tre aspetti, dei quali solo uno oggetto della manovra, cioè quello nella quale lo Stato s’impegna a garantire le esposizioni bancarie, prova ne sia che la giornata felice di borsa di martedì ha visto proprio i titoli bancari trainare la volata).

Del resto, è chiaro che la protezione del sistema bancario è necessaria per impedire il crollo dei fidi e della liquidità su cui si reggono le economie di famiglie e imprese.

Ma gli elementi decisivi per la ripresa borsistica sono stati la minaccia di S&P di declassare tutta l’eurozona, comprese Germania e Francia (e, quindi, con un implicito riconoscimento di un eccesso di differenziale nei confronti dei nostri titoli) e con le voci sempre più insistenti delle modifiche al trattato Ue in ordine alle prerogative della BCE che la Merkel si prepara ad accettare. Altro che la ragioneria di Monti.

La cui manovra, comunque, diversamente da altre ordinarie, si compone di due elementi forti: l’intervento immediato, destinato a fare cassa, e quello - molto più importante - di tipo strutturale, destinato cioè alla rimessa in carreggiata dei conti pubblici.

Per la prima parte si è proceduto all’aumento vertiginoso di ogni tipo d’imposta, unitamente ai tagli su sanità e trasporti; aumenti enormi sui carburanti e dell’Iva che genereranno un’impennata dei prezzi di prodotti e servizi, cui si somma un’imposta sulla casa che non prevede esenzioni nemmeno per la casa di proprietà e nemmeno nel caso in cui, oltre ad essere l’unica casa, sia già indirettamente tassata dagli interessi passivi del mutuo in corso.

La mancata indicizzazione delle pensioni è poi il colpo di grazia a milioni di anziani. Il risultato sarà un aumento generale dell’impoverimento del paese che condurrà dritti verso la depressione economica.

Proviamo a vedere, pur sommariamente e solo parzialmente, cosa si poteva fare e si è scelto di non fare per l’intervento immediato. Si poteva cominciare da una legge patrimoniale tarata sull’aliquota francese (10% di tassazione); proseguire con un’asta per le frequenze televisive (cifra minima stimata 3,5 miliardi) come già avvenuto per le frequenze in concessione ai gestori della telefonia; rivedere il contratto per la fornitura dei nuovi F35 per l’aviazione militare (15 miliardi solo nel 2012) per un aereo già considerato sorpassato dall’omologo russo Sukoy; prevedere l’estensione dell’ICI agli immobili vaticani destinati a fini commerciali (1 miliardo la stima minima); decidere il blocco delle spese per la Tav (8 miliardi per 80 km inutili); decretare la tassazione al 20% dei capitali scudati (8 miliardi); abolire il 50% delle auto blu (2,5 miliardi annui).

Se dunque si volevano rastrellare i 22 miliardi della manovra 2012-2013 non era difficile evitare di toccare diritti, almeno da un punto di vista contabile. E molto, ma davvero molto, si potrebbe ancora tagliare, a cominciare dagli sprechi, per razionalizzare e ridurre, ancorché ottimizzare, la spesa pubblica.

Ma dal momento che il taglio della manovra è soprattutto politico e non contabile, si è voluto inviare un segnale chiaro ai mercati europei e d’oltre oceano nel segno dell’affidabilità, cioè dell’attrattività del sistema Italia per chi vuole allegramente continuare a speculare sui titoli e individuare terreni di caccia nella privatizzazione dei servizi pubblici.

Se si passa gli interventi strutturali, quelli cioè destinati a innescare un’inversione di tendenza a lungo termine del rapporto sbilanciato tra Pil e debito, l’essenza della manovra è stata quella di abolire le pensioni d’anzianità, portare l’età lavorativa delle donne al pari di quella degli uomini (ma le donne svolgono anche il lavoro di cura) e innalzare fino a settant’anni l’età pensionabile, in un contesto nel quale la disoccupazione generale è arrivata ai massimi storici e per i giovani al sud tocca punte del 50%.

Insomma una politica che prevede, per il risanamento dei conti, la riduzione ai minimi termini del welfare piuttosto che l’allargamento dei diritti di cittadinanza.

Non è solo contabilità pelosa: è il frutto di una lettura sistemica (e di classe) sull’organizzazione sociale ed economica di un paese e porta con sé una concezione della democrazia come governo delle elites (di cui i tecnocrati sono parte importante) e non del popolo. Ovvio quindi che i sindacati non siano ascoltati: se il popolo non conta, cosa vuoi che conti chi lo rappresenta?

Sempre in tema di manovra strutturale, nessun cenno alle politiche di sostegno alla crescita, mentre l’equità è destinata a fare la fine delle pensioni d’anzianità. Nemmeno una norma d’igiene politica, come quella di assegnare i fondi alle imprese solo con vincoli occupazionali.

Eppure, pur senza proporre concezioni socialiste dell’economia, pur senza voler negare l’inserimento del paese in un sistema internazionale che non prevede uscite uniche e rapide, si poteva certamente proporre ben altro cammino. Spostare parzialmente il peso della fiscalità dal lavoro alle rendite e ai patrimoni sarebbe stata la linea giusta.

Per il sistema pensionistico sarebbe necessario la riforma che veda la separazione netta tra previdenza e assistenza: la seconda si dovrebbe pagare con il fondo nazionale per l’assistenza, in carico alla fiscalità generale, la prima con i contributi degli occupati. Una norma semplice, che solo in Italia è difficile concepire. Ma non sarebbe la sola possibile.

Senza volerci qui dilungare sulle medicine meno amare e, soprattutto, più efficaci, è solo il caso di evidenziare il bisogno di un’altra politica economica che però davvero non può offrirci un governo i cui molteplici conflitti d’interessi, amplificati dalla presenza diretta dei rappresentanti degli stessi, superano ogni precedente.

Per fare alcuni esempi, del resto, sarebbe stato bizzarro che il generale De Paola, che svolse un ruolo importante per l’acquisto dei nuovi F35, oggi avesse proposto la sua rinegoziazione; che il banchiere Passera, che della capacità di dirigere i profitti sugli azionisti e le perdite sullo Stato è esperto, avesse proposto un decreto per separare i destini delle banche d’affari da quelle d’interesse pubblico; o che i probi e cattolicissimi professori avessero proposto la fine dei privilegi vaticani che così tanto costano a tutti i contribuenti.

Servirebbe quindi un altro governo per un’altra politica. Idee e gambe per invertire la rotta, per riportare alla realtà economica un paese che ha sì 1900 miliardi di debito ma che dispone di quasi 9000 miliardi di ricchezza tra i suoi cittadini.

Chi l’ha detto che il destino obbligato è il default o la crisi perenne? In fondo, per bilanciare il rapporto tra entrate e uscite, ci sono solo due strade: o si aumentano le entrate, o si riducono le uscite.

Nel primo caso si deve lavorare all’allargamento della platea contributiva, cioè a maggior numero di occupati e, quindi, al ricorso di politiche attive per il lavoro anche grazie alle incentivazioni fiscali per le imprese. In secondo luogo si deve andare, con la forza, a recuperare i 260 miliardi di euro di evasione fiscale e contributiva.

Le maggiori entrate alla fiscalità generale darebbero migliore rapporto con i costi, garantirebbero meglio la tenuta del patto generazionale tra chi lavora e versa e chi percepisce la pensione dopo aver versato per una vita e il maggiore potere d’acquisto dei salari incrementerebbe la domanda interna, volano principale di ogni economia.

Perché tra le tante anomalie italiane, la più decisiva è proprio quella dell’evasione fiscale. Se sconfitta, o anche solo ridotta a quota fisiologica, il bilancio dello stato da passivo diventerebbe attivo e ci sarebbero le risorse sufficienti per finanziare un welfare riformato e aggiornato.

Ebbene, la lotta acerrima contro l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, che sottrae alla fiscalità generale risorse pari a tre volte l’intero PIL, pare sia disdegnata da Monti, mentre addirittura scartata è la possibilità di un’imposta patrimoniale.

Per la prima sarebbe necessaria una legislazione apposita, fatta di pochi articoli ma inequivocabili, che prevedessero il carcere duro e di lunga durata per il reato di evasione e la cancellazione dall’Albo e l’arresto per gli studi tributaristi che concorressero a dichiarare il falso.

Un’azione repressiva netta, che impiegasse risorse importanti per la caccia all’evasione, sarebbe il miglior investimento strutturale per l’Italia e la sua economia, oltre che la sua etica. Non c’è bisogno d’ispirarsi alla Rivoluzione d’Ottobre, basta copiare integralmente le norme statunitensi.

Quanto alla patrimoniale, dice il professore che è difficile individuare i proprietari dei patrimoni e che, pur riuscendoci, non sarebbe il caso di perseguirli, perché fuggirebbero pur di non pagare determinando così fuga di capitali.

Ah si? Fuggirebbero? E per andare dove? In Europa dove sono tassati duramente? E come mai i patrimoni francesi, nonostante il 10% di aliquota non scappano? Forse perché ci sono i mandati di cattura internazionali, le rogatorie internazionali e i sequestri dei beni? E di quale fuga di capitali si parla, nel caso? Quella di capitali immobili e non investiti?

Serviva offrire un messaggio diverso, al paese e all’estero. Davanti ad una crisi epocale, questa sì di sistema, dove il turbo capitalismo dimostra un bisogno di accumulazione originaria ogni giorno più vorace e socialmente più escludente, che fa della finanziarizzazione dell’economia e della guerra al lavoro la cifra essenziale del suo sviluppo, ci si poteva almeno attendere un’idea diversa da quella della mera salvaguardia dei suoi fallimenti e di continuità nelle scelte.

Anche a voler comunque governare l’emergenza sui mercati, si potevano concepire manovre brusche di messa in sicurezza dalla speculazione, invece di accarezzargli il pelo. Lo farà probabilmente l'Europa e noi ci accodremo, nostro malgrado.

Detto con franchezza, non c’era bisogno di professori bocconiani per un’opeazione che anche un ragioniere diplomato al Cepu è in grado di realizzare: tagliare con la falce il bilancio pubblico è operazione semplicissima se non si risente né di cultura politica democratica, né di dover rappresentare la maggioranza degli italiani.

Che però, prima o poi, torneranno alle urne e, c’è da scommetterci, ricorderanno nomi, cognomi e sigle di chi ha votato in Parlamento la macelleria sociale che disegna i nuovi parametri su cui si erige la nuova e ancora più ingiusta Italia.


Decreto Monti: volontà di distruzione e lacrime di coccodrillo

di Marco della Luna - http://marcodellaluna.info - 5 Dicembre 2011

Indimenticabili, le lacrime di coccodrillo della ministra Fornero che annuncia l’infame blocco dell’adeguamento delle misere pensioni (adeguamento già più che dimezzato, rispetto alla reale dinamica del caro vita) mentre il governo non tocca la Casta, né i grandi sprechi e gli stipendi parassitari, né i privilegi fiscali delle proprietà ed attività commerciali degli enti “religiosi”, che ci costano 8 miliardi l’anno, oltre a permettere una forte concorrenza sleale soprattutto in campo alberghiero.

Ma abbiamo scoperto ben altro, sulla strategia distruttiva del governo dei banchieri: abbiamo la confessione di un intento, di un vero piano anti-sociale di coercizione oligarchica sulle nazioni. E proprio per bocca del Monti.

Vi raccomando molto di visionare l’intervista a questo link, in cui Mario Monti sostiene che “abbiamo bisogno delle crisi” e delle angosce collettive da esse causate, per far accettare ai popoli e alla politica le riforme che dall’alto si è deciso di imporre – che il cartello monopolista della moneta e del credito ha deciso di imporre:

http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=1b190309063811a

Guardate anche la versione completa dell’intervista, che compare dopo quella breve.

E’ la perfetta conferma di quanto esposto nel libro mio e di Paolo Cioni Neuroschiavi, sulla manipolazione mentale collettiva e individuale.

In una situazione di generale illiquidità e di recessione (insolvenza, disinvestimenti, disoccupazione etc.), la manovra di Monti è selettivamente mirata a produrre un aggravamento di questa illiquidità (v. anche gli articoli di P. Krugman), quando al contrario il sistema economico ha disperato bisogno di iniezioni di liquidità mirate all’attivazione dei fattori di produzione e del consumo. Monti fa il salasso a un paziente che agonizza per anemia.

Mentre le misure per lo sviluppo sono semplicemente derisorie e vergognose, i tagli alle pensioni e l’aumento dell’Iva colpiscono la domanda interna, assieme al nuovo redditometro che disincentiva gli acquisti di molti articoli non di lusso e di servizi come l’istruzione.

Le nuove tasse sugli immobili ( aumento del 60% del moltiplicatore dei valori catastali, aumento delle aliquote ici, ici sulla prima casa), tagliano le gambe all’edilizia, che è il settore economico che innesca le riprese generali dell’economia – quando cresce – e pure le recessioni – quando cala.

Attualmente questo settore è in gravissima crisi. Il siluro del governo Monti, quindi, previene la ripresa e stabilizza il trend depressivo.

Quelli sinora adottati sono interventi scientificamente mirati a produrre una stabile depressione e un drammatico avvitamento fiscale. Monti agisce mettendo toppe alla finanza pubblica a spese dell’economia reale, che viene sempre più sgretolata.

Salva le apparenze a spese della sostanza. Adesso avremo, nel brevissimo termine, un plauso dell’”Europa” e di chi muove le asticelle degli spread – la medesima mano che ha messo lì il Monti in Italia e il Papademos in Grecia, e altri altrove.

Ma presto la recessione, la disoccupazione, la moria di imprese, il credit crunch, il declino industriale, le tensioni sociali, si faranno sentire in modo insostenibile.

Nel parlamento dei nominati, per assicurare la legittimazione parlamentare, il voto di fiducia dei partiti a questo governo dei banchieri mai eletto e a questo leader mai scelto dal popolo, quindi esposto a contestazioni di non-democraticità e non-rappresentatività, basta riempire alla partitocrazia la greppia della spesa pubblica coi soldi delle nuove tasse spremute ai cittadini. E rispettarne privilegi e prebende. Anche Berlusconi col suo PDL ha convenienza ad allinearsi, se non vuole esporre le aziende di famiglia a rischi più che ovvi.

Oggettivamente, dunque, l’obiettivo del governo dei banchieri pare sia produrre, certo non solo in Italia, una grave e durevole depressione, in linea con quanto Monti spiega nel filmato linkato sopra, ossia che bisogna spaventare la gente per renderla malleabile e remissiva alle riforme decise dall’alto: è la shock—and – awe policy, la shock economy di Naomi Klein.

Diversi sono gli scopi possibili di questa strategia:

-svalutare gli asset per poterne fare incetta a costi stracciati col denaro prodotto da banche centrali e dark pool (il circuito delle grandi banche mondiali che controllano anche la Fed e che ha lasciato recentemente a secco le banche italiane, come strumento di pressione o meglio coercizione politica);

-impadronirsi di tutto il reddito disponibile;

-rendere la popolazione docile e sottomessa;

-piegarla a un nuovo assetto politico, fiscale, sociale, con cessione della gestione del bilancio e del fisco a organismi europei a guida tecno-tedesca (Italia colonia);

-indurre un calo forte, rapido e costante dei consumi, quindi dell’inquinamento e dello sfruttamento della materie prime, per proteggere la biosfera e prevenire un imminente tracollo ecologico.


La BCE deve agire

Intervista a Vladimiro Giacchè da www.sinistrainrete.info - 5 Dicembre 2011

Secondo la tesi prevalente nelle istituzioni europee per uscire dalla crisi del Inserisci linkdebito sovrano in Europa sono essenziali rigorose manovre di austerity. E’ vero?

No. “Il momento giusto per effettuare manovre di austerity sono i periodi di espansione, non quelli di recessione”. Queste parole di buon senso, scritte da John Maynard Keynes nel 1937, sono valide ancora oggi. Le manovre di austerity hanno adesso, come unico effetto certo, quello di deprimere la domanda e dunque di rallentare la crescita del prodotto interno lordo o addirittura di portarlo in negativo. E quindi quello di peggiorare il rapporto debito/pil. È la lezione della Grecia, che dopo misure draconiane ha visto crescere il rapporto debito/pil di oltre il 20% in un solo anno.

Il Fondo Europeo salva Stati può essere la soluzione?

No. Sono gli stessi ritardi nell’approntare questo Fondo che lo rendono ormai del tutto inservibile. Avrebbe potuto funzionare quando in crisi era soltanto la Grecia, ma ormai la sua dimensione (440 miliardi di euro) è insufficiente per coprire i vari fronti di crisi, e lo sarebbe anche una dotazione molto superiore. Oltretutto il Fondo, essendo finanziato dagli stessi Stati europei, finisce per rappresentare una gigantesca partita di giro.

Gli Eurobond possono essere la soluzione?

Gli Eurobond sono titoli di Stato emessi a livello europeo e garantiti congiuntamente dai diversi paesi che fanno parte della zona dell’euro. Quindi essi avrebbero un rating (ossia un merito di credito) superiore a quello degli Stati in difficoltà, e di conseguenza potrebbero rendere meno oneroso il servizio del debito (ossia il pagamento degli interessi) per gli Stati in crisi.

Di fatto con questo strumento i paesi più forti metterebbero al servizio di quelli più deboli il proprio merito di credito. Ma è proprio questo che non piace al governo tedesco (l’opposizione socialdemocratica è invece favorevole). Allo stato attuale è comunque dubbio che questa misura, da sola, sarebbe in grado di risolvere i problemi.

Sarebbe utile un abbassamento dei tassi di interesse da parte della BCE?

La Bce di Trichet ha fatto un grave errore alzando i tassi di interesse a marzo e poi ancora a luglio 2011, perché ha inasprito la politica monetaria in una situazione già molto difficile (lo stesso errore era stato fatto nel 2008, alla vigilia del fallimento di Lehman Brothers). Draghi ha in parte rimediato all’errore abbassando i tassi d’interesse di un quarto di punto, e non è escluso che a breve possa riportarli al livello a cui erano sino a marzo, ossia all’1%. Ma il primo ribasso dei tassi d’interesse non ha modificato granché la situazione, e non c’è motivo di credere che in caso di ulteriore taglio le cose andrebbero in modo diverso.

Se la BCE diventasse prestatore di ultima istanza potrebbe bloccare l’impennata dei rendimenti dei titoli di Stato?

Sì. Se la BCE dichiarasse di voler comprare illimitatamente titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona, e operasse di conseguenza (se necessario stampando moneta per finanziare questi acquisti, ossia “monetizzando il debito”), la corsa apparentemente inarrestabile dei rendimenti dei titoli di Stato si fermerebbe in pochi giorni. Questo perché nessun grande investitore potrebbe sensatamente scommettere al ribasso in una situazione in cui la Banca Centrale Europea fosse disponibile a comprare illimitatamente titoli, cioè a fare da prestatore di ultima istanza.


Si tratterebbe di un'azione inconsueta per una Banca Centrale?

No. È quanto fanno da anni la Banca del Giappone, la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra. Non a caso, mentre la BCE ha in portafoglio appena il 3% dei titoli di Stato europei, la Fed ha in portafoglio il 13% dei titoli di Stato USA, e la Banca d’Inghilterra addirittura il 20% dei titoli di Stato britannici. Il risultato è che i rendimenti dei titoli di Stato USA sono bassissimi, e che i rendimenti dei titoli di Stato inglesi – nonostante la posizione finanziaria a dir poco precaria di questo paese – sono addirittura inferiori a quelli pagati dalla Germania per i suoi Bund.

Non ci sarebbe il rischio di scatenare l’inflazione?

No. In questi anni la Fed ha acquistato qualcosa oltre 1.600 miliardi di titoli di Stato USA senza alcuna conseguenza in termini di inflazione. Il vero rischio che corrono le economie del continente è quello della deflazione. E una moderata dose di inflazione sarebbe utile, perché consentirebbe di tagliare il valore reale del debito pubblico, alleggerendone il peso. Un’altra possibile conseguenza sarebbe una svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro e delle altre valute, ma l’euro è sopravvalutato rispetto al dollaro dal 2004, e una moderata svalutazione rilancerebbe le esportazioni europee.

Se le cose stanno in questi termini, perché sinora la Bce non ha voluto diventare il prestatore di ultima istanza dell’Eurozona?

Perché lo Statuto della BCE le attribuisce unicamente il compito di mantenere la stabilità dei prezzi (evitare l’inflazione). E anche perché la Germania e altri paesi temono che questa soluzione possa viziare i paesi indebitati, incentivandoli a non mettere ordine nei loro conti (mentre le manovre di austerity che si succedono vengono subito vanificate proprio dall’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato provocati dalla speculazione).

Il risultato è che una crisi di liquidità si sta trasformando in crisi di solvibilità (perché l’aumento degli interessi sul debito finisce per renderlo ingestibile), conducendo numerosi paesi verso il default e verso fallimenti bancari a catena, e l’euro sull’orlo del crollo. Con il rischio concreto di innescare un effetto domino mondiale stile anni Trenta.


Temi di saldi al discount Italia?

di Gianadrea Gaiani - http://cca.analisidifesa.it - 5 Dicembre 2011

Per decenni l’Italia è stata un Paese a “sovranità limitata” con una politica estera e di Difesa coordinata e in molti casi imposta dai nostri principali alleati e soprattutto dagli statunitensi. Dal dopoguerra non era però mai successo che il nostro Paese si trovasse guidato da un “governo d’occupazione” che rispondesse direttamente alle “potenze occupanti” come accade oggi con il cosiddetto governo tecnico imposto dai franco-tedeschi e dalla nomenklatura della Ue e messo insieme dal Quirinale consultandosi anche con la Casa Bianca che ha suggerito i ministri di Esteri e Difesa.

Due figure di sicura fede atlantista come l’ambasciatore a Washington Giulio Terzi e il chairman del Comitato Militare della Nato, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola.

Uomini idonei a garantire che l’Italia resterà un fedele alleato dell’America e manterrà i suoi impegni militari in Afghanistan. Nella sua prima audizione in Parlamento, Di Paola ha infatti confermato questo impegno mentre il titolare della Farnesina (ormai un mito per la stampa italiana perché usa Twitter) ha esordito sulla crisi iraniana dichiarando che "l'Italia sostiene con piena convinzione il piano di sanzioni economiche nei confronti dell'Iran annunciato dall'Amministrazione statunitense".

Più appiattiti di così! Dopo l’attacco all’ambasciata britannica a Teheran, Terzi ha ritirato il nostro ambasciatore nonostante sul piano commerciale l’Italia abbia molti interessi in Iran. Nel timore di apparire poco filo-americano si è poi recato in Turchia a perorare la causa dell’ingresso di Ankara nella Ue, come chiedono da tempo gli Usa.

Posizioni che ci auguriamo siano state negoziate in cambio di robuste contropartite ma che temiamo costituiscono un pedaggio obbligato e gratuito nei confronti delle potenze occupanti. A Washington saranno certo soddisfatti ma per ora Terzi assomiglia più a un sottosegretario di Hillary Clinton che a un ministro italiano.

Del resto Obama non ne poteva più di Silvio Berlusconi che aveva avuto (forse l’unica iniziativa degna di nota del suo governo) l’ardire di sviluppare una politica energetica e strategica con la Russia di Putin e la Libia di Gheddafi che ci garantiva ampia autonomia, forse troppa per i nostri “tutori”.

Sia chiaro, la classe politica è indifendibile e la sua colpa più grave non è solo di aver consentito questa nuova forma d’invasione straniera ma di esserne in qualche modo complice.

Le opposizioni e parte della stessa ex maggioranza non hanno fatto altro che ripetere che l’Europa (parola pronunciata sempre con tono solenne, come faceva Romano Prodi) e “i mercati” volevano le dimissioni di Silvio Berlusconi.

Nessuno che abbia avuto il coraggio di affermare che i governi italiani vengono fatti cadere dagli elettori italiani, non dalle banche, dagli speculatori, dagli stranieri e dai burocrati di Bruxelles. Invece sono tutti in ginocchio davanti a loro, divinità supreme ma sobrie. Nella migliore tradizione italiana, “Franza o Spagna purché se magna”.

Eppure i vertici del mondo bancario e della Ue non sono più credibili dei nostri politici. Numerose inchieste hanno dimostrato lo sperpero di miliardi di euro da parte di Bruxelles e Strasburgo, gli eurodeputati costano di più e hanno più privilegi di quelli nazionali e la Bce nel 2008 alzò il costo del denaro nonostante gli evidenti sintomi di crisi dell’economia per rallentare un’inflazione immaginaria determinata solo dal petrolio che aveva superato i 140 dollari al barile.

Jean Claude Trichet ci ha riprovato nella primavera scorsa, ancora una volta confondendo l’inflazione con il petrolio alle stelle a causa della guerra libica. Ha alzato di nuovo il costo del denaro (e dei nostri mutui) nonostante di ripresa si parlasse solo nelle preghiere.

Giusto per dare un senso di continuità alle iniziative della Bce il nuovo presidente, Mario Draghi, ha deciso di riabbassarli dello 0,25 per cento la settimana scorsa.

E poi ve lo ricordate il sobrio professor Monti magnificare all’Infedele di Gad Lerner il successo dell’euro che aveva costretto la Grecia ad assimilare “la cultura della stabilità”? Chi ci impone regole, governi e programmi economici non sembra brillare per competenza e autorevolezza.

La costruzione dell’Europa del resto non ha mai avuto molto a che fare con il consenso popolare. Nessuno ha mai chiesto agli italiani e a molti altri popoli se volessero l’adesione all’Unione o all’euro. La Ue non è riuscita neppure ad avere uno straccio di Costituzione poiché quella messa a punto è stara bocciata negli unici due referendum indetti in Olanda e Francia.

Poco amate dagli elettori europei (che eleggono i parlamentari nazionali da inviare a Strasburgo ma non i membri della Commissione) le elefantiache e costosissime caste che guidano la Ue e la Bce detestano referendum e suffragi popolari.

Quando in Grecia il premier Papandreu ha “osato” proporre un referendum per chiedere ai cittadini se volevano i sacrifici per restare nell’euro è stato “fucilato” da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, quest’ultimo lo ha anche insultato in uno dei suoi ormai consueti “fuori onda programmati”.

Pochi giorni dopo il premier greco è stato costretto a dimettersi dalla defezione (casuale?) di quattro deputati del suo partito e a guidare il nuovo governo (ovviamente tecnico) è stato chiamato un banchiere, Lucas Demetrios Papademos, ex governatore della Banca Centrale greca ed ex numero due della Bce.

Dovrà gestire un programma di austerity nel quale i saldi di Stato consentiranno ottimi affari per la grande finanza, i grandi investitori, gli speculatori e i grandi gruppi internazionali, soprattutto quelli franco-tedeschi perché le banche di Parigi e Berlino detengono buona parte del debito greco.

Nonostante l’Italia rappresenti l’ottava potenza economica mondiale non è stata trattata meglio. Anche Berlusconi ha avuto i suoi “traditori” e i suoi” avvertimenti”. Come l’attacco borsistico a Mediaset (meno 12 per cento in un sol giorno) che ha “consigliato” il premier di ritirare l’idea di posticipare le dimissioni e appoggiare la candidatura di Monti, nominato poche ore dopo senatore a vita dal Quirinale.

Fino a pochi anni or sono sarebbe bastato molto meno per denunciare minacce alla democrazia o ingerenze esterne nella vita politica italiana.

Appena nominato il sobrio premier Mario Monti è andato in ginocchio dal presidente della commissione europea Josè Manuel Barroso a farsi indicare le priorità della sua agenda, poi dal presidente del consiglio europeo Herman van Rompuy, da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a promettere che “farà i compiti a casa” e a “impressionare” la cancelliera tedesca per le misure che adotterà delle quali non aveva però ancora informato né il Parlamento né l’opinione pubblica.

Ora però che la nuova manovra da 25 miliardi di euro sta prendendo corpo siamo impressionati anche noi ma non certo in positivo. Di fatto solo tasse per tutti, una stangata più che una manovra che sembra voler affossare ogni possibilità di sviluppo rendendoci ancora più sudditi e meno cittadini.

E’ questa la rivoluzione liberale dei professori/banchieri? E’ questa la svolta che ridarà fiato all’economia italiana? Roba che non era più una novità già ai tempi dei governi Andreotti. Per attuare queste misure non c’era bisogno di scomodare i luminari della Bocconi o il gotha dei banchieri, bastava e avanzava la nostra penosa classe politica.

Infatti queste misure rivoluzionarie hanno soddisfatto la Merkel e Sarkozy che hanno espresso a Monti “fiducia e sostegno”, forse perché il professore ha accettato di trasformare l’Italia in un bel discount grazie all’impegno ad abrogare la “golden share”, il meccanismo che ha finora permesso allo Stato di conservare il controllo di aziende strategiche nei settori energetici di energia, comunicazioni e difesa: Eni, Snam rete gas, Enel, Telecom e Finmeccanica.

Una questione di libertà di mercato sottolineano alla Ue e alla Bce, dove le pressioni sull’Italia in tal senso sono fortissime ma dove nessuno sembra aver fretta di demolire meccanismi simili presenti in Germania, Francia e altri Paesi dell’area euro per impedire “scalate” agli asset strategici nazionali.

Ma è possibile che con l’euro che rischia di andare a fondo l’asse franco-tedesco che domina Ue e Bce non abbiano di meglio a cui pensare che alla “golden share” italiana?

Possibile che tutte le misure urgenti per le quali il governo Berlusconi era inadeguato e che dovevano essere adottate immediatamente (pena la catastrofe) non se ne sia vista nemmeno una ma si parli di “golden share”?

Il motivo pare evidente e lascia aperti molti sospetti circa il perché all’Italia, con i conti per molti versi più in ordine di quelli francesi (che possono rifiutare il controllo di Bruxelles sul loro bilancio) o britannici (che hanno avuto la scaltrezza di restare fuori dalla truffa dell’euro), non sia stato concesso il privilegio di andare al voto come la Spagna.

Prima di tornare ad essere un Paese democratico dobbiamo vendere, anzi svendere considerati i chiari di luna borsistici, le nostre aziende di punta agli stranieri, o per meglio dire ai nostri concorrenti.

Quei Paesi (dagli Usa alla Gran Bretagna, dalla Francia alla Germania) che come si è visto chiaramente in questi ultimi tempi (dalle questioni finanziarie alla guerra in Libia) possono venire definiti partner solo da chi è in affari con loro.

Perché è evidente che nell’attuale situazione, con Finmeccanica che dopo il recente (casuale?) mega crollo borsistico ha una capitalizzazione di appena due miliardi ( solo i suoi beni immobili valgono il doppio), abrogare entro un mese la “golden share” significa consentire ai colossi anglo-americani e franco-tedeschi della Difesa (Thales e EADS in testa) di inglobare il gruppo italiano o le sue aziende più competitive.

Pochi giorni or sono a Berlino è stato firmato un accordo di militare tra Italia e Germania che dovrebbe bilanciare l’asse franco-britannico nel campo della Difesa (a proposito di Europa unita !) e che prevede una stretta cooperazione industriale in diversi settori ma che potrebbe trasformarsi in sudditanza tecnologica dell’Italia se svendessimo le nostre aziende del settore.

I segnali in questo senso ci sono tutti e un documentato articolo della Stampa (che riproponiamo nella sezione Industria) ha evidenziato il concreto interesse della francese Thales ad acquisire Oto Melara e Wass. Fino a un anno or sono coi francesi si discuteva di joint ventures paritetiche, oggi i Galli calano in Italia al grido di “guai ai vinti” come fece Brenno un po’ di tempo fa.

Certo il sobrio Mario Monti ha detto subito, nel discorso di presentazione del suo governo in Parlamento, che si offende a sentire parlare di “poteri forti”, di governo dei banchieri che ha usurpato il potere al popolo benché proprio la grande finanza sia stata all’origine della crisi nella quale ci dibattiamo dal 2008.

Peccato che mentre la stampa italiana si è sdraiata adorante ai suoi sobri piedi a Parigi il quotidiano “Le Monde” abbia ricordato in un articolo del 14 novembre dal titolo eloquente ”Goldman Sachs, le trait d'union entre Mario Draghi, Mario Monti et Lucas Papadémos” che gli uomini al governo senza il consenso elettorale in Italia, Grecia e alla Banca centrale europea sono consulenti della grande banca statunitense la cui formidabile influenza in Europa sembra essere sfuggita a molti.

Monti del resto ha ragione quando afferma che di poteri forti purtroppo non ne esistono in Italia. Infatti il nostro Paese è oggi in mano a poteri forti stranieri e non certo amichevoli.

Non si spiega infatti perché le banche italiane siano sotto osservazione dalla Bce ma non lo siano invece quelle tedesche e francesi che, a differenza delle nostre, sono letteralmente zeppe di titoli-spazzatura. Molte banche greche, altro Paese sotto occupazione, sono in svendita e i grandi gruppi bancari internazionali sono già pronti a mangiarsele.

Probabilmente molto presto i professori ci diranno sobriamente che le nostre aziende e banche vanno vendute agli stranieri, sacrificate sull’altare della riduzione del deficit e nel nome di un liberismo che è ufficialmente un dogma per tutti ma che i forti non applicano in casa loro e i deboli subiscono.

Dopo aver fatto man bassa al “discount Italia” le potenze occupanti potrebbero anche farci tornare a votare, come un lander tedesco o un dipartimento d’oltremare francese.


"Salva Italia"? Salvabanche

di Lorenzo Mazzei - www.antimperialista.it - 6 Dicembre 2011

L'omino della Trilateral lo ha implorato: lo si deve chiamare «Salva Italia». Ma il suo decreto passerà alla storia più prosaicamente come «Salvabanche». Per uno che è stato messo lì proprio per questo non è poi così disdicevole. Che poi le salvi veramente è tutto da vedere, diciamo che si sta impegnando.

Tuttavia è questa la sostanza che va afferrata. Il decreto della domenica sera non salverà né l'Italia, né l'euro, tanto meno le condizioni di vita degli italiani. Di certo non quelle del popolo lavoratore. Cercherà invece di dissetare i vampiri della City e di Wall Street, i sadici banchieri di Francoforte, i quasi coniugi Merkozy.

E darà un po' di respiro, non sappiamo per quanto, alle grandi banche del Belpaese, più o meno tutte con l'acqua alla gola, a partire da quella Banca Intesa che ha «prestato» al governo il signor Passera e la signora Fornero. A proposito del famoso conflitto d'interessi tanto evocato, ma oggi dimenticato, dagli antiberlusconiani alla Scalfari...

Da domenica sera anche i più duri di comprendonio dovrebbero avere inteso alcune cosette. Primo, che il governo Monti è il governo più classista ed antipopolare della storia repubblicana. Secondo, che la sbandierata «equità» altro non era che una scadente mercanzia propagandistica ad uso dei gonzi. Terzo, che il massacro sociale iniziato con le manovre d'estate ha compiuto un decisivo salto di qualità. Quarto, che il disastro che si dice di voler evitare è in realtà già iniziato.

La luna di miele del commissario Monti volge già al termine. Le sue carte sono ormai scoperte, ma questo non vuol dire che la stagione degli inganni sia finita. Anzi, il dibattito parlamentare alle porte ce ne offrirà un campionario vasto quanto non appassionante.

«Noi siamo per correggerla un pochino», questa la frase più ardita del noto smacchiatore di leopardi di Piacenza. Un vero monumento alla specchiata qualità del politicantume attualmente in commercio.

Mentre Monti salvava le banche - pardon, l'Italia - la signora «equità», al secolo Elsa Fornero, piangeva sul blocco, da lei stessa appena approvato, all'adeguamento delle pensioni all'inflazione, aggiudicandosi in tal modo l'edizione 2011 del Coccodrillo d'oro.

Non risulta peraltro, dalle attente cronache giornalistiche, che la suddetta signora abbia avuto qualcosa da obiettare sulla cancellazione del modesto incremento alla aliquota Irpef della fascia più ricca, una misura data per certa fino alla domenica pomeriggio...

Ma veniamo alla sostanza del decreto. Secondo le cifre ufficiali si tratterebbe di un intervento da 30 miliardi, 20 dei quali destinati alla riduzione del deficit statale, 10 a non meglio precisate misure per la mitica «crescita».

Molte sono le misure odiose e classiste, dall'aumento dell'IVA di ben due punti e mezzo, alla reintroduzione dell'Ici sulla prima casa, al taglio agli Enti locali che si riverserà inevitabilmente su sanità e trasporti. Ma il vero simbolo del massacro sociale compiuto è quello contenuto nel capitolo pensioni.

Avevamo scritto - passando per esagerati, secondo alcuni - che la ministra Fornero sognava una sorta di Soluzione finale per le pensioni dei lavoratori italiani. Ci chiedevamo piuttosto in quale misura il governo avrebbe accolto quel sogno. Ora lo sappiamo: in maniera pressoché integrale.

Passaggio per tutti al contributivo, eliminazione delle pensioni di anzianità, superamento di gran carriera della soglia dei 40 anni, soglia minima per la pensione di vecchiaia a 66 anni (per gli uomini dal 2012, per le donne dal 2018), blocco delle rivalutazioni delle pensioni in essere sopra i 935 euro mensili. E chi più ne ha più ne metta.

Non si tratta della solita controriforma, quanto piuttosto della mazzata finale alla pensione come momento di diritto sacrosanto all'ozio o, se si preferisce, al riposo. Il meccanismo di indicizzazione alla longevità, insieme a quello dei disincentivi spinge ormai verso la soglia dei 70 anni. Uno scenario da incubo, inimmaginabile anche solo qualche mese fa.

Uno scenario che ora ha preso forma grazie al «governo dei professori», insediato dal golpista Napolitano, il noto «My favourite communist» di Henry Kissinger, fondatore di quella Trilateral che aveva come presidente europeo, fino al fatidico 13 novembre scorso, proprio l'ineffabile Mario Monti. E dite voi se non siamo alla quadratura del cerchio...

Ma torniamo per un attimo alle pensioni, perché sicuramente qualcuno ci accuserà di nuovo di esagerare. Purtroppo non è così. La controriforma Dini aveva diviso i lavoratori italiani in due fasce: i giovani, ai quali si imponeva il più svantaggioso sistema contributivo, ma assicurandogli che lo avrebbero vantaggiosamente integrato con la previdenza complementare; i meno giovani, ai quali si sottraevano di colpo 5 anni di pensione, ma con la promessa di mantenere il più conveniente sistema retributivo.

Mentre le garanzie per i più giovani si sono volatilizzate da tempo - a proposito, è piuttosto illuminante che alcuni Fondi pensione integrativi abbiano sospeso nelle ultime settimane le periodiche comunicazioni sul loro andamento, evidentemente falcidiato dalla debacle dei mercati finanziari - con la Soluzione finale della professoressa Fornero anche i «meno giovani» del 1995 sono ormai sistemati.

Chi sperava di andare in pensione dopo 40 anni di lavoro (pensate un po' che privilegiati!), aveva già visto spostarsi la lancetta di un anno con la truffa delle «finestre».

Ora l'asticella è salita a 42 anni (per le donne 41), ai quali si deve aggiungere un mese all'anno a partire dal 2012. Ma non basta, anche queste soglie sono soggette alla revisione periodica in base all'aspettativa di vita.

La conseguenza pratica, giusto per fare un esempio, è che un lavoratore oggi quarantasettenne maturerà il diritto alla pensione (definita, pensate un po', «anticipata») con circa 45 anni di contributi.

Alla faccia dell'anticipo! E poi, con quale pensione? Una pensione decurtata dal contributivo ed ulteriormente tagliata dai meccanismi disincentivanti (un 2% annuo per gli anni mancanti alla soglia di vecchiaia).

Il combinato disposto di questi meccanismi è appunto la fine della pensione, intesa come periodo della vita da dedicare al riposo, all'ozio, alla famiglia, a quel che ognuno vuole, avendo un minimo di sicurezza economica.

La Soluzione finale del governo Monti cancella sia il tempo della pensione, sempre più lontano, sempre più incerto, sia la sicurezza del suo importo.

Una fine che segna anche simbolicamente la morte del cosiddetto Welfare State, giusto a proposito di simboli dell'Europa (e delle conquiste del movimento operaio europeo) che se ne vanno nel tritacarne del capitalismo casinò e della follia della moneta unica.

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Ora molti si chiedono se questo massacro servirà a salvare l'euro. La risposta è no, non servirà. Il vertice europeo di giovedì sembra incanalato sulla solita strada: molto fumo, nessun arrosto.

L'attivismo del duo Merkel-Sarkozy non sta a significare lo sforzo di salvare la moneta unica, quanto piuttosto la volontà di salvaguardare, nello sfascio alle porte, i rispettivi interessi nazionali.

Interessi da imporre, grazie a questo duopolio, agli altri paesi, tra i quali ovviamente l'italietta appena messa nelle mani del liquidatore fallimentare Mario Monti.

Se ancora le classi dirigenti europee credessero veramente alla possibilità di evitare il naufragio dell'euro, ben altre misure si sarebbero imposte. Nella UE si sarebbe accelerato sulla riscrittura dei trattati, mentre invece sono stati accantonati anche i ben più modesti eurobond, facendo della Bce una vera banca centrale in grado di far fronte alle turbolenze dei mercati finanziari; in Italia - in questo momento l'epicentro della crisi - si sarebbe messa mano ad una mega-patrimoniale di cui invece non c'è neppure l'ombra.

Difficile credere che i decisori di cui sopra credano davvero a quel che giurano di credere. Ma allora, ci si chiederà, perché insistono sulla strada dei sacrifici, che qualcuno continua a chiamare con un insopportabile eufemismo «austerità»? Semplice, per due motivi.

Il primo è che vogliono garantire con ogni mezzo - fosse pure l'affamamento di interi popoli - gli strozzini che hanno in mano i titoli del debito statale. Il secondo, ovviamente collegato al primo, è che mentre sono disposti a sacrificare la vita di milioni di persone, non intendono sacrificare nessuna banca.

Mentre parlano di «crescita», sanno benissimo di stare conducendo l'eurozona, e l'Italia in particolare, in una recessione paurosa di cui già si vedono i primi sintomi. Disoccupazione, chiusura di attività produttive, impoverimento generale sono la prospettiva dei prossimi anni.

Ed a proposito di disoccupazione, ma davvero non si trova proprio nessun economista sfaccendato che ne calcoli all'ingrosso l'aumento generato dal mancato turn over prodotto dal blocco dell'accesso alla pensione?

Sanno benissimo quel che stanno facendo, ma non possono fare altro, dato che quella è la loro mission. Se parliamo di decreto salvabanche non è però solo per queste considerazioni. E' anche perché il decreto contiene un preciso capitolo sulle garanzie che lo Stato darà al debito bancario.

In pratica lo Stato si farà garante delle emissioni obbligazionarie delle banche italiane, secondo un indirizzo europeo che sembrava però dovesse realizzarsi con «uno schema mutualistico all'interno della UE», per dirla con le parole del Sole 24 Ore. Ma anche in questo caso, come per gli eurobond, come per il fondo EFSF, la mitica «solidarietà» europea si è rivelata assai poco solidale...

Perché queste garanzie siano così impellenti è presto detto. Su scala globale il 2012 sarà l'Annus Horribilis della finanza mondiale. Ben 12mila miliardi di euro di titoli del debito (statale, bancario, e aziendale in genere) andranno in scadenza.

Circa il 70% in più del 2011, anno in cui le difficoltà del rifinanziamento sono già emerse in tutta evidenza. In testa alla graduatoria dei cacciatori di capitali (preferibilmente a buon prezzo) gli Stati Uniti e il Giappone, mentre in Europa l'Italia farà la parte del leone.

Ma non ci sono solo i debiti statali. Ci sono anche quelli privati. E qui sono le banche ad essere affamate. Si pensi al caso già citato di Banca Intesa, il cui ex ad dice di aver sacrificato il suo mega-stipendio per salvare il paese, entrando a far parte del governo Monti.

Nel 2012 Banca Intesa avrà in scadenza titoli per ben 24 miliardi: chi glieli riacquisterà? Ed, eventualmente, a quale prezzo? Domande da incubo, alle quali il prode gladiatore della Trilateral, ovviamente con il disinteressato apporto del «tecnico» Passera (che, detto tra parentesi, qualcuno vorrebbe come futuro candidato premier del centrosinistra) ha risposto con il decreto di domenica sera. E a questo punto si sarà capito per quale motivo va rinominato come decreto salvabanche.

Ieri, lunedì, la Borsa di Milano ha fatto segnare un +2,9%, ovviamente tra gli osanna dei repubblichini di Repubblica, che hanno visto in questo (peraltro modestissimo) dato la riprova della bontà della Montinomics.

Se i repubblichini - che definiamo tali, tanto per il contributo instancabile che hanno assicurato alla Seconda Repubblica bipolare e maggioritaria (appunto una repubblichetta nelle mani di lorsignori), quanto per il loro appoggio incondizionato alle pretese della Germania - avessero guardato gli indici delle singole società quotate avrebbero visto che la crescita è tutta da attribuirsi al traino dei titoli bancari, così beneficiati dal decreto domenicale.

Lo Stato sarebbe davvero in grado di garantire i debiti nel caso del crac di una grossa banca nazionale? Ne dubitiamo, ma qualora avvenisse, altro non sarebbe che una gigantesca trasformazione di un debito privato in un debito pubblico, da scaricare nuovamente sul popolo lavoratore di questo disgraziato Paese.

E con questo chiudiamo, sperando che si sia capito che quando si parla di «governo unico delle banche» si opera sì una semplificazione, visto che le banche altro non sono che il luogo centrale della forma che il capitalismo reale ha assunto nel suo sviluppo plurisecolare, ma si tratta di una semplificazione che tratteggia assai bene la sostanza di quel che sta avvenendo. Non un semplice slogan, dunque, ma una fotografia assai attendibile della realtà.