martedì 27 dicembre 2011

Crisi economica - update

Ancora qualche articolo su questa crisi economica infinita, con un accenno anche alla manovra Monti "Ammazza-Italia"...



Spread, una parola lunga un anno
di Matteo Cavallito - Il Fatto Quotidiano - 26 Dicembre 2011

Solo nel 2006, quando la crisi era ancora lontana, il differenziale con i titoli tedeschi si fermava a 24 punti base, e il termine era una sintesi per addetti ai lavori. Prima di Natale la distanza dai bund si attestava intorno a quota 500. Ma non è solo il numero ad essere cambiato. Con l'economia mondiale, gli italiani hanno imparato a fare i conti con la finanza, e con il rischio di insolvenza del nostro Paese. Che per il 2012 si annuncia tutto tranne che scomparso

Una parola sola che dice tutto ciò che c’è da sapere. Sei lettere diventate un incubo, e non solo per gli operatori. Spread, ovvero ampiezza, divario, differenziale.

Per antonomasia, almeno per il pubblico italiano, il premio richiesto dagli investitori per acquistare Btp a dieci anni invece degli omologhi tedeschi, i solidissimi e rispettabilissimi Bund.

In altre parole la misura del rischio d’insolvenza del nostro Paese nel sempre più impietoso confronto con la prima economia del Continente. Insomma, per chi ancora avesse dei dubbi è semplicemente la parola dell’anno.

A ben vedere la storia è tutta qui. E che storia, verrebbe da dire. La variazione di rendimento tra i nostri titoli di Stato e quelli di Berlino ha letteralmente invaso la vita quotidiana dell’ultimo semestre.

Nell’ordine: ha scatenato la crisi nel Paese, ha cambiato la percezione della stessa presso i cittadini, ha contribuito a far cadere un governo e, particolare importante, ha alimentato in Italia un interesse mai sperimentato prima per le vicende finanziarie.

Spread come termometro della crisi, spread come psicosi collettiva, spread come chiacchiera da bar, manco fosse il bel tempo, il gossip o la moviola. Insomma, è stata una rivoluzione. Pagata a caro prezzo.

L’indicatore era un tempo materia per gli esperti. Un dato significativo per gli operatori, forse, ma non certo per i cittadini. E non è difficile capire il perché. Nel 2006, quando la crisi era ancora lontana, il differenziale Btp/Bund segnava 24, trascurabilissimi, punti base.

In pratica, i nostri titoli rendevano lo 0,24% in più rispetto ai Bund dimostrandosi addirittura più sicuri, nella percezione degli investitori, di due mostri sacri come i bond statali britannici (82 punti base in più rispetto agli omologhi tedeschi) e i Treasuries di Washington (87 punti).

Ma in fondo stiamo parlando della preistoria, un’epoca felice in cui la Grecia vantava un rating da serie A e l’ipotesi di una crisi debitoria sovrana europea appariva fantascienza pura. Poi, improvvisamente, l’apocalisse.

In pochi se ne accorgono, ma nel 2008 il processo di deterioramento è già in atto. Lo spread Btp/Bund passa a quota 92 punti, con i titoli italiani al 4,59%, quasi l’1% in più rispetto ai tedeschi.

Nel 2010 si sale a 160 ma il peggio deve ancora venire. Il 23 dicembre di quell’anno, i dati sui titoli sovrani sono già un mezzo bollettino di guerra: i bund salgono di prezzo trasformandosi in bene rifugio con un calo dei rendimenti sotto quota 3%.

Lo spread italiano viaggia a 176 punti base, quello irlandese a 621, contro il 377 del Portogallo, il 251 della Spagna e il 932 della Grecia.

A distanza di un anno, e siamo ai giorni nostri, il peggioramento risulta a dir poco mostruoso: 667 per l’Irlanda, 347 per la Spagna, 1.120 per il Portogallo, 500 per l’Italia. Fino all’astronomica cifra di 3.682 punti base che separa i rendimenti del bund da quelli dei titoli di Stato della Repubblica Ellenica. Un autentico disastro. Ma, almeno per l’Italia, non si tratta del risultato peggiore.

200 punti a fine giugno, 300 a inizio luglio, 400 ad agosto, addirittura 500 ai primi di novembre. L’andamento dei differenziali Italia/Germania assume toni raccapriccianti.

Da una parte c’è la crescente sfiducia verso la solvibilità del debito italiano, dall’altra la corsa al rifugio sicuro dei titoli berlinesi. Fatto sta che di fronte alla soglia del 7% che caratterizza i rendimenti del decennale italiano qualcuno inizia a parlare di costi insostenibili per un Paese chiamato a rifinanziare quello che in valore assoluto resta il terzo debito pubblico del mondo (dopo quelli di Stati Uniti e Giappone).

Il 9 novembre del 2011 è una data storica, e non solo perché vi cade il 22esimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Nel corso delle contrattazioni, lo spread di casa nostra tocca i 575 punti, ennesimo disastroso record dall’introduzione della moneta unica. “Siamo sull’orlo del baratro” dichiarerà la presidente degli industriali Emma Marcegaglia.

Il giorno dopo, lo stesso quotidiano della Confindustria, il solitamente pacato Sole 24 Ore, titolerà con due sole parole: “Fate presto”. Citazione dichiarata alla storica prima pagina che il quotidiano napoletano Il Mattino dedicò al devastante terremoto in Irpinia nel lontano 1980.

Il resto è cronaca. L’atteso “effetto Monti” non si è visto, se non per un breve intermezzo. Il peso della crisi europea e la carenza di risposte tanto da parte della Bce quanto da i leader europei continua a condizionare negativamente la fiducia del mercato.

Una cosa è comunque certa: i vecchi livelli di differenziale non torneranno mai più. D’altra parte quell’Europa del passato in cui investire in bund o in titoli ellenici faceva relativamente poca differenza è naufragata con l’idea stessa di un’eurozona capace di rispondere tempestivamente alla crisi con contromisure degne di questo nome.

Ridurre la tensione sui mercati alleggerendo il peso dei rifinanziamenti sui debiti, pur nel contesto di un’Europa a rischio variabile, resta oggi il massimo obiettivo possibile.

E il fatto che il 2012 si annunci già come un anno di diffusa recessione non aiuterà di certo. Insomma, buon spread Europa. Ne hai veramente bisogno.


Draghi e i vampiri
di Pino Cabras - Megachip - 26 Dicembre 2011

Solo gli illusi, purtroppo ancora tanti e inguaribili, potevano sperare che il recente inserimento delle punte di diamante di Goldman Sachs nel cuore della sfera pubblica europea – Draghi, Monti e Papademos - non si sarebbe tradotto in una cuccagna per le banche e in una rovina per le classi medie.

Nessuno però arrivava a pensare che i protagonisti potessero essere così spudorati.

Ma finché avremo presidenti come Napolitano e copertine dell’Espresso che fanno di Napolitano “l’uomo dell’anno”, lo scandalo sarà sopito e troncato. Cos’è successo?

Mettiamola così. Ci viene imposto uno “stato di eccezione” che – dicono – deve “cambiare tutto”: niente di quanto abbiamo è acquisito, e ogni nostra sicurezza sociale deve poter precipitare dalla sera al mattino, per salvarci.

Viceversa, nessuna urgenza può scalfire le regole immutabili della Banca Centrale Europea. Ci descrivono il sacro.

E il sacerdote Mario Draghi lo ripete: non può prestare soldi agli Stati, non può comprare i buoni del Tesoro. Il debito non può essere ingoiato in modo diretto dalla sua moneta creata dal nulla.

Può esserlo però in un modo indiretto, ad esempio prestando mezzo trilione di euro alle banche, affinché queste corrano ad acquistare i buoni dei PIIGS, maledetti maiali-cicala.

Con l’idea che le banche paghino alla BCE un tasso dell’1%. E che gli Stati paghino alle banche interessi ben più corposi, fino al 7% e oltre: lucro per le banche, tagli per lo stato sociale, insostenibilità economica. L’Italia di Monti e Napolitano, insomma. L'Europa di Draghi.

Ma è possibile che nessuno si ribelli a questo controsenso? Cioè all’assurdità di essere impiccati al profitto preteso da chi dovrebbe solo fallire (se il famoso mercato esistesse davvero)?

Nel mondo alla rovescia ci dicono invece che non può esistere una cosa che funzionerebbe in modo più semplice e ci toglierebbe il cappio dal collo: da Francoforte potrebbero prestare quel mezzo trilione direttamente agli Stati, a tassi di interesse bassissimi.

Agli Stati sarebbe risparmiato l’affanno di procacciarsi quella provvista sui mercati offrendo tassi d’interesse elevatissimi (insostenibili anche per un’economia in boom, figuriamoci per una in recessione).

Lo spettro del default imminente e lo spettro dei rating sarebbero così debellati, e senza chiamare i ghostbusters. Specie se questi ghostbusters, i banchieri, sono essi stessi dei morti viventi, in termini di credito.

Alle casseforti di Francoforte – per loro prodighe - le banche non hanno infatti da offrire granché in garanzia, se non “collaterals” buoni per pulirsi il culo. Ma Draghi non solleva nemmeno un sopracciglio.

E nemmeno Monti, che si è premurato di controgarantire la loro papiraglia - scoperta come una cabriolet - con un impegno del governo italiano.

È come la guerra: mentre nell’ordinamento civile la regola è non uccidere, in guerra è l’opposto. Allo stesso modo, la guerra dei signori banchieri mette in pratica comportamenti che normalmente sarebbero sanzionati con leggi penali.

Per lorsignori, niente manette della guardia di finanza, il rischio è semmai di diventare uomini dell’anno.

E se tanto mi dà tanto, il quadro delle garanzie messo in moto dal governo Monti, lungi dal far calare il debito, lo ha incrementato, perché quel che dovevano garantire le banche lo garantiamo noi, in aggiunta a quanto già ci strozzava. Congratulazioni.

È il capolavoro di un’ideologia apparentemente anti-statalista, che arriva all’assurda intransigenza di non prestare a basso interesse agli Stati (le regole sacre della BCE), perché troppo comodo, troppo poco liberista. Ma che prevede che lo Stato copra tutte le acrobazie speculative terminali dei superfalliti.

Poi è successo che dall’Eurotower un fiume di liquidità si è dovuto ugualmente riversare a comprare titoli di stato lungo la sponda sud dell’Euro: le banche non si stanno scapicollando per acquistarli.

Se il lupo non perde il vizio, punteranno ancora a qualche alchimia derivata per imbellettare i propri attivi, mostrarsi apparentemente più solvibili, e chiedere ancora più soldi, perché mezzo trilione di euro è ancora poco per le loro voragini.

Come a dire: i mercati non sono mercati. Siamo allo statalismo più assistenziale e classista che si sia mai visto, riverniciato con un’ideologia liberista. Centinaia di milioni di individui e famiglie, milioni di storie, intere classi, interi insediamenti sociali costruiti nel corso di generazioni, dovrebbero essere sacrificati al più costoso, inutile e disordinato programma assistenzialistico della storia, volto a salvare l’attuale assetto della finanza.

Le banche, il cui mestiere sarebbe assistere con prestiti e affidamenti chi investe sul futuro, non sganciano più nulla e anzi sono foraggiate. Una mostruosità.

L’obiezione che il denaro facile ha spinto gli Stati a indebitarsi troppo può essere abbattuta da una contro-obiezione: e il denaro facile elargito alle banche non le spinge forse a debiti che sono perfino multipli di quelli degli Stati?

E c’è di peggio. Gli Stati, ormai colonizzati dai banchieri, coprono esattamente quel superdebito con garanzie che nessuno giustificherebbe a cuor leggero, se non Letta Letta.

Nel 2012 le scommesse impossibili appariranno nude: come calcola Aldo Giannuli, «nell’anno prossimo, fra titoli sovrani, obbligazioni di enti pubblici minori, corporate bond (debiti d’impresa), obbligazioni bancarie, scadono titoli per 11.000.000.000.000 (undicimila miliardi) di dollari. Faccio grazia degli spiccioli. Ve l’ho scritto con tutti i 12 zeri per farvi apprezzare la cifra in tutta la sua imponenza: si tratta di poco meno di un sesto del Pil mondiale e di circa l’11% dell’intero debito mondiale.»

Non saranno i giochetti degli ometti di Goldman Sachs che potranno salvarci dal debito. Prima ricollocheremo i loro comportamenti nell’ambito del penale, prima avremo speranza di risorgere.



La baionetta di Mario Draghi
di Giuseppe Masala - www.statopotenza.eu - 22 Dicembre 2011

Strepitoso successo dell’operazione di pronti contro termine implementata dalla BCE di Mario Draghi, così almeno l’hanno definita gli imbonitori dei mass media tradizionali.

Tecnicamente questa operazione, posta in essere dalla BCE e denominata LTRO (Long Term Rifinancing Operation), consiste nel concedere liquidità (danaro contante) al sistema delle banche commerciali europee in cambio di titoli in garanzia (collateral) e ad un tasso dell’1%. Prestito che andrà rimborsato alla banca centrale, comodamente, in tre anni.

Forse la novità più importante in questa operazione, oltre alla durata del prestito (3 anni) e all’importo colossale (489 miliardi di euro), è l’accettazione, come collaterale a garanzia, di titoli di bassa o bassissima qualità che mai, fino ad ora la Banca Centrale Europea aveva accettato, considerandoli cartacce di infimo valore reale.

Non si può negare che sulla carta, il piano congegnato da Mario Draghi sia di una raffinatezza tecnica che dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, la sua superba competenza sul funzionamento dei mercati finanziari. Si deve anche ammettere come questa operazione potrebbe avere positivi cascami su alcune variabili importantissime nell’economia reale.

Con il suo ingegnoso piano, il Governatore Draghi sembra quasi, visto l’infimo tasso d’interesse richiesto, suggerire alle banche commerciali di acquistare, con i soldi prestati, titoli di debito sovrano degli stati.

Tale acquisto allenterebbe il boom degli interessi richiesti dal mercato su questa classe di investimento e allo stesso tempo permetterebbe, a rischio quasi zero, alle banche di lucrare sul differenziale tra i tassi dei titoli del debito sovrano eventualmente acquistato e quelli all’1% richiesti per partecipare alla LTRO.

Non c’è che dire, una soluzione ingegnosa che “nutre” a rischio zero l’anemico (un garbato eufemismo questo) sistema bancario europeo e allo stesso tempo consente l’allentamento della pressione sugli interessi dei titoli sovrani dei paesi in difficoltà dell’area euro, con relativo beneficio sul pagamento del servizio del debito.

Un piano che avrebbe avuto forti probabilità di funzionare. Un anno fa. Innanzitutto, bisogna ricordare che quest’anno è deflagrata la crisi del debito greco.

I vari piani proposti nel corso dell’anno non hanno portato ad una stabilizzazione della situazione (parliamo naturalmente dell’aspetto meramente finanziario, il lato sociale di questa crisi non lo teniamo in considerazione), vuoi perché le banche europee, a causa degli haircut ciclicamente proposti, rischiavano una significativa erosione del loro capitale netto, vuoi perché i tedeschi non hanno mai abbandonato il dogma della disciplina ferrea dei bilanci pubblici, vuoi perché i paesi “forti” volevano colpirne uno per educarne cento imponendo misure draconiane con l’intento di evitare eventuali comportamenti cosiddetti di “azzardo morale” da parte dei paesi deboli.

Fatto sta che ancora oggi, l’investitore (qualora fosse così folle) da investire 1000 euro nei bond governativi greci ad un anno otterrebbe, alla scadenza, ben 4560 euro grazie ad un tasso del 356%.

Naturalmente, lo dico nell’interesse dell’eventuale lettore ingenuo, è evidente che queste cifre non verranno mai pagate: semplicemente il mercato prezza una qualche forma di default con annesso haircut dei titoli del debito greco. Tale probabile haircut provocherà forti perdite alle banche europee.

Ovvio che in una situazione così problematica, i banchieri europei hanno paura di bruciarsi le mani. Per esempio Federico Ghizzoni, top manager di Unicredit, già infatti mette le mani avanti e dichiara che “non sarebbe logico” usare i soldi ottenuti dalla BCE per acquistare ulteriori quote di debito governativo.

Quindi, con buona pace della BCE, probabilmente le tensioni sui tassi di interesse dei debiti sovrani europei non sono destinate a rallentare.

Ma altri cigni neri, per usare una felice espressione di Nassim Taleb, potrebbero perturbare quello che è l’altro possibile grande obiettivo del piano di Draghi: dare nutrimento alle dissanguate casse delle banche commerciali, consentendo di lucrare sulla differenza tra i tassi di interesse all’1% sui prestiti concessi e i vari assets che con quei soldi verranno acquistati.

Infatti nel frattempo l’Italia, terza economia dell’area euro, sta entrando in una recessione che potrebbe trasformarsi in una depressione. E’ di questi giorni l’annuncio ufficiale dell’Istat che già nel terzo trimestre il Pil italiano è entrato in “crescita negativa” (-0,2% rispetto al trimestre precedente).

Ancora più terrificante se si vuole, il dato (sempre Istat) dell’indice grezzo sulle vendite diffuso oggi: -1,5% rispetto ad ottobre 2010. Tutto questo probabilmente è solo l’antipasto di quello che accadrà grazie alla manovra Monti che ha effetti sicuramente recessivi.

Inutile dire che la recessione alle porte aumenterà le sofferenze delle banche vanificando in parte l’obbiettivo della BCE di mettere in sicurezza (dare nutrimento…) il sistema bancario, almeno in Italia.

Siccome, a quanto pare, viviamo un epoca storica dove i cigni neri non vengono da soli ma in stormi, segnalo che altri problemi potrebbero venire dall’Est Europa e precisamente dall’Ungheria. Infatti il FMI e la UE hanno deciso di non proseguire i colloqui per la concessione di un altro prestito “di salvataggio”.

La situazione ungherese è sotto certi aspetti drammatica, infatti circa il 50% dei mutui immobiliari concessi sono denominati in franchi svizzeri. L’attuale svalutazione del fiorino ungherese rispetto alla moneta della confederazione elvetica ha messo in seria difficoltà prima i mutuatari (che guadagnano in fiorini ungheresi svalutati e pagano i mutui in franchi svizzeri) e poi, di conseguenza, le banche che avevano concesso i mutui. Il rischio crollo dell’economia magiara andrebbe a colpire il sistema bancario italiano e austriaco enormemente esposto in questa nazione.

I guai per Mario Draghi sembrano dunque non essere finiti, ed anzi la sua manovra monetaria rischia di essere vanificata da tutta una serie di fattori incontrollabili.

In definitiva, visto che l’operazione di LTRO della BCE, aumenta la leva finanziaria delle banche commerciali europee si potrebbe dire che il suo eventuale fallimento provocherebbe un effetto moltiplicatore del collasso, trasformando la deflagrazione convenzionale del sistema in una deflagrazione termonucleare.

Paradossalmente proprio quello che l’economista Ludwig Von Mises, demiurgo dell’attuale dottrina economica dominante, aveva ipotizzato in questo genere di situazioni: “Non c’è modo di evitare il collasso finale di un boom indotto da un’espansione creditizia. La scelta è solo se la crisi debba avvenire prima come risultato dell’abbandono volontario di un’ulteriore espansione del debito o più tardi con la totale catastrofe del sistema monetario coinvolto”.

E’ per questo che il piano di Mario Draghi a me sembra la baionetta del fante italiano prima di Caporetto.



Ora sappiamo cosa voleva dire Bini Smaghi. Saltiamo, lui è saltato
di Paolo Barnard - www.paolobarnard.info - 24 Dicembre 2011

Ora sappiamo cosa voleva dire Bini Smaghi. Voleva dire “Saltiamo in aria, è confermato. Draghi si assuma le responsabilità. Voglio che si metta agli atti che io mi ero dissociato”. E salta come i topi dalla classica nave. Precisamente questo. Saltiamo in aria.

Ieri è trapelata una notizia che non può più lasciare incertezze. La notizia è questa: la Swift, che è l’agenzia belga che gestisce i codici elettronici per le transazioni finanziarie (si legga codice Swift, Iban ecc.) è stata contattata da due banche di “stazza globale” che le chiedevano di fornirgli i vecchi codici per i sistemi di gestione delle vecchie valute europee, cioè Drakme e Lire. Cioè: diteci i codici per tornare a scambiare Drakme e Lire nei pagamenti.

Non so se si è capito. Sanno che saltiamo in aria, si stanno preparando alla nostra uscita dall’Euro, all’esplosione dell’Eurozona, adesso, oggi. Sto parlando di quelli che le cose le sanno davvero, non i politici che voi ascoltate, ma le mega banche. E non solo.

Il governo britannico ha dato ordine alle sue forze di sicurezza di preparare l’evacuazione di emergenza dei cittadini inglesi da Spagna e Portogallo, nel caso di “una implosione delle banche” di questi due Paesi.

Fonte: il Wall Street Journal.

Ancora: i tassi sui titoli di Stato britannici a 10 anni hanno toccato ieri il minimo storico dal 1890. No, non ho sbagliato a scrivere, non è 1980, ma proprio 1890. Mettete le due notizie insieme: chi sa le cose, sa che l’Euro salta in (almeno) Italia e Grecia; chi sa le cose, si avventa sui titoli di Stato della Gran Bretagna che ha moneta sovrana, se ne frega dell’enorme debito pubblico inglese (149,1% del PIL, fonte: The Office for National Statistics UK) e li compra mentre si liberano dei nostri. Il governo inglese vede crollare i tassi che paga (per loro fortuna), i nostri schizzano alle stelle (per nostra rovina).

Ancora: le grandi banche francesi sono fallite, sono già fallite, perché chi sa le cose, sa che la loro esposizione al debito italiano e greco è enorme, impossibile da saldare per Italia e Grecia con la moneta Euro, e soprattutto impossibile da saldare perché noi saltiamo in aria. La maggiori banche italiane falliranno con le francesi, che si trascineranno le tedesche, le austriache e poi tutto il resto.

Per salvare le banche, occorrerebbe un Quantitative Easing (un salvataggio fatto dalla Banca Centrale Europea a forza di denaro pompato nelle riserve delle banche fallite) nell’ordine di dieci volte i miseri 489 miliardi di Euro che Draghi gli ha messo a disposizione. (non sarebbero soldi dei contribuenti, come erroneamente tutti strillano, ma semplicemente denaro inventato dal nulla dalla BCE a fronte di collaterale delle banche)

Bini Smaghi questo chiedeva ieri l’altro. Ma salvare le banche non è solo immorale (andrebbero nazionalizzate, e poi salvati i non-speculatori e le aziende), è anche inutile, perché anche se le banche si ritrovassero con le riserve piene di soldi, non tornerebbero a prestare a economie ridotte da straccioni dalle politiche di austerità che ci hanno imposto. Risultato: le banche ci fanno fallire sia che le si salvi, sia che non lo si faccia e le si lasci fallire.

A fronte di questo, ecco cosa ha fatto Draghi. Nulla, anzi, ha ribadito il suo NO al salvataggio dei titoli di Stato dei Paesi come Italia e Grecia: “La scorsa settimana, la Bce ha praticamente azzerato l'acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario” (fonte Il Sole 24 Ore).

Tradotto per tutti: il nocciolo del reattore nucleare sta fondendo, Draghi si è girato dall’altra parte, e nel farlo ha anche chiuso i circuiti di raffreddamento del nocciolo. Saltiamo in aria, si torna alla Lira ma senza un’economia da sani di mente come la Modern Money Theory, cioè sarà un macello sociale mai visto in 60 anni. Questo è ciò che ci aspetta al 99,9%. Saltiamo e la Swift lo sa bene, le banche lo sanno bene.

p.s. (E se invece accade lo 0,1%? In quel caso faranno l’Euro a due velocità, cioè la kosovizzazione dell’Italia, stesso macello, nulla cambia. Oppure la BCE soffoca Draghi nel suo bagno, e compra titoli dell’Eurozona sborsando 5 o 10 mila miliardi di Euro, non 211 miliardi come ora. Ma anche questo sarà solo un tampone che non dura. Perché il dramma è l’Euro in sé. E' L'EURO. Mi fermo qui, mancano poche ore a tortellini e panettone. Ma io sono un giornalista...)



Ma questi sono matti
di Giuseppe Coppedè - http://movimentodiazionepopolare.blogspot.com - 23 Dicembre 2011

Il testo del cosiddetto decreto “salva Italia” è stato approvato ieri dal Senato. Valore complessivo della manovra 39,97 miliardi di euri. Di cui il 90% è rappresentato da nuove tasse . Ma non è questa la notizia del giorno. Quella vera, ovviamente non data dai tg, la troviamo sul Sole 24 ore.

«La Banca d'Italia è autorizzata a svolgere le trattative con il Fondo monetario internazionale per la conclusione di un accordo di prestito bilaterale per un ammontare pari a 23 miliardi e 480 milioni di euro. L'accordo diventa esecutivo a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto legge.

È quanto recita una disposizione contenuta nella bozza del decreto "Milleproroghe" che prevede la stipula di un accordo di prestito bilaterale. Sul prestito è accordata la garanzia dello Stato per il rimborso del capitale, per gli interessi maturati e per la copertura di eventuali rischi di cambio e si stabilisce anche che i rapporti derivanti dal prestito al Fmi saranno regolati mediante una convenzione fra il ministero dell'Economia e la Banca d'Italia. In tal modo l'Italia dà un seguito concreto a quanto si è deciso con il vertice dei capi di Stato e di Governo del 9 dicembre nonchè con la riunione dei ministri dell'Eurogruppo del 19 dicembre scorso, nella quale si è stabilito che dai paesi di Eurolandia verranno conferite al Fmi risorse addizionali per 150 miliardi di euro nella forma di prestiti bilaterali che andranno ad aggiungersi alle risorse ordinarie del Fondo, per conferire all'organismo di Washington la capacità finanziaria per fronteggiare la crisi. »
(Fonte: www.ilsole24ore.com)

Nel momento in cui lo spread Btp-Bund chiude vicino a quota 500 punti con un rendimento decennale al 6,92%, il Pil della nazione è oramai avviato sulla strada della recessione, la manovra impone sacrifici per 39,97 miliardi di euri, Bankitalia ( e quindi il sistema bancario privato unico beneficiario della manovra e che restringe il credito all’economia reale) trova la maniera di dilapidare il 58% dell’ammontare complessivo del provvedimento appena approvato dalle camere “prestandolo” al FMI. Se questi non sono matti sono criminali.

Teniamo presente che entro marzo rinunceremo pure alla sovranità fiscale a beneficio dell’Europa, dopodiché avendo già rinunciato a quella nazionale e monetaria saremo belli e fritti.

Chissà se i “professori” ed i loro manovratori hanno previsto il ritorno dei popoli alla realtà.


L’Argentina in dieci anni dal collasso al rinascimento. Come liberarsi del FMI e vivere felici
di Gennaro Carotenuto - www.gennarocarotenuto.it - 23 Dicembre 2011

Oggi, esattamente dieci anni fa, tra il 19 e il 20 dicembre 2001, l’Argentina esplodeva. Fernando de la Rúa, ultimo presidente di una notte neoliberale durata 46 anni, appoggiato da una maggioranza nominalmente di centro-sinistra, sparava sulla folla (i morti furono una quarantina) ma era costretto a fuggire dalla mobilitazione di un paese intero.

Le banche e il Fondo Monetario Internazionale gli avevano imposto di violare il patto con le classi medie sul quale si basa il sistema capitalista: i bancomat non restituivano più i risparmi e all’impiegato Juan Pérez, alla commerciante María Gómez, all’avvocato Mario Rodríguez era impedito di usare i propri risparmi per pagare la bolletta della luce, la spesa al supermercato, il pieno di benzina.

Il cosiddetto “corralito”, il blocco dei conti correnti bancari dei cittadini, era stato l’ultimo passo di una vera guerra economica contro l’Argentina durata quasi cinquant’anni. L’FMI era stato il vero dominus del paese dal golpe contro Juan Domingo Perón nel 1955 fino a quel 19 dicembre 2001.

Attraverso tre dittature militari, 30.000 desaparecidos e governi teoricamente democratici ma completamente sottomessi al “Washington consensus”, l’Argentina era passata dall’essere una delle prime dieci economie al mondo all’avere province con il 71% di denutrizione infantile, dalla piena occupazione al 42% di disoccupazione reale, da un’economia florida al debito pubblico pro-capite più alto al mondo.

Con la parità col dollaro, e con la popolazione addormentata dalla continua orgia di televisione spazzatura dell’era Menem (1989-1999), il paese aveva dissipato un’invidiabile base manifatturiera e tecnologica. Nulla più si produceva e si spacciava che oramai fosse conveniente importare tutto in un paese che aveva accolto, realizzato e poi infranto il sogno di generazioni di migranti e da dove figli e nipoti di questi fuggivano.

In quei giorni, in quello che per decenni il FMI aveva considerato come il proprio “allievo prediletto”, salvo misconoscerlo all’evidenza del fallimento, non fu solo il sottoproletariato del Gran Buenos Aires ridotto alla miseria più nera a esplodere ma anche le classi medie urbane.

Queste, che per decenni si erano fatte impaurire da timori rivoluzionari e d’instabilità, blandire da promesse di soldi facili e convincere che il sol dell’avvenire fosse la privatizzazione totale dello Stato e della democrazia, si univano in un solo grido contro la casta politica e finanziaria responsabile del disastro: “que se vayan todos”, che vadano via tutti. Era un movimento forte quello argentino, antesignano di quelli attuali, e solo parzialmente rifluito perché soddisfatto in molte delle richieste più importanti.

I passi successivi al disastro furono decisi e in direzione ostinata e contraria rispetto a quelli intrapresi nei 46 anni anteriori. Quegli argentini che a milioni si erano sentiti liberi di scegliere scuole e sanità private adesso erano costretti a tornare al pubblico trovandolo in macerie.

Al default, che penalizzava chi speculava -anche in Italia- sulla miseria degli argentini, seguì la fine dell’irreale parità col dollaro. Le redini del paese furono prese dai superstiti di quella gioventù peronista degli anni ’70 che era stata sterminata dalla dittatura del 1976.

Prima Néstor Kirchner e poi sua moglie Cristina Fernández, appoggiati in maniera crescente dagli imponenti movimenti sociali, con una politica economica prudente ma marcatamente redistributiva, hanno fatto scendere gli indici di povertà e indigenza a un quarto di quelli degli anni ‘90. Al dunque l’Argentina ha dimostrato che perfino un’altra economia di mercato è possibile e dal 2003 in avanti il paese cresce con ritmi tra il 7 e il 10% l’anno.

La crescita economica è stata favorita da una serie di fattori propri del nostro tempo, dall’aumento dei prezzi dell’export agricolo all’arrivo della Cina come partner economico. Soprattutto però i governi kirchneristi sono stati, con Brasile e Venezuela, i grandi motori dell’integrazione latinoamericana, una delle principali novità geopolitiche mondiali del decennio.

Le date chiave di tale processo sono due: Nel 2005 a Mar del Plata, soprattutto la sinergia Kirchner-Lula stoppò il progetto dell’ALCA di George Bush, il mercato unico continentale che voleva trasformare l’intera America latina in una fabbrica a basso costo per le multinazionali statunitensi mettendo un continente intero a disposizione degli Stati Uniti per sostenere la competizione con la Cina.

Nel 2006 l’Argentina e il Brasile, con l’aiuto di Hugo Chávez, chiusero i loro conti col FMI: “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati” dissero mettendo fine a mezzo secolo di sovranità limitata.

Per anni i media mainstream mondiali hanno cercato di ridicolizzare il tentativo del popolo argentino di rialzare la testa, l’integrazione latinoamericana e la capacità del Sudamerica di affrancarsi dallo strapotere degli Stati Uniti e dell’FMI. A dieci anni di distanza, tirando le somme, ci si può levare qualche sassolino dalla scarpa su chi disinformasse su cosa.

Ancora un anno fa, nel momento della morte di Néstor Kirchner i grandi media internazionali –quelli autodesignati come i più autorevoli al mondo- avevano di nuovo offeso la presidente, con un maschilismo vomitevole, descrivendola come una marionetta incapace di arrivare a fine mandato. Il popolo argentino la pensa diversamente e il 23 ottobre 2011 l’ha confermata alla presidenza al primo turno con il 54% dei voti.

Cristina, e prima di lei Néstor, ad una politica economica che ha permesso all’Argentina di riprendere in mano il proprio destino, affianca una politica sociale marcatamente progressista dai processi contro i violatori di diritti umani alle nozze omosessuali.

Perfino nei media l’Argentina è oggi all’avanguardia nel mondo nella battaglia contro i monopoli dell’informazione: non più di un terzo può essere lasciato al mercato, il resto deve avere finalità sociali e culturali perché non di solo mercato è fatta la società.

A dieci anni dal crollo l’Argentina sta vincendo la scommessa della sua rinascita. I paradigmi neoliberali sono sbaragliati e dall’acqua alle poste alle aerolinee molti beni sono stati rinazionalizzati per il bene comune dopo essere stati privatizzati durante la notte neoliberale a beneficio di pochi corrotti.

I soldi investiti in educazione sono passati dal 2 al 6.5% del PIL e… la lista potrebbe continuare. Basta un dato per concludere: dei 200.000 argentini che nei primi mesi del 2002 sbarcarono in Italia (tutti o quasi con passaporto italiano) alla ricerca di un futuro, oltre il 90% sono tornati indietro: “meglio, molto meglio, là”.