martedì 27 settembre 2011

Crisi economica - update

Una serie di articoli sugli ultimi sviluppi della crisi economica strutturale globale in corso ormai da 4 anni.


Una stampella per l'euro
di Mario Braconi - Altrenotizie - 26 Settembre 2011

Anche se non lo dichiarano ufficialmente, i leader europei stanno lavorando ad un piano di salvataggio per l’Unione Europea. In questo momento la politica europea brilla per la sua inesistenza, mentre i capi di governo sembrano più preoccupati di vellicare i propri elettori che di tentare di fare la cosa giusta. Poiché questo è il contesto politico; gli speculatori globali che stanno tentando di far crollare l’euro non mollano.

Per questa ragione, dal punto di vista della realpolitik è benefico l’elettrochoc degli USA, che, con il consueto piglio imperialista, stanno in questi giorni dando lezioni di finanza ai capi europei (da che pulpito!), stimolandoli apertamente ad uscire dalla tranche e a prendere finalmente in mano la situazione.

La pressione dagli Stati Uniti è fortissima, e le parole Segretario del Tesoro americano Timothy Geithner pesano come macigni: “Bisogna togliere di mezzo il rischio di fallimenti a cascata, corsa agli sportelli bancari, ed in generale il rischio di catastrofe, altrimenti tutti gli sforzi che si stanno facendo, tanto in Europa che altrove per arginare la crisi”.

Nessun europeo si era mai azzardato a ventilare uno scenario di questo tipo, con le file agli sportelli bancari, e non c’è dubbio che quell’intervento non verrà dimenticato.

La preoccupazione americana è denunciata anche dalle (pare) frequenti telefonate di Obama alla Cancelliera tedesca Merkel, nel corso delle quali forse ha tentato di farle capire che, per quanto possa essere importante per il suo futuro politico interpretare la pancia dell’operaio Mercedes, il futuro di un intero continente è un tantino più importante.

Benché gli interessati facciano a gara di smentite, secondo il caporedattore Economia della BBC Robert Peston, che riporta voci provenienti dal Fondo Monetario Internazionale, un piano europeo starebbe prendendo forma.

Il primo punto dovrebbe essere il rafforzamento patrimoniale del Fondo europeo per il superamento della crisi (European Financial Stability Facility), che vedrebbe quadruplicare la sua dotazione, dagli attuali 440 miliardi di euro agli oltre 2.000.

Si tratterebbe di un bel salto in avanti, considerando che l’Unione Europea ha recentemente richiesto al fondo di passare a 780 miliardi: dato che poco meno della metà della dotazione è garantita da Francia e Germania, è facile immaginare con quale felicità la Merkel e Sarkozy possano aver ricevuto la di raddoppio della dotazione, proveniente dall’Europa; e con quale giubilo considerino la proposta di quadruplicarla, proveniente, nei fatti, dal Governo americano.

Secondo le indiscrezioni raccolte da Peston, Il piano fantasma imporrebbe un pesante sacrificio a tutti gli investitori privati che hanno finanziato entità greche, i quali potrebbero vedersi decurtati della metà i loro asset: e su questo, nulla da obiettare.

L’unica ragione per cui si giustifica un governo e uno Stato (o un super-stato) è quella di proteggere i suoi cittadini, non quello di immunizzare gli investitori spericolati dal rischio di impresa.

Il terzo pilastro del progetto di salvataggio dovrebbe infine concentrarsi sul rafforzamento patrimoniale delle banche, su cui aleggia ormai da anni lo spauracchio di una capitalizzazione troppo evanescente, specie in considerazione dei rischi assunti; e qui, si sta pensando certamente alle banche francesi, molto esposte verso la Grecia.

Si dice che ci vorranno almeno sei settimane per capire se il progetto di salvataggio sia agibile politicamente; un periodo di tempo che, nella situazione corrente, corrisponde ad un’era geologica.

La speranza è che il senso di responsabilità per una volta abbia la meglio e che i politici europei dimostrino uno scatto d’orgoglio, che potrebbe ridurre i danni per i cittadini che li hanno eletti.

Non è probabile che questo accada, e comunque è forte l’amarezza che si prova davanti ad una politica tanto incapace e imbelle da necessitare di essere eterodiretta.



Preparato un piano multitrilionario per salvare l'eurozona
di Philip Aldrick e Jeremy Warner - www.telegraph.co.uk - 24 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

I funzionari europei stanno lavorando a un grosso progetto per ripristinare la fiducia nell’area della moneta comune, che consisterebbe in una massiccia ricapitalizzazione delle banche e in un possibile default greco.

La autorità tedesche e francesi hanno iniziato a lavorare a porte chiuse a una triplice strategia proprio mentre si teme sempre di più che la crisi del debito sovrano dell’Eurozona possa andare fuori controllo.

Il loro obbiettivo è di costruire un “muro tagliafuoco” intorno alla Grecia, al Portogallo e all’Irlanda per evitare che la crisi si diffonda in Italia e in Spagna, paesi che sono considerati “troppo grandi per essere salvati”.

Secondo le fonti, sono stati fatti dei progressi nel corso della riunione del G20 che si è tenuta a Washington, dove i leader globali si sono mossi in coro perché l’eurozona risolva i propri problemi prima che il mondo affondi di nuovo nella recessione.

Nel comunicato del G20 pubblicato venerdì, le economie che guidano il pianeta hanno fissato un limite temporale di sei settimane per risolvere la crisi, per rivelare la soluzione da adottare del summit del G20 che si terrà a Cannes il 4 di novembre.

Le stesse fonti riferiscono che il piano dovrebbe essere implementato tutto assieme, visto che i singoli elementi non possono funzionare da soli.

Intanto, le banche europee dovrebbero essere ricapitalizzate con molte decine di miliardi di euro per rassicurare i mercati che un default di Grecia o Portogallo non farebbe precipitare in una crisi finanziaria sistemica.

Il piano per la ricapitalizzazione dovrebbe andare ben oltre i 2,5 miliardi di euro richiesti dai controllori in seguito agli stress test delle banche europee di luglio e riguarderebbe soprattutto i prestatori francesi oramai sotto pressione.

I funzionari sono fiduciosi che alcune banche potranno alzare i fondi privatamente, ma, se non fossero in grado, sarebbero comunque ricapitalizzate dallo stato o dall’European Financial Stability Facility (EFSF), la struttura di salvataggio da 440 miliardi di euro dell’eurozona.

La seconda parte del piano consiste nel potenziare l’EFSF. Alcuni economisti hanno stimato che avrebbe bisogno di 2 trilioni di euro per soddisfare le necessità di finanziamento di Italia e Spagna nel caso che i due paesi non avessero più accesso ai mercati.

I funzionari stanno lavorando per poter dare maggior potere all’EFSF tramite la Banca Centrale Europea per poter raggiungere gli obbiettivi.

Questo schema complesso vedrebbe l’EFSF fornire una parte relativa alle perdite di “capitale” di ogni fondo destinati ai salvataggi e la BCE dare il rimanente sotto forma di “debito” protetto.

Se l’EFSF dovesse sostenere il primo 20 per cento di ogni perdita, il bottino del fondo verrebbe alla fine portato a 2 trilioni di euro. Se l’EFSF dovesse coprire il 40 per cento di tutte le perdite, il fondo dovrebbe poter utilizzare un altro trilione di euro.

Usare l’indebitamento in questo modo consentirebbe ai governi di incrementare le risorse a disposizione presso l’EFSF senza dover ricorrere ai parlamenti nazionali per l’approvazione, dato che in molti paesi dell’eurozona si tratterebbe di una soluzione davvero problematica.

L’accordo è simile alla proposta fatta all’eurozona dal Segretario del Tesoro USA Tim Geithner nel corso della riunione EcoFin, che si è tenuta il 16 settembre in Polonia. I disordini febbrili nei mercati finanziari hanno convinto la Germania a collaborare a una qualche variante del piano statunitense, anche se all’inizio aveva rigettato il piano ritenendolo impraticabile, visto che minaccia di compromettere l’indipendenza della BCE.

La proposta sarebbe molto delicata per la Germania, dove il parlamento deve ancora ratificare l’accordo del 21 luglio per consentire all’EFSF di iniettare capitali nelle banche e di comprare il debito sovrano dei paesi che non fanno parte dell’Unione Europea e dei programmi di ristrutturazione del Fondo Monetario Internazionale. Il voto è atteso per il 29 settembre.

In cambio di un potenziamento dei bail-out, si ritiene che i tedeschi vogliano richiedere un default controllato per la Grecia, che dovrà comunque rimanere nell’eurozona.

In base al piano, i creditori del settore privato dovranno sostenere una perdita fino al 50 per cento, più del doppio della proposta del 21 per cento attualmente sul tavolo. Un nuovo programma di salvataggio dovrebbe essere quindi preparato per la Grecia.

I funzionari sperano che il piano possa arginare il panico nei mercati e fermare gli speculatori che stanno puntando sulle obbligazioni di Italia e Spagna, mentre i dati europei e del FMI evidenziano che questi due paesi non sono in pericolo immediato, ma che necessitano di riforme strutturali a lungo termine.

I delegati alla riunione del FMI tenuta a Washington hanno affermato che c’è stata “una svolta visibile per ritmo e modalità” per risolvere i problemi del debito sovrano, particolarmente nell’eurozona.

Ma oggi George Osborne, il Cancelliere, ha detto: "Nessuno ha proposto un piano per questo. La Grecia ha già un programma e deve solo implementarlo.”



Segui i soldi: dietro la crisi europea ci sono altri bailout per le banche
di David McNally - Global Research - 23 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Mentre stavo imprecando contro gli inutili commenti mainstream sull’economia globale, mi sono ricordato di una scena fondamentale in un film del 1976, “Tutti gli Uomini del Presidente”.

Mentre ci sono due giovani giornalisti che indagano sul furto con scasso avvenuto negli uffici del Partito Democratico allo Watergate Hotel, un agente scontroso e di alto livello dell’FBI, nome in codice Gola Profonda, dà un consiglio: “Seguite i soldi. Seguite sempre i soldi.”

Lo fecero. E , nel corso del processo, i veri giornalisti, Bob Woodward e Carl Bernstein, tolsero il coperchio a uno dei più grossi scandali della politica del XX secolo.

Da allora, il giornalismo investigativo del mainstream è entrato in un sonno profondo. Come Bernstein ha notato venti anni dopo Watergate, “i media, ogni settimana, ogni giorno e ogni ora che passa, riescono sempre a fare cose peggiori”.

E in nessun posto stanno facendo di peggio che nella loro copertura della crisi del debito in Europa. Come sempre, ci vengono propinate le più vacue banalità. “La Grecia ha vissuto al di là dei propri mezzi,” intonano gli esperti, “e ora deve pagare il conto”.

Lo stesso fanno per Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, che sembrerebbero essere tutti casi di gente fuori controllo che ora devono risistemare la propria casa, tramite tagli enormi ai programmi dei governi.

E questi tagli, noti in gergo come misure di austerità, rappresentano un crimine politico di uguale, se non maggior peso, del furto con scasso al Watergate, anche se non potrai venire a saperlo consultando la stampa mainstream, che da tempo ha perso ogni inclinazione per seguire i soldi.

Salvare le banche… Ancora

Se ci fossero giornalisti disposti ad ascoltare il consiglio di Gola Profonda, sarebbero costretti a tratteggiare una conclusione ineludibile: il salvataggio multi-trilionario che è iniziato nel 2008 non è ancora finito. Continua ancora oggi sotto forma di salvataggi per il debito pubblico.

E i tagli alle spese – per le pensioni, per l’educazione e per i lavori del settore pubblico – che portano devastazione alle vite di milioni di persone – servono solo a incanalare ricchezza collettiva verso le banche.

Considerate questo. Nella metà del 2011, le banche tedesche avevano prestato il 170 per cento del proprio capitale ai governi di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Le banche francesi avevano circa il 100 per cento di esposizione verso gli stessi governi (1).

I numeri sono significativamente più alti quando l’Italia viene aggiunta all’equazione. Le banche statunitensi, nel frattempo, hanno circa 700 miliardi di dollari di debito pubblico delle cinque economie più disastrate dell’Eurozona.

Anche se il default praticamente certo della Grecia non potrà far cadere le banche – quelle fuori dalla Grecia, si intende -, potrebbe provocare una serie di crisi del debito e altri default che potrebbero danneggiare altre nazioni.

I default dei debiti pubblici sembrano apparentemente inevitabili, e altrettanto lo sono perdite multi-miliardarie per il settore bancario.

Questo è il motivo per cui le azioni delle banche francesi come BNP Paribas e Société Générale sono in caduta libera da mesi. Questa è la ragione per cui le grandi aziende, le banche e gli hedge fund stanno facendo uscire i soldi dalle banche europee.

Siamo, in sintesi, molto vicini a vedere “La Crisi Finanziaria Mondiale: Il Sequel”, un disastro dalle enormi implicazioni. Ma c’è del giornalismo di indagine sulle cause?

Dove sono i racconti che spiegano perché, a tre anni dal fallimento della banca di investimento Lehman Brothers che ha dato il via al collasso finanziario del 2008, quasi niente sia cambiato?

In assenza di serie analisi, siamo assoggettati a questi notiziari idioti che danno la colpa ai popoli delle nazioni indebitate per tutto il casino esistente. Ricordate come la povera gente - che aveva contratto i mutui subprime - divenne il capro espiatorio degli Stati Uniti?

È stata tutta colpa dei poveri invece che delle banche che li hanno spinti, raggirati e imbrogliati per prendere soldi in prestito, per poter creare titoli tossici, ma altamente remunerativi, che si appoggiavano su questi mutui e che potevano essere venduti agli investitori.

Quasi la stessa cosa è successa in Irlanda, Spagna e Gran Bretagna. Allo stesso tempo, le banche di Germania e Francia inviarono i propri agenti di vendita presso governi e banche in altre parti dell’Europa.

Ora, queste stesse banche stanno guardando con orrore a quei prestiti si stanno guastando, proprio come avvenne negli Stati Uniti pochi anni fa, e anche loro stanno dando la colpa ai debitori.

E ancora, come fecero nel 2008-09, i governi si stanno affrettando per salvare le banche traballanti con i fondi pubblici. Questo è il motivo per cui la BCE, il FMI e i più grossi poteri in Europa continuano a soccorrere stati come Grecia, Irlanda e Portogallo. Di nuovo: seguite i soldi.

Quando i governi a corto di fondi ricevono centinaia di miliardi di nuovi prestiti, quei soldi sono inviati all’istante nei forzieri delle banche private per i pagamenti dei prestiti precedenti.

La situazione vista nel suo insieme, come ha osservato uno scrittore sul Financial Times, “somiglia a uno schema Ponzi o a uno piramidale” nei quali i prestatori iniziali sono ripagati con nuovi prestiti (2).

La differenza è data dal fatto che i nuovi prestiti vengono dai fondi pubblici, un altro modo per dire che le banche private vengono ancora una volta salvate dalla gente.

Come nella crisi bancaria globale del 2008-09, i profitti delle banche sono privati, ma le perdite sono pubbliche. Non proprio come direbbe il libero mercato. Ma è un buona cosa per i banchieri dissoluti.

E le dimensioni di questo affare invitante sono da togliere il fiato. In luglio, l’Ufficio di Contabilità del Governo ha pubblicato un documento che dettaglia i bailout delle banche.

Tra il dicembre 2007 e il luglio 2010 più di 16 trilioni di dollari erano stati indirizzati dal governo USA alle banche statunitensi ed europee (3).

Altri trilioni sono stati spesi per salvare le grandi aziende con sede negli USA e per finanziare i programmi degli stimoli. Ancora altri trilioni sono stati fatti piovere per i salvataggi bancari e per gli stimoli monetari in Cina, in America Latina, in Europa, eccetera.

Al tempo in cui pubblicai Global Slump (nel dicembre del 2010), la mia stima per il totale dei salvataggi bancari globali e della spesa per gli stimoli era nell’ordine dei 21 trilioni di dollari, circa una volta e mezzo il PIL degli Stati Uniti (4). Ora è chiaro che la mia valutazione, tra le più approfondite (e forse tra le più accurate) del tempo, era diversi trilioni distante dal vero totale.

Questi sbalorditivi salvataggio dei capitali globali hanno portato a un massiccio innalzamento dei debiti pubblici. Coinvolti in interventi senza precedenti in tutto il pianeta, le nazioni hanno preso a prestito sui mercati del debito, vendendo obbligazioni governative.

Ora, viste le dimensioni del debito accumulato, alcuni prestatori stanno diventando sempre più sospettosi. Dubitano delle capacità di molti governi di poter ripagare.

Come conseguenza i tassi di interesse sono saliti: Italia e Spagna possono prendere a prestito (per le obbligazioni a dieci anni) a tassi che superano il 5 per cento.

Per l’Irlanda, il tasso è salito oltre il 9 per cento; per il Portogallo ha superato l’11 per cento; e per la Grecia siamo arrivati all’incubo del 23 per cento.

E per quanto riguarda i prestiti a breve termine, la Grecia è già stata esclusa dai mercati monetari, che chiedono un tasso di interesse dell’80 per cento sulle sue obbligazioni a due anni. In sintesi, la Grecia è fallita e il default è solo una questione di tempo.

Estorcere tassi di interesse così alti significa che la crisi del debito andrà a peggiorare. Vietando un miracolo – o la nostra opzione preferita, il default – tutti questi paesi saranno ancora più indebitati il prossimo anno, e ancora di più l’anno successivo, a prescindere dai devastanti programmi di austerità.

Nel frattempo, questi programmi, con i forti tagli alla spese dei governi e enormi licenziamenti nel settore pubblico, acuiscono invariabilmente la crisi economica.

Già adesso il tasso ufficiale di disoccupazione in Irlanda è catapultato oltre il 14 per cento (il 27 per i giovani), mentre in Spagna raggiunge il 21 per cento (e il 45 tra i giovani).

La Grecia, nel frattempo, è in piena recessione, la sua economia si sta contraendo quest’anno del 5,5 per cento senza alcun segno di recupero per gli anni a venire.

Austerità e resistenza

E ancora, mentre il debito sale, i tagli continuano ad arrivare. L’ultimo pacchetto di salvataggi per la Grecia include due miliardi di euro di tagli al settore sanitario e l’eliminazione di ancora 30.000 dipendenti pubblici.

Sulla scia dei precedenti provvedimenti, l’Irlanda ha tagliato del 20 per cento gli stipendi delle infermiere e di altri dipendenti pubblici, oltre a ridurre sussidi per i bambini e per il sociale. Ovunque sono i più vulnerabili a essere sacrificati per far prosperare le banche.

Anche il più strano banchiere centrale è oramai costretto a riconoscere questa verità. Parlando a maggio ai membri del Parlamento britannico, Mervyn King, governatore della Banca di Inghilterra, ha osservato che “il prezzo di questa crisi finanziaria viene pagato da quelle persone che non l’hanno assolutamente causato.”

Per di più, ha continuato, “ora che siamo giunti al momento in cui vengono pagati i costi, sono sorpreso che il grado di rabbia della gente non sia più grande di quanto riesca a vedere.”

Naturalmente, ci sono state resistenze massicce: scioperi generali, occupazioni giovanili di piazze in Grecia e Spagna, rivolte popolare in Tunisia e Egitto, un’agitazione che è partita dalla scuola in Cile.

Ma in gran parte del pianeta, il grado della rabbia della gente è sorprendentemente basso, almeno fino a ora. E parte della responsabilità è da attribuire all’atteggiamento dei media che incolpa le vittime e si rifiuta di seguire i soldi.

C’è una sola ragione per cui abbiamo più bisogno ora di una politica economica radicale che mai. Uno dei segreti del capitalismo, dopo tutto, è il modo con cui oscura e nasconde i processi di sfruttamento economico. La ricchezza si muove e si accumula attraverso circuiti nascosti che tendono a eluderci.

Per questo le serie analisi economiche richiedono un vero lavoro di indagine, atti investigativi che possano scoprire gli sporchi segreti del capitalismo - gli sweatshop, il lavoro minorile, i migranti spremuti nei campi o nell’edilizia – e le fantastiche ricchezze che sono così rese possibili.

Abbiamo bisogno delle stesse sensibilità quando ci si riferisce alla crisi del debito che in questo momento sta colpendo gran parte dell’Europa.

Di fronte ai discorsi banali dei media mainstream sui debitori indisciplinati, dovremmo dimostrare che, come suggerito da un esperto consulente economico della banca UPS, stiamo avendo a che fare con “una crisi epocale del capitalismo” (6). Questa crisi attribuisce i crimini del sistema gli innocenti. E c’è un modo molto potente per dimostrarlo: segui i soldi. Bisogna sempre seguire i soldi.

Note:

1. Vedi le tabelle assemblate da Martin Wolf, “The Eurozone after Strauss-Kahn”, Financial Times, 17 maggio 2011.

2. Mario Blejer, “Europe is Running a Giant Ponzi Scheme”, Financial Times, 5 maggio 2011.

3. United States Government Accountability Office, Federal Reserve System: Opportunities Exist to Strengthen Policies and Processes for Managing Emergency Assistance (luglio 2011), Tabella 8, p. 131. Un ‘analisi importante di questo report è fornita da Petrino Dileo, “The $16 Trillion Bailout”, socialistworker.org, 7 settembre 2011.

4. David McNally, Global Slump: The Economics and Politics of Crisis and Resistance, Oakland, PM Press, 2011, pp. 2-3, 197n4.

5. Vedi i miei precedenti post, “Night in Tunisia: Riots, Strikes and a Spreading Insurgency”, 8 gennaio 2011 e “Mubarak's Folly: The Rising of Egypt's Workers”, 11 febbraio 2011. Sulle proteste degli studenti in Cile, vedi Manuel Larrabure e Carlos Torchia, “'Our future is not for sale': The Chilean Student Movement Against Neoliberalism”, The Bullet, N. 542, 6 settembre 2011.

6. George Magnus, “Markets are Reacting to Crisis of Capitalism”, Financial Times, 12 settembre 2011.



3000 miliardi di ridicole promesse
di Felice Capretta - http://informazionescorretta.blogspot.com - 25 Settembre 2011

Al G20 una delle grandi decisioni è stata quella di espandere il fondo europeo salva-stati da 400 miliardi a 3000 miliardi di euro. Bla bla bla. La storia è un po' sempre la stessa... tanti miliardi promessi per salvare l'eurozona accoppata dalle divergenze interne e dallo spostamento dell'insolvenza dalle banche agli stati. Poi bisogna vedere all'atto pratico effettivamente chi e come pagherà.

Vedremo la prova dei mercati. Nel frattempo Atene va a picco e Venizelos ribadisce che lo stato è ancora troppo grasso e bisogna fargli fare una bella cura dimagrante.

Dopo i tagli e i licenziamenti, dopo la patrimoniale sulla casa e dopo l'aumento dell'IVA, altri tagli e licenziamenti.

Cosa succederà in futuro?

E' sempre difficile cercare di fare anticipazioni, ma su Informazione Scorretta gira sempre il profumo dell'anticipazione.
Molto semplicemente, i soldi sono finiti. Punto. L'economia ha raggiunto il punto di collasso sistemico nel 2008 con la caduta di Lehman Brothers e da allora tutto è finito.

Quello che abbiamo vissuto in questi anni è stato il classico rimbalzo del tasso morto, mentre il G20 tenta di ripetere l'operazione. Un altro calcio al barattolo, ma la strada è cieca.
Quindi non ci sono più soldi, anche se lo ripetiamo dal 2008, e non c'e' più margine per la crescita.

Ora le strade naturalmente sono due: o si salva la Grecia una volta al mese, o si lascia fare default. Nel secondo caso assisteremmo probabilmente alla fine dell'Euro ed alla fine dell'economia. Quindi c'e' interesse a che la Grecia sia salvata.


Si, ma chi paga?


Sappiamo bene che le caste si guardano bene dal pagare di tasca propria. Loro non sono scemi, i soldi li prendono dallo stato, mica glieli danno.
Quindi Atene ed il grasso Venizelos in persona continueranno a fare la sola cosa che sanno fare: tassare e far pagare i greci.

Queste saranno chiamate ancora "misure di risanamento", che risanano solo le tasche di Venizelos, delle banche e dei poteri che dominano lo status quo, e il FMI e il G20 e il fondo salva stati concederanno un'altra tranche di salvataggio.
Parola di Venizelos:
pronto a prendere le iniziative necessarie, qualsiasi costo politico questo richiedano
Si continuerà così, sempre di più, saccheggiando le tasche dei greci e le tasche della Grecia come nazione, fino a quando...

Il punto di rottura


Fino al punto di rottura. Ci sono due possibilità. Fino a quando i greci non faranno qualcosa. Perchè ormai lo sappiamo, lo abbiamo visto in Egitto ed in Tunisia: protestare a milioni non serve a niente, se vogliamo che se ne vadano bisogna andare a prenderli a casa.

Oppure, fino a quando gli eventi non travolgeranno le ridicole misure di salvataggio e l'ammonticchiare di migliaia di miliardi si riveleranno per quello che sono: inutili promesse prive di fondamento pratico, e sara' chiaro a tutti che i soldi sono finiti.

Nel frattempo, si sbadiglia.
Ricordiamoci pero' che oggi tocca ad Atene, ma domani a Roma. Proteste negli USA E guarda caso, l'occupazione di Wall Street sta iniziando a dare risultati, con assembramenti spontanei non solo a New York.

Ieri i primi arresti
, in particolare è stato fermato il team che realizzava gli streaming live su internet, chiaro segnale che le proteste hanno fatto il salto di qualità e stanno iniziando ad impensierire qualcuno.

Si è scomodato perfino il dipartimento di Homeland Security con suoi uomini presenti nei pressi della manifestazione, in particolare con l'unità di crisi biologica e chimica.
Segnali di inquietudine.


Non può piovere per sempre, ma per un po' sì
di Beppe Grillo - www.beppegrillo.it - 25 Settembre 2011

Il 2008 è stato l'anno del crack. L'economia di carta si è schiantata. L'architrave su cui si reggeva erano le banche. Non potevano fallire, sarebbe saltato il sistema. Gli Stati hanno dovuto indebitarsi per finanziarle.
Molti erano già pesantemente esposti e non hanno retto. I più deboli, come sempre avviene, hanno ceduto per primi e stanno trascinando con sé, in un castello di carte, altri Stati. I governi rassegnano le dimissioni. E' successo in Grecia, in Portogallo, in Spagna. E' del tutto improbabile che a Sarkozy e alla Merkel, e forse allo stesso Obama, venga rinnovato il mandato.
Il salvataggio delle banche ha affossato i governi, ma il debito degli Stati, acquistato negli anni sotto forma di titoli dalle banche, le ha riportate alla casella di partenza, come in un gioco dell'oca. Le banche francesi sono le più esposte verso la Grecia, hanno in pancia decine di miliardi di carta straccia di titoli.
Lo stesso vale per le banche italiane che posseggono 200 miliardi del nostro debito. La Francia sta valutando la nazionalizzazione delle banche. In Italia il valore azionario delle banche è stato dimezzato. Il fallimento di Wall Street si sta trasformando nel fallimento di Main Street, dall'economia di carta si passa all'economia reale, alle strade. E' l'inizio di una traversata nel deserto che cambierà tutto, anche se non sappiamo ancora in che modo. Non sarà indolore.
Nel 1929, anno gemello del 2008, vi fu il crollo delle Borse, al quale seguì la Grande Depressione che durò anni. Nell'ottobre del 1929 negli Stati Uniti la disoccupazione era del 5% e l'indice Dow Jones 343. Due anni dopo, la disoccupazione era cresciuta al 17,4% e l'indice DJ sceso a 140.
La situazione si aggravò nel 1933, l'equivalente del prossimo 2012, con il 23,2% di disoccupati e l'indice DJ a 90. Nel 1934 la situazione, nella sua gravità, rimase identica. Nel 1938, la maggiore economia del mondo aveva ancora il 17,4% di disoccupazione, più di tre volte quella pre crisi, e il valore del DJ era 121, tre volte in meno del 1929.
Poi venne la Seconda Guerra Mondiale che azzerò ogni cosa. La Storia non si ripete mai uguale, ma presenta spesso molte somiglianze. La crisi durerà a lungo e sarà dura. Il biennio 2012/2013 potrebbe essere il peggiore con licenziamenti di massa nel settore pubblico e fallimenti a catena delle aziende private.
Alcune democrazie potrebbero essere a rischio. Nel 1933 Hitler venne eletto cancelliere. Vis pacem, para bellum. E' tempo di affrontare il futuro che ci aspetta a viso aperto, senza più deleghe. "Guardala in faccia la Realtà! .......è più sicura!".


Grecia, chi paga la crisi
di Margherita Dean -
Peacereporter - 21 Settembre 2011

Il prezzo devastante della sesta tranche di aiuti ad Atene. Il ministero delle finanze greco: 'Per fortuna c'è la troika'


I soldi non si trovano proprio in Grecia. Le misure di austerità adottate dal marzo 2010 a oggi non sono servite a nulla per dare un soffio di vita al Paese. Con la recessione giunta al 7,7 per cento, la ricetta rimane sempre quella: tagli, licenziamenti, tasse.

Mentre la maggior parte di Greci si chiede come pagherà la sesta tassa straordinaria del 2011, quella sugli immobili, che sarà imposta attraverso le bollette della luce di ottobre e novembre, il Ministro delle Finanze, Evanghelos Venizelos, e i commissari della troika si sono incontrati, nel corso della teleconferenza di ieri sera, per definire quei ‘'dettagli'' che dovrebbero sbloccare la sospirata sesta tranche (di otto miliardi) del prestito contratto dalla Grecia con la Bce, il Fmi e l'Ue.

I dettagli altro non sono che nuove misure di austerità: 28,35 miliardi entro il 2014 invece che entro il 2015, come inizialmente previsto dal programma di medio termine, votato dal Parlamento ellenico alla fine di giugno.

In particolare:

  • Circa 58.000 lavoratori del settore pubblico, a tempo determinato, saranno licenziati.

  • Saranno posti in ‘'disponibilità'' dai venti ai trentamila dipendenti statali, regionali e comunali. Essere ‘'in disponibilità'', significherà percepire il 60 per cento dello stipendio per 12 mesi e poi essere licenziati.

  • Chi, sempre nel settore pubblico, non sarà licenziato, subirà la riduzione del 40 per cento dello stipendio.

  • Sarà imposto un tetto massimo a tutte le pensioni.

  • Si abbasserà la soglia dell'imponibile fiscale: questa era di 12.000 euro annui e, nel corso del 2010, è stata ridotta a 8.000 euro. Si prevede che ora scenda ulteriormente, per arrivare ai 6.000 euro; ciò significa che saranno tassati tutti coloro che percepiscono più di 501 euro al mese.

  • Sarà equiparata la tassa sul petrolio per riscaldamento a quella sul carburante, cosa che significherà che, dal 15 ottobre, il litro di petrolio per riscaldamento costerà il 55 per cento in più. D'altra parte, all'inizio di luglio la società del gas naturale di Atene, aveva annunciato l'aumento del 18 per cento sulle bollette.

  • Infine, subiranno ulteriori aumenti tutte le tasse sugli immobili.

    Intanto, nel rapporto autunnale del Fmi sull'economia mondiale dal titolo ‘'Slowing Growth, Rising Risks'', si prevede che, nel 2012, il debito greco arrivi al 189 per cento del Pil (oggi si attesta al 166 per cento), la disoccupazione al 18,5 per cento (oggi al 16,8 per cento) e lo sviluppo al meno 2 per cento. Previsioni molto peggiori di quelle che, a giugno, aveva fatto lo stesso Fmi.

  • Poche ore fa in Parlamento, il Ministro delle Finanze ha dichiarato che per la Grecia è una fortuna avere la troika.



Perché il 1° ottobre
di Giorgio Cremaschi - Liberazione - 22 Settembre 2011

Da Standard&Poor’s, alla Confindustria, al Corriere della Sera, è un coro unico. Berlusconi se ne deve andare. Non è paradossale che l’uomo più ricco d’Italia, colui che ha governato il sistema politico italiano negli ultimi vent’anni nel nome dell’impresa e del mercato, sia sfiduciato da questi ultimi.

Per il capitale gli stati sono come aziende, e se gli amministratori delegati sono inaffidabili e impresentabili devono essere licenziati. La crisi della democrazia italiana sta anche in questo: che gli enormi guasti sociali, civili, morali, che l’hanno colpita, per opera decisiva di Silvio Berlusconi, non sarebbero stati sufficienti a farlo cadere se non ci fosse stata la crisi del debito.

Berlusconi viene licenziato dai suoi colleghi padroni, ma è ancora lì a far danni, perché i virus autoritari della seconda repubblica non hanno vaccini sufficienti. Almeno per ora.

Nella tanto vituperata prima repubblica dei grandi partiti e delle organizzazioni di massa, del proporzionale, del conflitto politico e della lotta di classe, un capo di governo indegno e indecente come Berlusconi sarebbe già stato liquidato dalla sua stessa parte.

Così non è oggi ed è per questo che cacciare Berlusconi è condizione necessaria, ma assolutamente non sufficiente per riprendere un percorso realmente democratico.

Dovremo scendere in piazza, mobilitarci, perché l’uomo delle escort e la sua corte ci liberino del loro ridicolo.

Ma dobbiamo nello stesso tempo sin d’ora preparare l’alternativa a chi vuole cacciarlo e pensa di farci pagare tutti i conti del suo disastro.

Abbiamo due avversari. L’attuale governo e il governo unico delle banche e della finanza europee e mondiali, che stanno distruggendo con le loro ricette liberiste lo stato sociale e i diritti in tutta Europa.

Il primo avversario è oramai in crisi, il secondo invece aumenta prepotenza e arroganza, nonostante sia altrettanto responsabile dei nostri guai.

Nel nome della cacciata di Berlusconi si chiedono ancora tagli alle pensioni, privatizzazioni, liberalizzazioni, ulteriori flessibilità nel mercato del lavoro. E’ un terribile accanimento terapeutico contro un corpo sociale massacrato da anni di flessibilità, bassi salari, distruzione dei diritti sociali e dei beni comuni. Eppure pare l’unica strada.

Anche la Cgil cede ad essa firmando, senza neppure la consultazione dei lavoratori, l’accordo del 28 giugno. Accordo da cui ha preso spunto quell’articolo 8 della manovra che cancella contratti e Statuto dei lavoratori.

Pare che Berlusconi debba essere cacciato perché non è stato sufficientemente di destra e antisociale. A tutto questo dobbiamo porre rimedio con le sole armi a nostra disposizione: la costruzione di un altro punto di vista, di un’altra via per uscire dalla crisi e la mobilitazione per percorrerla.

Oggi il debito non può essere pagato. La Grecia è arrivata ai sacrifici umani pur di far contenti gli strozzini della Banca Europea (che poi sono le banche francesi e tedesche) e del Fondo Monetario Internazionale. Taglia, taglia e non basta mai perché il debito cresce. Più tagli, più lo alimenti.

L’Italia è sulla stessa via. Gli interessi sul debito sono pari a 80 miliardi di euro all’anno, le attuali catastrofiche manovre ne finanziano forse due terzi. Quindi anche noi continuiamo a tagliare mentre il debito cresce.

Non si può più andare avanti per questa via e tutte e tutti coloro che anche nel centrosinistra si piegano ad essa, preparano, dopo la catastrofe di Berlusconi, un altro disastro.

Bisogna fermare la schiavitù del debito e rompere radicalmente con la politica economica liberista. La lotta all’evasione fiscale, la tassa patrimoniale, devono servire a finanziare la ripresa dei salari, dei diritti, della crescita fondata sui beni comuni e non finanziare gli interessi delle banche.

Se si facesse solo questo, anche una patrimoniale severa sarebbe solo una partita di giro, che tornerebbe al mondo dei ricchi attraverso la speculazione finanziaria.

Bisogna rompere la macchina infernale del debito e delle politiche liberiste che l’alimentano e per questo occorre una svolta radicale. La politica italiana di oggi non è in grado di farlo. Pensa di sostituire Berlusconi con qualche banchiere più affidabile ed estraneo al mondo della prostituzione di lusso. Ma così la crisi sociale si aggrava.

E i drammatici segnali di catastrofe civile che vediamo oggi a Lampedusa potrebbero estendersi ben oltre quell’isola. Bisogna ricostruire una politica democratica basata sull’uguaglianza sociale e pertanto fondata sulla distruzione delle politiche economiche liberiste.

Altro che le filosofie bocconiane ben strapazzate ieri da Dino Greco su queste pagine. Per questo in 1.500 abbiamo firmato un appello per trovarci a Roma il 1° ottobre, per lanciare anche in Italia, così come sta avvenendo in tutta Europa, un movimento contro la schiavitù del debito, per far pagare davvero la crisi ai ricchi e soprattutto per non pagarla più noi.

La piccola Islanda ci ha insegnato la via da percorrere. Bisogna partire da qui, bisogna partire da una piattaforma alternativa a quella di chi ha sfiduciato Berlusconi in nome degli interessi del grande capitale.

Bisogna che la successiva manifestazione del 15 ottobre esprima una profonda sintonia con l’appello degli “indignados” spagnoli, che non chiedono semplicemente un cambio di governo (da loro le politiche dei tagli li amministra il governo socialista), ma vogliono ripristinare la democrazia distrutta da trent’anni di politica economica liberista.

L’alternativa a Berlusconi e al liberismo si comincia a costruire sin d’ora, mentre si lotta per cacciarlo, solo così non finiremo dalla padella nella brace. Non siamo tutti nella stessa barca.


Una crescita senza benessere

di Guido Viale - www.ilmanifesto.it - 25 Settembre.2011

La crescita (che non c'è e, dove c'era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit - e debito - e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito).

Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati».
Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch'essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus).

Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l'avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l'andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.


La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito.
Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto?

In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l'irreversibilità della situazione.


La posizione dell'Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una crescita sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia.

Ma qui i beni da saccheggiare - in barba ai risultati dei referendum - sono più succosi, mentre una presa d'atto del fallimento farebbe saltare, insieme all'euro, anche l'Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo.

Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato - e selettivo: per colpire meno i piccoli risparmiatori - l'Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall'oggi al domani.

Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico.
Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati nazionalizzando di fatto, per un po', le banche.

Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall'Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la Bce.


Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava "sviluppo") che non è mai venuta.


Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi sotto tutela dal Fmi, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla Bce e dal Fmi ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito.

La letterina (segreta) che la Bce ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio.

Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare - in parte - il loro debito.


La crescita di cui parlano gli economisti - e di cui blaterano tanti politici - è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l'invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di sviluppo accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati locomotive del mondo.

Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull'occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e - soprattutto: questa dovrebbe essere la "molla" della ripresa - di Grandi opere.

Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l'opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all'abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il Tav in Val di Susa ne è il paradigma. Per la protezione dell'ambiente, invece, niente.

Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va - temporaneamente - sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l'equità - tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l'oggi e le generazioni future - meno ancora.


La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l'occupazione (c'è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del Pil, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall'aumento delle persone disoccupate, scoraggiate o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né dalla distruzione della socialità e della socievolezza.


Infine, la crescita affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per dare una spinta - con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere - a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle propensioni del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance - intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio - perché è l'impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali).

Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità.

Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza.

Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.

Per far fronte alla crisi - che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione - valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo - ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere un programma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi.

Non c'è spazio - né ambientale, né economico, né sociale - per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell'informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (rime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attavvo).


Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare.

Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica.
Sostituire un'economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o omologato: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere.

La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili.


Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l'azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili al pozzo senza fondo del debito pubblico.


Ma certo questo richiede l'esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti). L'alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.