domenica 4 settembre 2011

Libia - update

Ancora un aggiornamento sulla guerra in Libia.

Oggi i cosiddetti "ribelli" avevano dichiarato in pompa magna che Bani Walid s'era arresa, dopo poche ore invece è arrivata la smentita.

Bani Walid non s'è arresa affatto e nessuno ovviamente sa dove sia Gheddafi...



Non facciamo diventare Sirte una nuova Guernica
di Marinella Correggia - Megachip - 4 Settembre 2011

Mobilitiamoci in piazza almeno ora. Nei prossimi giorni. Se non ci si indigna per la guerra per cosa lo si farà mai?

La Guernica libica sarà forse Sirte, o le altre città “nemiche” non ancora conquistate dalla Nato-Cnt? “In Libia i bombardamenti e la guerra continuano. Ci sono Sirte, Ben Walid, Sebha, Brega” dice dalla capitale della - ex? - Jamahiriya un amico sub-sahariano che adesso aspetta l’evacuazione.

Acqua e viveri tagliati

Alla popolazione di Sirte, la Nato e il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) hanno concesso alcuni giorni per la resa, pena l’assalto finale.

Secondo il messaggio – certo non verificabile - alla rivista Argumenti.ru, mentre le forze del Cnt assistite da forze speciali estere circondano l’area e respingono dentro le famiglie di civili che cercano di fuggire, dall’alto piovono i bombardamenti dell’operazione Unified Protector, che sotto il mandato dell’Onu che imponeva una no-fly zone “deve continuare la sua missione di proteggere i civili” come ha affermato il 30 agosto la sempre surreale portavoce Nato Oana Longescu.

Secondo la denuncia del superstite portavoce governativo Mussa Ibrahim all’agenzia cinese Xinua, a Sirte una pioggia di razzi piovuti sui fedeli nell’ultimo giorno di ramadan avrebbe ucciso un migliaio di persone. Se anche fossero cento, o cinquanta, sarebbe comunque troppo.

Non solo: i bombardamenti hanno azzerato gli approvvigionamenti in acqua, cibo ed elettricità. Ecco l’analogia con la sorte di Falluja, che nell’ottobre 2004 fu privata di tutto prima dell’assalto finale dei marines che uccise migliaia di persone arrivando a usare il fosforo bianco.

In grado minore anche Tripoli prima dell’attacco del 21 agosto è stata sottoposta a mesi di assedio: bombardamenti a infrastrutture, sabotaggi di condutture, embargo navale hanno causato carenze di gas, cibo, farmaci, benzina, elettricità e acqua, con conseguenti disagi anche pesanti.

Come precisa il sito warisacrime.org, l’assedio viola le Convenzioni di Ginevra, così come i bombardamenti su obiettivi civili; che da luglio la Nato considera ufficialmente legittimi.

Misrata e Bengasi: casus belli

Gli armati asserragliati a Sirte e nelle altre città saranno accusati di usare i civili come scudi umani. Invece quando a Misrata erano i ribelli a nascondersi nelle case, la colpa dei morti nel fuoco incrociato e sotto le bombe Nato fu tutta addossata all’esercito libico che circondava la città: si veda il rapporto di Amnesty International Misrata under Siege, dello scorso aprile. Eppure, molte famiglie di Misurata avevano scelto di rifugiarsi nelle zone lealiste e non a Bengasi.

Dopo due mesi di scontri a terra e guerra dai cieli, Human Rights Watch stimava in alcune centinaia le vittime civili della guerra a Misrata. Proteggere i civili di Misrata era il pretesto fornito dalla Nato per continuare a bombardare la Libia. A Sirte le vittime civili potrebbero già essere molte di più. Ma gli assediati non sono tutti uguali.

Del resto la guerra della Nato è ufficialmente iniziata per rispondere all’assedio di un’altra città: Bengasi. Ricostruisce gli eventi il docente statunitense Maximilian Forte un articolo su Counterpunch proprio richiamando il recente ultimatum: “Tripoli, Sirte e Sabha possono essere sacrificate, e non ci sono proteste nemmeno di fronte ai recenti massacri a Tripoli.

Invece Bengasi era per i leader dell’Unione Europa la città sacra”. Obama, Cameron e Sarkozy insieme scrivevano ai giornali: “Con la nostra rapida risposta abbiamo fermato l’avanzata delle forze di Gheddafi. Abbiamo evitato il bagno di sangue che egli aveva promesso alla città assediata. Abbiamo protetto decine di migliaia di vite umane”.

Però allora, sottolinea Forte, “non solo i jet francesi hanno bombardato una colonna di militari libici che era in ritirata, ma si trattava di una colonna ridotta che comprendeva camion e ambulanze”.

E soprattutto, a parte la retorica di Gheddafi, “non c’erano prove che Bengasi sarebbe stata sterminata: lo deduceva molti mesi fa un altro docente statunitense, Alan J. Kuperman, nel suo articolo “False pretense for war in Libya?” pubblicato sul Boston Globe: “Quando le truppe di Gheddafi hanno riconquistato in gennaio in tutto o in parte diverse città – Zawiya, Misurata, Adjabya, con una popolazione totale ben superiore a quella di Bengasi, non sono avvenuti genocidi… malgrado la diffusa presenza di cellulari per fare video e fotografie, non c’è prova di un massacro deliberato”: in effetti i diecimila morti denunciati nei primi giorni di proteste, nelle successive stime della stessa Corte penale erano scesi a circa duecento (più o meno equamente suddivisi fra le due parti).

Proseguiva Kuperman: “E del resto Gheddafi non aveva minacciato di sterminio nemmeno Bengasi. Il suo ‘senza pietà’ del 17 marzo, secondo lo stesso New York Times si riferiva solo ai ribelli armati, mentre per quelli che si disarmavano era promessa una amnistia”.

Conclude Monteforte: per una amara ironia, le prove dei massacri in Libia si riferiscono alle fasi successive all’intervento Nato. E soprattutto agli ultimi giorni. Lo dimostrano gli stessi reportage da Tripoli dei media mainstream che pure avevano appoggiato la rivolta (una sintesi degli stessi in www.mondialisation.ca).

Insomma, come sintetizza Peacelink, la guerra iniziata per salvare Bengasi termina con un altro assedio. La guerra iniziata per “proteggere i civili” termina in un bagno di sangue.

La guerra iniziata per i diritti umani termina con la violazione generalizzata degli stessi (persecuzione di neri e “sconfitti”). E la guerra iniziata per la “democrazia” termina con il Cnt che non riconosce in Libia l’esistenza di una parte della popolazione non allineata: “Non abbiamo bisogno di forze dell’Onu per la sicurezza. Qui non è in corso una guerra civile, è un tutto un popolo contro un dittatore” ha dichiarato giorni fa il capo dello stesso Cnt Abdel Jalil.

A metà maggio Aisha Mohamed era in transito nella tunisina Djerba. Aveva finito un anno di specializzazione in Gran Bretagna e aveva scelto di andare a condividere la guerra con la sua famiglia, che stava subendo la guerra. A Sirte. Se è ancora là, Aisha è in trappola.



Si scrive Tripoli, si legge Beirut?
di Simone Santini - www.clarissa.it - 4 Settembre 2011

Si chiama Abdel Hakim Belhaj. È il nuovo governatore militare di Tripoli, ed è un islamico radicale, un jihadista. Lui stesso racconta di aver incontrato Bin Laden per l'ultima volta nel 2000 e che lo sceicco del terrore gli offrì di combattere insieme ad Al Qaeda contro gli americani e gli israeliani. Lui rifiutò, ma sono in tanti a nutrire dubbi e sospetti sul suo passato pieno di ombre.

Chi lo ha incontrato recentemente a Tripoli, come l'inviato Bernardo Valli di La Repubblica, racconta che il 45enne Belhaj porta la folta barba nera dei fondamentalisti islamici ma il suo viso giovanile e i suoi modi esprimono candore e dolcezza, in netto contrasto con la fama di duro guerrigliero.

Alla fine degli anni '80 ha combattuto in Afghanistan, alleato di Bin Laden, ma con la cacciata dei sovietici i rapporti con lo sceicco del terrore si sarebbero interrotti. Non ne sono stati convinti gli americani che lo arrestavano nel 2004 in Malesia trattenendolo in un carcere speciale di Bangkok dove sarebbe stato torturato da agenti della Cia prima di essere riconsegnato alla Libia. Ma in questa ricostruzione ci si perde.

Secondo altre fonti, infatti, Belhaj avrebbe guidato il Gruppo libico di lotta islamica, uno dei più oltranzisti nella opposizione contro Gheddafi, ma anche profondamente infiltrato dalla stessa Cia.

È possibile che gli americani abbiano tradito Belhaj perché in quel frangente lo scenario internazionale stava mutando e il raìs libico, da "cane rabbioso" tornava ad essere un interlocutore fondamentale per tutte le cancellerie occidentali, Washington per prima.

In Libia Belhaj è incarcerato in cella di isolamento per sei anni, una gattabuia senza un filo di luce, ed è già un miracolo che non sia stato giustiziato subito per aver partecipato a tre attentati contro Gheddafi.

Alla fine viene salvato grazie al programma "pentimento degli eretici" voluto da Saif al-Islam, il figlio del Colonello e suo erede politico, così il comandante fondamentalista rinnega formalmente la sua fede jihadista e fa abiura dei suoi principi teologici. Esce di carcere.

Ma non passa un anno che si trova sulle montagne occidentali libiche ad organizzare la guerriglia e ad imporsi come comandante grazie alla sua esperienza afgana e il suo carisma.

Come nella guerra per Kabul, Belhaj e i suoi uomini usano i rifornimenti e i materiali militari della Cia e delle altre intelligence occidentali. Un ritorno a casa?

Non è chiaro chi l'abbia nominato governatore militare di Tripoli. Si dice per acclamazione diretta delle stesse truppe sul campo, dopo che i suoi uomini avevano conquistato Piazza verde e successivamente il bunker di Bab al Azizya. Ma di nuovo ci si perde nella ricostruzione.

Ad esempio uno dei comandanti ribelli della "brigata Tripoli", che ha occupato la capitale, parla senza peli sulla lingua: "Quelli che comandano ora, noi non li vogliamo. Punto. O si cambia o si finisce male. Belhaj non ha combattuto per occupare Tripoli, e non ci piacciono le sue frequentazioni del passato. O se ne va o lo mandiamo via. [... Lo pensa] il novanta per cento delle nostre brigate, una decina di migliaia di uomini. Pensiamo che il Cnt [Consiglio nazionale di transizione] ci debba ascoltare, ma se non lo fa, abbiamo le armi per farci ascoltare. Noi abbiamo liberato Tripoli, possiamo liberarla nuovamente".

La presenza di Belhaj quale capo militare del Cnt a Tripoli crea non pochi imbarazzi anche a Bengasi, ma è certo che l'uomo si trovasse al fianco del presidente del Consiglio dei ribelli, Mustafà Abdel Jalil, sia nella riunione di Parigi durante l'incontro con Sarkozy, sia a Doha, nel Qatar, durante la riunione della Nato, presentato in qualità di "mano armata della rivoluzione".

Non si può dimenticare che pochi giorni prima del putsch contro Tripoli, il comandante militare delle milizie ribelli, il generale Abdel Fattah Yunes, era stato assassinato proprio per mano delle fazioni islamiche. La fine di Yunes, la repentina ascesa di Belhaj, la caduta di Tripoli, difficilmente possono non essere messe in relazione.

Ora la capitale risulta divisa in settori, ognuno dei quali controllato da una diversa milizia e che risponde a proprie logiche e assetti di potere. "La brigata Zitan ha preso il controllo dell'aeroporto, quelli di Misurata stanno piantati a guardia della banca centrale e del porto, le brigate Tripoli tengono il centro della città, mentre i berberi delle montagne, quelli della brigata Yafran, sono al comando degli altri quartieri del centro. Chi ricorda i venti anni della guerra del Libano non può non ricordare che tutto cominciò con la divisione dei quartieri tra sciiti, sunniti, cristiano-maroniti, nasseriani, e drusi", scrive Mimmo Càndito su La Stampa.

E senza contare i lealisti che, sicuramente ancora presenti in forze, si celano nell'ombra forse in attesa di una occasione propizia. Il "tragico puzzo di Libano che infesta l'aria" di Tripoli fa temere che la guerra non sia ancora finita, e un'altra ancor più drammatica stia covando sotto le ceneri della capitale liberata.

Fonti:
Mimmo Càndito, Le Tribù si spartiscono la capitale: "Via gli islamisti o li cacciamo noi", La Stampa, 2 settembre 2011.
Bernardo Valli, Lo jihadista che disse no a Bin Laden: "Guiderò Tripoli verso la libertà", La Repubblica, 3 settembre 2011.



Il futuro del paese secondo i piani delle potenze alleate
di Manlio Dinucci - Il Manifesto - 4 Settembre 2011

Nella rappresentazione mediatica della guerra di Libia, dominano la scena i «ribelli», mentre la Nato è defilata. Eppure è nella sua cabina di regia che è stata preparata e diretta la guerra e che si decide il futuro assetto del paese.

La missione della Nato è «ancora necessaria», ha dichiarato la portavoce Oana Lungescu. Nessuno ne dubita: in cinque mesi di «Protezione unificata» sono state effettuati 21mila raid aerei, di cui oltre 8mila di attacco con bombe e missili, mentre decine di navi da guerra hanno attaccato con missili ed elicotteri e controllato le acque territoriali libiche per assicurare l'embargo alle forze governative e le forniture a quelle del Cnt di Bengasi.

Allo stesso tempo agenti e forze speciali di Stati uniti, Gran Bretagna, Francia e altri paesi hanno svolto un ruolo chiave sul terreno, segnalando agli aerei gli obiettivi da colpire oltre a preparare e guidare l'attacco a Tripoli. La Nato ha svolto un ruolo decisivo senza il quale i ribelli non avrebbero mai potuto entrare a Tripoli, come conferma il generale tedesco Egon Ramms.

La nostra missione, ha dichiarato il segretario generale dell'Alleanza Anders Fogh Rasmussen, continuerà fino a che continueranno gli attacchi e le minacce (sic). Significa che, compiuta la «missione», la Nato lascerà ai libici la possibilità di decidere il futuro del paese? Per niente.

Passerà alla fase 2 della «missione». Non esiste semplicemente una soluzione militare a questa crisi, sottolinea un comunicato dell'Alleanza, ma abbiamo bisogno di un processo politico per una pacifica transizione alla democrazia in Libia. E la Nato, assicura Rasmussen, è pronta a svolgere un ruolo di sostegno.

Non si specifica in qual modo, ma un piano generale - deciso fondamentalmente a Washington, Londra e Parigi - è già pronto. Ne sono filtrati alcuni particolari attraverso dichiarazioni di singoli funzionari.

Formalmente su richiesta del futuro governo, la Nato continuerà a controllare lo spazio aereo e le acque territoriali della Libia. Ufficialmente per assicurare gli aiuti umanitari e proteggere il personale civile sotto bandiera Onu.

Ciò richiederà il libero accesso ai porti e agli aeroporti libici, che saranno di fatto trasformati in basi militari Nato anche se vi sventolerà la bandiera rosso, nero e verde - la stessa del regime di re Idris, che negli anni '50 concesse a Gran Bretagna e Stati uniti l'uso del territorio per impiantarvi basi militari, come quella aerea statunitense di Wheelus Field alle porte di Tripoli. Una collocazione ideale, oggi, per il quartier generale del Comando Africa degli Stati uniti.

La Nato continua a ripetere che non intende inviare truppe in Libia, non esclude però che lo facciano singoli alleati o la Ue, che ha già pronti gruppi di battaglia a dispiegamento rapido.

Allo stesso tempo, la Nato addestrerà e armerà le «forze di sicurezza» libiche. Concetto relativo. Responsabile della sicurezza di Tripoli è stato nominato (con il placet Nato) Abdel Hakim Belhaj che, ritornato dalla jihad anti-sovietica in Afghanistan, formò in Libia il Gruppo combattente islamico.

Fu catturato come terrorista dalla Cia in Malaysia nel 2004 ma, dopo la normalizzazione con Tripoli, rinviato in Libia, dove (in base a un accordo tra i due servizi segreti) fu rimesso in libertà nel 2010. Sarà lui a garantire, in veste di presidente del consiglio militare di Tripoli, la pacifica transizione alla democrazia in Libia.



Perchè Gheddafi ha avuto il cartellino rosso
di Pepe Escobar - Asia Times - 1 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Ispezionando la landa libica da una confortevole stanza strapiena di sottili schermi LCD in un palazzo di Pyongyang, l’Amato Leader della Repubblica Democratica Popolare della Corea, Kim Jong-il, deve essersi impressionato contemplando la predica del colonnello Muammar Gheddafi

"Che imbecille!", mormora prevedibilmente l’Amato Leader. Non c’è da meravigliarsi. Sa come il Grande G ha firmato virtualmente la sua condanna a morte in quel giorno del 2003, quando accettò il suggerimento dei suoi discendenti malvagi - tutti infatuati dell’Europa – di liquidare il suo programma per le armi di distruzione di massa e di porre il futuro del suo regime nelle mani della NATO.

Bisogna ammettere che Saif al-Islam, Mutassim, Khamis e il resto del clan Gheddafi ancora non potevano vedere la differenza tra scorazzare per St. Tropez ed essere bombardati dai Mirage e dai Rafale.

Ma dovunque sia il Grande G, a Sirte, nel deserto centrale o in una silenziosa carovana verso l'Algeria, sicuramente li sta maledicendo da qui all’eternità.

Aveva pensato di essere socio della NATO. Perché la NATO ora gli vuol far saltare la testa. Di tipo di cooperazione è questa?

Il dittatore monarchico sunnita del Bahrein rimane al suo posto; non ci sono bombe "umanitarie" su Manama, non hanno messo un prezzo sulla sua testa. Il circolo di dittatori della Casa di Saud rimane al potere; non ci sono bombe "umanitarie" su Riad, Dubai o Doha, nessuna taglia sulle loro teste dorate filo-occidentali. Persino il dittatore siriano sta prendendo fiato, per ora.

E allora la domanda posta da molti lettori di Asia Times Online è inevitabile: qual è stata la linea rossa determinante che Gheddafi ha oltrepassato e che gli è costata il cartellino rosso?

“Rivoluzione” made in France

Il Grande G ha attraversato abbastanza linee rosse per far sì che il monitor di questo computer si tinga di rosso sangue.

Cominciamo dalla cosa basilare. Sono stati i rospi (ndt: dispregiativo usato per identificare i francesi). Vale sempre la pena ripeterlo: è una guerra francese. Neanche gli statunitensi la chiamano guerra; è un'"azione cinetica" o qualcosa del genere. Il Consiglio Nazionale di Transizione, il CNT, è un'invenzione francese.

E certo, si tratta soprattutto di una guerra del neo-napoleonico presidente Nicolas Sarkozy. È il personaggio di George Clooney nel film (povero Clooney). Tutti gli altri, da David Cameron d'Arabia al Premio Nobel della Pace e sviluppatore di guerre multiple, Barack Obama, sono comparse.

Come già vi ha informato Asia Times Online, questa guerra è iniziata nell’ottobre del 2010 quando il capo del gabinetto di Gheddafi, Nuri Mesmari, disertò per andare a Parigi, e fu contattato dall’intelligence francese e, per tutti gli obbiettivi pratici, venne tramato un colpo di stato militare, coinvolgendo i disertori della Cirenaica.

Sarkò ha un sacco di buoni motivi per vendicarsi del Grande G

Le banche francesi gli avevano detto che Gheddafi stava per trasferire i suoi miliardi di euro nelle banche cinesi. E pertanto Gheddafi non poteva diventare un esempio per altre nazioni arabe o per i fondi sovrani.

Le grandi aziende francesi dissero a Sarkò che Gheddafi aveva deciso di non continuare a comprare i caccia Rafale e che non andava voleva incaricare i francesi per la costruzione di una centrale nucleare; era più preoccupato di investire nella spesa sociale.

Il gigante energetico Total voleva molto una fetta molto più grande della torta energetica libica, che era già stata divorata per la parte europea, specialmente perché il Premier Silvio "bunga bunga" Berlusconi, un sostenitore certificato del Grande G, aveva concluso un affare molto complesso con Gheddafi.

Pertanto il colpo militare fu perfezionato a Parigi fino a dicembre; le prime manifestazioni popolari in Cirenaica – fortemente istigate dai cospiratori – furono dirottate.

Il sedicente filosofo Bernard Henri-Levy volò a Bengasi con la sua camicia bianca aperta a torso nudo per intervistare i "ribelli" e telefonare a Sarkozy, ordinandogli in pratica di riconoscerli come legittimi già agli inizi di marzo (non che Sarkò avesse bisogno di un grande incitamento).

Il CNT fu ideato a Parigi, ma le Nazioni Unite lo fecero proprio a tempo debito, ritenendolo il governo "legittimo" della Libia, proprio quando la NATO non aveva un mandato delle Nazioni Unite per passare da una “no-fly zone” a un bombardamento “umanitario” indiscriminato, che è culminato con l’attuale assedio di Sirte.

I francesi e i britannici stilarono quella che si sarebbe trasformato nella Risoluzione 1973 dell'ONU. Washington si aggiunse allegramente alla festa. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti negoziò un accordo con la Casa di Saud con il quale i sauditi avrebbero garantito il voto a favore della Lega Araba come preludio alla risoluzione dell'ONU, e in cambio li avrebbero lasciati tranquilli di reprimere qualunque tipo di protesta pro-democrazia nel Golfo Persico, come poi hanno fatto, selvaggiamente, in Bahrein.

Il Consiglio per la Cooperazione del Golfo (CCG), poi trasformatosi nel Circolo dei Controrivoluzionari del Golfo, aveva anche lui tonnellate di ragioni per liberarsi di Gheddafi.

I Sauditi avrebbero assai gradito un emirato amico nel Nord Africa, specialmente se si liberavano del cattivissimo sangue che scorreva tra Gheddafi e il re Abdullah.

Gli emirati volevano un nuovo posto per investire e "sviluppare". Il Qatar, molto disponibile con Sarkò, voleva guadagnare denaro, per esempio incaricandosi delle nuove vendite di petrolio dei “legittimi” ribelli.

Il Segretario di Stato degli USA, Hillary Clinton, si troverà meravigliosamente a suo agio con la Casa di Saud o con gli assassini al-Khalifa in Bahrein. Ma il Dipartimento di Stato ha fustigato energicamente Gheddafi per le sue "politiche sempre più nazionaliste in campo energetico"; e anche per "aver libanizzato" l'economia.

Il Grande G, un giocatore astuto, avrebbe dovuto comprendere cosa gli riservava il futuro. Da quando il primo ministro Mohammad Mossadegh fu deposto essenzialmente dalla CIA in Iran nel 1953, la regola è quella di non provocare il Big Oil globalizzato. Per non parlare del sistema finanziario/bancario internazionale, promuovendo idee sovversive come volgere l’economia a favore della tua popolazione.

Se qualcuno opera a beneficio del proprio paese, si posiziona automaticamente contro quelli che comandano, le banche occidentali, le multinazionali, gli “investitori” nell’ombra che vogliono profittare di tutto quello che si muove.

Gheddafi non solo ha attraversato tutte queste linee rosse, ma ha anche cercato di fuggire dal petrodollaro; ha cercato di convincere l'Africa dell'idea di una moneta unita, il dinaro d’oro, e la maggioranza dei paesi africani era con lui; ha investito in un progetto multimiliardario – il Grande Fiume Fatto dall’Uomo, una rete di condotte che pompano acqua fresca dal deserto alle coste del Mediterraneo – senza genuflettersi agli altari della Banca Mondiale; ha investito in programmi sociali per i poveri paesi sub-sahariani; ha finanziato la Banca Africana, permettendo così a un sacco di nazioni, ancora una volta, di bypassare la Banca Mondiale e specialmente il Fondo Monetario Internazionale, ha finanziato un sistema di telecomunicazioni in tutta l’Africa per bypassare le reti occidentali. La lista è infinita.

Perché non ha chiamato Pyongyang

E poi c’è il cruciale angolo militare Pentagono/Africom/NATO. Nessuno in Africa voleva ospitare una base dell'Africom; l'Africom venne ideato durante l’amministrazione Bush come mezzo per costringere e controllare l'Africa sul posto e combattere clandestinamente i progressi commerciali della Cina.

Pertanto l’Africom si vide obbligato a stabilirsi nel più africano dei luoghi: Stoccarda, Germania.

L'inchiostro della Risoluzione 1973 dell'ONU si era appena asciugato quando l’Africom, per tutti gli obbiettivi pratici, avviò il bombardamento della Libia con più di 150 Tomahawk, prima che il comando venisse trasferito alla NATO.

Si tratta della prima guerra africana di Africom e di un preludio di quello che avverrà. La realizzazione di una base permanente in Libia si dà già per fatta come parte di una militarizzazione neocoloniale non solo del Nord Africa, ma di tutto il continente.

Il piano del NATO per dominare tutto il Mediterraneo come un suo lago è tanto audace quanto quello dell’Africom di trasformarsi nel Robocop dell'Africa. Gli unici problemi erano Libia, Siria e Libano, i tre paesi non membri della NATO o non collegati con la NATO in una delle infinite “collaborazioni”.

Per comprendere a pieno il ruolo di Robocop globale della NATO - legittimato dalle Nazioni Unite - bisogna esaminare con attenzione la bocca del cavallo, il Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen.

Mentre ancora bombardavano Tripoli ha detto: "Se non potete schierare truppe oltre le vostre frontiere, non riuscirete a esercitare un’influenza internazionale e allora la mancanza sarà colmata dalle potenze emergenti che non condividono necessariamente i vostri valori e le vostre idee."

Allora, ci siamo. La NATO è una milizia occidentale ad alta tecnologia per difendere gli interessi statunitensi ed europei, per isolare gli interessi dai paesi emergenti del BRICS e non solo e per tenere a bada i “nativi”, siano esse africani o asiatici.

Il tutto viene molto più facilmente realizzato se la truffa viene mascherata come R2P, “Responsabilità di Proteggere”, non i civili, ma il saccheggio conseguente.

Con tutte queste avversità, non è sorprendente che al Grande G sia stato comminato il cartellino rosso e che sia stato espulso per sempre dal gioco.

Solo poche ore prima che il Grande G iniziasse a lottare per la sua vita, l’Amato Leader stava bevendo champagne russo col presidente Dmitry Medvedev, parlando di una futura mossa per il Pipelinestan ed evocando per puro caso la sua volontà di parlare del suo arsenale nucleare, ancora attivo.

Quello riassume il motivo per cui l’Amato Leader è ancora in sella mentre il Grande G è fuori dal gioco.



Gheddafi e il kamasutra politico
di Sherif El Sebaie - http://salamelik.blogspot.com - 2 Settembre 2011

Come scrivevo appunto l'altro giorno, sono due i fatti che avrei voluto commentare durante questa pausa estiva e che recupero invece adesso. Del primo abbiamo già parlato, quindi passiamo al secondo: la caduta di Tripoli nelle mani dei ribelli anti-Gheddafi, coadiuvati da mercenari e addestratori stranieri.

Una "vittoria che non c’è, e che nella misura in cui c’è non appartiene loro", come scrive correttamente Robi Ronza commentando i fatti libici. E l'indecorso spettacolo di alcuni politicanti che non hanno esitato, mentre ancora si sparava per le strade della città libica, a festeggiare la caduta del "dittattore sanguinario" pochissimi mesi dopo averlo accolto a suon di fanfare, ne vogliamo parlare? Un allucinante e leggermente disgustoso kamasutra politico.

Se ci sono "posizioni insostenibili" su Gheddafi in giro in questo momento di certo non sono le mie - visto che, non essendo un voltagabbana, la ">mia opinione sul Fratello Colonello non è cambiata - ma quelle dei signori che non hanno esitato a scaricare il leader libico foraggiando e finanziando, grazie ad un sequestro indiscriminato sia dei soldi del governo libico che di quelli di Gheddafi, una guerra civile che ha trasformato una della capitali con il reddito pro-capite più alto della regione in una città sull'orlo di una crisi umanitaria.

E non è detto che la guerra civile si concluda in fretta o che non si trasformi - una volta sparito dalla scena il Colonello - in un regolamento di conti all'afghana tra le varie fazioni che già ora si scannano tra di loro.

Sarebbe meraviglioso, e davvero una bella lezione per l'Occidente, se la Libia si trasformasse in un'area di instabilità permanente dove scorrazzano terroristi e fondamentalisti vari, visto che in Libia non esiste uno stato che possa essere definito tale e una società civile degna di questo nome.

Non a caso la NATO mette già le mani avanti paventando un possibile impiego di truppe di terra, come se questo potesse essere la panacea e non un ulteriore elemento di destabilizzazione. Il tutto sempre per proteggere i civili, si capisce.

Civili che, secondo mezzi di informazione compiacenti e complici, avevano subito "bombardamenti aerei" e "strupri di massa" prima di essere seppelliti in "fosse comuni da 10.000 corpi" di cui però non è stata trovata la minima traccia o prova, esattamente come non è stata trovata ancora traccia delle armi di distruzione di massa di fu Saddam.

Come scrive Fabrizio Tringali in questo editoriale: "L'esperienza ha insegnato che il miglior casus belli, cioè quello comunemente più accettato dai cittadini, riguarda i diritti umani e la difesa della popolazione civile sotto l'attacco di un tiranno. Agli occidentali piacerà sempre pensarsi come "liberatori", mentre difficilmente essi abboccherebbero ancora a stupidaggini palesemente inventate come le armi di distruzione di massa di Saddam".

E in effetti la strategia ha funzionato perché l'intervento è stato collegato ad un fatto vero: Gheddafi è un dittatore. Il più longevo del mondo arabo, per di più. Ma era anche l'unico dittatore arabo in grado di dire pane al pane e latte di cammella al latte di cammella, seppur in modo provocatorio e creativo.

L'unico capace di denunciare, con atti pratici, l'ipocrisia dell'occidente e la sua sete di denaro. L'unico in grado di chiedere e ottenere risarcimenti per il passato colonialista, cosa che non è riuscita a nessun altro.

Il prossimo leader della Libia avrà il coraggio di opporsi ai diktat occidentali dopo aver abbondantemente usufruito dei droni e dei bombardamenti "mirati" senza i quali nessuna avanzata su Tripoli sarebbe stata possibile? Non credo proprio.

La Libia, uno dei paesi più ricchi di petrolio di ottima qualità si trasformerà in una ghiotta preda da "ricostruire" a suon di barili. Persino il Corriere ha rispolverato la sua vecchia vocazione di quotidiano filocolonialista con una bella intervista ad un vecchietto libico intitolata "Tornino gli italiani".

E magari anche i bombardamenti chimici e i campi di concentramento per cui erano tristemente conosciuti, mi viene da aggiungere.


Un'altra "mission accomplished"
di George Friedman - Stratfor - 30 Agosto 2011
Tradotto e commentato da Gianluca Freda

La guerra in Libia è finita. Più precisamente, governi e mezzi di comunicazione hanno deciso che la guerra in Libia è finita, a dispetto del fatto che i combattimenti proseguono.

L’aspettativa, non realizzatasi, di questa guerra era sicuramente che Gheddafi avrebbe finito per capitolare di fronte alle forze schierate contro di lui e che le sue stesse milizie lo avrebbero abbandonato una volta compreso che la guerra era perduta.

Ciò che è stato celebrato la scorsa settimana, con presidenti, primi ministri e media che proclamavano la sconfitta di Gheddafi, si rivelerà probabilmente vero a tempo debito. Ma il fatto che non sia ancora vero, non ha impedito a costoro di congratularsi con se stessi.

Ad esempio, il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, ha affermato che solo il 5 per cento della Libia è ancora sotto il controllo di Gheddafi. Sembra proprio una cifra poco precisa, tranne che per le notizie riportate dal giornale italiano La Stampa, secondo il quale “Tripoli viene ripulita” quartiere per quartiere, strada per strada e casa per casa.

Nel frattempo, i bombardamenti stanno ancora martellando Sirte, dove, secondo i francesi, Gheddafi sarebbe riuscito ad arrivare, sebbene non si sappia come.

La città strategicamente rilevante di Bani Walid – un altro possibile nascondiglio e una delle due sole vie d’accesso rimaste ad un’altra piazzaforte di Gheddafi, quella di Sabha – è stata circondata.

Per dirla in altri termini, le forze di Gheddafi conservano ancora il controllo militare di zone fondamentali. A Tripoli è in corso un combattimento casa per casa. Vi sono ancora numerose roccaforti, con sufficiente forza difensiva, in cui le truppe nemiche non possono entrare senza una significativa preparazione militare.

Benché la posizione di Gheddafi sia attualmente sconosciuta, la sua cattura è oggetto di importanti operazioni militari, inclusi i bombardamenti aerei della NATO su Sirte, Bani Walid e Sabha.

Quando Saddam Hussein venne catturato, stava nascondendosi in un buco nel terreno, solo e senza un esercito. Gheddafi sta ancora combattendo e lanciando sfide. La guerra non è finita.

Si potrebbe sostenere che se è vero che Gheddafi controlla ancora una forza militare coesa e una parte significativa del territorio, egli tuttavia non governa più la Libia. Ciò è certamente vero e significativo, ma sarà più significativo quando i suoi nemici saranno riusciti a prendere il controllo delle leve del potere.

E’ poco ragionevole aspettarsi che siano in grado di farlo pochi giorni dopo essere entrati a Tripoli e in presenza di perduranti combattimenti.

Questo però solleva una domanda cruciale: se i ribelli possiedano coesione sufficiente per dar vita ad un governo efficace e se non sia lecito attendersi nuovi scontri tra fazioni libiche anche dopo che le milizie di Gheddafi avranno cessato di funzionare.

In parole povere, Gheddafi appare avviato verso la sconfitta, ma non ci è ancora arrivato, e la capacità dei suoi nemici di governare la Libia è assai dubbia.

Intervento Immacolato

Visto che la conclusione appare lontana, può essere interessante chiedersi perché Barack Obama, Nicolas Sarkozy e David Cameron, principali attori di questa guerra, abbiano tutti dichiarato la settimana scorsa che Gheddafi era caduto, sottintendendo che la guerra era finita, e perché gli stessi media abbiano proclamato la fine della guerra.

Per capirlo, è prima di tutto importante capire quanto sia stato sorprendente per questi leader il corso di questa guerra. All’inizio ci si aspettava che l’intervento della NATO, prima con la no-fly zone, poi con bombardamenti diretti sulle postazioni di Gheddafi, avrebbe portato ad un rapido crollo del suo governo e alla sua sostituzione con una coalizione democratica nell’est del paese.

Due forze si erano coalizzate per condurre a questo epilogo. La prima era rappresentata dai gruppi dei diritti umani esterni ai governi e alle fazioni presenti nei ministeri degli esteri e nel Dipartimento di Stato, i quali sentivano che un intervento era necessario per fermare un possibile massacro a Bengasi.

Questa fazione aveva un problema serio. Il modo più efficace per porre fine a un regime brutale era l’intervento militare.

Tuttavia, dopo aver condannato l’invasione americana dell’ Iraq, progettata, almeno in parte, per eliminare un regime brutale, questa fazione si trovava in difficoltà a giustificare un rapido intervento militare terrestre in Libia. Le argomentazioni morali hanno bisogno di un minimo di coerenza.

In Europa, la dottrina del “soft power” è diventata una dottrina centrale. Nel caso della Libia, era difficile trovare un percorso per il soft power. Sanzioni e condanne non sarebbero probabilmente bastate a fermare Gheddafi, ma un’azione militare sarebbe stata la negazione del soft power. E’ emersa così la dottrina di un “soft power” militare.

Istituire una no-fly zone era un sistema per intraprendere un’azione militare senza fare del male a nessuno, tranne che ai piloti libici che eventualmente fossero decollati.

Soddisfaceva la necessità di distinguere la Libia dall’Iraq, evitando di invadere ed occupare la Libia, ma esercitando al tempo stesso una pressione schiacciante su Gheddafi.

Ovviamente, la no-fly zone si rivelò ben presto inefficace e irrilevante, e i francesi iniziarono a bombardare il giorno stesso le forze di Gheddafi. I libici sul terreno morivano, ma non i soldati francesi, britannici e americani.

Se la no-fly zone era stata annunciata ufficialmente, la sua trasformazione in campagna di attacchi aerei emerse nel corso del tempo, senza che venisse resa pubblica una decisione precisa.

Per gli attivisti dei diritti umani, ciò consentiva di evitare la preoccupazione delle morti provocate dai bombardamenti aerei, i quali non sono mai precisi come si ama pensare. Ai governi, consentiva di presentarsi come se si fossero imbarcati in ciò che io ho chiamato un “intervento immacolato”.

La seconda forza a cui piaceva questa strategia era rappresentata dai vari reparti aerei coinvolti nelle operazioni. E’ indiscutibile l’importanza delle forze aeree nella guerra moderna, ma si discute spesso se l’utilizzo delle sole forze aeree sia sufficiente, di per sé, a raggiungere gli obiettivi politici prefissati senza l’intervento di truppe di terra. Per la comunità delle forze aeree, la Libia era il posto in cui dimostrare la propria efficacia nel conseguire questi obiettivi.

Così i sostenitori dei diritti umani potevano concentrarsi sulle finalità – proteggere i civili libici di Bengasi – e fingere di non avere appena approvato l’inizio di una guerra che avrebbe essa stessa provocato la morte di molte persone.

I leader politici potevano anch’essi convincersi che non stavano andandosi a infilare in un pantano, ma stavano intraprendendo un intervento facile. Le forze aeree potevano dimostrare la propria utilità nel conseguire i desiderati risultati politici.

Occorre trattare anche la questione delle inespresse ragioni della guerra, visto che circolano storie secondo le quali le compagnie petrolifere starebbero contendendosi in Libia grosse quantità di profitti.

Queste storie sono tutte ragionevoli, nel senso che le motivazioni reali restano difficili da scandagliare, ed io provo simpatia per coloro che sono alla ricerca di una grande cospirazione per spiegare ciò che è accaduto.

Anch’io voglio provare ad ipotizzarne una. Il problema è che scatenare una guerra contro la Libia per ottenere petrolio non era affatto necessario.

Gheddafi adorava vendere il petrolio, e se i governi della coalizione gli avessero semplicemente detto che lo avrebbero bombardato se non avesse firmato accordi diversi sui destinatari dei profitti petroliferi e sulle royalties che spettavano a lui, Gheddafi avrebbe firmato tranquillamente i nuovi contratti.

Era un individuo cinico quanto basta per comprendere il sottile concetto che cambiare partner petroliferi e rinunciare a un bel po’ di guadagni era sempre meglio che essere bombardati.

In effetti non esiste nessuna teoria che cerchi di spiegare questa guerra in virtù del semplice petrolio, semplicemente perché non c’era nessun bisogno di entrare in guerra per ottenere qualunque concessione si desiderasse.

Perciò la storia di proteggere la gente di Bengasi dal massacro è l’unica spiegazione razionale di ciò che è avvenuto, per quanto difficile sia da credere.

Bisogna anche rendersi conto che, data la natura della moderna guerra aerea, un piccolo numero di forze della NATO doveva già essere presente sul terreno fin dall’inizio, almeno a partire da qualche giorno prima dell’inizio dei raid aerei.

L’identificazione accurata dei bersagli e la loro eliminazione con sufficiente precisione implica la presenza di squadre speciali ben addestrate che indirizzino l’artiglieria verso gli obiettivi. Il fatto che vi siano stati relativamente pochi episodi di “fuoco amico” indica che sono state attuate le procedure operative standard.

Questi gruppi erano probabilmente accompagnati da altri operativi specializzati che addestravano – e in molti casi guidavano informalmente – le forze locali durante le battaglie. Nei primi giorni di guerra vi sono stati numerosi rapporti secondo i quali sul terreno vi erano gruppi operativi speciali che addestravano e organizzavano i combattenti contro Gheddafi.

Ma questo approccio ha evidenziato due problemi. Prima di tutto, Gheddafi si è rifiutato di arrotolare la sua tenda e capitolare. E’ parso stranamente poco impressionato dalla forza che aveva di fronte.

Secondo, le sue truppe si sono rivelate altamente motivate e capaci, almeno se paragonate ai loro avversari. Prova ne sia il fatto che non si sono arrese in massa, hanno mantenuto un sufficiente livello di compattezza e – prova definitiva – hanno resistito per sei mesi e stanno ancora resistendo.

L’idea dei gruppi per i diritti umani, secondo la quale un tiranno isolato sarebbe crollato dinanzi alla comunità internazionale, l’idea dei leader politici, secondo la quale un tiranno isolato sarebbe caduto in pochi giorni di fronte alla potenza delle forze aeree NATO e l’idea delle stesse aviazioni militari, secondo la quale i raid aerei avrebbero spezzato la resistenza, si sono tutte rivelate sbagliate.

Una guerra prolungata

Parte di ciò è stato dovuto alla cattiva comprensione della natura della politica libica. Gheddafi era un tiranno, ma non era completamente isolato. Aveva dei nemici, ma aveva anche molti sostenitori che avevano ricevuto beneficio da lui o perlomeno credevano nelle sue dottrine.

Tra i soldati governativi (alcuni dei quali sono mercenari provenienti dal sud) c’era anche la convinzione diffusa che una capitolazione avrebbe significato essere massacrati, e tra i leader di governo vi era la convinzione che la resa avrebbe significato essere processati all’Aia e dover scontare anni di prigione.

La richiesta della comunità per i diritti umani affinché la Corte Criminale Internazionale (CCI) processasse Gheddafi e gli uomini a lui vicini, non ha lasciato a questi ultimi alcuno spazio per la ritirata; e uomini che non hanno più spazio per la ritirata combattono duramente, fino alla fine.

Non è stato lasciato spazio per una resa negoziale che non fosse pubblicamente approvata dallo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Gli ammiccamenti e i cenni con cui un tempo si spingevano i dittatori a lasciare, oggi non esistono più. A tutti i paesi aderenti allo Statuto di Roma è richiesto di consegnare un dittatore come Gheddafi al CCI perché venga processato.

Pertanto, a meno che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non stringa pubblicamente un accordo con Gheddafi, accordo che sarebbe avversato dalla comunità per i diritti umani e non sarebbe bello a vedersi, Gheddafi non si arrenderà, e nemmeno le sue truppe.

La settimana scorsa vi sono stati rapporti secondo i quali alcuni soldati governativi sarebbero stati giustiziati. Vero o falso, giusto o ingiusto che sia, ciò non rappresenta certo un forte incentivo alla resa.

La guerra era iniziata con la missione specifica di proteggere la popolazione di Bengasi. Ciò si è trasformato rapidamente in una guerra per spodestare Gheddafi. Il problema è che tra gli obiettivi militari e quelli ideologici, le forze impiegate nella guerra erano insufficienti a portare a termine questa missione.

Non sappiamo quante persone siano rimaste uccise nei combattimenti negli ultimi sei mesi, ma scatenare una guerra usando in questo modo il “soft power” militare ha certamente prolungato le ostilità e probabilmente provocato molti morti, sia militari che civili.

Dopo sei mesi, la NATO si è stufata e così abbiamo assistito all’assalto di Tripoli. L’assalto sembra essere stato condotto in tre fasi. Dapprima c’è stata l’infiltrazione di truppe operative speciali della NATO che (in numero di centinaia, non di migliaia) hanno guidato gli operativi dell’intelligence che già si trovavano a Tripoli, hanno attaccato e destabilizzato le forze governative presenti in città. La seconda parte è stata un’operazione mediatica con cui la NATO ha fatto credere che la battaglia fosse finita.

Il bizzarro incidente in cui il figlio di Gheddafi, Seif al-Islam, è stato dato per catturato solo per poi ricomparire su un SUV con un’aria molto poco da prigioniero, era parte di questo gioco.

La NATO voleva far credere che la leadership fosse stata intaccata e le forze di Gheddafi piegate, per convincere quelle stesse forze a capitolare. L’apparizione di Seif al-Islam era invece studiata per segnalare alle sue truppe che la guerra continuava.

Grazie agli attacchi degli operativi speciali e alle operazioni mediatiche, i ribelli occidentali sono entrati in città con gran pompa e tanto di sparatorie in aria di festeggiamento.

I media di tutto il mondo hanno trasmesso la cronaca della fine della guerra, mentre i gruppi operativi speciali si dissolvevano e i gloriosi ribelli prendevano il potere. C’erano voluti sei mesi, ma era finita.

E poi è diventato palese che non era finita affatto. Il cinque per cento della Libia – interessante come calcolo – non era stato liberato. I combattimenti nelle strade di Tripoli continuavano.

Diverse zone del paese erano ancora sotto il controllo di Gheddafi. E lo stesso Gheddafi non era dove i suoi nemici avrebbero voluto che fosse. La guerra continuava.

Da tutto ciò dovremmo trarre un certo numero di lezioni.

Prima di tutto, è importante ricordare che la Libia, in sé, potrà non essere importante per il mondo, ma conta moltissimo per i libici.

Secondo, mai presumere che i tiranni siano privi di sostegno. Gheddafi non ha certo governato la Libia per 42 anni senza sostegno.

Terzo, mai presumere che il numero di forze che si è disposti a schierare sia il numero di forze di cui c’è bisogno.

Quarto, eliminare l’opzione di una conclusione negoziata del conflitto ricorrendo ai tribunali internazionali, potrà essere moralmente soddisfacente, ma fa sì che le guerre proseguano e le vittime crescano.

E’ importante decidere cosa sia più importante: alleviare le sofferenze del popolo o punire i colpevoli. A volte bisogna scegliere una cosa o l’altra. Quinto, e più rilevante, mai prendere in giro il mondo dicendo che una guerra è finita.

Dopo la comparsa di George W. Bush su una portaerei decorata col festone “mission accomplished”, la guerra in Iraq divenne ancora più violenta e il danno d’immagine per lui fu enorme. Le operazioni mediatiche possono essere efficaci per persuadere le truppe nemiche ad arrendersi, ma la credibilità politica scivola via quando una guerra è dichiarata conclusa e i combattimenti continuano.

Alla fine, Gheddafi probabilmente cadrà. La NATO è più forte di lui e per abbatterlo verrà impiegata tutta la potenza possibile. La domanda, ovviamente, è se non ci fosse un altro sistema di ottenere ciò, con meno costi e più guadagno.

Tralasciando la teoria della guerra-per-il-petrolio, se lo scopo era quello di proteggere Bengasi e spodestare Gheddafi, un maggior impiego di forze o un’uscita negoziata con garanzie di non essere processato all’Aia avrebbe probabilmente prodotto risultati più rapidi e un minor spreco di vite che non l’applicazione del “soft power” militare.

Mentre il mondo contempla la situazione in Siria, bisognerebbe tenerlo presente.


Commento di Gianluca Freda:

Prima che arrivino commenti preoccupati relativamente a questo articolo di Friedman che ho tradotto, preciso che non condivido affatto alcune affermazioni in esso contenute, a partire da quella secondo la quale: "Perciò la storia di proteggere la gente di Bengasi dal massacro è l’unica spiegazione razionale di ciò che è avvenuto, per quanto difficile sia da credere".

Friedman, pur affermando correttamente che la guerra non è per il petrolio, sembra non capire i suoi essenziali obiettivi strategici, che sono quelli di tagliare fuori Russia e Cina dall'area del Mediterraneo.

In ogni caso, poiché l'articolo contiene molte considerazioni interessanti, ho voluto egualmente tradurlo e proporlo qui. Poi a fargli pelo e contropelo siamo sempre in tempo.


La rivolta in Libia, un messaggio per Chavez
di Nil Nikadrov - www.strategic-culture.org - 3 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

L’attacco dei ribelli libici del 23 agosto contro l’ambasciata venezuelana e il compound di Tripoli sono largamente passati sotto silenzio, anche se le vittime sono state fatte presenti quando l’ambasciatore venezuelano Afif Tajeldine e il personale dell’ambasciata si sono mossi all’ultimo momento in un luogo più sicuro e hanno lasciato la Libia poco tempo dopo.

Dopo l’incidente si è capito che l’ambasciata del Venezuela fosse stata l’unica saccheggiata nell’intero quartiere, e ciò significa che l’attacco - guidato, secondo il racconto di testimoni oculari, da individui dall’aspetto europeo e con la postura militare – avesse specificamente come obbiettivo l’avamposto della nazione.

Il viceministro degli Esteri venezuelano e inviato permanente all’ONU Jorge Valero Briceño ha condannato l’attacco al Consiglio di Sicurezza. Nel frattempo, i commentatori latinoamericani hanno visto nel colpo dei ribelli contro la missione diplomatica venezuelana a Tripoli un messaggio diretto a Chavez, col proposito di una minaccia per essere il prossimo dirigente della lista dopo l’estromesso Gheddafi.

È largamente previsto che l’approccio che l’Impero ha utilizzato per destabilizzare la Libia e la Siria verrà in un futuro non troppo lontano utilizzato in Venezuela. Reuters ha fatto menzione del piano il 17 agosto, dicendo che “la violenza politica in Venezuela potrebbe sconvolgere i risultati delle elezioni del prossimo anno dove verrà deciso se il Presidente Hugo Chavez vedrà rinnovarsi l’incarico di sei anni”.

Gli scoppi delle proteste in Venezuela saranno appoggiati dalle campagne dei media lanciate da BBC, Euronews, CNN, Fox, Al Jazeera, eccetera, e saranno probabilmente parallele ad atti di vandalismo e omicidi di strada perpetrati da gruppi terroristici che filtreranno in Venezuela da altre nazioni.

Alla fine, il Venezuela vede davanti a sé una rivoluzione colorata aggiornata che avrà una componente di violenza armata più forte che mai. Il Pentagono, la comunità dell’intelligence statunitense, il Dipartimento di Stato e le analoghe agenzie di Gran Bretagna, Spagna, Israele, Canada e di altri Paesi hanno certamente sulle proprie agende il compito di prevenire la rielezione di Chavez nel 2012.

Preoccupato del prossimo crush test, Chavez, un duro veterano della politica, non solo dimostra una piena fiducia per i sondaggi che si profilano all’orizzonte ma ha addirittura in mente di proporre un’altra rielezione per il 2018. il suo programma è a caratteri cubitali e viene pronunciato con estrema chiarezza.

L’affidamento al sostegno popolare e a un esercito leale potrebbe aiutare a neutralizzare qualsiasi cospirazione, e il dominio dell’Impero non durerà all’infinito.

L’ottimismo di Chavez si basa sul fatto che gli Stati Uniti hanno un futuro imperialista ormai prossimo alla fine, quando nella metà del XXI secolo le ricorrenti crisi economiche e i dissensi interni tra fazioni politiche, gruppi etnici e aziende gigantesche eroderanno irreversibilmente le loro potenzialità.

A poco a poco, al costo di un bagno di sangue e di sofferenze umane, gli Stati Uniti dovranno sbarazzarsi del ruolo di gendarme planetario e di parassita globale. Le avventure di politica estera e i tentativi di sfondare i regimi antagonisti che continueranno a proliferare non faranno altro che avvicinare la loro agonia.

Chavez è convinto che la sconfitta dell’Impero metterà la parola fine alla lunga ricerca di soluzioni per il sistema imperialista storicamente al declino.

Il dirigente venezuelano parla frequentemente dell’escalation delle tensioni socioeconomiche negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali. Anche se in Occidente i mali tendono a non essere riconosciuti e le proteste dei ceti sociali svantaggiati, compresa gran parte della classe media, sono state soppresse, e tenere il controllo della situazione è una sfida sempre più dura che i governi non possono gestire con i tradizionali metodi repressivi.

Di conseguenza, ci sono progetti per usare le forze armate del paese contro la propria popolazione e gli eserciti sono già stati addestrati a questo scopo. Le “guerre al terrore”, in cui le forze armate USA si sono continuamente schierate contro i civili, hanno deformato la mentalità del corpo ufficiali degli Stati Uniti al punto da aver perso tutte le inibizioni per quelle missioni utilizzate per cospirazioni interne, presumibilmente alimentate dagli estremisti musulmani, dai leader populisti, dai rossi, dal sottobosco anti-sistema, eccetera.

La militarizzazione degli USA ha raggiunto proporzioni tali che lo spostare l’economia della nazione verso ambiti non militari promette grandi sofferenze. Ad oggi, persino i minimi tagli ai fondi per la difesa farebbe deragliare l’intera economia statunitense, mentre tenere a galla il rigonfio complesso militar-industriale comporta ostilità crescenti in varie parti del mondo.

Con l’elettorato preoccupato dai nuovi conflitti in Siria, Iran, nel Caucaso e anche altrove, solo un dramma paragonabile all’11 settembre può ravvivare la militanza della popolazione. Chavez crede fermamente che l’attacco terroristico dell’11 settembre sia stato architettato dall’intelligence degli Stati Uniti e di Israele.

Sapendo che le élite della CIA, della Defense Intelligence Agency, di altri servizi d’intelligence occidentali e del Mossad stanno lavorando contro il Venezuela, ha frequentemente rivisitato il tema e ha sollecitato i canali della televisione venezuelana a trasmettere programmi per avvertire che simili provocazioni potranno mettere a repentaglio il regime Bolivariano.

Le convulsioni aggressive dell’Impero, il suo disprezzo per le leggi internazionali, le fluttuazioni delle politiche e delle decisioni di Washington e la tendenza statunitense a entrare in contatto con gruppi di rinnegati provoca reazioni difensive in tutto il pianeta e porta le nazioni a rimanere fuori dall’orbita USA per rafforzare la propria sovranità.

L’ascesa dei centri regionali di potere avrà ulteriore spinta, e persino le nazioni che per varie ragioni ruotano attorno alla NATO vedranno gradualmente prevalere le forze anti-americane nel contesto interno. Nel mondo odierno, ogni aggressione incontra invariabilmente una resistenza.

Dai tentativi falliti del 2002-2003 da parte degli USA per provocare il cambio di regime in Venezuela, la strategia di Chavez è stata quella di isolare l’esercito e l’economia della nazione, particolarmente il settore energetico, dall’influenza degli Stati Uniti.

Un confronto alla pari non può essere l’intenzione di Chavez, considerando l’ovvia disparità tra gli USA e il Venezuela, ma quest’ultima deve diversificare le sue relazioni internazionali e deve cercare alternative fattibili allo status precedente l’epoca di Chavez quando il paese era una nazione associata all’Impero a cui veniva “liberamente” consentito di esistere come un altro Porto Rico. All’epoca, le classi elevate del Venezuela erano state americanizzate per contemplare la piena integrazione con gli USA.

Convogliare il petrolio nel mercato globale a prezzi ridicoli e godere di una vasta gamma di agi a disposizione dei ricconi era il sogno dei liberali che sono stati sloggiati dalla rivoluzione venezuelana per diventare i peggiori antagonisti di Chavez.

Queste sono le persone che si accaniscono contro Chavez a ogni passo fatto per rafforzare l’indipendenza del Venezuela.

Per loro, la nazionalizzazione del settore petrolifero, le maggiori relazioni con Russia e Cina, la creazione del blocco ALBA e la coltivazione dei legami con il Brasile, che è diventata la forza economica dell’America Latina, sono inaccettabili perché sono visti come mezzi per uccidere le possibilità dell’opposizione di tornare al governo.

Washington si è visibilmente adirata della recente decisione presa da Chavez per spostare parte dei propri valori nei paesi BRICS, Russia compresa, e di riportare le riserve d’oro in Venezuela.

Chavez ha detto che, visto come le economie degli Stati Uniti e dell’Europa stanno affondando, è venuto il tempo per rivolgersi alle potenzialità di Paesi come Cina, Russia e Brasile, descrivendo il ritiro delle proprietà dagli USA e dall’Europa come "una misura salutare” per il Venezuela “alle soglie della crisi del capitalismo”.

Non c’è dubbio, che la strategia dietro il trasferimento degli asset dalle banche occidentali non si limita agli aspetti prima citati; anche la confisca de facto delle riserve della Libia note come “l’oro di Gheddafi” deve essere tenuta nel dovuto conto.

Il governo venezuelano ha ragioni per credere che, in determinate circostanze, le partecipazioni azionarie in Occidente potrebbero essere congelate, ad esempio, con il pretesto che le compagnie occidentali pretendano un risarcimento in relazione alle nazionalizzazioni del Venezuela.

Il rimpatrio delle riserve di oro potrebbe aiutare il Venezuela a tenere a galla l’economia se il dollaro e l’Euro dovessero soffrire una rapida svalutazione.

Chavez ha consigliato altre nazioni dell’America Latina, che hanno circa 570 miliardi di dollari nelle banche del Nord investiti nel suo sviluppo, di fare altrettanto. La Banca d’Inghilterra che dal 1980 ha immagazzinato 99 tonnellate di oro del Venezuela è stata la prima a ricevere la richiesta di prelievo.

L’oro delle banche statunitensi, canadesi, svizzere e francesi verrà allo stesso modo trasferito in Venezuela. Al momento, poco meno del 58% delle riserve in oro del Venezuela per un totale di 365 tonnellate sono detenute fuori dal paese. Le nazioni ALBA sembrano essere ricettive verso l’appello di Chavez per il rimpatrio delle quote azionarie.

Dovrebbe essere anche notato che, nel far visita a Caracas nell’agosto del 2011, il capo della diplomazia russa, S. Lavrov, ha suggerito che Mosca prenderà seriamente in considerazione la richiesta del Venezuela per tenere le sue azioni, esprimendo in pratica il sostegno alla causa di Chavez. La reazione di Pechino è stato essenzialmente la stessa di Mosca.

Gli analisti considerano la spinta di Chavez verso un’architettura finanziaria dell’America Latina indipendente dall’Occidente come un obbiettivo rischioso.

Il progetto di Gheddafi per spostare le notevolissime quote azionari della Libia dalle banche occidentali a quelle cinesi è stato tra le ragioni per cui è diventato l’obbiettivo di una caccia all’uomo.

È chiaro che l’Occidente non dimenticherà come Chavez ha smentito il mito della ripresa economica negli Stati Uniti e in Europa.

Il messaggio radicale del dirigente venezuelano secondo cui le economie degli USA e dell’Europa stanno affondando sicuramente riecheggia nelle teste di coloro che sono capaci di ascoltare.