mercoledì 1 dicembre 2010

Ciao Mario

Un omaggio a un grande italiano che ieri è passato a miglior vita.

Ciao Mario.


Monicelli e l'Italia dei Brancaleoni. Imbrogliona, maschile e colta
di Natalia Aspesi - La Repubblica - 1 Dicembre 2010

Facendo ridere rivelò il nostro lato oscuro. Con "Amici miei" diede l'addio al paese dei vitelloni provinciali di mezza età. Il suo talento trasformò piccoli vizi e modeste virtù in irresistibili commedie

Probabilmente gli italiani di Monicelli non sono mai davvero esistiti, neppure negli anni in cui si correva nei cinema a ridere di loro.

Un pubblico entusiasta che si credeva al riparo da quei personaggi, gli italiani altri: i ladruncoli sfigati, gli imbroglioni pasticcioni, gli opportunisti fifoni, i Brancaleoni, i Perozzi, i Busacca e i Jacovacci, l'Onofrio e il Rambaldo. Maschere meravigliose affidate ad attori grandiosi, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Alberto Sordi, Philippe Noiret e Totò, ma anche Capannelle, e Murgia, e Carotenuto e Moschin e Celi, tutti gli eroi di un cinema ricco di intelligenza e forza, divertente e colto, folto di centinaia di film che si presentavano modesti, artigianali, popolari, senza fisime autoriali, e anche per questo grandi.

Scritti da geni della commedia bonaria e periferica, che sfornavano storie sublimi, dialoghi impeccabili, aforismi eterni: Steno, Age e Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico, Zapponi, Benvenuti e Bernardi.

Come per molti italiani del suo tempo, il mondo di Monicelli era soprattutto maschile: popolato da vizi, debolezze, malinconie, presunzioni, inadeguatezze, sconfitte. Di maschi, appunto maschi italiani, forse esagerati anche allora, che la crudele e nello stesso tempo affettuosa sua maestria di regista rendeva irresistibili.

Però il giudizio divertito e talvolta crudele era il suo, un giudizio da uomo sugli altri uomini, non quello delle donne, che negli anni 50 e 60, nella realtà come nei film, era sommesso e sottomesso, e che solo con i mutamenti sociali degli anni 70, il femminismo, le leggi che liberavano le donne dalla soggezione familiare e sessuale, si era fatto sempre meno indulgente ed ipocrita.

Questo mutare delle donne italiane deve aver colto Monicelli di sorpresa, costringendolo a riconoscere un mondo diverso, alieno, un protagonismo nuovo che in un certo senso rifletteva le sue convinzioni politiche, di democrazia, di sinistra: e infatti per la prima volta, nel 1986, a 71 anni, un suo film, Speriamo che sia femmina, si riempie di donne: Ullmann, Deneuve, De Sio, Sandrelli, Cenci, Lante della Rovere, non più un gruppo di uomini, legati da amicizia, svaghi, infantilismi, guerre, bordelli, fratellanza, complicità, terrori, ma di donne di ogni età, quelle tenute sino ad allora ai margini delle sue storie, ed ora protagoniste forti, vitali, padrone del futuro.

Come uno scudo, tra tutte quelle vincenti, Monicelli trascina nel film due suoi amabili maschi, Philippe Noiret e Bernard Blier, in ricordo di quando in altre sue storie, era lui, e non le donne, a giudicare gli uomini egoisti, assenti, fragili: addirittura inutili.

Se il suo cinema coglieva i mutamenti della realtà, era il suo modo di vivere e di pensare che non poteva cambiare. A 59 anni aveva fatto quello che soprattutto nel suo mondo fanno in tanti: si era messo con una ragazza di 19, 40 anni meno di lui, Chiara Rapaccini, artista ironica e femminista, caduta innamorata di quell'affascinante gentiluomo cinico e buono; a 74 anni era diventato padre di una bimba, Rosa, per accorgersi subito dopo che la vita di famiglia, che donne in casa, ingombranti con il loro imperio, il loro amore e il loro mistero, non erano per lui.

Gentilmente, le invitò ad andarsene, a lasciarlo in pace, solo, "Per rimanere vivo il più a lungo possibile, perché l'amore delle donne è molto pericoloso", e non quello delle nuove donne liberate, ma proprio di quelle cui aspiravano i suoi coetanei, e non solo loro, donne devote e protettive: alla fine soffocanti. "La donna è infermiera nell'animo, e se ha vicino un vecchio, è sempre pronta a interpretare un suo desiderio... Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona... e diventa un vecchio rincoglionito... Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere i fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più".

Nel 1968 Monicelli aveva girato La ragazza con la pistola, un film di cui era protagonista una donna, interpretata da Monica Vitti, l'attrice cinematografica italiana di maggior talento di quegli anni. Era la storia di un paese dai costumi molto arretrati, un'Italia in cui ancora l'articolo 587 del codice penale sanciva la minor punibilità del delitto d'onore.

Il pubblico si divertì moltissimo per la ragazza sicula che raggiunge in Inghilterra il giovanotto che l'ha sedotta e abbandonata per ucciderlo, e poi si adatta contentissima al costume di un paese più civile. Il film fu giudicato male per i luoghi comuni sul Sud, eppure quell'articolo di legge esisteva ancora, e fu abrogato solo nel 1981, dopo l'approvazione del nuovo diritto di famiglia e della legge sull'interruzione di gravidanza.

Facendo ridere, Monicelli aveva rivelato agli italiani il loro lato oscuro, insospettato, oltre una retorica di eredità fascista che ne vantava la forza, l'eroismo, il potere, l'imperio sulla donna. Ma era difficile accettare di assomigliare a quegli uomini ingenui e un po' imbecilli, fatui e spesso sfortunati, invecchiati senza crescere e un po' vili: infatti il talento di Monicelli aveva trasformato i nostri piccoli vizi e modeste virtù in irresistibili commedie, che tenevano lontano lo spettatore dallo specchiarsi, negli anni 50, negli incapaci pasticcioni di I soliti ignoti, negli anni 60 negli eroi involontari di La grande guerra, poi negli scalcinati avventurieri medioevali dei due Brancaleone che con il loro linguaggio colto, inventato e irresistibile, sembrava voler opporsi all'impoverimento sbracato dell'italiano televisivo.

Con Amici miei (1975) e Amici miei atto II, (1982), Monicelli dava l'addio a un'Italia forse già scomparsa, quella dei vitelloni provinciali di mezza età, dalle vite giocose e inconcludenti, rivelando del tutto, finalmente, la sua elegante misoginia e la sua forse malinconica, misantropia.


Monicelli, un italiano raro
di Sara Michelucci - Altrenotizie - 1 Dicembre 2010

Coerente fino alla fine, anche nel suo ultimo gesto, quello che l’ha portato ad abbandonare questa vita.

Ma probabilmente per un indipendente puro come Mario Monicelli, vedere gli ultimi giorni della sua vita costretto in un letto di ospedale, era un copione che proprio non poteva dirigere.

È volato via, Monicelli, e si sa che il volo rappresenta metaforicamente la libertà. Un’emancipazione che ha accompagnato sempre la sua vita personale e artistica, e che l’ha condotto a dirigere veri capolavori, che resteranno indelebili nella storia del cinema italiano.

I soliti ignoti, del 1958, che vanta un cast di grido composto da Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò e Claudia Cardinale, che consacra il filone della commedia all'italiana; La grande guerra, con cui si aggiudica il Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1959 e sua prima nomination all'Oscar; I compagni con cui arriva la seconda nomination all’Oscar; L'armata Brancaleone del 1966 e Brancaleone alle crociate 1970, attraverso cui Monicelli inventa un "nuovo" e personalissimo Medioevo, condito dal burlesco e dal comico.

E non si possono dimenticare titoli come La ragazza con la pistola, terza nomination all'Oscar del 1968, Un borghese piccolo piccolo e Il marchese del Grillo, che consacrano il sodalizio con Alberto Sordi.

Pezzi fondanti di quel cinema tanto amato, ma che negli ultimi tempi l’aveva deluso per la mancanza di quella vera indipendenza che era appartenuta a registi del suo calibro. Di quell’osare, che oggi si ha paura anche solo ad utilizzare come verbo, Monicelli ne aveva fatto un suo tratto peculiare, e non a caso lamentava l’incapacità del cinema di questi tempi di raccontare l'Italia come è.

In fin dei conti l’artista è solo colui che veramente riesce ad andare oltre qualsiasi luogo comune, qualsiasi barriera culturale, spingendo alla critica e alla riflessione lo spettatore e Monicelli ha usato proprio la commedia per farlo.

Indimenticabile il suo Parenti Serpenti, dove la famiglia viene denudata di quel buonismo che spesso contorna - più nelle parole che nei fatti - la sua descrizione di nucleo sempre positivo e slegato dalla logica del dare e avere. Un buonismo che di certo non gli apparteneva e per questo, tra molte altre cose, gli siamo grati.

Negli ultimi mesi, nonostante la malattia, Monicelli ha appoggiato le proteste del mondo artistico e cinematografico contro i tagli alla cultura dell’attuale governo, non abbandonando nemmeno alla veneranda età di 95 anni quella verve che lo ha accompagnato per tutta la vita, dove la critica politica e sociale ha sempre rappresentato un punto centrale.

Una vita lunga, segnata da tanti avvenimenti, tra cui il suicidio del padre, Tomaso Monicelli noto giornalista e scrittore antifascista, avvenuto nel 1946. “Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l'ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l'altro un bagno molto modesto”, aveva detto in un’intervista di alcuni anni fa.

Oggi il rione Monti, dove aveva vissuto per anni e cui era legato da un sodalizio particolare, tanto da dedicargli uno degli ultimi lavori, potrà salutarlo in piazza Santa Maria dei Monti dove, alle 10, dirà addio al grande regista, prima che la salma venga portata alla Casa del cinema per la camera ardente. Il corpo verrà poi cremato.

A noi piace ricordarlo per la sua battuta sempre pronta e pungente e per quello sguardo lucido che gli ha permesso di offrirci film che ci hanno aperto gli occhi su bellezze e storture di un’epoca. Grazie Mario.


Mario Monicelli suicida. Grande fino alla fine
di Angela Azzaro - www.mirorenzaglia.com - 30 Novembre 2010

Non possiamo nascondere lo sconforto che ci colpisce alla notizia del suicidio di Mario Monicelli. Il grande regista si è buttato dalla finestra del quinto piano dell’ospedale San Giovanni di Roma.

Quando scriviamo si sa solo che era ricoverato al reparto di urologia, per un tumore alla prostata. Non si sa invece perché abbia compiuto il gesto che ripete quello del padre, Tomaso noto giornalista suicida nel 1946.

Ma conoscendo Monicelli, il suo spirito di autonomia, viene da pensare che il padre della commedia all’italiana, uno dei più grandi cineasti del nostro Paese, abbia scelto lui quando era il momento di dire basta. Di salutare. Di andare via e lasciare una vita che per lui è stata così piena di soddisfazioni, passioni, amori.

Monicelli è stato un comunista non palloso, non moralista, che ha saputo ridere e fare arte dei vizi e delle virtù del popolo italico. Ma è stato anche un uomo controcorrente, incapace di salire sul carro del vincitore, capace invece di posizioni politiche scomode. Il comunismo ma anche la libertà sono rimasti fino alla fine le sue bandiere, i suoi fari.

Viveva nel quartiere Monti, a Roma. Un quartiere modaiolo, anche un po’ fighetto, ma fatto meno per famiglie e più per giovani, per single. E lui nonostante i molti amori, ha continuato a vivere là solo, in pochi metri quadri. Perché per lui l’autonomia era un valore non mediabile, non scambiabile con altri favori o perbenismi.

E’ per questa ragione che davanti al suo gesto così estremo, e così triste, viene invece da pensare a un gesto di libertà, a un uomo che anche nella morte ha voluto decidere cosa era meglio, fregandosene del moralismo dei tanti guru pro life che ci vogliono convincere che la vita non è nostra ma di dio, dello stato, della chiesa, di qualcun altro.

Monicelli ci dice che la vita è la nostra, e che siamo noi che dobbiamo decidere che fare del nostro corpo, delle nostre relazioni, del nostro futuro. Monicelli poteva dirlo, poteva farlo. Lui che c’ha fatto tanto ridere, tanto piangere, tanto riflettere sui parenti serpenti, poteva far capire a questa Italia bigotta che la libertà di scelta è qualcosa che viene prima di tutto.

Ma come tutte le morti, come tutti i suicidi, anche la morte del grande regista suscita sentimenti diversi, persino contrapposti. Mario Monicelli era un grande. Un favorito dal destino, certo. Ma aveva 95 anni. Era vecchio.

E la vecchiaia, più di tanti altri fattori, rende tutti uguali. E parliamoci chiaro la vecchiaia per gli uomini e le donne di oggi non è delle migliori. E’ fatta di solitudine, di indifferenza, di tristezza. Chissà, se il grande regista ha sentito anche questo, se ha deciso di andarsene anche per questo.

Qualsiasi sia stato il motivo, resteranno i suoi sessanta film da vedere e rivedere, le sue sceneggiature, il suo impegno politico, per ricordare e continuare ad amare un grande regista. Ma anche per rimpiangerlo, e non solo un po’.


Morire amando la vita

di Luca Telese - www.ilfattoquotidiano.it - 30 Novembre 2010

Ancora una volta Mario Monicelli ci ha stupito. Ancora un volta un grande finale a sorpresa e una lezione di vita per tutti noi. Una scudisciata per le insopportabili prefiche dei comitati per la vita, che esaltano le (non) esistenze appese ai tubi e i calvari terapeutici con accanimento d’ufficio.

Siamo così sprofondati nel neo conformismo dell’Italia ipocrita e bigotta delle doppie verità, che questo gesto ci stupisce, e non ci appare subito per quello che é, un grande atto di liberazione.

Vivere tutto quello che si può vivere in una vita, vincere tutto quello che si può vincere, riuscite nell’impresa rara di catturare nella celluloide i segreti dell’identità italiana. Monicelli ha fatto tutto questo, regalandoci mille maschere immortali e regalandosi una stagione da ottuagenario iperattivo, la mattina il caffè in piazzetta a Madonna dei monti, i pomeriggi a filmare con la telecamerina, nei mercati e nei cortei.

Si può uscire anche così gettandosi da una finestra. Non perché si desideri la morte, ma proprio perchè si ama la vita.