lunedì 6 dicembre 2010

La gerontocrazia italiota

E' risaputo quanto l'Italia non sia mai stato un Paese disegnato a misura per i giovani, ma solo per vecchi e in mano a vecchi. Completamente gerontocratico.

Un'Italia che, come si legge nell'ultimo rapporto del Censis, è ormai appiattita e senza desiderio.



Il potere grigio degli oligarchi di Ernesto Galli della Loggia - Il Corriere della Sera - 6 Dicembre 2010

Il giovanilismo è di nuovo alla ribalta della scena italiana, chiamato a recitare la parte che da trent'anni è sempre la sua: i «giovani» (o per meglio dire poche decine di migliaia di questi che manifestano con parole d'ordine di sinistra) sarebbero gli araldi del «cambiamento», della «svolta», del «risveglio», l'avanguardia della protesta di tutta la società contro il potere cattivo di turno, preludio alla sua sospirata mandata in soffitta.

Naturalmente, si scopre in breve che «i giovani» (sempre e solo studenti: sembra che in Italia, chissà perché, per avere la titolarità anagrafica della gioventù si debba evitare accuratamente qualunque rapporto con il lavoro manuale) non annunciano in realtà nulla di quanto sperato, la protesta si spegne, e tutto torna come prima, mentre il Paese resta in attesa della prossima immancabile «rivolta», con le stesse immancabili foto di cortei, gli stessi immancabili articoli entusiasti dei giornali, le stesse penose interviste ai presunti ribelli.

Ma l'apparenza inganna. La fortuna politico-mediatica del giovanilismo è solo un modo per nascondere la realtà: e cioè che l'Italia della Seconda Repubblica è un Paese sempre più dominato dai vecchi.

Lo è innanzi tutto per un puro fatto biologico-anagrafico: perché la combinazione della scarsa natalità e della diminuita mortalità ha reso gli ultrasessantacinquenni sempre più numerosi.

Ma più in generale perché negli ultimi vent'anni, in coincidenza con una fase ormai lunghissima di ristagno economico, il Paese ha perso slancio, fiducia e vitalità, è andato ripiegandosi su se stesso.

La società italiana si è progressivamente rinchiusa dietro le antiche difese che la sua storia ha costruito. Dietro la famiglia, ma ancor di più dietro la corporazione e l'oligarchia, quasi sempre saldate insieme in un blocco ferreo.

In nessun altro Paese dell'Europa occidentale come in Italia i vertici degli ambiti lavorativi sia pubblici che privati con un minimo di qualificazione sono protetti da regole di accesso, formali o informali, le quali di fatto sbarrano il passo a chiunque non si trovi già inserito nel personale da decenni o non goda di appoggi potentissimi.

La generale, feroce ostilità al merito, unita al culto del principio della «carriera» e al legalismo spietato custodito dal Tar - tre pilastri della burocrazia statale - si rivela un'arma efficacissima per impedire ai funzionari più giovani e intraprendenti di scalare rapidamente gli alti gradi. Dell'università neppure a parlarne.

Ma, ripeto, non è solo lo Stato: il sistema bancario, ad esempio, è ormai da decenni nelle mani degli stessi mentre i nuovi ingressi avvengono con il contagocce. In complesso, poi, tutti i consigli d'amministrazione del settore privato vedono la presenza strabordante di persone intorno ai settant'anni.

La politica non dà certo il buon esempio: non solo ritirarsi da essa a una certa età per dedicarsi a qualche altra attività è cosa da noi sconosciuta, non solo perlopiù l'età media dei leader italiani è seconda solo a quella della Corea del Nord, ma ogni volta che essa è chiamata a nominare i vertici di qualcuno dei mille enti alle sue dipendenze, si può essere sicuri che nel novanta per cento dei casi sceglierà un vecchio politico o un vecchio burocrate con una lunga carriera alle spalle nei più svariati incarichi (ognuno dei quali in genere non c'entra nulla con l'altro), messo lì soprattutto come ricompensa o per tutelare chi di dovere. Una persona giovane, un quarantenne dinamico, mai: si può essere sicuri.

Oltre a essere un potere ancora oggi massicciamente maschile, il potere italiano è un potere vecchio e di vecchi: privo di gusto per il nuovo, a corto di idee e di iniziative coraggiose, incapace di rischiare davvero. Ampolloso e ripetitivo, è abituato a muoversi con circospezione pari al suo stanco scetticismo.

Un potere rappresentato da volti che abbiamo sotto gli occhi da così tanto tempo che ormai ci sembrano eterni, la sua durata media essendo a un dipresso il mezzo secolo.

In questo modo sulla scena italiana i giovani diventano sempre meno visibili. Tanto è vero che capita ormai frequentemente di trovarsi in situazioni o immersi in pubblici in cui tutti hanno un'età come minimo matura.

Mentre, quasi in risposta all'ostilità ambientale e anche in ragione delle differenze di reddito, i giovani - e non necessariamente i soli adolescenti (penso ad esempio alle giovani coppie) - tendono a creare e frequentare circuiti loro propri. All'insegna di valori separati. Adulati e additati alla pubblica ammirazione come gli araldi del nuovo, gli italiani giovani di fatto sono gli ostaggi segregati (e le vittime) di tutto ciò che è vecchio.



Gli italiani non sanno più sognare
di Massimo Gramellini - La Stampa - 5 Dicembre 2010

Sulla relazione annuale del Censis aleggia lo spirito di Jung. Giusto così: questa crisi non è materia per economisti, ma per psicanalisti L’Italia, sostiene il sempre immaginifico De Rita, affonda perché non sa più desiderare.

In realtà molti di noi hanno ancora dei sogni.
Quello che manca è l’ossigeno per raccontarli, persino a se stessi. A forza di scattare a vuoto, la molla si è inceppata. Il futuro non è un’opportunità e nemmeno una minaccia.

Semplicemente non esiste. Il futuro è la rata mensile del mutuo o il bilancio trimestrale dell’imprenditore: nessuno ha la forza di guardare più in là e si vive in un presente perenne e sfocato, attanagliati dallo sgomento di non farcela.

Sulle macerie della guerra, l’inconscio dei nonni riusciva a progettare cattedrali di benessere: quegli uomini avevano visto abbastanza da vicino la morte per immaginare la vita.
Sulle macerie morali del turbo-consumismo, la cui crescita dopata ha ucciso i desideri (di fronte a tremila corsi di laurea o tremila canali televisivi l’impulso è di spegnere tutto), l’inconscio dei nipoti sembra paralizzato da un eccesso apparente di libertà e dall’assenza di punti di riferimento.

Anche la delega al leader salvifico, di qualsiasi colore, ha fatto il suo tempo.
Bisogna cavarsela da soli e siamo diventati troppo egoisti per ricordarci come si fa. Orfani di padre, cioè dell’autorità che trae origine dall’autorevolezza e consente ai figli di avventurarsi in territori inesplorati, sapendo di poter contare all’occorrenza su una robusta ringhiera.

E con una classe dirigente specializzata nel dare cattivo esempio, priva del titolo morale per imporre regole che è la prima a non rispettare. Come si evince da quanto detto fin qui, la fotografia del Censis è decisamente beneaugurante.


Almeno per chi è convinto che non ci si possa aspettare il riscatto sociale da teorie economiche e ideologie politiche, ma solo dall’urgenza di tante rivoluzioni individuali che riescano a connettersi fra loro, creando una vera comunità.

Darsi una disciplina esistenziale, fissare dei traguardi e poi mettersi in marcia senza vittimismi, perché i «se» sono la patente dei falliti, mentre nella vita si diventa grandi «nonostante». E che Jung ce la mandi buona.



La triste parabola del popolo viola
di Federico Mello - Il Fatto Quotidiano - 5 Dicembre 2010

Un anno fa in piazza San Giovanni a Roma arrivarono 300mila persone. Era il No B. Day, il primo, lanciato all’indomani della bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale.

La richiesta del No Berlusconi Day al governo era chiara: dimissioni. Organizzandosi su Internet, e in particolare su Facebook, semplici cittadini, militanti della sinistra e dei partiti, riempirono Roma del colore viola.

Fu una battaglia vinta su più fronti: l’autorganizzazione dal basso senza mezzi economici; la voglia di essere in piazza contro il governo in un periodo in cui Berlusconi era fortissimo; la scelta stessa del viola che si rivelò vincente: diventò un collante tra persone di età, provenienza geografica e credo politico diverso.

Oggi, 365 giorni dopo, cosa rimane di quell’onda viola? A guardare la “convention” che si è celebrata oggi a Roma per il primo anniversario della manifestazione, rimane molto poco – e quel poco che rimane è molto poco stimolante.

Al Teatro Vittoria, nel cuore del quartiere Testaccio, si sono ritrovati un centinaio di militati. Ma se sul palco del No B. Day i politici non furono fatti salire – il “mattatore” della giornata fu Salvatore Borsellino – un anno dopo, la convention è tutta per loro, i politici (e molti di questi, con rispetto parlando, non solo sono già visti e stravisti nel panorama nazionale, ma anche in aperta contraddizione gli uni con gli altri).

Al netto di Di Pietro e di Vendola che sono intervenuti via Webcam, e al netto di un ottimo intervento di Beppe Giulietti, il palco di oggi è stato tutto per Marco Ferrando del Partito Comunista dei lavoratori; Angelo Bonelli dei Verdi; Marco Staderini dei Radicali; Oliviero Diliberto del Pdci; Vincenzo Vita del Pd. Si è fatto vedere anche Marco Pannella che ha cazzeggiato tutto il tempo senza spiegare se i suoi radicali sono davvero intenzionati – come ventilato nei giorni scorsi – a votare la fiducia al morente governo Berlusconi.

La platea non ha fatto mancare applausi ad ognuno, al diavolo e all’acqua santa, al comunista e al liberista.

Da sottolineare, infine, come in apertura della mattinata, i viola abbiamo presentato un sondaggio Ipr Marketing sulla loro composizione intera: intorno a questo benedetto sondaggio è ruotata tutta la convention, tutte le domande ai relatori.

La fiducia di questo movimento spontaneo in un banale sondaggio, con tanto di slide e torte, come nessun partito politico oggi si sognerebbe di fare, appare un ulteriore segnale di confusione e di mancanza di idee.

Il teatro Vittoria, oggi, ci consegna una proposta viola che appare una poltiglia, anzi, una polpetta, un polpettone non in grado di esprimere né idee né visioni politiche autonome, né tanto meno di farsi bandiera dell’innovazione e di numerose istanze del paese (a cominciare da quelle dei giovani e degli universitari).

In tanti, compreso chi scrive, credono che Internet sia una strumento straordinario per diffondere conoscenza e informazione (e wikileaks lo dimostra). Ma forse è stata eccessiva – e faccio anche un mea culpa – la fiducia cieca in uno strumento reticolare e orizzontale per creare un’alternativa e una politica credibile.

Se il protagonismo dei troll vieni trasferito di sana pianta dai siti web ai teatri; se non ci sono spazi per il confronto democratico sulla base di regole comuni; se non ci sono luoghi e riti ufficiali di dibattito e deliberazione, il risultato finale rischia di essere la poltiglia, appunto, il polpettone.

Dovremmo forse capire come usare al meglio Internet per migliorare la politica, non per appiattirla e annacquarla fino a distruggerla. Siamo ancora in tempo per rifletterci. E il contributo generoso dei viola può essere una prima esperienza, ormai al capolinea, per capire gli inevitabili errori commessi e ripartire su basi più solide.