sabato 11 dicembre 2010

Euro o non euro?

Torniamo ancora sulle crescenti difficoltà di Eurolandia e sulle continue remate in senso contrario da parte della Germania.

Inoltre anche uno sguardo in casa italiota.


Neurolandia
di Eugenio Benetazzo - www.eugeniobenetazzo.com - 10 Dicembre 2010

Sono pazzi questi europei: non ci sono più tante giustificazioni a cui aggrapparsi, ormai l’Europa è fallita platealmente, sepolta dal peso insostenibile dei suoi debiti sovrani.

La colpa dovrebbe essere tutta addossata ai germanesi, una popolazione che si è sempre contraddistinta in passato per una spiccata etica ed efficienza sul lavoro, quella che purtroppo sembra essere mancata alla stesura embrionale dell’Europa unita concepita oltre dieci anni fa.

Non si possono lasciare fallire paesi come Grecia, Portogallo ed Irlanda in quanto i principali detentori dei titoli di stato di questi paesi sono proprio banche e fondi pensione della nazione germanese. Le comunità finanziarie non guardano ad altro, le scommesse su quanto potrà ancora durare questa farsa sono i temi principali dei grandi operatori di borsa.

Quando allora si inizierà a parlare di fallimento della moneta unica ?

Che futuro può avere un’unione forzata di stati (accomunati dal nulla) il cui delicato equilibrio si basa sulla detenzione del debito dei paesi periferici (leggasi più deboli) da parte dei paesi cosiddetti virtuosi (Germania, Francia & Company) ?

L’euro tecnicamente è già una moneta fallimentare: non si può obbligare ad usare una divisa troppo forte a paesi che hanno un’economia debole (per questa ragione stanno saltando tutti i PIGS). Che senso ha una politica monetaria accentrata per tutti gli stati europei a fronte di oltre una dozzina di tassi di interesse diversi ?

Pensateci un momento: quello di cui avevamo veramente bisogno erano questi famigerati Euro Bond ovvero obbligazioni comunitarie emesse dalla BCE ad un unico tasso di interesse, il ricavato del quale sarebbe andato a finanziare i rispettivi paesi, i quali invece devono andare ciascuno singolarmente sul mercato proponendo tassi di interesse il più allettanti possibile.

Sono stati proprio i germanesi di recente che hanno posto il veto agli Euro Bond aprendo nuovamente le scommesse su quanto potrà reggere ancora l’Europa così come la conosciamo. Persino Zingales adesso parla della spaccatura valutaria dell’euro (quando invece ne parlavo io nel 2008 tutti mi davano del catastrofista finanziario).

Studiare un sistema economico non è poi così difficile, ogni sistema reagisce agli stimoli esterni come un organismo vivente: pertanto ad ogni azione corrisponde un’azione uguale e contraria. Le conseguenze dalla sua introduzione non hanno tardato ad arrivare.

L’euro ha limitato la crescita e danneggiato la competitività di alcuni paesi europei (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda e Grecia) che avevano intensi e prosperosi rapporti con l’estero al di fuori dei confini europei (pensiamo oltre all’export manifatturiero anche tutto l’indotto turistico).

Le divise rappresentano delle valvole di sfogo per ogni paese nei momenti di tensione economica: pretendere di assoggettare una dozzina di stati al dictat egemonico dei germanesi è stata una manovra da ricovero psichiatrico.

L’euro ha consentito infatti ai precedenti governi dei paesi PIGS di attuare politiche di bilancio che producessero costanti deficit annui (tanto il costo del rifinanziamento era molto contenuto), il quale si è poi riflesso sulla massa totale del debito pregresso.

Nelle epoche precedenti paesi come l’Italia hanno superato momenti di contrazione economica proprio grazie alla svalutazione, quello che invece impedisce oggi la moneta unica.

Senza euro avremmo avuto i tassi di interesse molto più alti e questo avrebbe obbligato la nostra classe politica a intraprendere manovre di risanamento dei conti pubblici per contenere l’onere degli interessi sul debito pubblico.

Senza l’euro non avremmo avuto la bolla immobiliare alimentata dai mutui farlocco ad intervento integrale. Senza l’euro avremmo avuto maggiore sicurezza e solidità per le nostre banche.

Adesso di sicurezza ne rimane veramente poca, addirittura se parafrasiamo la stessa Merkel ci dovremmo aspettare almeno il default parziale su una parte di emissioni dei titoli di stato anche di paesi virtuosi: la classifica soluzione a colpo di spugna.

Di certo non è più consigliabile detenere debiti di stato al momento, siano essi BUND oppure OAT. Se il tutto verrà salvato, grazie magari ad una superpatrimoniale, preparatevi perché in ogni caso perderete denaro, anche detenendo il vostro caro ed amato «pagherò nazionale» infatti nell’ipotesi più accreditata faranno partire una inflazione a due cifre per ridimensionare in qualche anno i debiti degli stati. La Fed insegna. Mala tempora currunt, sed peiora parantur.


Berlino decide: Shoah per gli eurodeboli
di Marco Della Luna - http://marcodellaluna.info - 7 Dicembre 2010

Tremonti e Juncker, appoggiati dal commissario finlandese Rehn, e riprendendo un suggerimento di Mario Monti, hanno messo allo scoperto le mire biecamente nazionaliste ed anti-europee di Berlino.

L’altroieri, proponendo l’emissione da parte dell’UE di Eurobond, ossia di un debito pubblico comune per rinforzare l’Euro e concretare il progetto di unificazione finanziaria europea, trasformando l’Euro in moneta unica (anziché insieme di parità fisse quale ancora oggi è), hanno messo Berlino alle strette: sì o no. E Berlino ha detto chiaramente “no”. Anche al rafforzamento del fondo di difesa dell’Euro.

Gli Eurobond consentirebbero di finanziare il debito pubblico dei paesi dell’Eurozona a costi (tassi) inferiori degli attuali, quindi proteggerebbero l’Euro sui mercati internazionali e farebbero risparmiare i governi; consentirebbero più investimenti infrastrutturali e produttivi, quindi aiuterebbero a uscire dalla crisi e a recuperare produttività e competitività.

Intanto, il mito del pareggio di bilancio ed epurazione dell’inflazione, come regola base dell’economia, viene oramai demistificato non solo oltreoceano, ma anche in Europa. Però l’interesse nazionalistico di Berlino è diverso: la Germania è già fuori dalla crisi (almeno nel comparto export) col suo + 3,6% di pil; già paga pochissimo, meno di tutti gli altri, sul proprio debito pubblico; già ha i mezzi per i suoi investimenti interni; e gli altri paesi europei è meglio che vadano a fondo, strangolati dal rigore di bilancio, dal debito pubblico, dalla concorrenza cinese, indiana, turca, e dalle virtuosità germaniche.

Quando saranno al default, dovranno uscire dall’Euro. Oppure sarà la Germania a uscirne, come da tempo vuole la maggioranza dei Tedeschi.

Dicendo no all’Eurobond, la Merkel ha gettato la maschera: i suoi intenti sono ostili e conflittuali. L’Euro, alla Germania, serve solo per sottomettere gli altri europei.

E allora chiediamoci: conviene restare in un’UE e sotto una BCE cui cediamo la sovranità economica, se quell’Europa e quella BCE sono dominate da una Germania che ha deciso di farci (economicamente) fuori?

Ovviamente, no. Se dobbiamo prepararci a un imminente lotta contro la Germania per la sopravvivenza economica, bisogna toglierle le armi che le abbiamo indirettamente dato, e svegliarsi dall’europeismo idealizzante e cieco alla realtà.

Il conflitto entro la UE tra area germanica e area franco-mediterranea è un conflitto inevitabile, perché deriva direttamente dalle diverse mentalità e dai diversi comportamenti collettivi di queste due aree. Diversità che le rende disomogenee, con livelli diversi di efficienza, e perciò non amalgamabili tra loro, come l’acqua con l’olio, o il cerio coll’alluminio.

L’Euro si salva se l’Europa si unisce economicamente e politicamente, ma le unioni politiche funzionano solo tra popoli con comportamenti politico-economici compatibili. Il progetto di unificazione europeo fallisce a causa di questa diversità, così come per analoga diversità fallisce il progetto di unificazione italiana. La Germania rifiuta di fare verso gli Eurodeboli ciò che il Lombardo-Veneto è costretto a fare verso il Meridione – Rampini docuit.

I Tedeschi non vogliono fare la fine dei Padani. Popoli diversi per efficienza economica stanno meglio separati e senza monete comuni o cambi fissi tra le loro monete. I confini nazionali proteggono i popoli meno competitivi dando loro il tempo di adeguarsi agli altri, prima che questi li schiaccino.

Se invece li si tiene legati insieme, si creano conflitti e sopraffazioni. I lavoratori tedeschi, per superare la crisi, hanno accettato con disciplina di rinunciare a una settimana di ferie e a fare un supplemento di orario non pagato – comportamenti impensabili in Italia, come in area germanica sono impensabili storie come quelle dei rifiuti napoletani e del clientelismo italiano.

In area germanica, nel complesso, c’è un livello di rispetto delle regole e di fiducia reciproca, tra cittadini, imprese e istituzioni, molto più alto che nell’Europa mediterranea, quindi c’è un livello di efficienza superiore, e di sprechi inferiore. E’ un organismo socio-economico che prevale sugli altri nella competizione darwiniana.

L’area germanica può quindi permettersi una strettezza nella spesa pubblica, che per gli Eurodeboli implica impossibilità di uscire dalla crisi per carenza di fondi per investimenti infrastrutturali.

Non può permettersi di farsi carico di compensare le inefficienze relative degli altri popoli, anche perché così facendo le incentiverebbe – esattamente come avviene nel caso dell’unificazione italiana o come avveniva nella cessata Jugoslavia.

Ma poi per quale motivo dovrebbe aiutarli, quando ha interesse a soggiogarli e a neutralizzarli come concorrenti sul mercato globale, e a farne un mercato passivo per i propri prodotti?

L’odierno “nazionalismo tedesco” punta sul disprezzo della svalutazione della moneta legale (Euro), sull’inflazione “importata” (visto che quella interna è sotto controllo ed accettata dai cittadini / contribuenti), e sul ritorno ad una correlazione quasi perfetta tra la ricchezza creata nel periodo ed il tenore di vita dei cittadini.

All’opinione pubblica tedesca ciò può essere fatto vivere e accettare come un ritorno del nazionalismo idealistico; ma, sul piano politico-economico, esso è l’antico “mercantilismo”, che fu un precursore della rivoluzione agricola e poi industriale inglese.

Su questo piano si tiene conto del fatto che i costi inferiori di finanziamento mediante Eurobond sarebbero tali per i paesi deboli, ma i mercati, conoscendo la struttura di questo debito globale europeo, lo farebbero pagare di più dei bond tedeschi: l’aggravio ci sarà, anche se con velocità di trend (di segno algebrico diverso) differenti tra di loro, nel senso che i tedeschi vedrebbero aumentare la remunerazione di questi titoli, ma bisognerebbe capire quali saranno i risvolti per il contribuente tedesco. Le garanzie di rimborso di questi titoli dovrebbero essere “collettive e solidali tra tutti i paesi membri dell’UE”.

In più, diciamo che sino al 2013 ci sarà una “tregua”, nel senso che i parametri di Maastricht lasceranno un po’ il tempo che trovano … o quasi. Berlino giustamente paventa che, ad allora, i debiti pubblici degli Eurodeboli salgano molto, e di doversi far carico anche di questo incremento.

Ed è proprio perché il piano tedesco per la Shoah degli Eurodeboli deriva da un’esigenza di tutela di interessi economici, razionali, e non da fattori irrazionali (orgoglio nazionale, egoismo, scarsa fratellanza e cose simili), che bisogna difendersi agendo prontamente sul piano oggettivo, anziché invocare principi morali di fratellanza ed europeismo – quelli sotto il cui miraggio propagandistico è stata costruita questa situazione.

L’ottimo Corradino Mineo, due giorni fa, su Rainews 24, ha ripreso e fatti propri i contenuti del mio precedente articolo, Un’Angela per la soluzione finale?, sottolineando come la Germania stia tornando al medesimo nazionalismo ostile ed egoista che, nel XX Secolo, la spinse a due guerre disastrose per sé e per l’Europa.

Oggi le guerre non si combattono più con bombe, carri armati e fanterie, ma con la finanza. L’Euro e i vincoli finanziari di Maastricht danno alla Germania la possibilità di eliminare o sottomettere (sceglierà al momento giusto) le economie concorrenti. E lo sta facendo, metodicamente, sistematicamente, legalmente.

La sua ideologia di non violenza, ostentata per qualche decennio, era solo un adattamento provvisorio alle circostanze. Il suo nuovo mito di superiorità è la purezza di bilancio e l’epurazione dell’inflazione.

L’Eurozona è il suo K-Lager monetario dove ci sta affamando tutti. I vincoli di bilancio sono il suo filo spinato. L’Eurtotower è la torretta delle guardie. Le sanzioni per chi sfora, sono le frustate per gli internati che osano evadere. Corrono voci che Sarkozy sia ebreo. Ed è sicuramente vero, perché, di fronte a certo germanesimo, siamo ebrei tutti.


Gentili: il futuro dell'Italia si gioca il 16 dicembre fuori casa
di Lorenzo Torrisi - Il Sussidiario.net - 10 Dicembre 2010

La Bce ha reso noto ieri il suo Rapporto semestrale sulla stabilità finanziaria dell’Eurozona, che evidenzia una situazione ancora “piena di rischi” per l’Unione monetaria. Inoltre, l’Eurotower ha diffuso ieri il bollettino mensile relativo al mese di dicembre, nel quale il nostro paese è indicato insieme a Grecia, Belgio e Irlanda, tra quegli stati che nel 2012 avranno un rapporto debito/Pil superiore al 100%.

Anche se, segnala ancora Francoforte, Italia e Germania non vedranno aumentare questo parametro. Indicazioni che possono essere importanti alla vigilia di una settimana che, come ci ricorda Guido Gentili, editorialista de Il Sole 24 Ore, vivrà un momento cruciale con il voto di sfiducia al Governo il 14 dicembre.

Come va interpretato il dato che è arrivato ieri dalla Bce sul nostro debito pubblico?

Cautamente: non mi sbilancerei né in letture pessimistiche, né ottimistiche. Abbiamo appena approvato la legge di stabilità e le previsioni del Governo sono di chiudere il 2010 con un rapporto deficit/Pil al 5% (in calo rispetto al 5,3% del 2009), che dovrebbe arrivare al 3,9% nel 2011, e con un debito/Pil che passa dal 115,9% del 2009 al 118,5% del 2010 fino ad arrivare al 119,2% dell’anno prossimo.

Un dato alto, ma non bisogna dimenticare che tutta l’Eurozona soffre il problema dei debiti sovrani: persino la virtuosa Germania ha un trend di crescita del debito più alto del nostro, pur essendo minore in termini assoluti. Inoltre, il livello del debito privato fa sì che il debito aggregato dell’Italia sia in realtà più basso.

Finora questa è stata una settimana abbastanza tranquilla per l’euro. La prossima, invece, con il voto di sfiducia al governo Berlusconi, potrebbe essere di segno opposto?

Il 14 dicembre è una data-snodo importante non solo dal punto di vista politico, ma anche economico. Due giorni dopo, infatti, si terrà un importante vertice tra i capi di stato e di governo dell’Ue. In caso di sfiducia, l’Italia sarebbe ivi rappresentata da un governo dimissionato dal Parlamento: una condizione certamente non ottimale. Inoltre le fibrillazioni sull’euro e gli attacchi della speculazione tornerebbero molto probabilmente a farsi sentire.

C’è da augurarsi allora che Berlusconi ottenga la fiducia.

Beh, diciamo che in caso di sfiducia si aprirebbe una crisi che certamente richiederà del tempo per essere risolta. Se guardiamo al passato, il 22 dicembre del 1994 cadde il primo governo Berlusconi e il 22 gennaio 1995 quello Dini ottenne la fiducia parlamentare.

Nel 1993 ci fu invece il passaggio di consegne tra il Governo Amato (che presentò le dimissioni il 26 aprile) e quello Ciampi (che ottenne la fiducia il 12 maggio). Per quanto rapidi (casi più unici che rari), tempi del genere ci lascerebbero comunque esposti al fuoco della speculazione che potrebbe approfittare della confusione e dell’incertezza.

Oltre al vertice europeo, il 16 dicembre ci sarà anche la riunione dell’Ecofin dedicata all’avanzamento dei lavori sulla governance economica e la riforma del patto di stabilità. Temi molto importanti per le finanze pubbliche.

Certamente. La costruzione europea è a una delicatissima svolta, ben evidenziata dalla proposta avanzata da Tremonti e Juncker sugli Eurobond per arginare la crisi del debito che affligge l’Eurozona. Inoltre, nella riunione verrà messo a punto il calendario della nuova governance europea che scatterà da gennaio e che prevede una discussione sui piani di rientro di ciascun paese nella primavera. Siamo quindi alla vigilia di scelte molto importanti.

Anche perché al nostro paese potrebbe essere chiesta una nuova stretta sui conti con una manovra straordinaria.

Esattamente. Al momento sappiamo che il Fondo monetario internazionale è in visita nel nostro paese per una ricognizione sullo stato dei conti pubblici. Il Governo ha già fatto sapere che non c’è bisogno di un’altra manovra, ma le nuove regole europee o la difficile condizione dell’Eurozona potrebbero richiederla addirittura entro la primavera. Il Pd ha calcolato che si potrebbe trattare di 7 miliardi di euro.

Una cifra che sarebbe comunque non di poco conto. Il Governo avrebbe fatto bene nei mesi scorsi a varare un significativo taglio del debito, attraverso un piano straordinario di dismissioni pubbliche del valore di 500 miliardi. Un’operazione del genere ci avrebbe messo al riparo da eventuali nuove manovre e, soprattutto, da nuove “stangate” fiscali, che credo nessuno voglia.

Si tratterebbe di nuove privatizzazioni?

Qualcosa del genere, se non ricordo male, era previsto tra le missioni indicate nel programma elettorale del centrodestra come “valorizzazione e vendita del patrimonio pubblico”. Oltre alle società quotate, agli immobili, si potrebbe agire anche sulle realtà del capitalismo municipale. Forse è ormai troppo tardi, ma una rapida ricognizione sarebbe opportuna, così da avere una carta in più da giocarci in futuro.

Tornando alla situazione dell’euro, pensa che la creazione degli Eurobond sia una soluzione migliore rispetto al fondo europeo di salvataggio?

Credo sia un’operazione intelligente che riprende un’idea lanciata qualche anno fa per finanziare le opere pubbliche infrastrutturali e favorire la crescita. In questo caso avremmo anche il vantaggio di disinnescare in gran parte la mina del debito, evitando la strategia dei continui singoli salvataggi (prima la Grecia, dopo l’Irlanda, poi forse il Portogallo, ecc.) che è certamente più dispendiosa. Anche perché una volta che la speculazione dovesse far breccia in un paese grande come la Spagna o l’Italia, le conseguenze sarebbero disastrose per l’euro stesso.

L’euro rischia davvero la dissoluzione?

Sì, tanto è vero che si parla sempre più - come opzione realistica e non fantascientifica - della creazione di una sorta di meccanismo simile allo Sme a due velocità. Del resto abbiamo ormai un’Europa a due velocità: l’area tedesca che cresce ed è virtuosa nei conti pubblici e l’area mediterranea schiacciata dal debito e che cresce poco. C’è da chiedersi per quanto tempo realtà così diverse potranno convivere sotto un’unica moneta.

Per concludere vorrei chiederle un commento su quanto apparso ieri su Il Giornale su presunti “oscuri intrecci” tra Confindustria e i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil. Si parla già di Wikileaks italiana.

Ho letto l’intervista in cui il segretario generale della Fismic Di Maulo annuncia la possibilità di fare rivelazioni su scambi “impropri” tra Confindustria e sindacati e di avere i documenti per dimostrarli. Francamente vorrei capire meglio e oggettivamente la situazione, perché non si può lanciare un’accusa così grave, dato che si parla di fondi occulti, senza fornire le prove.


Mercati finanziari: tensioni sulla fiducia

di Matteo Cavallito e Mauro Meggiolaro - www.ilfattoquotidiano.it - 10 Dicembre 2010

Il commissario Ue all'Economia Olli Rehn dice che i conti italiani sono in ordine e che non sarà necessaria una manovra aggiuntiva. Aperture anche sul basso livello del debito privato italiano. Ma secondo gli analisti finanziari, il voto di fiducia del 14 dicembre può riaccendere la speculazione sui conti italiani

Il voto di fiducia in calendario per il 14 dicembre potrebbe riaccendere la speculazione sul debito italiano. Soprattutto se non usciranno prospettive chiare per la risoluzione della crisi politica e Silvio Berlusconi rimarrà aggrappato a una manciata di voti. E’ questo il giudizio degli analisti e dei trader specializzati nella contrattazione dei titoli di stato.

Stephen Lewis, Chief Economist di Monument Securities, Londra, sentito oggi dal fattoquotidiano.it, conferma le preoccupazioni: “l’Italia ha superato indenne la prima ondata speculativa, dieci giorni fa, e ora gli operatori finanziari aspettano solo di passare le vacanze e chiudere l’anno, dando alla situazione italiana il beneficio del dubbio”, ha dichiarato.

“Ma se la settimana prossima uscirà dal voto di sfiducia un paese fragile e difficilmente governabile, i mercati internazionali potrebbero risvegliarsi e prendere una nuova posizione sul debito”.

Per Lewis non conta molto se Berlusconi riuscirà a stare in piedi con uno, due o tre voti. “Si tratta di questioni tecniche che ai mercati non interessano. Sarà molto più pericoloso il clima che si potrebbe creare attorno al voto, la temperatura del dibattito e l’attenzione dei media. Ogni dichiarazione potrebbe pesare perché i mercati sono molto nervosi”.

E’ dello stesso parere Lavinia Santovetti, analista della banca di investimenti giapponese Nomura. “Comunque vada – spiega – , il 14 Dicembre probabilmente non sarà una giornata positiva per l’Italia dal punto di vista dei mercati finanziari. La mancata fiducia potrebbe scuotere i mercati, e anche se Berlusconi dovesse farcela, i problemi non mancherebbero. Nell’immediato ci sarebbe un effetto notizia positivo, migliore rispetto a un eventuale crollo del governo. Ma il protrarsi dell’incertezza politica potrebbe avere il suo prezzo nei mesi successivi”. Soprattutto se il governo venisse sostenuto da pochissimi voti. “A quel punto saremmo da capo: con una maggioranza molto risicata, i titoli di stato italiani potrebbero entrare in una fase di continua instabilità nel 2011″.

Gli investitori si augurano una maggioranza chiara, un governo stabile che si prenda finalmente carico delle riforme strutturali di cui l’Italia ha urgentemente bisogno. “La Germania sta beneficiando ora di riforme di lungo periodo, approvate negli anni ottanta e novanta, mentre l’Italia è ferma”, aggiunge Lavinia Santovetti. “Oltre alle riforme serviranno molto probabilmente manovre finanziarie ben più severe rispetto a quelle che abbiamo visto di recente”.

Il problema è strutturale e non basterà un governo posticcio a risolverlo. Negli ultimi dieci anni l’Italia è cresciuta mediamente di appena lo 0,54% all’anno e le prospettive per il futuro non sembrano certo favorevoli. Lo evidenzia, tra gli altri, il dato sulla produzione industriale.

Secondo l’ultima analisi di Daily Forex, l’output dell’industria italiana ha registrato nell’ultimo mese un calo dello 0,1% contro una previsione iniziale di crescita dello 0,7%. Di questo passo, hanno affermato oggi gli analisti, il dato 2010 segnerà un -0,2% rispetto all’anno precedente mancando clamorosamente il traguardo originariamente ipotizzato (+4,6%).

Un motivo in più per conservare più di un dubbio in merito all’ottimismo espresso oggi dal Commissario Ue agli Affari economici Olli Rehn. «È stato appena approvato il Bilancio per il 2011, che è compatibile con gli obiettivi fiscali per l’anno prossimo e il criterio del disavanzo del 3% del Pil nel 2012 – ha affermato Rehn in audizione alla Camera – : secondo noi non si renderanno necessari nuovi interventi, ma al tempo stesso sarà necessario un monitoraggio rigoroso su spesa ed entrate affinché gli obiettivi fiscali siano raggiunti».

In pratica, ha spiegato il commissario, non vi sarebbe dunque alcuna necessità di interventi aggiuntivi a meno che «non si verifichino grosse deviazioni dalle previsioni di crescita e di entrata».

A mettere in crisi i piani del governo potrebbero essere proprio i dati effettivi. Secondo le stime ufficiali dell’esecutivo, l’economia italiana dovrebbe crescere dell’1,2% nel 2010 per poi accelerare ulteriormente nel 2011 (+1,3%) e nel 2012 (+2%), un’ipotesi che non convince gli osservatori.

Secondo le analisi di Nomura, la ricchezza nazionale crescerà di soli 1,5 punti nel 2012 facendo attestare il rapporto deficit/Pil a quota 3,6% contro il 2,7% previsto dal governo. Il che, in sostanza, significa che i parametri di stabilità non saranno raggiunti e che una manovra aggiuntiva da almeno 7 miliardi si renderà quanto mai necessaria.

I dettagli dello sforzo finanziario richiesto restano ovviamente legati al nuovo Patto di Stabilità in discussione nell’Ue. Il ministro Giulio Tremonti, impegnato a difendere i suoi pochi punti di forza, sembra aver trovato un alleato prezioso nello stesso Rehn.

«L’indebitamento del settore privato – ha precisato sempre oggi il commissario – diventerà una variabile molto importante nella procedura per squilibri eccessivi. Il debito privato svolge un ruolo importante nell’analisi, come fattore attenuante. Sarà un fattore di mitigazione nella nuova governance economica».

Un assist meraviglioso per il dicastero delle finanze, da tempo impegnato a sbandierare ai quattro venti il basso livello del debito privato italiano. Ma anche qui, a ben vedere, occorre fare un paio di precisazioni. In primis c’è il progressivo deterioramento dello stato di salute delle banche.

Gli istituti italiani, è vero, conservano una maggiore solidità rispetto agli omologhi europei ma le loro performance, ultimamente, non sono state positive. Nell’ultimo anno, ha riferito la scorsa settimana Bloomberg, il titolo Unicredit scambiato in borsa ha ceduto il 25% contro il -32% di Intesa e -29% di Monte dei Paschi.

Nello stesso periodo, l’indice di riferimento sulle azioni degli istituti, il Bloomberg Europe Banks and Financial Services Index, ha perso decisamente di meno cedendo soltanto 7,6 punti percentuali. Le banche, insomma, saranno pure state sostanzialmente immuni dai titoli tossici della prima ora ma adesso devono fare i conti con altri assets problematici: i bond sovrani.

Secondo Bloomberg, l’esposizione netta di Banca Intesa sui bond nazionali di Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda e Italia ammonterebbe a 65 miliardi di euro, circa il 240% del valore del suo patrimonio di qualità primaria (il cosiddetto tier-1, capitale azionario più riserve).

Unicredit si attesterebbe invece a 40,3 miliardi (103%). Come dire che il destino dei conti pubblici italiani finisce per condizionare direttamente anche quello delle banche. Un cane che si morde la coda, insomma.

Altro aspetto significativo è poi quello relativo al debito privato. Le famiglie italiane vantano un bilancio meno sfavorevole rispetto alla media europea ma non per questo possono dirsi in salute.

A dettare le scelte familiari ci sarebbe soprattutto la cronica contrazione dei consumi, un aspetto che ha indotto molti analisti a interpretare la tanto sbandierata propensione al risparmio delle famiglie come, per citare la Reuters, “il riflesso di politiche di welfare inadeguate e della mancanza di fiducia nel sistema pensionistico”. In pratica i cittadini italiani continuano a risparmiare, nonostante tutto, ma solo perché non si fidano di chi li governa.

“La nostra più grande preoccupazione”, si legge in un report pubblicato da Deutsche Bank il 3 dicembre, “è che la complessa situazione politica possa tradursi in una fase di stallo nelle funzioni del governo, che non riuscirà così a mettere a punto le politiche necessarie per aumentare la produttività e la competitività del mercato interno”.

Se il voto di sfiducia consegnerà il paese a un nuovo coacervo di partiti, partitini, parlamentari indipendenti e voltagabbana, le preoccupazioni dei mercati potrebbero facilmente trasformarsi in una triste realtà.