domenica 15 maggio 2011

Ignoranza e incapacità di superarla, un mix micidiale

Alcuni articoli che sembrano scollegati tra loro ma che invece sono uniti da un robusto fil rouge.

Ovviamente ciò vale per chi vuole vederlo, se ci riesce...


Al-Qaeda: il database

di Pierre-Henry Bunel - http://globalresearch.ca - 12 Maggio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Poco prima della sua morte prematura, l’ex Ministro degli Esteri Robin Cook disse alla House of Commons che ‘Al Qaeda’ non è in realtà un gruppo terroristico ma un database internazionale di mujaheddin e di trafficanti d’armi usati dalla CIA e dai Sauditi per fornire guerriglieri, armi e soldi nell’Afghanistan occupato dai Sovietici.

Grazie alla concessione di World Affairs, un giornale con sede a Nuova New Delhi, vi posso presentare un importante estratto da un articolo di Pierre-Henry Bunel nel numero Aprile-Giugno 2004, un ex agente dell’intelligence militare francese.


Wayne Madsen Report
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Sentii per la prima volta parlare di Al Qaida quando stavo frequentando il corso Command and Staff in Giordania. All’epoca ero un ufficiale francese e le forze armate francesi avevano contatti frequenti e stavano cooperando con la Giordania […].

Due dei miei colleghi giordani erano esperti di computer. Erano ufficiali di difesa aerea. Usando lo slang del linguaggio del computer, mi raccontarono una serie di barzellette sulle punizioni agli studenti.

Ad esempio, quando uno di noi era in ritardo alla fermata dell’autobus per lasciare lo Staff College, i due ufficiali dicevano sempre: “Sarai segnato nel ‘Q eidat il-Maaloomaat”, che voleva dire “Sarai registrato nell’archivio delle informazioni”. Con il significato: “Riceverai un avvertimento”.

Se il caso era ancora più grave, parlavano quasi sempre di “Q eidat i-Taaleemaat”, che voleva dire ‘l’archivio delle iniziative’. Che voleva dire ‘che saresti stato punito’. Per i casi peggiori parlavano sempre di registrazione in ‘Al Qaida’.

Nei primi anni ’80 la Banca Islamica per lo Sviluppo (IBD), che è situata a Jeddah in Arabia Saudita, come il Segretariato Permanente dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, acquistò un nuovo sistema computerizzato per far fronte alle richieste di elaborazione e di elaborazione. Al tempo il sistema era più sofisticato di quanto fosse realmente necessario.

Fu deciso di usare una parte della memoria del sistema per ospitare il database della Conferenza Islamica. Era possibile per i paesi coinvolti accedere al database via telefono: un Intranet, in linguaggio moderno. I governi dei paesi membri così come alcune delle ambasciate nel mondo erano connesse a quella rete

[Secondo quanto riferito da un maggiore pakistano] il database era diviso in due parti, i file delle informazioni da cui i partecipanti alle riunioni potevano prelevare e inviare i dati richiesti, e i file delle iniziative dove le decisioni prese nelle precedenti sessioni venivano registrate e immagazzinate. In arabo questi file erano chiamati ‘Q eidat il-Maaloomaat’ e ‘Q eidat i-Taaleemaat’.

Questi due file erano a sua volta all’interno di un altro file chiamato in arabo ‘Q eidat ilmu’ti’aat’, che è l’esatta traduzione della parola inglese ‘database’. Ma gli arabi usano comunemente la parola ‘Al Qaida’ che in arabo significa “la base”. La base aerea militare di Riad in Arabia Saudita è chiamata ‘q eidat’ riyadh al ‘askariya’. ‘Q eida’ significa ‘una base’ e “Al Qaida” significa ‘la base’.

Nella metà degli anni ’80 Al Qaida era un database presente nei computer dedicato alle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica.

Nei primi anni ’90, ero un ufficiale dell’intelligence militare al Quartier Generale delle Forze di Pronto Intervento francesi. A causa della mia conoscenza nell’arabo il mio lavoro era quello di tradurre molti fax e lettere sequestrate o intercettate dai nostri servizi segreti […].

Abbiamo spesso intercettato materiale spedito da network islamici che operava nel Regno Unito o in Belgio.

Questi documenti contenevano direttive inviate a gruppi armati islamici in Algeria o in Francia. I messaggi citavano dichiarazioni che potevano essere usate nella redazione di opuscoli o depliant o per essere inseriti in video o nastri da spedire ai media. Le fonti più frequentemente citate erano le Nazioni Unite, le nazioni non allineate, l’UNHCR e… Al Qaida.

Al Qaida rimaneva l’archivio della Conferenza Islamica. Non tutti i paesi membri della Conferenza sono ‘stati canaglia e molti gruppi islamici possono prelevare informazione dai database. Era perfettamente normale per Osama Bin Laden essere collegato a questo network. Egli è il membro di un’importante famiglia nel mondo bancario e degli affari.

A causa della presenza degli ‘stati canaglia’, divenne semplice per i gruppi terroristi usare le e-mail dell’archivio. A questo proposito l’e-mail di Al Qaida fu usata, con qualche interfaccia di sistema che garantiva la segretezza, dalle famiglie dei mujaheddin per tenere attivi i collegamenti con i loro figli che venivano addestrati in Afghanistan o in Libia o nella valle della Beqa’ in Libano.

Oppure ovunque in azione nei campi di battaglia dove gli estremisti sponsorizzati da tutti gli ‘stati canaglia’ combattevano. E gli ‘stati canaglia comprendevano l’Arabia Saudita. Quando Osama bin Laden era un agente americano in Afghanistan, l’Intranet di Al Qaida era un buon sistema di comunicazione che usava messaggi coperti o in codice.

Incontrare ‘Al Qaeda’

Al Qaida non era un gruppo terrorista e neppure una proprietà privata di Osama bin Laden… Le azioni dei terroristi in Turchia nel 2003 furono compiute da turchi e le motivazioni erano locali e non internazionali, unificate o condivise.

Questi crimini misero il governo turco in una posizione complicata di fronte ai britannici e a Israele. Ma gli attacchi avevano certamente l’intenzione di ‘punire’ il Primo Ministro Erdogan per essere un politico islamico all’acqua di rose.

[…] Nel Terzo Mondo l’opinione comune è che le nazioni che usano armi di distruzione di massa per scopi economici al servizio dell’imperialismo sono a tutti gli effetti ‘stati canaglia’, in particolar modo gli Stati Uniti e gli altri paesi della NATO.

Qualche lobby economica islamica sta ingaggiando una lotta con le lobby economiche ‘liberali’. Usano i gruppi di terroristi locali che dichiarano di operare per Al Qaida. D’altra parte, gli eserciti nazionali invadono le nazioni indipendenti sotto l’egida del Consiglio delle Nazioni Unite e combattono guerre preventive. E i veri sostenitori di queste guerre non sono i governi, ma le lobby che si nascondono dietro di loro.

La verità è che non esiste alcun esercito o gruppo terrorista islamico chiamato Al Qaida. E un qualsiasi servizio d’intelligence informato lo sa. Ma esiste una campagna di propaganda per far credere al pubblico di essere in presenza di un’entità ben definita che rappresenta il ‘diavolo’ solo per portare lo ‘spettatore televisivo’ a accettare una leadership internazionale unificata per una guerra al terrorismo. La nazione dietro questa propaganda sono gli Stati Uniti e i lobbisti per la guerra USA contro il terrorismo sono solo interessati a fare soldi.”

In un altro esempio di quello che succede a quelli che sfidano il sistema, nel dicembre del 2001 il maggiore Pierre-Henri Bunel è stato condannato da una corte militare francese segreta per aver passato documenti riservati che identificavano gli obbiettivi potenziali dei bombardamenti NATO in Serbia a un agente serbo durante la guerra del Kossovo nel 1998.

Il caso di Bunel fu trasferito a una corte civile per tenere i dettagli della causa anch’essi riservati. Conoscendo il carattere e la psicologia di Bunel, il sistema “gliel’ha fatta pagare” per aver detto la verità su Al Qaeda e su chi c’era effettivamente dietro gli attacchi terroristi che vengono comunemente attribuiti a quel gruppo.

È degno di nota il fatto che il governo jugoslavo, con cui il governo francese asserisce che Bunel abbia condiviso le informazioni, ha dichiarato che i guerriglieri albanesi e bosniaci nei Balcani erano spalleggiate da elementi di ‘Al Qaeda’.

Noi sappiamo che questi guerriglieri erano spalleggiati dai soldi forniti dal Bosnian Defense Fund, un’entità costituita da un fondo speciale alla Riggs Bank, influenzata da Bush, e diretta da Richard Perle e da Douglas Feith.

Il maggiore francese Pierre-Henri Bunel, che sapeva la verità su ‘Al Qaeda’, un altro obbiettivo dei neo-con.


Porsi delle domande non significa essere complottisti, ma essere giornalisti
di Massimo Ragnedda - http://notizie.tiscali.it - 12 Maggio 2011

Per porsi delle legittime domande non bisogna essere complottisti: basta essere giornalisti. In realtà basta essere persone di buon senso, dotate di uno spirito critico, che non accettano passivamente la versione ufficiale delle cose proposta dai main stream media.

È legittimo porsi domande: anzi è il sale della democrazia.

Pensiamoci: che male c’è, di fronte a delle evidenti contraddizioni o incongruenze, a porsi delle semplici domande?
Che male c’è nel farsi qualche domanda, ad avanzare qualche dubbio? È forse un reato dissentire? È forse un crimine mettere in discussione la versione ufficiale delle cose?

Spesso accettiamo la versione “ufficiale” proposta
, soprattutto su grandi e complessi temi, per comodità e semplicità. È infatti molto più comodo abbracciare la “verità ufficiale” senza doverla necessariamente mettere in discussione.

È molto più semplice credere alla verosimile trama proposta alla tv, soprattutto quando è raccontata con note ufficiali da persone alle quali abbiamo dato la nostra fiducia.
A volte preferiamo non sapere, non andare oltre la cortina di superficialità delle cose raccontate, per paura di conoscere: la verità fa male, recitava una vecchia canzone.

A volte, invece, non abbiamo le energie e le forze per mettere in discussione il tutto perché, in fondo, pensare stanca.
È per questo che c’è chi preferisce non indagare e accetta passivamente, come spettatore del suo stesso mondo, la verità “ufficiale”.

Infine, spesso, non si hanno gli strumenti cognitivi, le competenze e il tempo per mettere in dubbio quanto sentito alla TV. Come cittadino può anche essere un mio diritto.


Ho il diritto, quando espressamente dichiarato, di non essere informato
su alcuni temi (io, ad esempio, rivendico il diritto a non essere informato sul matrimonio reale del principe inglese e non voglio sapere - vi prego non ditemelo - se e dove faranno la luna di miele. È un mio diritto, o no?).

Posso anche decidere di non informarmi su questioni vitali quali l’11 settembre, la crisi finanziaria, l’aggiotaggio, le ragioni che stanno dietro una guerra e la morte di Bin Laden (giusto per citare qualche esempio), ma una volta che decido di farlo, ascoltando e leggendo le informazioni sui principali media di informazione, devo fidarmi dei giornalisti e della loro professionalità.


Perché, infatti, dovrei pormi mille domande su tutto?
Se mi han detto così, così sarà: perché dovrei dissentire e metterlo in discussione? È il loro dovere quello di informarmi correttamente, perché allora avanzare dubbi? Dobbiamo fidarci.

Se mi sottopongo ad una visita medica devo fidarmi delle competenze del dottore (non posso ogni volta chiedere di visionare il suo curriculum); se prendo l’autobus sono sicuro che l’autista abbia la patente e non posso chiedergli di esibirla ogni volta, così se ascolto la TV (in Italia circa 30 milioni di persone si informa solo attraverso la TV) devo fidarmi della buona fede dei giornalisti. Il nostro sistema si basa sulla fiducia reciproca.

Dunque, come il medico ha il dovere di informarmi sulle mie condizioni di salute
, proprio perché mi fido di lui e perché io non ho le sue competenze teorico/pratiche, anche il giornalista deve informarmi su ciò che mi accade intorno.

Se il medico percepisce delle incongruenze nelle mie analisi disporrà ulteriori accertamenti, si porrà delle domande, avanzerà dei dubbi. Fa il suo dovere, lo fa nel rispetto della sua deontologia professionale e nel rispetto del paziente che ha riposto in lui la fiducia.

Stessa cosa deve fare il giornalista.
Se vi sono incongruenze, se qualcosa non è chiaro, dovrebbe porsi qualche domanda in più, dovrebbe evidenziare queste anomalie. Deve vigilare.

Gli anglosassoni lo chiamano watchdog for citizen rights, ovvero l’agire da parte del giornalismo come cane da guardia dei diritti dei cittadini per ergersi a contraltare del potere politico.
Il giornalismo deve, appunto, vigilare e porre domande e non essere megafono della versione ufficiale.

Altrimenti non è un contraltare del potere, ma la sua cassa di risonanza.


Il giornalismo, sul caso della morte di Bin Laden
ad esempio, avrebbe dovuto vigilare e porsi qualche domanda in più. Tutta la ricostruzione ufficiale è piena di lacune, contraddizioni e manipolazioni.

Dire questo non significa essere complottisti, ma semplici giornalisti che fanno il loro dovere, proprio nel rispetto dei cittadini che in loro pongono la fiducia. Non porre e porsi domande significa tradire questa fiducia.


Elenco, qui di seguito, alcuni dubbi
(senza dietrologia e/o grandi macchinazioni) che i principali telegiornali e giornali italiani (e in buona parte anche esteri) non hanno avanzato. Alain Chouet, ex capo dell’antiterrorismo francese, dinanzi alla Commissione degli Affari Esteri del Senato, il 29 gennaio 2010 ha dichiarato: “sul piano operativo al-Qa'ida è morta in quelle tane per topi di Tora-Bora nel 2002”.

Perché la tv non ha riportato questa notizia che entra in contraddizione con la versione ufficiale che vede al-Qa'ida come ancora operativa e pronta ad attaccare in ogni momento?
Perché la foto contraffatta di Bin Laden morto ha fatto il giro del mondo, senza che nessuno si preoccupasse di verificarne l’autenticità? Quella foto, falsa e ritoccata, circolava già da 4 anni.

Nessun grande media ha smascherato la cosa, ma lo ha fatto
peacereporter.

Perché Bin Laden non è mai stato ufficialmente indagato
, nel sito dell’FBI, in relazione agli attentati dell’11 settembre? Perché Bin Laden è stato buttato in mare senza concedere la possibilità a chicchessia di verificare la sua “reale”, e non solo mediatica, morte?

Non sarebbe stato più semplice e doveroso nei confronti dell’opinione pubblica e delle vittime dell’11-9 - anche senza mostrare in TV per non offendere (SIC!) i telespettatori - chiamare alcuni giornalisti internazionali, presenti in Pakistan e Afganistan, portarli nella stanza dove custodivano Bin Laden e dar loro la possibilità di essere testimoni?


E' mai possibile, come hanno scritto alcuni giornalisti riportando la versione ufficiale senza porsi troppe domande, che le informazioni utili alla cattura di Bin Laden giungessero dal carcere di Guantanamo (la prigione più protetta e isolata al mondo) da detenuti in isolamento da anni? Come facevano, persone che non parlano con nessuno da qualche lustro, a sapere dove fosse Bin Laden?


Infine, perché nessuna tv ha riportato le dichiarazioni di Benazir Bhutto, ex primo ministro del Pakistan che in una intervista del 2 novembre 2007 (poco prima di essere assassinata) sosteneva che Osama Bin Laden fosse stato ucciso da Omar Sheikh, (ex collaboratore dei servizi segreti pachistani)?


Questi sono dubbi, solo legittimi e semplici dubbi. Non avanzo nessuna teoria dietrologica, né ricostruzioni fantasiose. Dubbi, solo legittimi dubbi che mi vengono in mente.

Porsi queste domande non significa, e lo ribadisco, esseri complottisti, ma semplicemente giornalisti che fanno il proprio dovere. O cittadini che non si accontentano della verità precostituita, proprio perché hanno perso la fiducia nei confronti di un giornalismo spuntato.



L'uomo massa e suo fratello, al voto
di Giovanna Gracco - www.rivistapaginauno.it - 11 Maggio 2011

I dati della ricerca Ials-Sials in Italia incrociati con l’ultimo rapporto Censis su Comunicazione e media evidenziano un popolo-bue-tele-comandato incapace di leggere, informarsi e di costruire nessi logici tra due fatti.

“La maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo”.
Pier Paolo Pasolini.

La politica italiana del XXI secolo ha sempre in bocca la parola ‘popolo’. Da una parte Berlusconi dichiara un giorno sì e l’altro pure di essere stato eletto dalla maggioranza degli italiani – evitando in tal modo di dimettersi e venire processato.

Dall’altra il Pd, che in assenza di un programma politico di opposizione, per mostrarsi vicino alla sua gente – e, quindi, veramente democratico – indossa la veste moderna delle primarie. Ma mentre quest’ultimo meccanismo ha ancora bisogno di aggiustamenti per diventare pienamente la farsa che dovrebbe essere – come dimostrano la cecità politica e i giochi interni di potere che hanno portato la sorpresa della schiacciante vittoria di Vendola nelle primarie pugliesi – l’appello al popolo quotidianamente lanciato dal Pdl è un ingranaggio mirabilmente oliato e funzionante; al punto che se qualcuno richiama l’attenzione sul conflitto di interessi, sulla deriva autoritaria di una maggioranza che sempre più esautora il Parlamento dalla funzione legislativa, sui problemi giudiziari del presidente del Consiglio, si sente ribadire il concetto senza possibilità di appello: gli italiani lo hanno comunque votato. Che cosa significa? Che sono tutti scemi?

In effetti è vero: gli italiani lo votano. Non la totalità del ‘popolo’ che evoca l’enfatica dichiarazione, tantomeno la sua maggioranza assoluta, ma poco importa dal momento che i meccanismi di una legge elettorale lo rendono legittimamente capo del Governo.

Centrali diventano dunque due altre questioni: attraverso quali informazioni il cittadino decide a chi dare il proprio voto e, data l’informazione, quale sia la sua capacità di comprenderla e di sviluppare un’opinione propria. Partiamo da quest’ultima.

Nel 1992 l’Ocse lancia la Ricerca internazionale sulle competenze alfabetiche della popolazione adulta (International Adult Literacy Survey IALS) a cui partecipano solo dodici Paesi; nel ’96 avvia la seconda ricerca (Second International Adult Literacy Survay – SIALS) a cui aderiscono altre nove nazioni, tra cui l’Italia; l’indagine si conclude nel ’99.

Il quesito a cui l’Ocse cerca una risposta non è ‘questa popolazione sa leggere?’ ma ‘quanto e come sa leggere?’.

Viene coniata la definizione di “competenza alfabetica funzionale o letteratismo” che “è la capacità di raccogliere e utilizzare informazioni reperibili in testi scritti, in grafici, in tabelle ecc. e di eseguire operazioni, calcoli ovvero risolvere problemi”.

Lo scopo è quello di misurare una competenza e non le conoscenze possedute, in quanto le statistiche tradizionali riferite ai vari livelli di titoli di studio conseguiti da una popolazione sono poco significative al fine di comprendere la sua capacità reale di ‘leggere’.

La ricerca stabilisce tre tipologie di competenza alfabetica – testi in prosa, grafici e calcoli – e per ognuna cinque livelli. Di questi, il primo è al limite dell’analfabetismo, al di sotto della soglia di illetteratismo, il secondo rappresenta un limitato possesso di competenze di base; qui si inserisce l’importante linea di demarcazione indicata dall’Ocse che individua, nei primi due livelli, quella quota di popolazione che dovrà usufruire di percorsi di formazione per essere messa nella condizioni di possedere “una piena cittadinanza nel XXI secolo”.

Pena il ritrovarsi come il popolo analfabeta dei secoli passati, che abitava passivamente una società in cui norme e leggi scritte da altri sopra la sua testa regolavano la sua vita, senza che esso fosse in grado nemmeno di leggerle. Perlomeno quel popolo non votava, viene cinicamente da concludere, e riconosceva la propria ignoranza.

Perché, neanche a dirlo, la situazione italiana fa spavento. Un terzo della popolazione non supera il primo livello, un terzo si ferma al secondo, un terzo raggiunge gli ultimi tre. Nella comprensione di testi in prosa – la prova metteva a disposizione articoli di giornali, riviste, pubblicazioni a stampa e depliant – il 34% si ferma il primo livello, il 30,9% al secondo, il 26,5% al terzo e solo l’8% raggiunge il quarto e il quinto.

L’indagine dunque evidenzia che il 64,9% degli italiani è in grado di leggere ma non di capire ciò che legge: riesce a estrarre da un testo un’informazione che vi si trova esplicitata (primo livello), la trova anche quando deve compiere alcune semplici deduzioni perché il documento contiene dei distrattori (secondo livello), ma non è in grado di trovarla se è contenuta in diversi paragrafi e non in una sola frase (terzo livello), se il testo è abbastanza lungo, se l’informazione è astratta (quarto livello) e se lo scritto è denso e contiene distrattori plausibili (quinto livello). Vale la pena leggere gli esempi delle diverse prove (1), che stupiscono per semplicità e banalità.

La debole scolarizzazione è una delle cause che determinano un basso livello di comprensione di un testo in prosa: tra la popolazione con la sola licenza media, appena il 25% supera la soglia di rischio. Chi consegue una laurea e oltre, oltrepassa il secondo livello nel 66% dei casi.

Tuttavia, se si confrontano i dati per fascia di età indipendentemente dal titolo di studio, quella che possiamo definire scolare anche se non più scuola dell’obbligo, cioè 16-25 anni, risulta essere nella situazione migliore: il 52,2% supera il secondo livello.

Il problema è che man mano che l’età aumenta, la capacità di comprendere peggiora: tra i 26 e i 35 anni approda al terzo livello solo 43,7% della popolazione, tra i 36 e i 45 il 34,9%, tra i 46 e i 55 il 24,2% e infine tra i 56 e i 65 anni il 12,4%.

Non basta quindi aver studiato: il cervello ha bisogno di essere tenuto allenato, necessita di letture stimoli e confronti, tutte cose che gli italiani abbandonano giunti al termine degli studi.

La cultura non ha mai avuto vita facile, in Italia. Nel 1861, il 75% della popolazione non sa né leggere né scrivere. Le riforme scolastiche che si susseguono fino all’epoca fascista mirano ad alfabetizzare, condizione sempre più necessaria per poter lavorare: viene istituita la scuola dell’obbligo dai sei agli undici anni.

Nel 1951, gli analfabeti sono ancora il 13,8% (il 25% nelle isole) e i semianalfabeti – appena in grado di scrivere il proprio nome e incapaci di comprendere un testo scritto – sono il 26%; inoltre, il 60% della popolazione si esprime unicamente in una lingua dialettale.

Il ministero della Pubblica istruzione decide di usare la televisione in funzione pedagogica, per uniformare la lingua e per alfabetizzare. Nel 1958 Telescuola avvia il ciclo di trasmissioni cosiddette educative, a cui si affianca Telemedia, nel 1961.

Contemporaneamente nasce Non è mai troppo tardi (1960-1968), con un approccio completamente diverso: protagonista non è più il maestro che trasmette il sapere ma lo diventano gli studenti/pubblico, in studio e a casa. Il docente diviene una sorta di conduttore, che falsamente – la televisione che entra nelle case è sempre qualcosa che cala dall’alto – fa da guida ‘tra pari’, tenendo insieme testi, immagini, supporti audio, filmati e interviste.

Gli italiani si uniformano: imparano non solo a leggere e scrivere ma una lingua e una ‘cultura’ nazionale; avviene quell’omologazione che Pasolini chiamava “genocidio culturale definitivo”.

Non poteva andare diversamente per un popolo che, nel proprio percorso storico, ha saltato a piè pari la trasmissione del sapere basata sulla cultura tipografica dei libri e dei giornali ed è passato direttamente dall’analfabetismo alla cultura visiva della televisione: il nonno semianalfabeta, il nipote laureato, conviventi in una casa priva di libri.

“La televisione è un medium di massa e come medium di massa non può che mercificarci e alienarci”, diceva Pasolini nel 1971. Meno evidente nella televisione cosiddetta pedagogica, la drammatica verità di questa affermazione è divenuta lampante con l’avvento della televisione commerciale, in cui tutto è diventato entertainment, intrattenimento: allo scopo di vendere una merce, parificando un detersivo a una notizia a un messaggio politico.

Le caratteristiche della comunicazione sono le stesse: brevità, leggerezza, semplicità del linguaggio. Frasi a effetto snocciolate una accanto all’altra senza la preoccupazione di creare un ordine di senso logico, perfettamente integrate in un mezzo televisivo che è una collezione di frammenti.

“Ho visto sfilare in quel video un’infinità di personaggi, la corte dei miracoli d’Italia, e si tratta di uomini politici di primo piano; ebbene, la televisione fa di tutti loro dei buffoni, riassume i loro discorsi facendoli passare per idioti, con il loro sempre tacito beneplacito; oppure, anziché leggere le loro idee, legge i loro interminabili telegrammi, non riassunti, evidentemente, ma ugualmente idioti, idioti, come ogni espressione ufficiale. Il video è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell’opinione pubblica, servilmente servita per ottenere il totale servilismo, l’intera classe dirigente italiana”.

Così scriveva Pasolini, e dal momento che il percorso culturale degli italiani non può provocare oggi stupore davanti alla loro incapacità di comprendere un testo scritto, la riflessione dovrebbe spostarsi sul concetto stesso di democrazia, indipendentemente dalle questioni del conflitto di interessi e della proprietà delle reti televisive – che pure lo stravolgono di parecchio.

In 1984, George Orwell paventava la fine della libertà a causa di una esplicita dittatura, in cui l’informazione, la cultura e la Storia sarebbero state censurate e riscritte da un ministero apposito; il romanzo uscì nel 1948, con alle spalle la dittatura nazista e davanti agli occhi ‘il mostro’ sovietico.

Quindici anni prima, nel 1933, Aldous Huxley pubblicava Il mondo nuovo, un romanzo che suscitò meno clamore probabilmente perché poco si prestava a essere strumentalizzato: immaginava infatti una società in cui le persone vivevano felici, in uno stato di costante divertimento, distratte da cose superficiali, grate alla tecnologia che le liberava dalla fatica di pensare; erano oppresse, ma a tal punto condizionate fin dalla nascita da non essere in grado di capirlo.

Orwell temeva una società in cui i libri sarebbero stati banditi, Huxley quella in cui nessuno avrebbe avuto il desiderio di leggerli; Orwell temeva la dittatura che si odia, Huxley quella che si ama; Orwell la cultura censurata, Huxley quella divenuta un balbettio infantile.

Davanti a una televisione che è diventata il principale strumento di un potere falsamente democratico, ha ancora ragione Pasolini: “La maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo”.

Un conformismo fotografato anche dal Censis nel suo Rapporto annuale 2009 relativo all’aspetto ‘Comunicazione e media’: l’Italia è un Paese in cui “il pluralismo delle fonti è un processo ancora incompiuto”.

Quando si tratta di informarsi sull’attualità politica, il 59,1% degli italiani si affida principalmente alla televisione (con punte del 63,1% tra i soggetti meno istruiti e del 67,7% tra gli anziani – 65 anni e oltre); solo il 30,5% affianca al mezzo televisivo la lettura dei quotidiani acquistati in edicola.

Per scegliere chi votare, il 69,3% si affida ai telegiornali (il 76% tra i meno istruiti, il 74,1% tra le casalinghe, il 78,7% tra i pensionati e l’81,8% tra gli anziani), il 25,4% ai quotidiani.

Internet potrebbe essere una grande possibilità, ma non lo è. Non solo per un problema generazionale – lo usa l’84,2% dei giovani (14-29 anni) ma nel complesso solo il 48,7% della popolazione – ma per l’uso che principalmente ne viene fatto, che lo rende simile al contesto televisivo: entertainment. Social network, YouTube, musica.

Solo il 16,5% e il 2,5% tra i giovani accede rispettivamente ai portali e ai quotidiani online, e il 7% e il 4,7% nel complesso degli internauti.

Se a questo si aggiunge che la percentuale delle persone totalmente estranee alla lettura di qualsiasi mezzo a stampa è aumentata dal 33,9% del 2006 al 39,3% del 2009, che gli utenti internet hanno raddoppiato la loro disaffezione per la carta stampata (erano il 5,7% nel 2006 sono diventati il 12,9% nel 2009) e che la percentuale dei giovani che usa regolarmente internet ma non legge né giornali né riviste né libri è il 28,7%, la conclusione è disarmante: solo il 35,8% degli italiani gode pienamente del pluralismo delle fonti nell’ambito dell’informazione.

Una situazione che va peggiorando. Negli ultimi due anni, a fronte di un utilizzo del mezzo televisivo rimasto invariato (92,1% contro il 91,7%), la disaffezione alla carta stampata va aumentando: nel 2007, il 67% degli italiani leggeva giornali a pagamento, il 21,1% quelli online e il 34,7% la free press; nel 2009 sono diventati rispettivamente il 54,8%, il 17,7% e il 35,7%. Contro un misero 1% di aumento di lettori dei giornali gratuiti, il 15,6% dei cittadini ha smesso di informarsi tramite i quotidiani.

Va ancora peggio nell’ambito delle riviste: il 40,3% leggeva settimanali e il 26,7% dei mensili; in due anni sono diventati il 26,1% e il 18,6%, registrando un calo complessivo del 22,3%.

Quest’ultimo dato rivela, più degli altri, il progressivo disinteresse verso l’approfondimento; un aspetto fortemente legato al basso livello di letteratismo registrato dall’Ocse.

Gli articoli dei quotidiani sono sempre più brevi, in un telegiornale che dura meno di mezz’ora il tempo medio riservato a una notizia è un minuto; il giorno dopo, altri avvenimenti incalzano.

Sono le riviste – quelle che si occupano di politica e di società – il mezzo dell’approfondimento. Non legate alla stretta attualità, riprendono una notizia o ne anticipano un’altra e ne vanno a fondo, in lunghi articoli di analisi affrontano argomenti che richiedono documentazione, tempo per essere pensati e scritti; stimolano quella riflessione che permette di avere le chiavi di lettura della società e il formarsi, soprattutto, di una cultura politica e di conseguenza di opinioni che vadano oltre lo slogan buono per il tempo di un caffè al bar.

Ma per quale motivo il 64,9% degli italiani dovrebbe impiegare parte del proprio tempo a leggere qualcosa che non capisce?

Purtroppo, l’uomo massa non è figlio unico, ha un fratello scemo; ed entrambi, com’è loro diritto, votano. A questo punto si tratta di capire, stante la situazione sopra descritta, quale fattore cognitivo e percettivo della realtà politica induca questa tipologia di individuo a orientare il proprio voto a destra piuttosto che a sinistra; perché da una parte e non dall’altra, quale essa sia.

Ida Dominijanni, in un articolo sul Manifesto del 2 febbraio scorso, rifletteva sul diverso approccio comunicativo della destra e della sinistra, prendendo spunto dal saggio di George Lakoff, The political mind: l’egemonia della prima sarebbe dovuta “alla sua capacità di suscitare un’identificazione ‘calda’ dell’elettorato mobilitandone gli elementi emotivi e irrazionali”, laddove la seconda, “puntando a convincere con la razionalità degli argomenti e delle soluzioni, non riesce a vincere”.

Non si tratta di semplici tecniche di marketing – sottolinea la Dominijanni – ma dell’intero complesso culturale che si manifesta attraverso il linguaggio: quello della destra sarebbe appunto ‘caldo’, quello della sinistra, “figlia dell’illuminismo e di una concezione razionale del contratto sociale”, sarebbe ‘freddo’, come le discipline del diritto e dell’economia che sono alla base della sua cultura.

Per invertire l’egemonia, quindi, la sinistra dovrebbe allargare la propria formazione culturale “a saperi più in grado di sintonizzarsi con i fattori inconsci della ‘political mind’”.

Quando nel 1994 Berlusconi fondò Forza Italia prese in blocco un gruppo di manager di Publitalia – la concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset – e li portò con sé in politica: primo fra tutti Dell’Utri, e poi Micciché, Galan e altri.

Era quindi chiaro fin dall’inizio quello che sarebbe stato l’approccio comunicativo del partito nascente: dopo aver creato in Italia la televisione commerciale e aver venduto per anni bibite e merendine, Berlusconi avrebbe iniziato a vendere se stesso con la stessa tecnica pubblicitaria. Non poteva che uscirne vincente.

È vero, come dice la Dominijanni, che la sinistra paga la propria incapacità ad aggiornare il suo modus comunicativo; è anche vero però che il linguaggio ‘freddo’ che pretende di spiegare anziché emozionare è perdente perché totalmente incompreso, perché cade nel vuoto di cervelli italiani disabituati al ragionamento e al pensiero; ed è infine vero che è più facile vendere fumo, cavalcare paure e conformismo, piuttosto che un progetto politico; soprattutto quando questo è confuso.

Perché se per ‘sinistra’ si intende il Pd – che ha manovrato insieme alla destra per escludere dal Parlamento e conseguentemente dal circuito mediatico Rifondazione comunista & C. – questa è una questione nodale: dall’abbraccio al neoliberismo degli anni Novanta, si ritrova senza un’idea alternativa di società da proporre, salvo l’antiberlusconismo e una ‘questione morale’ che sempre più si rivela una farsa anche nelle sue fila.

Ma ipotizzando che questa ‘sinistra’ ritrovi qualcosa di sinistra da proporre – che vada magari anche oltre l’illuminismo e il contratto sociale, valori borghesi, e ritrovi concetti come struttura e sovrastruttura – e che impari a trasmetterlo con un linguaggio ‘caldo’, uscendone vincente in termini elettorali, non si potrebbe comunque parlare di rovesciamento dell’egemonia.

Un popolo bue resta un popolo bue, sia esso governato dalla destra o dalla sinistra; ma una sinistra preoccupata solo di trovare la strategia vincente e non di ricostruire lentamente quella cultura politica che il consumismo e l’omologazione si sono divorati, quella sinistra non è più sinistra.

(1) http://archivio.invalsi.it/ricerche-internazionali/sials/base-sials.htm.



Bugie e verità, cose da non dimenticare

di Giulietto Chiesa - Il Fatto Quotidiano - 14 Maggio 2011

Una proposta, di nuovo, di sette citazioni senza autore. Che non è strettamente necessario. Ma se qualcuno vorrà andare a cercarlo, sicuramente troverà interessante sapere chi le ha scritte. Tra una settimana dirò gli autori.

“Se dici una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà. La menzogna si può mantenere per il tempo in cui lo Stato riesce a schermare la gente dalle conseguenze politiche, economiche e militari della menzogna stessa. Diventa così di vitale importanza per lo Stato usare tutto il suo potere per reprimere il dissenso, perchè la verità è il nemico mortale della menzogna e, di conseguenza, la verità è il più grande nemico dello Stato”.

“Molte persone credono di pensare, quando invece stanno solamente riarrangiando i loro pregiudizi”.

“Metà degli americani non hanno mai letto un giornale quotidiano. Metà non hanno mai votato per le elezioni presidenziali. C’è da sperare che si tratti della stessa metà”.

“Quale fortuna per i governanti che la gente non pensi”.

“Naturalmente la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra, né in Germania. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo in quanto espongono il paese al pericolo.”

“La prima legge Watergate dice: indipendentemente da quanto paranoici voi siate, ciò che il governo sta attualmente facendo è peggio di ciò che potete immaginarvi. La seconda legge Watergate dice: non credete a niente finché non è stato negato ufficialmente. Nessuna delle due leggi risulta essere stata abrogata”.

“Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede e tutti la prendono per pazzo!”



Usa: chi è il terrorista?

di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 14 Maggio 2011

L’Occidente si considera una “cultura superiore” (nuovo conio del razzismo, essendo diventato quello classico impresentabile dopo Hitler), ritiene di avere i valori migliori, anzi assoluti, e quindi il dovere morale di imporli, abbattendo dittature, autocrazie, teocrazie e quei Paesi, come l’Afghanistan talebano, dove si pratica l’intollerabile sharia (ma la sharia non c’è anche in Arabia Saudita? E che c’entra? Quelli sono alleati).

E vediamola allora, a volo d’uccello, la storia della “cultura superiore”.

Dal 1500 al 1700 portoghesi, spagnoli e inglesi si specializzarono nella tratta degli schiavi (la schiavitù era scomparsa da mille anni, col crollo dell'impero romano). Ma nel 1789 arrivò la Rivoluzione francese con i suoi sacri principi: libertè, egalitè, fraternitè. Peccato che l’800 sia stato il secolo del colonialismo sistematico europeo. I “sacri principi” non valevano per gli altri.

Gli Stati Uniti, gli attuali campioni della morale occidentale, hanno alle loro origini un genocidio infame e vile (winchester contro frecce) che non disdegnava l’uso delle “armi chimiche” dell’epoca (whisky). Sono stati gli unici, in epoca moderna, a praticare, sul proprio territorio, la schiavitù, abolita solo nel 1865 e hanno avuto l’apartheid fino a 50 anni fa.

Nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale questi corifei dei “diritti umani” bombardarono Berlino, Dresda, Lipsia mirando appositamente ai civili, fra cui fecero milioni di morti, “per fiaccare il morale del popolo tedesco” come dissero esplicitamente i loro comandi e sono l’unico Paese al mondo ad aver usato l’Atomica.

Sgretolatosi il contraltare sovietico hanno inanellato, in vent’anni, cinque guerre. Il primo conflitto del Golfo poteva avere qualche ragione perchè Saddam aveva invaso il Kuwait, peraltro uno Stato fasullo creato nel 1960 per gli interessi petroliferi Usa. Ma le guerre bisogna anche vedere come le si fanno.

Per non affrontare fin da subito l’imbelle esercito iracheno bombardarono per tre mesi le principali città dell’Iraq. Sotto le luminarie che ci fece vedere il prode Del Noce morirono 160 mila civili, di cui 32.195 bambini (dati del Pentagono). 32.195 bambini. Quando lo scrivo o lo dico mi immagino che i miei connazionali, “italiani brava gente”, siano percorsi da brividi di orrore. Ma non è così.

In questo momento, a detta della Tv di Stato, gli italiani e le italiane sono dilaniati dal lacerante dilemma: “Poichè la moda quest’anno non ha dato indicazioni, quale dovrà essere la lunghezza della gonna la prossima estate: al ginocchio, sopra, sotto, mini, maxi?”.

Poi c’è stata l’aggressione alla Serbia del tutto immotivata (“Gli stupri etnici! Gli stupri etnici!”. I debosciati occidentali, che vanno a comprare le bambine e i bambini a Phuket, proiettano la loro ombra: vedono stupri dappertutto). I morti furono 5500.

In Afghanistan sono, per ora, 60 mila, la maggioranza provocata, secondo un rapporto Onu del 2009, dai bombardieri Nato, spesso droni, aerei senza equipaggio teleguidati da Nellis nel Nevada.

Gli occidentali, si sa, hanno uno stomaco delicato, gli fa orrore il corpo a corpo, il sudore, la vista del sangue. Gli sembra più morale schiacciare un bottone, fare qualche decina di morti a 10 mila chilometri di distanza e poi andarsene a cenare a casa.

In Iraq i morti sono stati 170 mila. Il calcolo è stato fatto, in modo molto semplice, da una rivista medica inglese confrontando i decessi degli anni di Saddam con quelli degli anni dell’occupazione.

Per la Libia i calcoli li faremo alla fine. Rimaniamo sul certo. Le cinque guerre occidentali hanno causato circa 400 mila vittime civili, il terrorismo internazionale circa 3500. Un rapporto di 110 a uno. E allora chi è il terrorista?