mercoledì 12 ottobre 2011

Sta arrivando chi tirerà lo sciacquone...

Ormai manca poco, qualcuno finalmente ha deciso di tirare lo sciacquone.

La merda sta continuando a strabordare senza sosta da un water stracolmo all'inverosimile già da fin troppo tempo .

Il countdown è partito, ma il sistema fognario reggerà all'urto di questo gigantesco scarico?...



L'implosione
di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 12 Ottobre 2011

Il tonfo è stato imprevisto. Ma i contraccolpi a catena confermano che la situazione della maggioranza è compromessa da tempo. Le trincee scavate negli ultimi giorni da Silvio Berlusconi per resistere si sono polverizzate al primo colpo venuto, si badi bene, dall'interno del centrodestra e non dai suoi avversari.

Adesso, niente intercettazioni e niente condono, annuncia la Lega: i due ganci ai quali il presidente del Consiglio si aggrappava per blindarsi e rilanciare sono dunque caduti. Non è detto che si vada alla crisi, nonostante la richiesta legittima delle opposizioni. Ma esiste il rischio concreto di una paralisi istituzionale.

Non sarà facile rimediare alla bocciatura in Parlamento della legge sul Rendiconto generale dello Stato.

Il tentativo di riformularla e approvarla quanto prima dopo che ieri è stata respinta per un voto e per le assenze di ministri e parlamentari di Pdl e Carroccio, è disperato; e la tesi dell'incidente e non del complotto suona verosimile.

Ma per paradosso questa è un'aggravante, non un'attenuante: significa che una crisi può «accadere» in ogni momento, e portare perfino al voto anticipato.

Né Berlusconi, né Umberto Bossi hanno capito la posta in gioco; e comunque, non sono stati in grado di controllare le proprie truppe parlamentari. Non bastasse, un intoppo del genere non ha precedenti.

Si annuncia così un groviglio giuridico che risucchierà il centrodestra in un labirinto di norme, in apparenza senza uscita. Come minimo, il governo dovrà verificare se gode ancora della fiducia del Parlamento.

Ed è stato sconfitto proprio nel momento in cui Berlusconi tenta di accreditare un Esecutivo solido, capace di arrivare al 2013: una coalizione senza alternative, continua a ripetere e a far dire agli alleati.

Ma riletta sullo sfondo di quanto è successo, questa verità minaccia di essere un ulteriore handicap per un'Italia sorvegliata speciale dell'Europa e dei mercati finanziari. Il segnale trasmesso ieri è di precarietà e incertezza: l'habitat naturale degli attacchi speculativi, e un contributo a corrodere la credibilità residua della maggioranza.

È questo contesto sfilacciato a conferire all'incidente dimensioni destabilizzanti. La Lega che annuncia il «no» alla legge sulle intercettazioni e boccia il condono, smonta l'ottimismo d'ufficio del premier.

Se anche si riuscirà a venire a capo del pasticcio creatosi col capitombolo parlamentare di ieri, cosa tutt'altro che sicura, rimane intatta la questione politica: una maggioranza inutilmente straripante di numeri.

Il suo guaio continua ad essere quello di credere ad una realtà virtuale scissa dal logoramento, quasi dalla macerazione che la coalizione berlusconiana sta soffrendo. Ormai è evidente che la sua implosione è più rapida e devastante di qualunque complotto. Eppure, il premier si ostina pericolosamente a ignorarla.


Un cerotto adesso non basta
di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - 12 Ottobre 2011

Non era mai accaduto, a memoria, che il Rendiconto generale dello Stato, ossia il bilancio consuntivo, fosse bocciato dal Parlamento.

Ieri l'articolo 1 è caduto per un voto, in un contesto clamoroso e carico di simbologie: il premier che ha appena votato, evento raro per lui; il ministro dell'Economia che invece resta fuori dell'aula; Umberto Bossi, stampella ufficiale dell'esecutivo, che non fa in tempo ad arrivare; altri assenti che invece sono da annoverare fra i nemici di Tremonti e della Lega.

Da tempo ci si chiedeva quando e come sarebbe risuonato il colpo di pistola di Sarajevo; ossia quando si sarebbe verificato l'episodio in grado di far saltare i consunti equilibri della legislatura.

Ora la domanda è: il voto mancato di ieri sera è la pistola di Sarajevo per il governo Berlusconi?

Forse non lo è, se dallo smacco ci si aspetta che derivino le dimissioni automatiche e immediate di Berlusconi, come ovviamente reclama l'opposizione e come sostengono alcuni costituzionalisti (e così senza dubbio sarebbe avvenuto ai tempi della Prima Repubblica).

Ma quel segnale può essere qualcosa di altrettanto grave: la prova dirompente e definitiva che la maggioranza è a pezzi, priva di nerbo e incapace di tenere la rotta.

In altre parole, si è aperta una seria e profonda questione politica nella coalizione Pdl-Lega. E si è aperta su un tema di straordinaria delicatezza istituzionale, perché il Rendiconto regge l'impianto della stabilità economica.

Il fatto che Tremonti e Bossi - ma anche Scajola - fossero nei paraggi dell'emiciclo ma non abbiano votato, sia pure per distrazione, sfortuna o altre ragioni, ha un significato.

Il fatto che l'incidente arrivi dopo le furiose polemiche sul condono fiscale e sulle risorse che non si trovano da dedicare allo sviluppo, ha pure un significato. La frattura è evidente.

Ha molto a che vedere con la leadership sempre più debole e confusa di Berlusconi, con il crescente malessere della coalizione, con la paura di una prossima disfatta elettorale.

Ma c'entrano soprattutto i nodi irrisolti: dalla Banca d'Italia alla politica economica, sullo sfondo dell'ossessione giudiziaria che assorbe più che mai le residue energie del presidente del Consiglio.

Ci sono tutte, ma proprio tutte le premesse per una crisi di governo e per un successivo processo di chiarimento. A costo di passare per un altro esecutivo di fine legislatura ovvero per lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni come succede in tutte le democrazie.

In questo senso, è vero: il voto di Montecitorio può essere paragonato al colpo di Sarajevo. E in ogni caso nessuno può sottovalutarne la drammaticità e le conseguenze politiche a breve termine.

Dire che si tratta solo di «un problema di numeri», come sostengono alcuni esponenti del centrodestra, vuol dire non voler comprendere la portata politica dell'episodio e chiudere gli occhi davanti alla realtà avversa.

Naturalmente Berlusconi e i suoi tenteranno di restaurare l'ingessatura della maggioranza: magari con un maxi-emendamento volto a recuperare l'articolo 1 e sul quale porre la questione di fiducia. Può darsi che abbiano sulla carta i voti per farlo, come è accaduto in passato. Ma non sarebbe una dimostrazione di vigore ritrovato: sarebbe, appunto, un'ingessatura.

La verità è che la maggioranza non ha più una spina dorsale politica. Pensare di risolvere la contraddizione con un «cerotto» fatto di numeri assemblati alla meno peggio, vuol dire aggirare per l'ennesima volta la sostanza dei problemi. Il che equivale a ritrovarsi nel pantano dopo pochi giorni, esposti a nuovi incidenti e a nuovi colpi di mano.

A questo punto il buon senso vorrebbe che fosse il presidente del Consiglio in prima persona a proporre al capo dello Stato il chiarimento politico.

Senza escludere l'apertura formale della crisi che permetterebbe di affrontare le questioni irrisolte: quelle politiche e quelle di merito. Viceversa, gli espedienti parlamentari possono aiutare a incollare i cocci della maggioranza. Ma difficilmente sarebbero in grado di curarne i malanni di fondo.



Il dovere di dimettersi
di Massimo Giannini - La Repubblica - 12 Ottobre 2011

Le anime candide, fuori dal Palazzo, potranno anche prendere per buona l'ultima menzogna spacciata a microfoni unificati da Berlusconi e Bossi. "È un problema tecnico risolvibile", hanno detto i due fantasmatici rais dell'ormai ex maggioranza forzaleghista.

Ma la sorprendente sconfitta numerica subita alla Camera sull'assestamento al bilancio è una sconfitta politica devastante, e forse definitiva, per quel che rimane del centrodestra.

Intanto, non è affatto detto che sia risolvibile dal punto di vista tecnico. Un governo che va avanti come se nulla fosse, dopo aver incassato il no del Parlamento non su una legge qualsiasi, ma su un atto normativo di rilevanza costituzionale come il rendiconto di finanza pubblica, non si era mai visto.

Ci sono solo un paio di precedenti, nella storia repubblicana, il più simile dei quali risale al governo Goria del 1988, che non a caso cadde subito dopo esser finito più volte in minoranza nel voto sulla Legge Finanziaria.

Ma è evidente a tutti, al di là della valenza tecnica e formale del caso, che quella che si è prodotta nell'assemblea di Montecitorio è una rottura politica e sostanziale. Probabilmente irreparabile, a dispetto della penose e consolatorie assicurazioni fornite dal Cavaliere e dal Senatur.

C'è un momento, anche nell'anomalia assoluta del berlusconismo, nel quale le leggi della politica ritrovano una coerenza irriducibile. Nel quale le tensioni e i conflitti precipitano e convergono, tutti insieme, verso una conclusione inevitabile.

Questo è quel momento.

Si percepiva da mesi, ormai, il drammatico divorzio umano (prima ancora che politico) tra il presidente del Consiglio e il suo ministro del Tesoro, trasfigurato nell'odioso Ghino di Tacco di una coalizione affamata dai tagli lineari e assetata di denaro pubblico da spendere.

Si vedeva da settimane, ormai, il lento ma inequivoco sfilacciamento di un Pdl ridotto a un ectoplasma, sotto la guida incerta e inconsistente di un Alfano che nasce come segretario del capo e non certo del partito, e che non può e non sa fronteggiare le correnti, coordinare le fazioni, dominare i cacicchi.

Si temeva da giorni, ormai, il fatidico "incidente di percorso", in Parlamento e fuori, che faceva tremare il "cerchio magico" del premier, disperato e assediato nel suo bunker. Palazzo Grazioli come il Palazzo d'Inverno.

Alla Camera, a far mancare i voti che servivano, tra gli altri sono stati proprio Umberto Bossi, Giulio Tremonti e Claudio Scajola.

Tutto questo non può essere solo un caso. Non può essere un caso, se il vecchio Senatur ritarda l'ingresso in aula, confuso per la lesa maestà padana e stordito dall'inedita e inaudita vandea leghista che lo vede per la prima volta contestato dalla sua base.

Non può essere un caso, se il superministro dell'Economia diserta un appuntamento in cui si discute e si vota un provvedimento-chiave di cui lui stesso è titolare.

E non può essere un caso, se l'ex ministro dello Sviluppo si eclissa poche ore dopo un "pranzo tra amici", come lui stesso ha definito quello che ha da poco consumato insieme al Cavaliere. Forse non c'è complotto. Non ancora, almeno.

Ma nel disastrato esercito berlusconiano risuona forte e chiaro il "rompete le righe". Quello che succede è la dimostrazione pratica di ciò che era evidente già da più di un anno: un governo non sta in piedi, con la sola forza inerziale dell'aritmetica.

Se non c'è la spinta della politica, con la quale far muovere la "macchina", un governo prima o poi cade. E questa spinta, ammesso che ci sia mai stata, manca palesemente. Almeno dal 14 dicembre 2010.

Si può senz'altro dire che Gianfranco Fini ha sbagliato i suoi calcoli. Che allora la spallata futurista non è riuscita. Che il Cavaliere ha resistito e oggi il presidente della Camera esprime un potenziale elettorale modesto, intorno al 3-4%. È tutto vero. Ma è altrettanto vero che da quel giorno, dalla scissione degli ex di An dal Pdl, la maggioranza è "clinicamente" morta.

Da allora nulla è stato più prodotto, nella residua ridotta verde-azzurra di B&B, Berlusconi & Bossi. Non una riforma strutturale, non una legge qualificante. La stessa maxi-manovra estiva nasce dalla "gestione commissariale" del Colle e di Via Nazionale (cioè dalle pressioni di Napolitano e Draghi) e non certo dall'azione materiale di Arcore o di Via XX Settembre.

Si è ironizzato a lungo, sulle "self-fulfilling prophecies" di quelli che annunciano da mesi e mesi la caduta imminente del re nudo, e sulle speculari doti di resistenza del medesimo. Ma alla fine, anche nel Paese di Berluscolandia, la realtà si impone sulla propaganda.

La realtà, oggi, dice che il presidente del Consiglio deve recarsi al Quirinale, e rassegnare le sue dimissioni: sarebbe impensabile derubricare quello che è accaduto come un banale inciampo procedurale, mentre è un vulnus politico di gravità eccezionale.

La realtà, oggi, dice che non sono ammissibili trucchi da illusionista o bizantinismi da leguleio, tipo Consiglio dei ministri che riapprova l'aggiornamento al bilancio pubblico e lo fa rivotare dal Senato: sarebbe uno strappo inaccettabile alle regole e uno schiaffo intollerabile al Parlamento.

La realtà, oggi, dice che il presidente della Repubblica, se com'è giusto non interverrà proditoriamente per interrompere questa nefasta avventura di governo, com'è altrettanto giusto non interverrà artificiosamente per prolungarla. Berlusconi e Bossi, dopo quello che è accaduto, non esistono più. Sono "anime morte", come quelle di Gogol.


Ecco gli assenti che hanno mandato sotto il governo
di Marco Castelnuovo - La Stampa - 11 Ottobre 2011

Scorrete l'elenco (grazie a Tmnews) di chi ha fatto saltare il governo anche oggi.
E' possibile una lettura politica di quello che è successo? o è solo un incidente?

Rendiconto generale dello Stato bocciato alla Camera per un voto o, più precisamente, per parità: 290 sono stati i voti a favore, 290 i contrari, nessuna astensione, rispetto ad un quorum (la maggioranza dei 580 votanti) fissato a quota 291.

A mancare fra le fila della maggioranza, risultano dai tabulati 14 parlamentari del Pdl, fra i quali gli ex ministri Claudio Sacjola ed Antonio Martino. Mentre l'assenza del ministro Tremonti che ha fatto infuriare il partito del premier non ha influito sul quorum perchè da considerarsi 'deputato in missione'.

Dai banchi della Lega sono mancati tre deputati, sei fra quelli dei Responsabili.
Oltre Martino e Scajola, sono risultati assenti fra i deputati del Pdl Filippo Ascierto, Vincenzo Barba, Elena Cementero, Giuseppe Cossiga, Sabrina De Camillis, Pietro Franzioso, Marco Martinelli, Giustina Destro, Dore Misuraca, Umberto Scapagnini e Piero Testoni. Ai quali si deve aggiungere Alfonso Papa, recluso a Poggioreale.

Se ai deputati dei gruppi di centrodestra (oltre ai 14 Pdl, i nomi dei due leghisti assenti sono quelli del segretario Umberto Bossi ch pure si trovava a Montecitorio e del deputato Matteo Bragantini mentre quelli dei sei responsabili sono quelli di Paolo Guzzanti, Giuseppe Gianni, Andrea Orsini, Francesc Pionati, Amedeo Porfidia e Domenico Scillipoti) si sommano quelli dei deputati del gruppo Misto che in genere sostengono la maggioranza (Gianfranco Miccichè, Antonio Gaglione, Giancarlo Pittelli e di recente anche Andrea Ronchi) si arriva ad un totale di 26 assenze nella maggioranza, determinanti per la sconfitta del rendiconto dello Stato.

Fra i deputati delle opposizioni, infatti, sono risultati assenti al momento del voto solo sei deputati: due del Pd (luigi Nicolais e Angela Mastromauro), tre di Fli (Mirko Tremaglia, Francesco Divella e Antonio Buonfiglio e tre Udc (Luca Volontè e Francesco Bosi, con il leader Pier Ferdinando Casini). Nessuna assenza, invece, nel gruppo Idv.


Il premier pronto a giocarsi tutto. Oggi o domani il voto di fiducia
di Ugo Magri - La Stampa - 12 Ottobre 2011

L’ attenzione del Cavaliere è tutta centrata sul grande pasticcio combinato dai suoi alla Camera. Luci accese fino a tardi nell’ufficio del premier, perché non è facile trovare una via d’uscita alla bocciatura del Rendiconto. In passato i governi si erano sempre dimessi.

Casini glielo rinfaccia senza pietà: Andreotti e Goria furono più seri, dopo uno smacco analogo fecero il passo indietro. A gettare la spugna invece Berlusconi non pensa affatto, anche di qui passa la faglia tra Prima e Seconda Repubblica.

Dice il falso chi lo descrive in preda a una crisi di nervi; semmai è «infuriato come un animale» per le 25 assenze dalla votazione, e l’ira più selvaggia Berlusconi la prova contro Tremonti perché tra i tanti pure lui mancava: anzi, «proprio lui» che aveva redatto il bilancio e il Documento economico finanziario. «Incredibile, inammissibile, scandaloso» grida il premier a tutti tranne che al diretto interessato.

Già, perché quando si sono trovati ieri uno di fronte all’altro, nella saletta di Montecitorio riservata al governo, Berlusconi si è ben guardato dall’aggredire il ministro, dal dirgliene quattro, preferendo sfogarsi in sua presenza (se la ridono al Tesoro) contro l’incolpevole Verdini.

E in fondo lo scivolone alla Camera ha evitato altre risse tra i due, che avevano in programma un incontro serale per discutere i tagli ai ministeri: Tremonti sarebbe andato a dire, senza cerimonie, «bambole, non c’è una lira...». Il match è stato rinviato per causa di forza maggiore.

Berlusconi non si dimetterà né ora né mai. Conta paradossalmente sul buon senso del suo peggior nemico, cioè Fini. Il quale nella Giunta del Regolamento potrebbe impedire una via d’uscita, creare un vero dramma istituzionale, ma forse non lo farà, o perlomeno ieri sera non era aria di impuntature procedurali che Napolitano vedrebbe come fumo negli occhi.

Con la crisi dei mercati (nessuno sa come potranno reagire) c’è poco da scherzare, la regolarità formale del bilancio dev’essere garantita comunque, così si ragiona nelle alte sfere; altrimenti facciamo la fine della Grecia. L’escamotage è ancora tutto da inventare.

Nel frattempo il Cavaliere cercherà di farsi solennemente rinnovare (oggi o domani) la fiducia, nella speranza di ricomporre la maggioranza e fingere che nulla di veramente tragico sia successo, che si possa rimettere il dentifricio nel tubetto, o ricomporre le uova della frittata parlamentare come sostengono Cicchitto e La Russa, Moffa e Reguzzoni.

Lo dicono tutti, nel Pdl e nella Lega, ma nessuno ci crede veramente. E il primo a non illudersi si chiama Berlusconi, sebbene a margine di una cerimonia alla Camera abbia ripetuto ai cronisti: «E’ stato solo un incidente di percorso, rimedieremo con un nuovo testo...».

Ammettono sconsolati nel suo entourage: «Siamo precipitati indietro di un anno, quando Silvio e Gianfranco litigarono». Proprio come allora, tutti a fare i conti col pallottoliere, tutti al capezzale dei «malpancisti», dei «responsabili», dei «frondisti». Ma la macchina del tempo non si ripete in fotocopia.

Oggi il Cavaliere sembra messo peggio. Molto peggio dell’altra volta. Perché i margini delle campagne acquisti sono esauriti, chi poteva aggiungersi alla maggioranza l’ha fatto già, semmai c’è un riflusso (come interpretare l’assenza dall’Aula di Scilipoti, Pionati e tre altri «ascari», come li chiamano nel Pdl?).

Perché l’orologio ticchetta inesorabile, al più tardi tra un anno e mezzo si vota, e chi fa della politica un mestiere è tutta gente che bada al sodo, sta già cercando una scialuppa per traghettarsi nel Parlamento della XVII legislatura repubblicana. Berlusconi può promettere la rielezione per pochi, non certo per tutti.

Gli sono arrivati tra le mani alcuni sondaggi devastanti, di diversi istituti. L’Italia lo considera con la testa altrove, sui processi o sul gentil sesso, dedito solo agli affari suoi. Mai che lo vedano come una volta con l’elmetto in testa a inaugurare grandi opere fantasma, sempre e solo ripreso con la Minetti o con Ghedini.

Si racconta a Roma che il dato più gelosamente custodito, assolutamente top secret, riguardi la vera percentuale di suoi elettori (un terzo) che sperano nell’annuncio del ritiro. Il suo appeal è scaduto, la maggioranza ingovernabile.

E chi non tiene più a bada Scajola, come può governare il Paese?


PDL, va in onda il regicidio
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 10 Ottobre 2011

Volendo ricapitolare le notti dei lunghi coltelli in casa Pdl si potrebbero prendere in esame le mosse di Formigoni e Scajola da un lato, sostenuti da Pisanu e (pur con un ruolo diverso, Fini) e Alfano e Cicchitto dall’altro: i primi a chiedere "un passo indietro" al premier, i secondi a riaffermare che il premier non si tocca.

Terzo incomodo Verdini, che recita il ruolo di chi prende il tavolo per le gambe in attesa di decidere se stabilizzarlo o farlo volare, a seconda di quali saranno le portate apparecchiate.

Vanno in onda così le prove generali del regicidio. Ovviamente, tutti smentiscono e nessuno conferma, ma pare che una possibile mediazione sarebbe quella di riconoscere a Scajola e Pisanu un ruolo importante nel Pdl, cosicché Alfano dovrà trattare e cedere quote di sovranità che però non sono nelle sue mani. Ma é fuffa o quasi.

Apparentemente lo scontro é sulla gestione del partito, con Verdini e Scajola che, non a caso, incrociano le lame. Partito leggero o pesante? Sono due definizioni che avrebbero avuto senso diverso tempo fa.

Ora, infatti, a dare per morto il partito è stato il suo fondatore e proprietario, mentre a dare per scaduto il suo stesso tempo sembrano essere i suoi "infedeli". O almeno tali sarebbero, a dar retta agli adulatori del boss, giornali di famiglia in testa, che li definisce sobriamente un drappello d’ingrati che tramano alle spalle del re cui tutto o quasi devono.

Diverso scenario, invece, a leggere quanto filtra delle interviste dei "frondisti" alla stampa avversaria: sarebbe in corso un tentativo di rilancio del centrodestra che certo, in assenza di garanzie sulla non ripresentazione del caudillo, lo vedrebbe divenire l’oggetto principale della contesa.

Piuttosto chiare le dichiarazioni di Saro, vicino a Pisanu: "Si prepara una raccolta di firme su un documento che dovrà essere preso nella giusta considerazione. Se, invece, prevarranno coloro che minimizzano e rassicurano, si andrà avanti al buio e l'incidente sarà dietro l'angolo". Tradotto: abbiamo all'incirca 35 parlamentari e il governo si regge su otto o nove.. I gattoni sono diventati gattopardi.

La fronda é un segnale d'insofferenza? Più che altro sembra un'adunata. Berlusconi, infatti, resisteva ogni oltre decenza fino a quando alternava dichiarazioni di stampo opposto circa la sua ricandidatura, ma la sua dichiarata intenzione di cambiare nome al partito e quindi di ripresentarsi ha inevitabilmente accellerato le dinamiche interne.

Perché è proprio su Berlusconi e la sua eredità politica che le nuove correnti del retrobottega democristiano si riorganizzano. E dunque via alle cene, agli incontri segreti annunciati sui giornali, alle conte più o meno affidabili e ai messaggi trasversali, criptati o in chiaro dipende solo dal grado di democristianicità del messaggero di turno.

La fine del tocco magico di un premier divenuto ormai un re Mida alla rovescia è insieme il fondo e lo sfondo della contesa.

La trasformazione della soluzione di ieri nel problema di oggi, nasce non solo dalla crisi politica che investe il governo, quanto dalla necessità urgente di evitare il crollo del fronte conservatore: che i filistei debbano per forza seguire Sansone, insomma, é tutto da stabilire.

Porre un argine alla caduta di credibilità dei conservatori par essere la recita che anima il proscenio. In questo senso, la chiamata alle armi di Bagnasco ha rappresentato lo start-up vero e proprio della ripresa d’iniziativa politica dei centristi cattolici ovunque e comunque collocati.

Non è la paura della crisi economica e sociale, della perdita d’identità e d’immagine internazionale dell’Italia che muove i congiurati, né lo sono il debito pubblico alle stelle e la disoccupazione oltre ogni record storico; e non è nemmeno il tentativo di riportare il nostro sgangherato paese nell’alveo dei paesi europei, pur con le sue ataviche, pessime particolarità.

A muovere le truppe c’è la consapevolezza della crisi mortale di un sistema di potere durato un ventennio e la pericolosa incertezza circa il prossimo futuro politico del paese, che non potrà non essere disegnato nelle urne.

Non è quindi questione di mera eredità della leadership, se toccherà insomma a Formigoni o a Scajola, a Pisanu o a Fini; generali, colonnelli o sergenti che siano delle truppe ribelli, ritengono essenziale che il patrimonio elettorale della destra non vada perduto, bensì recuperato attraverso il ritorno ad un modello politico imperniato sul partito e sulla parrocchia, che rimetta in pista una classe dirigente reazionaria e cattolica in grado d’impedire che la nausea generalizzata per l’operato del governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti diventi l’elemento decisivo per la prossima vittoria del centro-sinistra.

Insomma, magari a scorrere i giornali sembrerebbe di essere tornati ai fasti e ai riti della prima Repubblica, ma così non é; non c'é la grandezza, non c'é lo spessore, non c'é nemmeno la politica a poterli assimilare.

La DC per cambiare governi almeno si degnava di convocare un congresso dove le correnti si posizionavano, se le davano di santa ragione e, chi vinceva, entrava a Palazzo Chigi, mentre chi perdeva si accontentava di limitare i danni con sottosegretariati ed enti.

La sostanziale differenza con quanto accade oggi è che nella Prima Repubblica i democristiani si combattevano in nome e per conto d’interessi che, di volta in volta, riguardavano le priorità dell’agenda politica. Si cambiavano i governi, ma non c’era la fine di un regime alle porte.

Qui invece siamo al complotto di Palazzo, alla libera uscita (pur se dalla porta di servizio) da una crisi che è di regime, non di governo. Sono in gioco la fine di Berlusconi e l’eredità del berlusconismo.

E non è un caso che il terremoto nel partito-azienda coinvolga anche il cosiddetto “Terzo polo”, il quale non ha come destinazione d’uso la sua unica rendita di posizione, come alcuni sono propensi a credere.

Il ruolo di Casini e Fini, il loro possibile arruolamento nella nuova armata bianca (su cui gli schieramenti interni al PDL si contano e si scontrano) è molto più che un tatticismo e ben altro che la ricerca di sangue fresco da pompare nelle vene esauste del governicchio in carica. E' progetto politico a tutto tondo.

L’allargamento della destra al centro destra o l’arroccamento dell’asse PDL-Lega comporta due letture diverse tra loro sulle prospettive politiche della destra italiana.

L'obiettivo dei gattopardi democristiani é quello di azzerare il duo Berlusconi-Bossi per poter rimescolare le carte, simmetricamente all'affossamento del mai nato bipolarismo e della resurrezione del ruolo dei partiti come portatori di progetti politici e sociali.

D'altra parte anche la Lega non scoppia di salute e Bossi, che nel gestire la Lega dimostra d'ispirarsi a Kim-il-sung, dovrà affrontare le critiche crescenti da ogni dove del "popolo padano". Maroni é seduto sogghignante sulla sponda del Po, mentre per il senatur si profila all'orizzonte l'autunno del patriarca.

L’obiettivo finale dei dissidenti democristiani è la conservazione di un regime e lo sbarramento delle porte al ricambio dello stesso: in questo, le assonanze con la vecchia Dc ci sono. Ma la partita è tutta da giocare e gli esiti sono imprevedibili.

Non sono più i tempi del mare aperto dove regnava sovrana la balena bianca. Ci si trova semmai in uno stagno, dove un caimano balla un ultimo disperato valzer in compagnia di una trota adulta.