martedì 25 ottobre 2011

Crisi economica - update

Una serie di articoli su questa crisi economica globale senza via d'uscita a causa di quel fatidico 1% che governa il mondo, tra il fallimento accertato della Grecia, il probabile prossimo downgrade della Francia e il fil rouge potenzialmente mortale che lega Wall Street alle banche europee sull'orlo della bancarotta, in particolare quelle francesi.



Ecco il documento della troika: Atene è fallita
di Fabrizio Goria - www.linkiesta.it - 22 Ottobre 2011

La Grecia è fallita. A dirlo non è l’ennesimo studio di banche d’investimento o centri di ricerca, ma direttamente i funzionari della troika che hanno appena terminato la loro revisione sulla finanza pubblica ellenica.

Linkiesta è entrata in possesso dell’intero rapporto della troika, composta dai funzionari di Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Commissione europea.

Strictly confidential è scritto su ogni pagina. E ce ne sono tutte le ragioni. Il quadro che emerge dalla Dsa (Debt sustainability analysis) sulla Grecia non è roseo. Le dieci pagine che siamo in grado di mostrarvi parlano chiaro.

Certo, l’Eurogruppo ha accordato il pagamento della sesta tranche (8 miliardi di euro) di aiuti finanziari previsti dal piano di salvataggio del maggio 2010, pari a 110 miliardi di euro, ma appare sempre più chiaro che lo ha fatto assumendosi diverse responsabilità. Questo perché la troika ha spiegato senza troppi giri di parole che il debito greco è insostenibile.

L’unica soluzione all’orizzonte è quindi quella di un aumento dell’intervento dei creditori privati, tramite il Private sector involvement (Psi), e, di conseguenza, un lungo piano di ristrutturazione del debito.

Il ritorno sui mercati è atteso nel 2021, quando il rapporto debito pubblico/Prodotto interno lordo (Pil) tornerà sotto quota 150 per cento.

Fino a quella data, secondo il rapporto della troika, saranno necessari 252 miliardi di euro per garantire la sopravvivenza di Atene, nel migliore dei casi. Nel peggiore, altri 444 miliardi di euro, più dell’attuale valore del fondo europeo salva-Stati European financial stability facility (Efsf).

In altre parole, considerando l’intervento del maggio 2010, l’intero debito ellenico, 365 miliardi di euro, dovrà essere messo in sicurezza da qui al 2030. Dopo diverse settimane di attesa, la troika ha concluso la sua ultima verifica ad Atene.

Nonostante le rassicurazioni del ministro delle Finanze ellenico Evangelos Venizelos, che ancora cinque giorni fa parlava di «sensazioni positive riguardo alla troika», il rapporto finale lascia senza fiato. Semplicemente, niente va come dovrebbe andare.

Il debito pubblico, attualmente al 160% del Pil, toccherà quota 186% nel 2013 e solo nel finale del 2020 scenderà sotto il 152%, soglia considerata cruciale per il rientro di Atene sui mercati internazionali.

Ancora, solo nel 2030 il rapporto debito/Pil sarà sotto il 130 per cento. Chiaramente insostenibile, sebbene lo stesso Venizelos abbia più volte rimarcato che «il Paese è su una buona strada». C’è poi il capitolo privatizzazioni. Sui circa 46 miliardi di euro che dovevano essere raccolti da luglio a oggi, solo 10 sono entrati nelle casse del Tesoro di Atene.

E pensare che inizialmente il programma del 21 luglio, completamente smontato dalla troika, aveva previsto ricavi per 66 miliardi di euro (50 miliardi di asset governativi più 16 miliardi di asset derivanti dalle ricapitalizzazioni bancarie). Niente di tutto questo è stato rispettato, finora, né riuscirà a essere raggiunto, spiega la troika, senza un programma di consolidamento fiscale più duro che mai.

Infine, la ristrutturazione del debito. L’accordo del Consiglio europeo del 21 luglio scorso prevedeva un haircut, cioè un taglio al valore nominale dei bond detenuti in portafoglio, del 21 per cento.

L’accordo, sottoscritto dall’Institute of international finance (Iif), la lobby bancaria internazionale, fin da subito è apparso troppo blando per ristorare il debito greco. Dei 365 miliardi di euro di stock complessivo, solo 135 erano impegnati nel rollover, cioè il concambio peggiorativo, con un impegno da parte delle banche creditrici di circa 37 miliardi. Troppo poco.

La troika propone due soluzioni: o un taglio del 50%, capace di riportare il debito sotto quota 120% nel finale del 2020, o un haircut del 60%, che porterebbe il debito sotto il 110% nel 2020. In entrambi i casi, ci sarebbero dei costi per la comunità internazionale.

Tralasciando quelli sociali e quelli creditizi a carico delle banche esposte sulla Grecia, per Atene il supporto finanziario dovrebbe essere di 113,5 miliardi di euro per il ventennio 2011-2030 nel caso di un haircut del 50% e di 109,3 miliardi in caso di taglio del 60 per cento.

Qualsiasi scelta si prenda nel prossimo vertice europeo, ci sono due certezze: la Grecia è fallita e il suo default non sarà indolore.

Il documento top secret della troika (clicca per leggere tutto)

alt



La Francia e l'Ue ai tempi di Moody's
di Bruno Giorgini - Peacereporter - 24 Ottobre 2011

La Francia è nel mirino dell'agenzia di rating, mentre l'unione franco tedesca per risollevare l'Europa rischia di frantumarsi

La scelta di Moody's di mettere sotto sorveglianza lo Stato francese in vista di un suo eventuale degrado a fronte di un sistema finanziario famelico, è stata una doccia fredda, anzi gelata.

La Francia intera si è svegliata, scoprendosi nuda di fronte alla minaccia, mentre la grandeur appare del tutto inadeguata e parecchio acciaccata, finendo al rango di una Grecia o un Portogallo qualunque, o quasi.

Che la situazione sia percepita come assai difficile diventa evidente quando mercoledì 20 Carla Bruni, la premiere dame, partorisce Giulia ma papà Sarkozy non c'è; è volato in Germania per incontrare la cancelliera Merkel, tornando in serata con un pugno di mosche in mano, mentre gli uomini del suo entourage lasciano cadere qua e là piccole frasi del tutto inquietanti: "se non arriviamo a un accordo europeo nei prossimi dieci giorni, sarà la catastrofe dell'euro."

E vengono convocati i vertici UE di sabato e domenica, con il prosieguo a mercoledì prossimo, 26 ottobre, ma l'intesa franco tedesca, nell'intenzione francese asse portante di una azione rapida verso i "mercati" e contro le speculazioni finanziarie, nonché prefigurazione per un futuro governo dell'economia europea, scricchiola e zoppica, per non dire che finisce in frantumi.

Merkel non ci sente dall'orecchio della cooperazione, anche perché una parte consistente della ricchezza tedesca riposa proprio sulle debolezze di altri stati europei, un bel mercato da conquistare ogni giorno un poco di più, all'est, gli ex Stati comunisti, ma anche in Francia o in Italia.

Le proposte strategiche di una Europa sociale e fiscale comune sono troppo ardue, le disparità tra stati troppo forti, mentre l'idea degli eurobond o che il fondo europeo di stabilità finanziaria si trasformi in una banca sinergica con la banca centrale europea, è certamente sgradita ai banchieri tedeschi, di cui Merkel è spesso portavoce quasi millimetrica.

Così Le Monde titola: la Germania blocca il salvataggio della zona euro, e nel suo magazine pubblica un articolo tra l'ironico e il velenoso sul marito della cancelliera titolato "il signor Merkel o il fantasma dell'opera", mentre un sentimento antitedesco crescente si percepisce serpeggiare nell'opinione pubblica francese.

E a proposito dell'opinione pubblica, non può mancare il sondaggio della domenica, che racconta come il 53 percento dei francesi sia revolté, il 29 percento rassegnato, il 79 percento consideri questa la crisi più grave, mentre il 78 percento giudica i mercati finanziari, il governo e le banche come responsabili, e il 63 percento si schiera a favore per un controllo statale delle banche.

Banche/banchieri che sentendo il vento, hanno comperato una pagina pubblicitaria su Le Monde del week end, per dire che, testuale, non hanno speculato sul debito greco, non chiedono di essere ricapitalizzate coi soldi dello stato, non giocano in borsa e sui mercati finanziari coi soldi dei cittadini, e finanziano senza chieder niente tutti i progetti produttivi nonché il bilancio delle famiglie; insomma poco meno che agenzie benefiche o dame caritatevoli, altro che i briganti che tutti o quasi credono!

Intanto il governo si propone di inasprire i tagli di bilancio, in particolare agendo su pensioni e stipendi di dipendenti pubblici, tagli che non erano previsti prima dell'intervento di Moody's, e non saranno facili nemmeno all'interno della maggioranza di destra, per non dire nel paese. E siamo arrivati a parlare della sinistra.

Nella convenzione socialista che lo ha ufficialmente candidato alle prossime presidenziali, Hollande dopo essersi riferito ai giovani del maggio '68, a quelli che affermavano che un altro mondo è possibile fino agli odierni indignados come nutrimento della gauche, ha parlato della "violenza infernale della speculazione finanziaria" e del fatto che "le banche sono una cosa troppo seria per lasciarle ai banchieri", mentre Aubry tornata al suo ruolo di primo segretario del PS, dava la carica affermando che "le primarie sono state il primo atto dei cittadini per la democrazia e contro il predominio dei mercati" e Hollande concludeva "ieri era il tempo del dibattito, oggi è quello della lotta".

A mettere altra carne al fuoco è arrivato a Parigi Joseph Stiglitz, che dismessa la parka rossa che portava a occupy Wall Street e indossato un completo blu con cravatta, non ha però rinunciato a denunciare la follia di una politica dei tagli di bilancio, e l'idiozia di un sostegno cieco alle banche, ovvero senza mettere mano alla loro governance, né poteva mancare la critica alla debolezza politica della UE, insomma ricordando a tutti che l'economia è sempre, oggi più che mai, economia politica, altro che oggettività dei mercati.

E nel dibattito che si è sviluppato tra economisti, ma a ascoltarlo c'erano anche molti comuni cittadini, Stiglitz a Parigi è quasi una rock star, qualcuno si è lanciato in previsioni, gli ottimisti si sono riferiti al 2014/15 come data di una possibile ripresa e qualche pessimista ha parlato di 15 (quindici) anni, prima che il sistema economico mondiale raggiunga un nuovo equilibrio, e non senza passare attraverso una sequenza caotica con probabili catastrofi al seguito.

Era un convegno scientifico, ma non si può fare a meno di pensare alla crisi del 29/30 del secolo scorso, quando un nuovo assetto dell'economia politica mondiale venne raggiunto appunto dopo 15 anni e una guerra mondiale, cioè nel 1945.

Infine giovedì sera Sarkozy dovrebbe (di questi tempi il condizionale è d'obbligo) parlare ai francesi, intervistato sulle due maggiori reti televisive in diretta dall'Eliseo per novanta minuti.

All'ordine del giorno la crisi, i suoi amici fanno balenare l'immagine di Churchill salvatore d'Europa, i suoi detrattori lo vogliono tutto impegnato in difesa del suo particulare, per risalire nei sondaggi che oggi lo danno al 24 percento di gradimento.

Da ultimo i bleu sono stati sconfitti nella finale dei mondiali di rugby, dopo esseri battuti fino allo stremo e avere ben giocato, e l'intera nazione ne è stata commossa. Se il presagio sia positivo o negativo è difficile dire, certo la partita è stata bella.



Panico Usa: è Wall Street a detenere il nostro debito
di Giorgio Cattaneo - www.libreidee.org - 24 Ottobre 2011Inserisci link

Gli Usa sono letteralmente terrorizzati: se crolla uno Stato europeo, uno qualsiasi, vanno in crisi le grandi banchefrancesi e tedesche sorrette da Wall Street. Ecco perché Washington è così attenta alla crisi europea e raccomanda a Bruxelles di scongiurare il rischio di default, a cominciare da quello della Grecia: il collasso a catena porterebbe alla bancarotta delle centrali finanziarie statunitensi.

Lo afferma Robert Reich, docente di politiche pubbliche all’università californiana di Berkeley, già ministro del lavoro del presidente Clinton nonché autore di tredici libri. «Perché l’America dovrebbe essere così preoccupata?

Se volete sapere la vera ragione, seguite i soldi. Un default greco (o irlandese, spagnolo, italiano o portoghese) avrebbe sul nostro sistema finanziario lo stesso effetto dell’implosione della Lehman Brothers nel 2008. Il caos finanziario».

E’ l’analista Debora Billi a sottolineare l’intervento di Reich affidato al web: «Sì, esportiamo in Europa – ammette il professore – ma le esportazioni non finiranno e, in ogni caso, sono una goccia nel mare dell’economia statunitense». Se il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha «unito la sua voce a quella di coloro che sono preoccupati per la crisi del debito europea», la vera ragione risiede nella drammatica fragilità del sistema finanziario creato da Wall Street ed esteso all’Europa: «Un default della Grecia o di qualsiasi altra nazione europea affogata nei debiti – scrive Reich – può facilmente colpire lebanche tedesche o francesi, che hanno prestato molto alla Grecia». E qui «entra in ballo Wall Street», che «ha prestato una montagna di soldi allebanche tedesche e francesi».

La totale esposizione all’eurozona, continua Reich, è pari a 2700 miliardi di dollari, e quella verso Francia e Germania rappresenta circa la metà del totale. E non sono solo i prestiti alle banche tedesche e francesi ad essere preoccupanti: «Wall Street è anche coinvolta in ogni sorta di derivati emessi dall’Europa – sull’energia, la moneta, i tassi di interesse e di cambio. Se una banca tedesca o francese fallisce, l’effetto domino è incalcolabile».

Capito? Seguite i soldi, raccomanda Reich: «Se la Grecia crolla, gli investitori cominceranno a fuggire da Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo. Tutto ciò farà annaspare le banchetedesche e francesi. Se una di queste banche collassa, o mostra gravi segni di stress, Wall Street è in guai seri. Persino in guai più seri che dopo la Lehman Brothers».

Ecco perché le azioni delle principali banche Usa sono scese così tanto nel mese scorso, osserva l’economista californiano, fiutando il peggio: Morgan Stanley ha chiuso al punto più basso dal dicembre 2008. La gigantesca banca d’affari mondiale è in pericolo, sottolinea Debora Billi nel suo blog “Crisis.blogosfere“: «Reich sostiene che, se le banche europee falliscono, la Morgan può perdere 30 miliardi di dollari», ovvero «2 miliardi in più del totale dei suoi assets», pur sostenendo di non avere alcuna esposizione verso le banche francesi: «In realtà, l’esposizione deriva da assicurazioni, derivati e swaps. Ecco perché a Washington sono terrorizzati – e perché il segretario al Tesoro Tim Geithner continua a supplicare gli europei di salvare la Grecia e le altre nazioni indebitate».

«Non vi confondete», avverte la Billi: «Gli Usa vogliono che l’Europa salvi le nazioni indebitate così che esse possano ripagare le banche europee. Altrimenti, le banche potrebbero implodere – portando Wall Street con loro. E una delle tante ironie è che alcune delle nazioni indebitate (l’Irlanda è l’esempio migliore), si trovano in tale situazione proprio perché hanno fatto un bailout alle loro banche nella crisi che è cominciata a Wall Street. Chiuso il cerchio».

In altre parole, conclude Debora Billi, non è la Grecia il problema. Né l’Italia, il Portogallo, o la Spagna. «Il vero problema è il sistema finanziario – centrato a Wall Street. E noi non l’abbiamo ancora risolto».


Salvare le banche europee...per salvare Wall Street
di Debora Billi - http://crisis.blogosfere.it - 19 Ottobre 2011

Visto che non sono certo un'autorità in fatto di banche e finanza, lascio la parola all'esperto. Ho scovato uno splendido articolo di qualche giorno fa che ci spiega, nero su bianco, perché gli Stati Uniti si stanno tanto interessando al debito europeo.

Lo scrive Robert Reich, Docente di Politiche Pubbliche all'Università di Berkeley, California, ex Segretario del Lavoro del Presidente Clinton e autore di tredici libri.

Vi traduco alcuni brani, qui l'originale.

Oggi Ben Bernanke ha unito la sua voce a quella di coloro che sono preoccupati per la crisi del debito europea. Ma perché esattamente l'America dovrebbe essere così preoccupata? Si, esportiamo in Europa - ma le esportazioni non finiranno. E in ogni caso, sono una goccia nel mare dell'economia statunitense.

Se volete sapere la vera ragione, seguite i soldi. Un default greco (o irlandese, spagnolo, italiano o portoghese) avrebbe sul nostro sistema finanziario lo stesso effetto dell'implosione della Lehman Brothers nel 2008. Il caos finanziario. (...)

Un default della Grecia o di qualsiasi altra nazione europea affogata nei debiti può facilmente colpire le banche tedesche o francesi, che hanno prestato molto alla Grecia. Ma è qui che entra in ballo Wall Street. Wall Street ha prestato una montagna di soldi alle banche tedesche e francesi. La totale esposizione all'euro zona è pari a 2700 miliardi di dollari, e quella verso Francia e Germania rappresenta circa la metà del totale.

E non sono solo i prestiti alle banche tedesche e francesi ad essere preoccupanti. Wall Street è anche coinvolta in ogni sorta di derivati emessi dall'Europa - sull'energia, la moneta, i tassi di interesse e di cambio. Se una banca tedesca o francese fallisce, l'effetto domino è incalcolabile.

Capito? Seguite i soldi: se la Grecia crolla, gli investitori cominceranno a fuggire da Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo. Tutto ciò farà annaspare le banche tedesche e francesi. Se una di queste banche collassa, o mostra gravi segni di stress, Wall Street è in guai seri. Persino in guai più seri che dopo la Lehman Brothers.

Ecco perché le azioni delle principali banche USA sono scese nel mese scorso. Morgan Stanley ha chiuso lunedì al punto più basso da Dicembre 2008.

Reich sostiene che se le banche europee falliscono, la Morgan può perdere 30 miliardi di dollari, 2 miliardi in più del totale dei suoi assets, pur sostenendo di non avere alcuna esposizione verso le banche francesi: in realtà, l'esposizione deriva da assicurazioni, derivati e swaps.

Ecco perché a Washington sono terrorizzati - e perché il Segretario al Tesoro Tim Geithner continua a supplicare gli europei di salvare la Grecia e le altre nazioni indebitate.

Non vi confondete: gli USA vogliono che l'Europa salvi le nazioni indebitate così che esse possano ripagare le banche europee. Altrimenti, le banche potrebbero implodere - portando Wall Street con loro. E una delle tante ironie è che alcune delle nazioni indebitate (l'Irlanda è l'esempio migliore), si trovano in tale situazione proprio perché hanno fatto un bailout alle loro banche nella crisi che è cominciata a Wall Street.

Chiuso il cerchio.

In altre parole, non è la Grecia il problema. Né l'Italia, il Portogallo, o la Spagna. Il vero problema è il sistema finanziario - centrato a Wall Street. E noi non l'abbiamo ancora risolto.



L'1 per cento che controlla il mondo
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 24 Ottobre 2011

Non solo uno slogan: una ricerca scientifica svizzera individua la rete di multinazionali, soprattutto banche, che controllano l'economia globale

"Siamo il 99 per cento contro lo strapotere dell'1 per centro", lo slogan del movimento di protesta globale contro il sistema capitalista, finora si basava su dati empirici e assunti ideologici. Da oggi ha invece una base scientifica.

La prestigiosa rivista New Scientist ha rivelato nei giorni scorsi i risultati di un complessa ricerca condotta da un team di economisti dell'Istituto Svizzero di Teconolgia, che rivela come una rete di poche decine di multinazionali, soprattutto banche, controlli di fatto l'economia mondiale.

Gli studiosi di sistemi guidati dal professor James Glattfelder hanno analizzato le relazioni che intercorrono tra circa 43mila multinazionali, scoprendo che al centro della mappa della struttura del potere economico mondiale vi sono 1.318 multinazionali che detengono l'80 per cento della ricchezza economica globale.

Tra queste, secondo la ricerca, ce ne sono 147 che controllano il 40 per cento del sistema. Le più potenti di queste super-entità sono quasi tutte banche (Barcalys, JP Morgan Chase, Ubs, Merryl Lynch, Deutsche Bank, Credit Suisse, Goldman Sachs, Bank of America, Unicredit, Bnp Paribas), più alcune grandi società finanziarie americane e compagnie assicurative.

"La realtà è molto complessa - ha dichiarato Glattfelder - e dobbiamo rifuggire dai dogmi, siano essi teorie della cospirazione o del libero mercato: la nostra analisi si basa sui fatti".



Scoperta la rete capitalista che governa il mondo
di Andy Coghlan e Debora MacKenzie - www.newscientist.com - 19 Ottobre 2011
Traduzione di Pino Cabras per Megachip

Mentre le proteste contro il potere finanziario travolgono il mondo in questa settimana, la scienza sembrerebbe confermare i peggiori timori dei contestatori.

Un’analisi delle relazioni che sussistono fra 43mila corporation multinazionali ha identificato un gruppo relativamente piccolo di società, specialmente banche, che esercitano un potere sproporzionato sull’economia globale.

I presupposti di questo studio hanno richiamato alcune critiche, ma gli analisti di sistemi complessi contattati da New Scientist sostengono che si tratta di uno sforzo originale inteso a sbrogliare i fili del controllo sull’economia globale.

Sostengono inoltre che se si avanzasse ulteriormente la spinta di tale analisi, essa sarebbe di aiuto per identificare i modi in grado di rendere il capitalismo globale più stabile.

L’idea che pochi banchieri controllino una grande porzione dell’economia globale potrebbe non essere una notizia agli occhi movimento Occupy Wall Street di New York né a quelli dei contestatori di altre parti (vedi le foto).

Tuttavia, questo studio, condotto da un trio di teorici dei sistemi complessi presso il Politecnico Federale di Zurigo in Svizzera, è la prima ricerca che va oltre le ideologie, per identificare empiricamente una simile rete di potere.

L’opera combina la matematica collaudata nel modellare i sistemi naturali con dati aziendali completi, per fare una mappa delle proprietà fra le multinazionali.

«La realtà è talmente complessa che dobbiamo rifuggire i dogmi, sia che si tratti di teorie cospirazioniste o di libero mercato», afferma James Glattfelder. «La nostra analisi è basata sulla realtà».

Studi precedenti avevano rilevato che un piccolo gruppo di multinazionali possedeva grosse fette dell’economia mondiale, ma essi includevano nella ricerca soltanto un numero limitato di aziende e omettevano le forme di proprietà indiretta, cosicché non erano in grado di descrivere quanto tutto ciò influisse sull’economia globale – né se, ad esempio, la rendessero più o meno stabile.

Il team di Zurigo invece è in grado: hanno estratto da Orbis 2007 – un database che classifica 37 milioni fra società e investitori di tutto il mondo – tutte le 43.060 multinazionali e le partecipazioni azionarie incrociate che le collegano.

Quindi hanno costruito un modello che rappresentava quali società ne controllavano altre tramite reticoli azionari, e lo hanno abbinato ai ricavi di esercizio, per mappare infine la struttura del potere economico.

Il lavoro, che sarà pubblicato su «PloS One», ha individuato un nucleo centrale di 1.318 società con proprietà incrociate (vedi figura). Ognuna delle 1.318 aveva vincoli con almeno altre due o tre ulteriori società, e di media erano connesse a 20.

Per di più, sebbene rappresentassero il 20% dei ricavi di esercizio a livello globale, i 1.318 evidenziavano di possedere complessivamente attraverso le loro quote azionarie la maggioranza della proprietà mobiliare mondiale e dell’industria manifatturiera– cioè dell’economia reale” – che rappresenta un ulteriore 60% dei ricavi di esercizio globali.

Quando gli studiosi hanno ulteriormente districato la ragnatela degli assetti proprietari, hanno scoperto che il grosso risaliva a una «super-entità» di 147 società ancora più strettamente annodate fra di loro – la cui proprietà era a sua volta interamente detenuta da altri membri della «super-entità» – che controllava il 40% di tutta la ricchezza nel reticolo.

«In effetti, meno dell’1 per cento delle società risulta in grado di controllare il 40 per cento dellintero intreccio», sostiene Glattfelder. La maggior parte è costituita da istituti finanziari. La Top 20 comprende: Barclays Bank, JPMorgan Chase & Co, nonce il Goldman Sachs Group.

L’esperto di macroeconomia John Driffill della University of London, afferma che il valore di quest’analisi non sta tanto nel vedere se un piccolo gruppo di persone controlli l’economia globale, quanto nelle suggestioni in merito alla stabilità economica.

La concentrazione del potere in sé non è né buona né cattiva, afferma il team zurighese, mentre le strette interconnessioni del nucleo centrale lo possono essere. Come ha potuto apprendere il mondo nel 2008, tali reti sono instabili. «Se una società si trova a patire delle difficoltà», dice Glattfelder, «il problema si propaga».

«È sconcertante vedere quanto le cose siano davvero connesse», concorda George Sugihara della Scripps Institution of Oceanography di La Jolla, California – un esperto di sistemi complessi che è stato consulente della Deutsche Bank.

Yaneer Bar-Yam, capo del New England Complex Systems Institute (NECSI) mette in guardia sul fatto che l’analisi presume che la proprietà equivalga al controllo, cosa che non sempre è vera. La maggior parte dei titoli azionari è in mano a gestori di fondi che possono controllare o meno le società che in parte posseggono. L’impatto di tutto questo sul comportamento del sistema, afferma Bar-Yam, richiede ulteriori analisi.

È cruciale, per via dell’identificazione dell’architettura del potere economico globale, che l’analisi possa aiutare a renderlo più stabile. Nell’identificare i tratti vulnerabili del sistema, gli economisti potranno suggerire misure in grado di impedire che futuri crolli si diffondano lungo l’intera economia.

Glattfelder sostiene che occorrerebbero regole antitrust globali, che ora esistono solo a livello nazionale, al fine di limitare le super-connessioni tra multinazionali. Bar-Yam dichiara che l’analisi suggerisce una possibile soluzione: per scoraggiare questo rischio, le imprese dovrebbero essere tassate per eccessiva interconnettività.

Una cosa però sembra non armonizzarsi con alcune delle asserzioni dei contestatori: questa super-entità è improbabile che sia il risultato di una cospirazione intesa a governare il mondo. « simili strutture sono comuni in natura», dichiara Sugihara.

In qualsiasi sistema a rete, i nuovi entrati si connettono preferibilmente a componenti già altamente interconnessi. Le multinazionali comprano azioni fra di loro per ragioni di affari, non per dominare il mondo.

Se la connessione tende a raggruppare insiemi di società, così fa anche la ricchezza, ricorda Dan Braha del NECSI: «in analoghi modelli, il denaro fluisce verso i membri che hanno già le maggiori connessioni».

Lo studio di Zurigo, ribadisce Sugihara, «costituisce una solida prova del fatto che le semplici regole che disciplinano le multinazionali danno origine spontaneamente a gruppi fortemente connessi».

O, come Braha precisa: «L’affermazione di Occupy Wall Street sul fatto che l'1 per cento della gente detiene la maggior parte della ricchezza riflette una fase logica dell’auto-organizzazione dell’economia».

Così, la super-entità potrebbe non derivare da una cospirazione. La vera questione, sostiene il gruppo di ricerca di Zurigo, è se possa esercitare un potere politico concertato. Driffill ha l’impressione che 147 sono ancora troppi per sostenere l’esistenza di collusioni.

Braha sospetta che si sfidino sul mercato, ma agiscano insieme sugli interessi comuni. Resistere a modifiche alla struttura della rete potrebbe essere uno di tali interessi comuni.


Le prime 50 fra le 147 società superconnesse.

1. Barclays plc

2. Capital Group Companies Inc

3. FMR Corporation

4. AXA

5. State Street Corporation

6. JP Morgan Chase & Co

7. Legal & General Group plc

8. Vanguard Group Inc

9. UBS AG

10. Merrill Lynch & Co Inc

11. Wellington Management Co LLP

12. Deutsche Bank AG

13. Franklin Resources Inc

14. Credit Suisse Group

15. Walton Enterprises LLC

16. Bank of New York Mellon Corp

17. Natixis

18. Goldman Sachs Group Inc

19. T Rowe Price Group Inc

20. Legg Mason Inc

21. Morgan Stanley

22. Mitsubishi UFJ Financial Group Inc

23. Northern Trust Corporation

24. Société Générale

25. Bank of America Corporation

26. Lloyds TSB Group plc

27. Invesco plc

28. Allianz SE 29. TIAA

30. Old Mutual Public Limited Company

31. Aviva plc

32. Schroders plc

33. Dodge & Cox

34. Lehman Brothers Holdings Inc*

35. Sun Life Financial Inc

36. Standard Life plc

37. CNCE

38. Nomura Holdings Inc

39. The Depository Trust Company

40. Massachusetts Mutual Life Insurance

41. ING Groep NV

42. Brandes Investment Partners LP

43. Unicredito Italiano SPA

44. Deposit Insurance Corporation of Japan

45. Vereniging Aegon

46. BNP Paribas

47. Affiliated Managers Group Inc

48. Resona Holdings Inc

49. Capital Group International Inc

50. China Petrochemical Group Company

* Lehman esisteva ancora nel complesso di dati del 2007 usato.

Grafico: Le 1318 multinazionali che formano il nocciolo duro dell’economia (su dati: PLoS One).



Non ci resta che crescere
di Angelo Miotto - Peacereporter - 24 Ottobre 2011

Berlusconi in 72 ore vuole risolvere tutto. Sulle spalle delle pensioni altrui. Ma le riforme sono in stallo da troppi anni. L'intervista a Tommaso Nannicini, curatore di 'Non ci resta che crescere'

Tre giorni. Numeri biblici per la politica defunta del governo Berlusconi, dettati dall'Unione europea retta da chi gli ride non alle spalle, ma in faccia. Le 72 ore fatidiche che hanno impresso velocità a chi per settimane non ha fatto sostanzialmente nulla, se non annunciare per poi disfare, si giocano sulle pensioni. Degli altri, ovviamente.

E così si celebra la rottura fra la Lega - qui in versione di lotta - e il Pdl, per le affermazioni del presidente del consiglio che chiede la riforma delle pensioni. Non ci resta che crescere è una frase che indica l'unica direzione di uscita dalla crisi, che oltre che finanziaria ed economica è ormai soprattutto sociale.

Il professor Tommaso Nannicini, docente alla Bocconi, ha scelto quella frase per una antologia di brevi saggi che raccoglie firme prestigiose dell'economia e del giornalismo, analisti rinomati (qui la lista), che provano a suggerire alla politica cosa e come fare.

"È il contributo di esperti di settore e studiosi di singoli temi al dibattito politico. Se la politica non sa fare il suo mestiere si danno suggerimenti. Su cosa e come fare".

Stiamo sul tema del giorno: le pensioni. Nella sua introduzione il problema 'giovani', proprio in termini redistributivi nell'impegno del welfare, diventa uno dei punti chiave delle riforme.

Lo era già dal 1997, ultimo governo Prodi. Già allora era nota a tutti l'esigenza di riequilibrare il nostro sistema di stato sociale, riducendo la spesa per tutelare la vecchiaia e nel contempo dirigere i fondi su altri temi di welfare, per esempio la disoccupazione che riguarda moltissimi giovani. Il nostro punto di vista è che ci vorrebbe una politica capace di avere una visione complessiva, e non solo quando gli ordini vengono dall'esterno. Questo non fa altro che favorire soluzioni da tecnocrati. I nostri politici alla fine dicono: me l'hanno detto, devo farlo.

La famosa lettera 'segreta' della Bce, ma soprattutto l'incalzare di decisioni che scavalcano sempre più la dimensione nazionale ci dicono che siamo ormai arrivati a una specie di coercizione dei guardiani Ue.

il problema è sopratutto italiano perché qui il biasimo oltre che agli organismi che ci danno certe ricette, va alla politica italiana. Le scelte di politica economica sono tarate ormai su geometrie europee. D'altronde, se lasci spazi vuoti, altri li riempiono, anche perché le scelte riguardano sempre più gli europei che i singoli popoli dei singoli stati. La politica italiana è incapace: non è capace di fare quelle scelte che noi diciamo servirebbero per tornare a crescere. Il nodo della sostenibilità dei conti pubblici non è solo un nodo finanziario, ma soprattutto di sviluppo.

Lei è ottimista?

Sì sono ottimista. Nel libro ci sono molti elementi per essere pessimisti. Molto parlare di riforme e nessuna decisione, un declino inesorabile vero cui ci stiamo avvicinando, ma resto ottimista perché penso che i costi del mancato rinnovamento iniziano a essere visibili alle famiglie italiane e queste iniziano a creare una domanda rivolta alla politica, una domanda di riforme e quando c'è un vuoto qualcuno si fa carico di riempire quel vuoto. Una rottura che ci faccia allontanare da quello che nel saggio abbiamo definito il dolce declino.



Il Vaticano chiede una Banca centrale planetaria
da Peacereporter - 24 Ottobre 2011

Il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace 'suggerisce' nuove regole a livello planetario. I punti chiave del documento presentato oggi, tratti dalle cronache di Radio Vaticana

La prospettiva di un'Autorità pubblica mondiale al servizio del bene comune

"La costituzione di un'Autorità pubblica mondiale, al servizio del bene comune" è "l'unico orizzonte compatibile con le nuove realtà del nostro tempo": è quanto si legge nella nota del dicastero vaticano che vuole offrire "un contributo ai responsabili della terra e a tutti gli uomini di buona volontà" di fronte all'attuale crisi economica e finanziaria mondiale che "ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala".

Il liberismo economico senza regole e senza controlli tra le cause dell'attuale crisiInserisci link
Si analizzano le cause della crisi, riscontrate "anzitutto" in "un liberismo economico senza regole e senza controlli". La nota denuncia "l'esistenza di mercati monetari e finanziari a carattere prevalentemente speculativo, dannosi per l'economia reale, specie dei Paesi più deboli".

Parla di "un'economia mondiale sempre più dominata dall'utilitarismo e dal materialismo", caratterizzata da un'espansione eccessiva del credito e da bolle speculative, che hanno generato "crisi di solvibilità e di fiducia"; un fenomeno culminato nel 2008 nel "fallimento di un importante istituto finanziario internazionale" negli Stati Uniti - deciso proprio in seguito ad "un orientamento di stampo liberista, reticente rispetto ad interventi pubblici nei mercati", con conseguenze nefaste su miliardi di persone.

Tre ideologie devastanti: utilitarismo, individualismo e tecnocrazia

La crisi - rileva la nota - è causata anche da altre ideologie che hanno "un effetto devastante": anzitutto l'utilitarismo e l'individualismo, secondo le quali "l'utile personale conduce al bene della comunità".

Ma non sempre è così. Infatti, nonostante i progressi dell'economia mondiale, "non è aumentata l'equa distribuzione della ricchezza", anzi, in "in molti casi è peggiorata": per questo è necessaria la solidarietà. Benedetto XVI denuncia anche "una nuova ideologia, l'ideologia della tecnocrazia", ossia "di quell'assolutizzazione della tecnica che «tende a produrre un'incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia» ed a minimizzare il valore delle scelte dell'individuo umano concreto che opera nel sistema economico-finanziario, riducendole a mere variabili tecniche" .

Tassazione delle transazioni finanziarie e ricapitalizzazione delle banche con fondi pubblici

In questa prospettiva sono ipotizzabili: "misure di tassazione delle transazioni finanziarie, mediante aliquote eque", anche per "contribuire alla costituzione di una riserva mondiale, per sostenere le economie dei Paesi colpiti dalle crisi, nonché il risanamento del loro sistema monetario e finanziario"; "forme di ricapitalizzazione delle banche anche con fondi pubblici condizionando il sostegno a comportamenti «virtuosi» e finalizzati a sviluppare l'economia reale"; la "definizione dell'ambito dell'attività di credito ordinario e di Investment Banking. Tale distinzione consentirebbe una disciplina più efficace dei «mercati-ombra» privi di controlli e di limiti".

Verso una Banca centrale mondiale

La nota ipotizza "la riforma del sistema monetario internazionale" per dare vita "a qualche forma di controllo monetario globale" riscoprendo "la logica di fondo, di pace, coordinamento e prosperità comune che portarono agli Accordi di Bretton Woods" nel 1944.

Accordi che portarono all'istituzione del Fondo monetario internazionale che oggi ha perso la sua capacità di garantire la stabilità della finanza mondiale. Si tratta di mettere "in discussione i sistemi dei cambi esistenti, per trovare modi efficaci di coordinamento e supervisione" in "un processo che deve coinvolgere anche i Paesi emergenti e in via di sviluppo".

E' necessario "un corpus minimo condiviso di regole" per gestire il "mercato finanziario globale, cresciuto molto più rapidamente dell'economia reale" grazie all'"abrogazione generalizzata dei controlli sui movimenti di capitali" e alla "deregolamentazione delle attività bancarie e finanziarie". "Sullo sfondo si delinea, in prospettiva, l'esigenza di un organismo che svolga le funzioni di una sorta di «Banca centrale mondiale» che regoli il flusso e il sistema degli scambi monetari, alla stregua delle Banche centrali nazionali".

Necessità di costituire un'Autorità politica mondiale" di fronte alla "crescente interdipendenza" tra gli Stati.

"Tale Autorità sovranazionale deve ...essere messa in atto con gradualità, con l'obiettivo di favorire ... mercati liberi e stabili, disciplinati da un adeguato quadro giuridico". "Si tratta di un'Autorità dall'orizzonte planetario, che non può essere imposta con la forza, ma dovrebbe essere espressione di un accordo libero e condiviso" e "dovrebbe sorgere da un processo di maturazione progressiva delle coscienze e delle libertà", coinvolgendo "coerentemente tutti i popoli", nel pieno rispetto delle loro diversità. "L'esercizio di una simile Autorità, posta al servizio del bene di tutti e di ciascuno, sarà necessariamente super partes".

I Governi non dovranno "servire incondizionatamente l'Autorità mondiale. È piuttosto quest'ultima che deve mettersi al servizio dei vari Paesi membri, secondo il principio di sussidiarietà", offrendo il suo "sussidio" nel rispetto della libertà e delle responsabilità di persone e comunità: si evita così "il pericolo dell'isolamento burocratico" dell'Autorità, creando le condizioni indispensabili "all'esistenza di mercati efficienti ed efficaci, perché non iperprotetti da politiche nazionali paternalistiche" e promuovendo - attraverso l'adozione di "politiche e scelte vincolanti" - "un'equa distribuzione della ricchezza mondiale mediante anche forme inedite di solidarietà fiscale globale". La nota indica l'Onu come punto di riferimento di questo processo di riforma.