venerdì 28 gennaio 2011

Che cos'è la destra, cos'è la sinistra?

Un paio di articoli che mettono in evidenza la completa inutilità del continuare a parlare di destra e sinistra e delle loro finte/false differenziazioni, quando entrambe hanno sposato in toto il sistema economico capitalistico neo-liberista e non hanno ancora preso atto del suo fallimento che è davanti agli occhi di tutti coloro che vogliono veramente vedere la realtà delle cose.

Sigle da tempo anacronistiche e senza uno straccio di proposta alternativa che possa cambiare l'attuale direzione di marcia destinata a infrangersi contro un muro che continua ad avvicinarsi sempre più.


La "sobrietà sostenibile" non è eresia
di Alain de Benoist - Centro Studi Opifice - 24 Gennaio 2011

Destra/Sinistra: dalla Rivoluzione francese in poi, ma soprattutto nell'800 e '900, la schiera delle opzioni politiche si è incardinata attorno a questa polarizzazione.

Negli ultimi anni, la cosiddetta fine delle ideologie è poi a sua volta divenuta un'ideologia del «pensiero unico con il prevalere delle logiche puramente amministrative ed economiciste sfumando e riarticolando questa distinzione politica che però continua a rappresentare, magari in forme più attenuate (centrodestra, centrosinistra) un riferimento mediaticamente consueto.»

Vi è da chiedersi allora se la persistenza, se pur sbiadita, di questa nomenclatura sia dovuta solo ad abitudini giornalistiche o a residui di affezione dell'elettorato più anziano, oppure se si tratti comunque di categorie dotate di un irrinunciabile valore descrittivo.

In quest'ultimo caso occorrerebbe chiedersi se vi siano e quali siano, allora, i principi costitutivi dell'una e dell'altra posizione. Tra i pensatori più anticonformisti in merito, esemplare è il caso del francese Alain de Benoist.

Le sue idee sono sempre state radicali, ma in direzioni cangianti. Un pensatore oltre la destra e la sinistra, allora? Più che altro un intellettuale che è - com'egli stesso preferisce dire - sia di destra che di sinistra; ovvero in grado di pensare la contraddizione.

Lo abbiamo incontrato nella sua Parigi, confrontandoci sui temi attuali dell'ecologia e della sostenibilità, oggetto del suo recente Demain, la décroissance! Penser l'écologie jusqu'au bout, a partire dall'idea ereticale della post-crescita, che si basa sulla constatazione che lo sviluppo produttivo non può essere illimitato, date risorse naturali limitate.

Ultimamente le sue analisi hanno approfondito i temi della cosiddetta "decrescita", presentata spesso come un'utopia, o peggio come un ritorno al passato. Ma lo scrittore a questa critica risponde con un ragionamento, andando oltre le polemiche.

«La teoria della decrescita non solo non promuove un "ritorno al passato", ma neppure ambisce a fermare la storia», spiega. «La constatazione da cui si parte è che le risorse naturali si stanno esaurendo e che non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito».

In altri termini, de Benoist si pone contro la logica del "sempre di più!", contro la dismisura che i greci chiamavano hybris. «In un mondo sempre più impegnato a portare avanti questa deriva, tali proposte possono, ad alcuni, apparire utopiche. Sono tentato di rispondere che l'utopia sta piuttosto nel credere che la fuga in avanti in cui ci siamo imbarcati possa proseguire all'infinito. Gli alberi non possono crescere fino al cielo».

De Benoist è anche molto critico verso le tesi dell'attuale "green economy" che riprendono l'idea ambientalista di "sviluppo sostenibile".

Viene allora da chiedere come la sua idea di ecologismo si colleghi alla decrescita. «L'idea di "sviluppo sostenibile" è sicuramente accattivante, ma corrisponde soprattutto a una posizione mediatica», risponde.

«All'origine dei problemi con i quali ci confrontiamo c'è la crescita materiale, con il suo seguito di danni all'ambiente, di distruzione degli ecosistemi, di inquinamento.

Conciliare la crescita materiale con il rispetto per l'ambiente equivale a voler credere che il cerchio possa essere quadrato. La teoria dello "sviluppo sostenibile", enunciata al Summit della Terra di Rio nel 1992, porta al "capitalismo verde", ovvero all'ecologia di mercato.

L'applicazione del principio "chi inquina, paga", ad esempio, ha creato una specie di mercato dell'inquinamento: le grandi imprese multinazionali, che sono quelle che inquinano di più, possono pagare senza problemi i danni da loro causati.

Alla fine la spesa ricade sul costo iniziale, e di conseguenza sul prezzo di vendita. È proprio in virtù dell'applicazione della "teoria dello sviluppo sostenibile" che si favorisce oggi la produzione di automobili che inquinano sempre meno.

E questo fa dimenticare la realtà dell'"effetto di rimbalzo": dato che si costruiscono sempre più automobili - anche se il consumo di energia diminuisce per unità - il consumo globale continua ad aumentare, in modo che l'aumento delle quantità prodotte, annulla i vantaggi ecologici: un milione di automobili poco inquinanti lo sono molto di più nella totalità di cento auto molto inquinanti!

Il filosofo Michel Serres - continua de Benoist -fornisce una immagine molto esemplificativa dello "sviluppo sostenibile" paragonandolo al capitano di una nave che accorgendosi che sta andando dritto contro uno scoglio, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. In questa logica dovrebbe cambiare l'idea di natura».

È evidente che per favorire la decrescita occorre auspicare un possibile cambio di paradigma. «Gli antichi pensavano che l'uomo appartenesse alla natura, che si trovasse in un rapporto di co-appartenenza con essa. Al contrario, nella Genesi, l'uomo riceve l'ordine di "dominare la natura".

Con Cartesio la natura diventa un semplice oggetto e l'uomo vi si erge a "padrone sovrano". Ed è proprio questo rapporto di dominanza che ci interessa rompere. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all'infinito: è invece una delle condizioni sistemiche della vita.

Distruggere la natura non solo significa l'eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo a scadenza. Nella prospettiva di una decrescita sostenibile, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all'uso che noi ne facciamo.»

Nel suo libro de Benoist si sofferma spesso sul concetto di "limite" da opporre alla hybris, la dismisura tipica della civilizzazione industriale. «Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario. La logica del profitto, la cui attuazione è accelerata dalla globalizzazione, tende per la sua propria dinamica alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo si caratterizza per il suo carattere illimitato e del suo tentativo di omogeneizzazione del mondo.»

«È quello che il filosofo tedesco esistenzialista Martin Heidegger definì il Gestell. Ora, tra le realtà che possono ostacolare l'espansione planetaria del capitale e la trasformazione della Terra in un immenso mercato omogeneo, ci sono le culture popolari e i modi di vita ben radicati nel territorio.

L'unico modo per restituire al mondo la diversità, che costituisce la sua reale ricchezza, è quello di opporre all'espressione chiave vogliamo "sempre di più!" - che caratterizza un principio fondante della modernità - quella di saper dire, secondo una riflessione critica più audace, ma non meno razionale, ne abbiamo "a sufficienza".»

Quali sono allora le misure che si possono adottare per fermare il treno in corsa e adottare uno stile di vita improntato alla sobrietà?

Risponde de Benoist: «Si tratta di applicare tutto questo atteggiamento critico di cui ho appena parlato. Di non adottare un qualsiasi gadget, solo per il fatto che è nuovo. Di rompere con l'ossessione produttivistica, con la conseguente ossessione della merce o l'idea che "di più" è sinonimo di "meglio".

Si tratta di riconoscere che l'uomo non vive di solo pane. La logica dell'essere non è quella dell'avere e, ancor meno, la qualità non può essere ridotta a quantità.

In modo più ampio, si tratta di "decolonizzare l'immaginario simbolico", come sostiene Serge Latouche, ovvero di non dare più dimora alla convinzione che l'uomo è solo produttore-consumatore, o che l'economia è il fine di ogni cosa. Il valore non può essere sempre abbassato al valore di mercato, o di scambio. I prezzi si negoziano, i valori no. È ora di venir fuori da un mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.»



Bersani, Berlusconi. Tutti superati
di Simone Perotti - Il Fatto Quotidiano - 28 Gennaio 2011

Negli ultimi anni, in Italia, sono emersi solo due personaggi veramente nuovi: Beppe Grillo e Roberto Saviano. Sono figure “politiche” nel senso più etimologico del termine. Due uomini che hanno a che fare con la polis, e a cui gran parte della polis, soprattutto i giovani, attribuisce funzione di guida, cioè leadership.

Entrambi sono emersi parlando, scrivendo, occupando i media e la rete con la denuncia di ciò che sta avvelenando il paese: la cattiva politica, scelte di sviluppo sbagliate, la criminalità organizzata.

Sono diversi per stile, linguaggio, toni, campi d’interesse, provenienza geografica, cultura. Vengono (non a caso) da due città affacciate sul Mar Tirreno: Genova e Napoli. Entrambi catalizzano il calore e la passione delle persone comuni, schifate ed emarginate da questa politica.

Entrambi dichiarano di non volersi candidare alle elezioni. Entrambi hanno generato profondo imbarazzo nell’establishment, e una domanda: sono di destra o di sinistra?

Saviano e Grillo sono due figure ispirate e pragmatiche, specchio dei tempi. Non possono e non vogliono essere collocati politicamente perché non si identificano nel Sistema. Immaginano un mondo diverso, fatto di comportamenti individuali che diventano collettivi e generano una nuova società.

È il fallimento di questo capitalismo ad averli partoriti. Un sistema che non ha prodotto il benessere che prometteva, bensì schiavitù, povertà interiore, debolezza, illegalità, malessere, degrado. Se Grillo e Saviano fossero stati dentro il Sistema avrebbero facilmente trovato una collocazione politica. Ma ne sono fuori.

Il fallimento di questo schema economico e politico ha reso superata la tradizionale differenza tra sinistra e destra.

Finché la sinistra si è ispirata al marxismo, ha effettivamente immaginato principi di vita alternativi a quelli dell’attuale capitalismo.

La destra ha abbracciato la dottrina liberista, che avrebbe dovuto garantire un diffuso e duraturo benessere.

La destra ha vinto
ed è riuscita a imporre, pur con qualche concessione, il suo disegno sociale ed economico, al punto che in tutto il mondo occidentale la sinistra è diventata capitalista e liberista per riuscire a competere.

Oggi assistiamo al totale fallimento di questa visione del mondo, che non crea autentico benessere, depaupera il pianeta, sfrutta i deboli, accentua le divisioni sociali, sostiene il grande leviatano economico ponendo tutti nella passiva condizione di schiavi.

Ecco perché chi immagina un mondo nuovo non può essere né di sinistra né di destra. Le due categorie politiche e i loro esponenti non prefigurano una soluzione alternativa, ma modi “diversi” di gestire la stessa prospettiva economica e sociale.

Quando calano i consumi destra e sinistra si preoccupano. Quando sale il Pil, sinistra e destra cercano di rivendicarne il merito.

Aspetto da anni che un esponente politico proponga una visione nuova. Attendo da anni che qualcuno parli della necessità di investire sulla solidità dell’individuo, sulla sua capacità di scegliere, sulla responsabilità.

Ogni volta che Bersani, Fini, Cameron, Obama o chiunque altro prende in mano il microfono, io spero che annunci una seria e necessaria lotta al consumismo per tornare a una condizione di libertà.

Mi aspetto sempre che qualcuno esponga un programma politico per ridurre la crescita economica, o regolamentare in modo ferreo il sistema finanziario.

Attendo di sentire che si sta facendo qualcosa per arginare l’invadenza del lavoro nelle nostre vite e per incentivare la ridistribuzione della popolazione sul territorio, per abbassare il costo immobiliare e favorire la qualità della vita.

Spero che qualcuno proponga almeno un tetto alle automobili in circolazione, investa decisamente sulle fonti rinnovabili, sostenga l’autoproduzione energetica e quella alimentare, incentivi chi costruisce da sé case e oggetti, e dimostri con chiarezza che crede in un serio e radicale investimento nella cultura, nella scuola, nella ricerca scientifica, nell’università, ma non solo perché “è giusto”, ma per creare cittadini non consumisti, più saldi psicologicamente, in grado di scegliere e di impegnarsi nella costruzione di un proprio mondo in cui sia bello abitare. Qualcosa che, oltre me, potrebbe affascinare le nuove generazioni.

Ma niente. Nessuno mi dice mai queste cose.

Neppure io, dunque, posso essere di sinistra o di destra. Esserlo, oggi, significa accettare un modello socioeconomico fallito.

Perciò preferisco non aderire. E non aderire per me vale come una testimonianza, come una rivolta, serve a negare la mia fiducia a questa politica, a questa superata interpretazione della partecipazione ideologica.

Fate quello che volete, ma non con la mia delega. Non nel mio nome.