domenica 23 gennaio 2011

La crisi economica nel 2011

Una serie di articoli sulle "prospettive" della crisi nel 2011, sulle conseguenze e i possibili rimedi da adottare dopo la sua trasformazione in crollo...


La crisi: ormai una roulette con 5 pallottole nel tamburo
di Conflicts Forum - 23 Gennaio 2011
Traduzione di G. P. per conflittiestrategie.splinder.com.

GEAB n° 51.

Questo numero 51 del GEAB celebra il quinto anniversario della pubblicazione del Global Europe Anticipation Bulletin.

Nel gennaio 2006, in occasione del GEAB N°1, il gruppo di LEAP/E2020 indicava che la fase da quattro a sette anni che si approssimava sarebbe stata caratterizzata “dalla caduta del muro del dollaro, fenomeno simile a quello della caduta del muro di Berlino che negli anni successivi aveva trascinato al crollo il blocco comunista, quindi alla fine dell'URSS.

Oggi, in questo GEAB N°51 che presenta trentadue previsioni per il 2011, riteniamo che l'anno a venire sarà un anno cerniera in questo processo, dispiegandosi dunque tra il 2010 ed il 2013. Sarà in ogni caso un anno impietoso poiché, infatti, segnerà l'entrata del mondo pre-crisi nella fase terminale (1).

Dal settembre 2008, momento in cui l'evidenza della natura globale e sistemica della crisi si è imposta a tutti, gli Stati Uniti, e dietro di loro i paesi occidentali, si sono accontentati di misure palliative che non hanno fatto altro che mascherare gli effetti erosivi della crisi sulle basi del sistema internazionale contemporaneo.

Il 2011, secondo il nostro gruppo, segnerà il momento determinante allorché da una parte queste misure palliative vedono dissolversi il loro effetto anestetizzante mentre, al contrario, emergeranno brutamente in primo piano le conseguenze dello smembramento sistemico di questi ultimi anni (2).

Riassumendo, il 2011 sarà segnato da una serie di chocs violenti che faranno esplodere le false protezioni realizzate dal 2008 (3) e che porteranno via “i pilastri„ sui quali riposa da decenni “il muro dollaro„.

Solo i paesi, Comunità, organizzazioni ed individui che da tre anni hanno realmente tratto una lezione dalla crisi in corso, al fine di allontanarsi il più rapidamente possibile dai modelli, valori e comportamenti pre-crisi, attraverseranno indenni quest'anno; gli altri saranno trascinati nella processione di difficoltà monetarie, finanziarie, economiche, sociali e politiche che il 2011 riserverà.

Così, poiché pensiamo che il 2011 sarà globalmente l'anno più caotico dal 2006, data dell'inizio dei nostri lavori sulla crisi, il nostro gruppo si è concentrato nella GEAB N°51 su 32 previsioni, che comportano anche numerose raccomandazioni per fare fronte agli chocs a venire. Si tratta di una sorta di mappa previsionale delle scosse finanziarie, monetarie, politiche, economiche e sociali per i prossimi dodici mesi quella che offre questo numero del GEAB.

Se il nostro gruppo ritiene che il 2011 sarà l'anno più terribile dal 2006, data dell'inizio del nostro lavoro di previsione della crisi sistemica, è in quanto siamo all'incrocio delle tre strade del caos mondiale. Fallito il trattamento di fondo delle cause della crisi, dal 2008 il mondo non ha fatto che rinculare per saltare meglio.

Un sistema internazionale esangue

La prima strada che la crisi può prendere per generare un caos mondiale, è semplicemente uno choc violento ed imprevedibile. La rovina del sistema internazionale ormai è in stato così avanzato che la sua coesione è alla mercé di catastrofi di qualsiasi portata (4).

Basta vedere l'incapacità della Comunità internazionale di aiutare efficacemente da un anno Haiti (5), gli Stati Uniti di ricostruire New Orleans da sei anni, l' ONU di regolare i problemi del Darfour e della Costa d' Avorio da un decennio, gli Stati Uniti di fare avanzare la pace nel Vicino-Oriente, la NATO di battere i taliban in Afganistan, il Consiglio di sicurezza di controllare le questioni coreane ed iraniane, l' Occidente di stabilizzare il Libano, il G20 di porre fine alla crisi mondiale finanziaria, alimentare, economica, sociale, monetaria,… per constatare che sull'insieme della gamma delle catastrofi climatiche ed umanitarie, come crisi economiche e sociali, il sistema internazionale è ormai impotente.

In realtà, almeno dalla metà degli anni 2000, l'insieme dei grandi attori mondiali, ai primi posti dei quali si trovano naturalmente gli Stati Uniti e il suo corteggio di paesi occidentali, fa soltanto propaganda, gesticolazione. Nella realtà, non va più nulla: la pallina delle crisi gira e ciascuno trattiene il respiro affinché essa non cada nella sua casella.

Ma gradualmente la moltiplicazione dei rischi e dei temi di crisi ha trasformato la roulette da casinò in roulette russa. Per LEAP/E2020, il mondo intero inizia a giocare alla roulette russa (6), o piuttosto alla sua versione 2011 “la roulette americana„, con cinque pallottole nel tamburo.

L' innalzamento dei prezzi delle materie prime (alimentari, energetici (7),…) ci ricorda il 2008 (8).

E' infatti nel semestre che precedette il crollo di Lehman Brothers e di Wall Street che si è situato l'ultimo episodio di forti aumenti dei prezzi delle materie prime. E le cause attuali sono della stessa natura di quelle di ieri: una fuga dagli attivi finanziari e monetari a favore di sistemazioni “concrete„.

Ieri i grandi operatori fuggivano i crediti ipotecari e tutto ciò che ne dipendeva come il dollaro US; oggi fuggono l'insieme dei valori finanziari ed i buoni del tesoro (C) ed altri debiti pubblici.

Occorre dunque aspettarsi, tra la primavera 2011 e l'autunno 201,1 l'esplosione della bolla quadrupla dei buoni del tesoro, dei debiti pubblici (10), dei bilanci bancari (11) e del settore immobiliare (americano, cinese, britannico, spagnolo,… e commerciale (12)); tutto ciò si svolge sul fondo di guerra monetaria esacerbata (13).

L' inflazione indotta dal Quantitative Easing americano, britannico e giapponese e le misure d'incentivazione degli stessi, degli europei e dei cinesi sarà uno dei fattori destabilizzanti del 2011 (14).

Ci ritorneremo nei particolari in questo GEAB N°51. Ma, quel che è evidente osservando ciò che avviene in Tunisia (15), il contesto mondiale, in particolare l'aumento dei prezzi delle derrate e dell'energia, sfocerà d'ora in poi in chocs sociali e politici radicali (16).

L' altra realtà che rivela il caso tunisino, è l'impotenza “dei padrini„ francesi, italiani o americani di impedire il crollo di “un regime-amico„ (17).

Impotenza dei principali attori geopolitici mondiali

E quest'impotenza dei principali attori geopolitici mondiali è l'altra strada che la crisi può utilizzare per generare un caos mondiale nel 2011. Infatti, si possono classificare le principali potenze del G20 in due gruppi tra cui il solo punto in comune è che non riescono ad influenzare gli eventi in modo decisivo.

Da un lato c'è l' Occidente moribondo con, da una parte, gli Stati Uniti, di cui il 2011 dimostrerà che la sua leadership è solo un romanzo (vedere in questo GEAB N°51) e che essi tentano di solidificare tutto il sistema internazionale nella sua configurazione dell'inizio degli anni 2000 (18); e poi c'è l' Eurolandia, “sovrana„ in gestazione che principalmente è concentrata sul suo adattamento al suo nuovo ambiente (19) ed sul suo nuovo statuto d'entità geopolitica emergente (20), e che non ha dunque né la forza, né la visione necessaria per pesare sugli eventi mondiali (21).

E dall'altro lato, si trovano i BRIC (con in particolare la Cina e la Russia) che si dimostrano incapaci per il momento di prendere il controllo completo o parziale del sistema internazionale e la cui sola azione si limita dunque a scalzare con discrezione ciò che resta della basi dell'ordine pre-crisi (22).

Alla fine, c' è pertanto un'impotenza che si generalizza (23) a livello della Comunità internazionale, che rafforza non soltanto il rischio di chocs principali, ma anche l'importanza delle conseguenze di questi chocs.

Il mondo del 2008 è stato preso di sorpresa dallo choc violento della crisi, ma il sistema internazionale era paradossalmente meglio fornito per reagire poiché organizzato intorno ad un leader incontestato (24).

Nel 2011 non sarà così: non soltanto non c'è un leader incontestato, ma il sistema è esangue come si è detto in precedenza. E la situazione è ancora peggiorata dal fatto che le società di un grande numero di paesi del pianeta sono sul precipizio della caduta socioeconomica.

Società sul precipizio della caduta socioeconomica

E' in particolare il caso di Stati Uniti ed Europa dove tre anni di crisi iniziano a pesare molto nella bilancia socioeconomica, e dunque politica. Le famiglie americane ormai insolventi per decine di milioni oscillano tra povertà subita (25) e collera anti-sistema.

I cittadini europei, incastrati tra disoccupazione e smantellamento dello Stato-provvidenza (26), iniziano a rifiutare di pagare le aggiunte delle crisi finanziarie e di bilancio ed intraprendere la ricerca dei colpevoli (banche, euro, partiti politici di governo,…).

Ma anche fra le potenze emergenti, la transizione violenta costituita dalla crisi, conduce tali società verso situazioni di rottura: in Cina, la necessità di controllare le bolle finanziarie in progressione confligge col desiderio d'arricchimento di settori interi della società come col bisogno di occupazione di decine di milioni di lavoratori precari; in Russia, la debolezza della rete sociale si adatta male all'arricchimento delle élite, come anche nell'Algeria agitata da sommosse.

In Turchia, in Brasile, in India, ovunque la transizione rapida conosciuta da questi paesi determina sommosse, proteste, attentati. Per ragioni a volte paradossali, sviluppo per le une, impoverimento per le altre, un po' dovunque sul pianeta le nostre varie società abbordano il 2011 in un contesto di forti tensioni, di rotture socioeconomiche, trasformandosi polveriere politiche. E' la sua posizione all'incrocio di queste tre strade che fa del 2011 un anno impietoso.

E impietoso lo sarà per gli Stati (e le Comunità locali) che hanno scelto non di trarre le difficili lezioni dai tre anni di crisi che sono seguiti e/o che si sono accontentati di cambiamenti cosmetici che non hanno modificato in nulla i loro squilibri fondamentali.

Lo sarà anche per le imprese (e per gli Stati (27)) che hanno creduto che la schiarita del 2010 fosse il segno di un ritorno “alla normalità„ dell'economia mondiale. E infine lo sarà per gli investitori che non hanno capito che i valori di ieri (titoli, valute,….) non potevano essere quelle di domani (in ogni caso per molti anni).

La Storia è generalmente una “buona figlia„. Dà spesso un colpo di ammonimento prima di spazzare il passato. Questa volta, ha dato il colpo di ammonimento nel 2008. Riteniamo che nel 2011, darà il colpo di spazzola. Solo gli attori che hanno intrapreso, forse laboriosamente, forse parzialmente, l'adattamento alle nuove condizioni generate dalla crisi potranno resistere; per gli altri il caos è la fine della strada.

Notes:

(1) Ou du monde tel qu'on le connaît depuis 1945 pour reprendre notre description de 2006.

(2) La récente décision du ministère du Travail américain d'étendre à cinq ans la mesure du chômage de longue durée dans les statistiques de l'emploi US, au lieu du maximum de deux ans jusqu'à maintenant, est un bon indicateur de l'entrée dans une étape nouvelle de la crise, une étape qui voit disparaître les « habitudes » du monde d'avant. D'ailleurs, le gouvernement américain cite « la montée sans précédent » du chômage de longue durée pour justifier cette décision. Source : The Hill
, 28/12/2010

(3) Ces mesures (monétaires, financières, économiques, budgétaires, stratégiques) sont désormais étroitement connectées. C'est pourquoi elles seront emportées dans une série de chocs successifs.

(4) Source :
The Independent, 13/01/2011

(5) C'est même pire puisque c'est l'aide internationale qui a apporté le choléra dans l'île, faisant des milliers de morts.

(6) D'ailleurs Timothy Geithner, le ministre américain des Finances, peu connu pour son imagination débordante, vient d'indiquer que « le gouvernement américain pouvait avoir à nouveau à faire des choses exceptionnelles », en référence au plan de sauvetage des banques de 2008. Source :
MarketWatch, 13/01/2011

(7) D'ailleurs l'Inde et l'Iran sont en train de préparer un système d'échange « or contre pétrole » pour tenter d'éviter des ruptures d'approvisionnement. Source :
Times of India, 08/01/2011

(8) L'indice FAO des prix alimentaires vient de dépasser en Janvier 2011 (à 215) son précédent record de Mai 2008 (à 214).

(9) Les banques de Wall Street se débarrassent actuellement à très grande vitesse (sans équivalent depuis 2004) de leurs Bons du Trésor US. Leur explication officielle est « l'amélioration remarquable de l'économie US qui ne justifie plus de se réfugier sur les Bons du Trésor ». Bien entendu, vous êtes libres de les croire comme le fait le journaliste de
Bloomberg du 10/01/2011.

(10) Ainsi l'Euroland avance déjà à grand pas sur le chemin décrit dans le GEAB N°50 d'une décote en cas de refinancement des dettes d'un Etat-membre ; tandis que désormais les dettes japonaise et américaine s'apprêtent à entrer dans la tourmente. Sources :
Bloomberg, 07/01/2011 ; Telegraph, 05/01/2011

(11) Nous estimons que d'une manière générale les bilans des grandes banques mondiales contiennent au moins 50% d'actifs-fantômes dont l'année à venir va imposer une décote de 20% à 40% du fait du retour de la récession mondiale avec l'austérité, de la montée des défauts sur les prêts des ménages, des entreprises, des collectivités, des Etats, des guerres monétaires et de la reprise de la chute de l'immobilier. Les « stress-tests » américain, européen, chinois, japonais ou autres peuvent toujours continuer à tenter de rassurer les marchés avec des scénarios «
Bisounours » sauf que cette année c'est « Alien contre Predator » qui est au programme des banques. Source : Forbes, 12/01/2011

(12) Chacun de ces marchés immobiliers va encore fortement baisser en 2011 pour ceux qui ont déjà entamer leur chute ces dernières années, ou dans le cas chinois, va entamer son dégonflement brutal sur fond de ralentissement économique et de rigueur monétaire.

(13) L'économie japonaise est d'ailleurs l'une des premières victimes de cette guerre des monnaies, avec 76% des chefs d'entreprises des 110 grandes sociétés nippones sondées par Kyodo News se déclarant désormais pessimistes pour la croissance japonaise en 2011 suite à la hausse du Yen. Source :
JapanTimes, 04/01/2011

(14) Voici quelques exemples édifiants rassemblés par l'excellent John Rubino. Source :
DollarCollapse, 08/01/2011

(15) Pour rappel, dans le
GEAB N°48, du 15/10/2010, nous avions classé la Tunisie dans les « pays à risques importants » pour 2011.

(16) Nul doute d'ailleurs que l'exemple tunisien génère une salve de réévaluation parmi les agences de notation et les « experts en géopolitiques » qui, comme d'habitude, n'ont rien vu venir. Le cas tunisien illustre également le fait que ce sont désormais les pays satellites de l'Occident en général, et des Etats-Unis en particulier, qui sont sur le chemin des chocs de 2011 et des années à venir. Et il confirme ce que nous répétons régulièrement, une crise accélère tous les processus historiques. Le régime Ben Ali, vieux de vingt-trois ans, s'est effondré en quelques semaines. Quand l'obsolescence politique est là, tout bascule vite. Or c'est l'ensemble des régimes arabes pro-occidentaux qui est désormais obsolète à l'aune des évènements de Tunisie.

(17) Nul doute que cette paralysie des « parrains occidentaux » va être soigneusement analysée à Rabat, au Caire, à Djeddah et Amman par exemple.

(18) Configuration qui leur était la plus favorable puisque sans contrepoids à leur influence.

(19) Nous y revenons plus en détail dans ce numéro du GEAB, mais vu de Chine, on ne s'y trompe pas. Source :
Xinhua, 02/01/2011

(20) Petit à petit les Européens découvrent qu'ils sont dépendants d'autres centres de pouvoir que Washington. Pékin, Moscou, Brasilia, New Delhi, … entrent très lentement dans le paysage des partenaires essentiels. Source :
La Tribune, 05/01/2011 ; Libération, 24/12/2010 ; El Pais, 05/01/2011

(21) Toute l'énergie du Japon est concentrée sur sa tentative désespérée de résister à l'attraction chinoise. Quant aux autres pays occidentaux, ils ne sont pas en mesure d'influer significativement sur les tendances mondiales.

(22) La place du Dollar US dans le système mondial fait partie de ces derniers fondements que les BRIC érodent activement jour après jour.

(23) En matière de déficit, le cas américain est exemplaire. Au-delà du discours, tout continue comme avant la crise avec un déficit en gonflement exponentiel. Pourtant même le FMI tire désormais la sonnette d'alarme. Source :
Reuters, 08/01/2011

(24) D'ailleurs même le
Wall Street Journal du 12/01/2011, se faisant l'écho du Forum de Davos, s'inquiète de l'absence de coordination internationale, qui est en soi un risque majeur pour l'économie mondiale.

(25) Des millions d'Américains découvrent les banques alimentaires pour la première fois de leur vie, tandis qu'en Californie, comme dans de nombreux autres états, le système éducatif se désagrège rapidement. En Illinois, les études sur le déficit de l'Etat le comparent désormais au Titanic. 2010 bat le record des saisies immobilières. Sources :
Alternet, 27/12/2010 ; CNN, 08/01/2011 ; IGPA-Illinois, 01/2011 ; LADailyNews, 13/01/2011

(26) L'Irlande qui est face à une reconstruction pure et simple de son économie est un bon exemple de situations à venir. Mais même l'Allemagne, aux résultats économiques pourtant remarquables actuellement, n'échappe pas à cette évolution comme le montre la crise du financement des activités culturelles. Tandis qu'au Royaume-Uni, des millions de retraités voient leurs revenus amputés pour la troisième année consécutive. Sources :
Irish Times, 31/12/2010 ; Deutsche Welle, 03/01/2011 ; Telegraph, 13/01/2011

(27) A ce sujet, les dirigeants américains confirment qu'ils foncent tout droit dans le mur des dettes publiques, faute d'anticiper les difficultés. En effet la récente déclaration de Ben Bernanke, le patron de la FED, dans laquelle il affirme que la Fed n'aidera pas les Etats (30% de baisse des revenus fiscaux en 2009 d'après le
Washington Post du 05/01/2011) et les villes qui croulent sous les dettes, tout comme la décision du Congrès d'arrêter l'émission des « Build American Bonds » qui ont évité aux Etats de faire faillite ces deux dernières années, illustrent un aveuglement de Washington qui n'a d'équivalent que celui dont Washington a fait preuve en 2007/2008 face à la montée des conséquences de la crise des « subprimes ». Sources : Bloomberg, 07/01/2011 ; WashingtonBlog

L'Irlanda comincia a stampare Euro
di Manuel Llamas - www.libertaddigital.com - 18 Gennaio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Mario Sei

Con l'autorizzazione della BCE, la Banca Centrale irlandese, eludendo i meccanismi ordinari, ha stampato più di 40.000 milioni negli ultimi mesi, il 25% del suo PIL.

Sta succedendo qualcosa d'insolito nell'Unione Monetaria. La Banca Centrale irlandese sta stampando denaro per facilitare linee di credito (prestiti a breve termine) che mantengano in piedi il suo sistema finanziario.

Da settimane, l'organismo monetario offre liquidità alle banche del paese, eludendo i meccanismi tradizionali per questo tipo di operazioni dell'Unione Monetaria, attraverso cioè la Banca Centrale Europea (BCE).

Il programma chiamato "emergency liquidity assistance" permette alla Banca Centrale Irlandese di iniettare denaro senza passare per la BCE. Così, sotto l'epigrafe "other assets" (altri attivi), l'organismo ha prestato al sistema finanziario nazionale un totale di 51.094 milioni di euro alla fine del 2010, con un incremento di 40.000 milioni di euro nei soli ultimi tre mesi.

Questo significa stampare in denaro l'equivalente del 25% del PIB irlandese, stimato in circa 160.000 milioni di euro, una cifra iniettata direttamente dalla Banca Centrale nel suo sistema attraverso la concessione di prestiti "d'emergenza" al proprio sistema bancario in cambio di attivi-spazzatura che, in teoria, dovrebbero servire da garanzia.

In realtà, questi crediti non sono né coperti da Buoni di Stato né si tratta di prestiti della BCE, ma un'iniezione diretta della Banca Centrale d'Irlanda.

L'Irlanda agisce comunque con l'autorizzazione della BCE. Un portavoce dell'organismo monetario europeo ha ammesso, in effetti, che la Banca Centrale d'Irlanda sta creando il denaro necessario da prestare alla propria banca, eludendo il tradizionale finanziamento che concede l'organismo presieduto da Jean Claude Trichet.

In pratica, ha riferito il portavoce, l'organismo irlandese può creare i propri fondi, se lo considera necessario, a condizione di notificarlo alla BCE.

L'Irlanda stampa denaro

Secondo fonti interne alla BCE si tratta di somme irrilevanti, "senza importanza sistemica". Una strana affermazione, se si considera che valutando in prospettiva i 40.000 nuovamente creati, l'Irlanda ha stampato in soli tre mesi l'equivalente di 3,5 bilioni di dollari negli Stati Uniti per conto della Riserva Federale (FED).

La Banca Centrale d'Irlanda sostituisce così in parte il finanziamento straordinario che presta da tempo la BCE alle banche della zona euro con un interesse dell'1% in cambio di una serie di attivi di qualità come garanzia di tali crediti.

Il problema delle banche irlandesi, tuttavia, è che il volume degli attivi sani, capaci cioè di essere presentati come garanzie accettabili alla BCE, si è ridotto drasticamente.

In realtà, il recupero dell'Irlanda precipitò esattamente per questa situazione, poiché fu proprio la BCE che pretese la richiesta d'aiuto da parte di Dublino, dopo essersi mostrata reticente ad accettare ulteriormente il suo debito.

Il finanziamento della BCE

Per la prima volta nella sua storia, la BCE è stata così obbligata ad aumentare il proprio capitale, in seguito al peggioramento del suo bilancio dopo aver accettato degli attivi di dubbia qualità per prestare denaro (debito pubblico dei PIIGS, e specialmente Irlanda e Grecia, il cui rating è stato valutato a livello di buoni-spazzatura).

I prestiti della BCE alla Banca d'Irlanda passarono dai 95.000 milioni di euro dell'agosto scorso al record di 136.000 milioni di novembre, nel momento della crisi irlandese. Stranamente, per la prima volta dal gennaio 2010, il dicembre scorso il finanziamento della BCE scese a 132 milioni (4000 in meno rispetto a novembre).

In realtà questa riduzione è stata più che compensata dalla linea "d'emergenza" della Banca Centrale d'Irlanda che, infatti, aumentò di 6400 milioni nel mese di dicembre, per un totale di 51.000 milioni di euro.

In questo modo, se al debito di 132.000 milioni che accumula il sistema bancario irlandese con la Bce si sommano i 51.000 milioni della Banca Centrale d'Irlanda, risulta che il sistema finanziario celta si sostiene sull'aria, grazie a una liquidità straordinaria di 183.000 milioni di euro, ciò che equivale al 110% del PIB irlandese.

Fuga dei capitali

Questi crediti si stanno usando per permettere alle banche irlandesi di pagare i loro creditori (evitando così la bancarotta) e compensare, nello stesso tempo, la drastica fuga di capitali che sta soffrendo da mesi il sistema.

Solo nel mese di novembre, per esempio, si stima che il totale dei capitali ritirati dalle banche raggiunse i 27.000 milioni di euro (il 5,4% del totale). Il volume totale dei depositi è diminuito annualmente di un 15, 1%, mentre quello dei non residenti si è ridotto del 28,6%. Questa tendenza non ha smesso d'aggravarsi.


"Questa è una storia dell'orrore: mostra lo stato catastrofico del sistema bancario irlandese", ha dichiarato Tim Congdon dell'International Monetary Research "Le banche hanno chiesto un prestito totale di 183.000 milioni, cioè il 110% del PIB; hanno bruciato il proprio capitale e una buona parte dei depositi: tutto questo si accumulerà sul debito nazionale."

La BCE, e ora anche la Banca Centrale d'Irlanda, prestano soldi alle banche irlandesi in cambio di attivi che nessuno vuole, prova inequivocabile che il sistema è fallito e che le perdite ricadranno sul contribuente irlandese, e anche europeo.

Altra questione è quella della pressione inflazionista che si potrebbe generare nella zona euro se questa stampa artificiale di denaro da parte della Banca Centrale d'Irlanda si estendesse ad altri paesi.

L'Irlanda, inoltre, che sta vivendo una profonda crisi politica , ha sollecitato a Bruxelles una riduzione dell'interesse richiesto dall'UE e dall'FMI per pagare il riscatto del paese. Brian Lanihan, ministro delle finanze, ha dichiarato che chiederà ufficialmente questa riduzione. Secondo Dublino, l'interesse del 5,8% fissato per l'Irlanda è troppo alto.

Il ministro vuole infatti "negoziare un miglioramento del tipo di interesse" per migliorare le condizione accordate al riscatto.


Un'economia a misura di ribelle
di Federico Zamboni - www.ilribelle.com - 10 Gennaio 2011

Il libero mercato è il grande alibi del Potere.
Il denaro è il suo strumento fondamentale.
Il lavoro la sua arma di ricatto. La risposta è dare vita a circuiti alternativi e autogestiti


Siamo sotto assedio: assai più che negli scorsi decenni ciascuno di noi, privati cittadini estranei all’establishment economico e politico, è sottoposto a un attacco sistematico che mina i fondamenti stessi della sua vita nella società contemporanea.

La si potrebbe definire sinteticamente “la strategia Marchionne”, se non fosse che in questo modo si rischia di scaricare su un singolo soggetto, e su una singola impresa, la responsabilità di un fenomeno assai più ampio e coerente.

A rigore, anzi, è persino sbagliato parlare di fenomeno, nel senso di qualcosa che si manifesta nella realtà ma le cui ragioni sono ancora tutte da indagare.

In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte alle prime manifestazioni concrete, e inequivocabili, di un disegno che non solo ha dimensioni molto più vaste ma che soprattutto poggia su una logica tanto precisa quanto incrollabile: l’uso del lavoro dipendente come suprema arma di ricatto, e quindi di asservimento, nei confronti della popolazione.

Il ragionamento è elementare. Eppure merita di essere esplicitato, in modo da essere certi di condividerlo. L’unica cosa alla quale è impossibile rinunciare, oggi, è una fonte di reddito che assicuri almeno la copertura dei bisogni fondamentali; e quella fonte di reddito non può che essere, nella stragrande maggioranza dei casi, il proprio lavoro, solitamente al servizio di altri.

Quello che dovrebbe essere un diritto, connaturato al proprio status di cittadini e all’aspirazione naturale a diventare parte attiva della comunità cui si appartiene, si tramuta in una sorta di privilegio, che verrà concesso solo a chi darà prova di meritarselo.

Non solo e non tanto per il suo apporto professionale, quanto per la sua totale sottomissione al datore di lavoro. E, per estensione, agli interessi e ai diktat dei potentati che stanno ancora più in alto.

Apparentemente si sottoscrive un contratto di lavoro. Nei fatti si formula una promessa di fedeltà. Il suddito si inchina al suo Signore. Il Signore, bontà sua, gli consente di servirlo.

Oltre che elementare il ragionamento è spietato, ma questo può sorprendere solo gli ingenui: secondo i tipici dettami dell’iperliberismo, che non esita a sacrificare qualsiasi principio etico al conseguimento del massimo profitto, le condizioni di vita delle persone vengono prese in esame soltanto per le ripercussioni che provocano sui processi economici. Gli individui, per così dire, sono un male necessario.

La cui esistenza si giustifica esclusivamente in base a certe necessità di funzionamento del ciclo di produzione e consumo. Un ciclo che in qualche misura li presuppone, ma che al tempo stesso li trascende.

Il loro, per dirla in termini tecnici, è un “valore d’uso”. Ed essendo visti come parti di un meccanismo, anziché come esseri umani da rispettare in quanto tali, e da aiutare nello sviluppo delle proprie attitudini migliori, l’ulteriore conseguenza è la loro sostanziale intercambiabilità.

Da cui discende, tra l’altro, l’assoluta disinvoltura con cui si procede alle delocalizzazioni: all’imprenditore che sposta gli impianti all’estero non interessa affatto il danno che subiranno i suoi concittadini, ma solo il vantaggio aziendale che gliene può derivare.

In una nazione degna di tal nome verrebbe perseguito penalmente per condotta antisociale o, quanto meno, privato della cittadinanza; nelle finte nazioni di oggi lo si considera del tutto normale: e anzi, come dimostrano proprio le recenti vicende della Fiat, ci si interroga su come fare per convincerlo a riservare un po’ di lavoro ai suoi connazionali.

Un autentico paradosso: nello stesso momento in cui i rapporti si irrigidiscono a senso unico, smantellando i contratti collettivi e riducendo al minimo le tutele normative (fino a mettere in discussione il delicatissimo e irrinunciabile settore della sicurezza 1), la sopraffazione indossa la maschera della generosità.

Non solo si rimuove l’idea di sfruttamento, ma la si rovescia nel suo esatto opposto. Il padrone è un benefattore. Il lavoratore è il suo beneficato.

Lo stipendio è una via di mezzo tra il compenso dovuto e una regalia, dispensata da qualcuno che in fondo, e in qualsiasi momento, potrebbe decidere di sbaraccare tutto e andarsene chissà dove. A “beneficare” qualcun altro.

Chi vende e chi compra

Nelle società occidentali è più difficile rendersene conto, visto che le dinamiche sono spezzettate a tal punto che non tutti riescono a coglierne l’intima interconnessione, ma a ben vedere succede qualcosa di molto simile a ciò che raccontava John Steinbeck in Furore. Costretta a lasciare l’Oklahoma negli anni della Grande Depressione, la famiglia Joad finisce in California e si mette a lavorare per dei latifondisti locali.

I quali, non contenti di pagare dei salari da fame e di speculare così sull’enorme offerta di manodopera, pensano bene di completare l’opera inducendo i braccianti ad alloggiare sulle loro terre, ovviamente in baracche da quattro soldi, e a rifornirsi presso un emporio ubicato anch’esso in prossimità dei campi coltivati e, guarda un po’, di proprietà degli stessi possidenti terrieri.

Un circolo vizioso, a suo modo perfetto. Il lavoro è sottopagato, il cibo e tutto il resto sono costosi. Le occasioni di profitto raddoppiano. Prima si lucra sulla retribuzione, ovvero su ciò che si acquista, poi sui prezzi delle merci, ovvero su ciò che si vende. Il povero resta povero sia perché guadagna poco, sia perché spende troppo.

Il povero è in trappola. Se non soggiace alla schiavitù perde i mezzi di sussistenza. Se china la testa riesce a sopravvivere, sempre che le privazioni non lo schiantino, ma non ha più nessuna scelta. E quindi nessuna autonomia.

Cambiato quel che va cambiato, la situazione attuale è analoga. Il cittadino medio viene spremuto una prima volta sul posto di lavoro, e una seconda nel momento in cui deve procurarsi i beni e i servizi, ivi inclusi gli eventuali finanziamenti bancari, di cui ha bisogno.

O di cui crede di avere bisogno, per effetto di quell’ulteriore forma di manipolazione e di asservimento che è costituita dai bisogni indotti.

In altre parole, egli è vittima di una sorta di intermediazione coatta. È come portare la farina al proprietario del mulino e poi comprare il pane da lui. Peccato che la farina si sia costretti a cederla a basso prezzo, mentre il pane lo si paga a peso d’oro.

Questa intermediazione obbligata, di cui non si parla mai e che comunque verrebbe spiegata come l’esito naturale della libera iniziativa e della conseguente divisione dei ruoli, implica la perdita di qualunque controllo sull’organizzazione complessiva.

E, dunque, il venir meno di ogni possibilità di sottrarsi alle iniquità che ne scaturiscono. Non solo ci si indebolisce, nello sforzo interminabile di cavarsela e, tutt’al più, di salire qualche gradino sulla scala del benessere.

Quel che è peggio, si contribuisce a rendere sempre più forti le oligarchie che tirano i fili, diventandone di fatto i fiancheggiatori, i solerti esecutori, i complici magari involontari ma ugualmente affidabili.

La via d’uscita

Non è ancora un progetto operativo, se non in minima parte. Non lo è perché, per essere messo in pratica e cominciare a produrre i suoi effetti, richiede un numero di persone molto più alto di quelle che leggono abitualmente il Ribelle e ne condividono le istanze.

Inoltre, ognuno dei diversi gruppi dovrebbe essere concentrato in una stessa zona, in modo che gli aderenti possano interagire tra loro in modo assiduo e sistematico. Dando vita, così, a una rete di relazioni economiche – anche economiche – che tendano all’autosufficienza.

Se questo è l’obiettivo finale, che è bene fissare più per sapere dove si sta andando che non per illudersi di poter completare il percorso, alcuni passi si possono muovere immediatamente. O almeno tenersi pronti a farlo, come se ci si stesse preparando a un viaggio (una migrazione) che avrà inizio non appena le condizioni generali lo permetteranno.

Proprio come in un viaggio, quindi, i primi atti da compiere riguardano i preliminari. Uno, studiare attentamente le mappe. Due, pianificare la parte logistica. Tre, last but not least, predisporsi mentalmente ad affrontare quello che ci aspetta, immaginando le difficoltà che si incontreranno e le possibili soluzioni.

Fuor di metafora, le mappe sono quelle della realtà economica circostante, a livello sia macro che micro. La logistica riguarda i mezzi materiali e le persone su cui possiamo contare.

Lo scopo del viaggio è uscire dal circolo vizioso di cui si è detto: invece di immettere tutti i nostri atti economici nei circuiti già esistenti, pagando pegno alle loro sperequazioni strutturali, vanno creati dei circuiti alternativi che si basino su altri principi e che mirino ad altri risultati, in antitesi alle speculazioni di grande e di piccolo cabotaggio che ormai sono la regola in qualsiasi attività.

Una prima ipotesi, per iniziare da qualcosa che dipende solo da noi, è quella di supplire alla carenza di denaro con prestazioni gratuite reciproche.

Beninteso: non in una logica di scambio “uno a uno”, che altrimenti non farebbe che riprodurre lo stesso approccio utilitaristico delle normali transazioni economiche, ma in una prospettiva di supporto disinteressato e amichevole in cui il vero motore è la solidarietà.

O, piuttosto, il piacere, tipico della gratuità, di fare delle cose insieme per il gusto di farle. Ti serve una mano? Se posso te la do. Se e quando le posizioni si dovessero rovesciare spero che tu possa fare altrettanto.

Non per risparmiare sulla spesa che dovrei sostenere per acquisire la collaborazione di uno sconosciuto, ma per continuare a trasformare l’esistenza occhiuta dell’ometto liberale nella vita generosa dell’uomo libero.

A molti può sembrare pura utopia, ma è solo perché sono talmente impregnati di una visione economicistica da trovare impensabile ciò che dovrebbe essere del tutto normale. E che in fondo sopravvive, anche se confinato nella dimensione sempre più ristretta dei rapporti amicali. O famigliari, se la famiglia ha conservato qualcosa di sano.

Viceversa, questo tipo di slancio andrebbe recuperato non solo nella sfera del tempo libero ma anche in quella lavorativa. La verità, semmai la si fosse dimenticata, è semplice e gratificante: tra persone leali, e non obnubilate dalla smania di guadagnare di più e di fare carriera a ogni costo, si collabora meglio.

Ci si parla con franchezza. Ci si libera di quel sottofondo di competizione, e di antagonismo, che avvelena tanti ambienti di lavoro, inducendo tutti a stare in guardia e a condividere solo lo stretto indispensabile, nel timore che i “colleghi” se ne possano servire in modo scorretto.

È un po’ come con la decrescita: sta diventando una necessità, ma dovrebbe essere innanzitutto una scelta. Recuperare forme di organizzazione economica differenti, come le vere cooperative e le vere Casse di risparmio, è sempre di più una risposta obbligata, in tempi di crescente disoccupazione e di finanza speculativa.

Ma dovrebbe essere un’affermazione totalmente libera, degna di chi non si ribella al sistema attuale perché è escluso da certi privilegi ma perché quei privilegi li rifiuta. Non è solo che li trova iniqui e quindi sbagliati. È che non sa cosa farsene.


Note:

1) Il 25 agosto 2010 il ministro Tremonti ha dichiarato che «robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l’Unione europea e l’Italia che si devono adeguare al mondo». In seguito si è corretto sostenendo che il suo vero bersaglio erano i controlli eccessivi e di stampo burocratico, mentre la sicurezza sul lavoro rimane «una conquista irrinunciabile della civiltà occidentale».


La crisi e il crollo
di Stefano D’Andrea - www.appelloalpopolo.it - 19 Gennaio 2011

La crisi è incertezza. Il crollo è certezza. Non si deve confondere la crisi con il crollo. Con il crollo la crisi termina. Il crollo è la fine della crisi, l’avvento della certezza in luogo dell’incertezza.

La crisi è incertezza, il persistere degli scricchiolii, la diffusione lenta dei suicidi, la tristezza, il ragionare morboso sulla crisi medesima, il timore del crollo o che comunque il futuro non sarà più come il passato.

Per i detentori di capitale, la crisi è il dubbio se sia valso la pena lavorare e reinvestire tanto; dubbio che si insinua perché il capitale accumulato e investito continua a svalutarsi.

Avviamenti, know-how, marchi, brevetti, impianti, immobili, scorte, azioni, obbligazioni, quote di società; (quasi) tutto vale meno o potrebbe valere molto di meno già domani. La crisi è una lenta svalutazione complessiva del capitale e comunque il dubbio che esso possa subire da un momento all’altro una forte svalutazione.

Per i lavoratori subordinati, la crisi è timore di perdere il posto e con esso, eventualmente, la casa e persino gli affetti; timore di non ritrovare un’occupazione; timore di non essere in grado di offrire, magari lavorando in nero, le proprie energie psico-fisiche per un reddito di sussistenza (cibo e calore) e terrore di non essere in grado di autoprodurre quanto necessita alla sussistenza.

La crisi è paura, delusione e depressione. Per liberi professionisti e artigiani la crisi significa diminuzione o mancanza di incarichi, difficoltà e/o impossibilità di farsi pagare, sovente lavorare nel dubbio che il credito non sarà mai riscosso. Per tutti, salvo i molto ricchi e gli imbecilli, la crisi, come incertezza sul futuro, è parsimonia, accortezza, lenta riduzione dei consumi.

Che certezza sopravviene con il crollo? La certezza della fame per alcuni; della violenza e della mancanza di sicurezza per tutti. La certezza del ritorno nella loro patria di molti extracomunitari, dell’aumento notevole del lavoro fisico, della riduzione enorme delle imprese che forniscono “servizi”, della rinascita di mercati locali. La certezza che moltissimi diranno: “mi devo rimboccare le maniche”.

Se poi crolla anche la moneta – e dico crolla, non perde significativamente di valore – divengono certi anche disintegrazione di alcuni Stati, per implosione o secessioni, mutamenti di regimi monetari e politici, nonché guerre, civili e tra Stati.

E si organizzano rapidamente economie nazionali, attraverso vincoli anche rigidissimi alla libera circolazione delle merci, dei capitali e del lavoro.

Il crollo comporta anche la certezza della nascita o del risorgimento di idee e movimenti radicali, nonché di rivolgimenti geopolitici. Diverrebbero diffuse parole d’ordine oggi fatte proprie da sparute minoranze: mai più organizzare la nostra vita in funzione della crescita infinità!

Mai più lasciare la nostra vita in balia delle forze del mercato! L’autosufficienza alimentare dovrà essere un valore irrinunciabile, perché abbiamo constatato che, in caso di crollo, senza di essa si ha morte e violenza!

Mai più emanare leggi che valorizzano il capitale messo a rendita o il grande capitale che riduce a lavoratori dipendenti anche coloro che un tempo non lo erano!

Mai più affidare le nostre vite alla “libera” competizione globale tra capitali svincolati dall’appartenenza alle nazioni e tra nazioni!

Mai più consentire alla Banca centrale (oggi europea) di essere competente a promuovere leggi (europee)! E così via

Il crollo è certezza della sofferenza ma anche certezza che rinasca la speranza. Tanto maggiore è la sofferenza, tanto più alta è la speranza. E siccome viviamo in tempi nichilistici, caratterizzati dall’assenza di speranza, si deve convenire che il crollo recherebbe con sé anche un valore altamente positivo: la speranza. Vi sarebbe nuova speranza. La speranza di un futuro diverso dal passato.

Questa speranza, che è speranza collettiva, è intimamente legata al crollo. Senza il crollo la speranza è debole; è speranza di alcuni; è rinchiusa nella rete (di internet); può aspirare, al più, a coagulare le poche forze resistenti in un progetto alternativo che al sistema appare (ed effettivamente è) innocuo.

Il crollo abbatte le ideologie dominanti; le sgretola; le disintegra; le smentisce e le seppellisce, fino a quando esse non riemergeranno a distanza di decenni – le idee, infatti, non muoiono ma si assopiscono per poi riprendere forza. Il crollo smentisce i profeti vincenti e dà ragione ai profeti dimenticati o ignorati.

Il crollo rimuove i presupposti impliciti sulla base dei quali veniva esercitato il potere. Il crollo crea scontri e guerre, ossia situazioni in cui le parti che esercitano la violenza sono almeno due e non una soltanto: il potere consolidato.

E’ davvero immorale desiderare che la crisi economica sfoci nel crollo? E i movimenti di pensiero critici, resistenti, antagonisti e antimoderni sono logicamente coerenti quando desiderano uscire dalla crisi, ossia dalla incertezza, attraverso la ripresa e non attraverso il crollo?

Oppure quando, convinti che una ripresa sia impossibile, desiderano e teorizzano una transizione che dovrebbe avvenire senza il crollo e magari proprio per evitare quest’ultimo?

Senza il crollo, il nichilismo continuerà a farla da padrone. Senza il crollo, non risorgerà la speranza collettiva diffusa. Senza speranza collettiva diffusa nessun futuro migliore è possibile.

Cosa vi è caro? Le idee della rivoluzione francese? E non furono necessari un regicidio, dunque un evento epocale, morte, terrore diffuso e le campagne napoleoniche perché esse si diffondessero?

Il principio di nazionalità, grazie al quale ogni popolo può edificare la propria civiltà? E quante guerre per l’indipendenza e l’unità delle nazioni furono necessarie, perché tanti popoli avessero l’occasione di tentare quell’edificazione?

Le idee della rivoluzione d’ottobre e comunque le idee socialiste? E non furono necessari milioni di morti, perché quelle idee vincessero in alcuni luoghi della terra e condizionassero, direttamente o indirettamente, la storia e la vita di decine e decine di popoli?

La Costituzione della Repubblica Italiana? E non fu necessario combattere – e, per giunta, farlo dalla parte sbagliata – e perdere la seconda guerra mondiale perché quel testo fosse scritto. Il localismo, la terra natia o nella quale avete scelto di vivere?

I profumi, i sapori e i suoni che stanno scomparendo? La rivalutazione del coraggio e l’eclissi del cinismo? Che torni il tempo dei leoni e cessi la lunga epoca delle volpi? La prevalenza della qualità sulla quantità?

E come credete che la vostra dottrina possa acquisire forza, se non mutano radicalmente le condizioni materiali che hanno estinto i vostri valori nella considerazione collettiva?

Tutte le dottrine critiche nei confronti della modernità, come essa si è andata evolvendo negli ultimi trenta anni, sarebbero massimamente rinvigorite dal crollo. Si può credere veramente e sinceramente in quelle dottrine, senza desiderare il crollo?

Si può volere un grande mutamento politico, senza previamente desiderare il venir meno delle condizioni che attualmente rendono impossibile quel mutamento?