venerdì 28 gennaio 2011

La rivoluzione delle Piramidi?

Dopo la rivolta avvenuta in Tunisia e quella abbozzata e abortita in Algeria, sembra sia cominciato un effetto domino. Ora è la volta infatti di Egitto e Yemen.

Intanto alla vigilia della grande manifestazione di oggi ("il venerdì della collera") contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, è ritornato in Egitto Mohamed El Baradei - Premio Nobel per la pace ed ex direttore dell'Agenzia internazionale per l'Energia Atomica (Aiea) - con l'obbiettivo di guidare l'opposizione e prendere le redini del governo durante la cosiddetta "fase di transizione".

Ma la repressione governativa è comunque già pienamente operativa; le connessioni a internet risultano già bloccate nella capitale egiziana e nella notte scorsa sono stati arrestati almeno venti membri dei Fratelli Musulmani, tra cui cinque ex deputati e cinque membri dell'ufficio politico. Dopo i circa 1000 arresti effettuati nei giorni scorsi.

Ma secondo Human Rights Watch, ong americana, i morti negli scontri in corso da martedì sono almeno nove e gli scontri più gravi sono avvenuti a Suez, dove tre persone sono state uccise martedì scorso. Il bilancio ufficiale delle vittime è finora di sette morti, cinque manifestanti e due poliziotti, ed è destinato sicuramente ad aumentare nelle prossime ore.


Egitto, El Baradei rientra in patria: “Sono qui per un cambiamento” da Il Fatto Quotidiano - 27 Gennaio 2011

Terzo giorno di scontri nel paese nordafricano. Rientrato al Cairo l'ex capo dell’agenzia atomica internazionale per la manifestazione di domani che coinvolgerà tutto il Paese. La protesta si allarga allo Yemen

Terzo giorno di guerriglia in Egitto. Dopo i sette morti del Cairo, altri due manifestante sono stati uccisi negli scontri in corso in una cittadina del Sinai. Si tratta di Mohamed Atef, un giovane di 25 anni colpito da un proiettile in bocca e schiacciato da un blindato della polizia a El Sheikh Zouayed. Ad oggi gli arresti sono circa mille.

Intanto Mohammed El Baradei, ex capo dell’agenzia atomica internazionale e uno tra i leader più conosciuti dell’opposizione egiziana, ha smentito una sintesi di sue dichiarazioni fatta dalla tv Al Arabiya che gli ha attribuito l’intenzione di voler “prendere il potere” in Egitto.

“Non ho mai detto cose di questo genere”, ha risposto ai giornalisti che lo incalzavano con domande sui suoi progetti politici. “Io sono qui per lavorare per un cambiamento ordinato e pacifico”, ha chiarito ancora El Baradei. L’uomo è rientrato in aereo al Cairo da Vienna dove ha vissuto finora.

Nel pomeriggio, infatti, l’emittente araba, in una breve sovrimpressione, aveva attribuito all’ex capo dell’agenzia atomica internazionale queste parole: “Pronto a prendere il potere per un periodo di transizione, se la piazza lo chiede”.

El Baradei, accolto da simpatizzanti, e da una mole di giornalisti internazionali, sotto una vigilanza stretta della sicurezza ha affermato: ”Continuerò a sostenere il cambiamento e chiedo al regime di fare altrettanto prima che sia troppo tardi”.

”Per Mubarak è arrivato il momento di andarsene - aveva affermato El Baradei in un’intervista al Daily Mail – . Ha servito il Paese per trent’anni ed è tempo che si ritiri”. L’uomo ha anche detto che non intende mettersi alla testa delle manifestazioni di piazza, ma offrire un contributo politico all’attuale situazione.

Dopo aver confermato la notizia di un’imponente manifestazione organizzata per domani, l’ex capo dell’agenzia atomica internazionale ha specificato: “Riguarderà tutto l’Egitto, e io sarò con i manifestanti. Non li guiderò, a me interessa guidare il cambiamento politico. Il popolo ha spezzato il circolo della paura, e una volta fatto questo non si torna indietro”.

L’onda della protesta in Nordafrica, che dopo la fuga di Ben Ali in Tunisia sta infiammando l’Egitto, è arrivata anche nella penisola arabica, con le prime manifestazioni nello Yemen. Sedicimila manifestanti sono scesi per le strade della capitale yemenita, Sanaa, per chiedere le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978.

“Trent’anni al potere sono abbastanza, Ben Ali se n’è andato dopo venti”, urlavano i dimostranti, ispirandosi alla cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini” che ha portato al crollo del ventennale regime del rais tunisino.

In Egitto sono ripresi gli scontri tra polizia e manifestanti che chiedono la fine del regime di Mubarak. Secondo Al Jazeera una folla si è radunata di fronte a un commissariato di polizia incendiato a Suez, dove l’esercito ha sparato proiettili di gomma.

Al Cairo sono continuate le proteste fuori dalla sede del sindacato dei giornalisti, tra i principali obiettivi del giro di vite messo in atto dalle autorità egiziane.

Scontri sono stati registrati a Ismailia, ove gli agenti hanno ingaggiato battaglia con 600 oppositori. La procura generale ha accusato 40 manifestanti di tentato golpe mentre sono almeno 1.000 gli arresti eseguiti dalla polizia egiziana da martedì scorso, quando sono cominciate le proteste contro il presidente Mubarak.

Due gli eventi su cui si concentrata l’attesa: l’imponente manifestazione organizzata per domani e il rientro di Mohamed El Baradei. Su alcuni account di Facebook si leggono messaggi di questo tenore: “Musulmani e cristiani di Egitto continueranno la battaglia contro la corruzione, la disoccupazione e l’oppressione”. Per il dissidente Ayman Nour la preghiera del venerdì fornirà l’occasione per una nuova prova di forza da parte dell’opposizione.

La dissidenza, che sembra non avere un capo riconosciuto, potrebbe trovarlo in El Baradei, stimato da diverse fasce sociali in patria e fornito di adeguati contatti nella comunità internazionale. Il rientro dell’ex diplomatico in patria, atteso per questa notte, sembra coincidere con un’intensificazione del pressing della Casa Bianca sul rais.

Secondo quanto riporta Bloomberg, Barack Obama avrebbe telefonato mercoledì a Mubarak per convincerlo a cogliere l’occasione delle proteste per accettare le riforme democratiche. E infatti il partito del presidente ha dichiarato oggi di essere pronto ad avviare il dialogo con i manifestanti.

Lo ha annunciato Safwat El-Sherif, Segretario generale del National Democratic Party in un’intervista sul sito dell’israeliano Yedioth Ahronoth. El-Sherif ha anche rivolto un appello alla moderazione sia alle forze di sicurezza, sia ai manifestanti per il corteo di domani.


L'Egitto allo specchio della rivolta tunisina
di Sarah Ben Néfissa - www.ilmanifesto.it - 27 Gennaio 2011

È dall'Egitto che dovrebbe partire la democratizzazione del mondo arabo, l'unica regione del pianeta che, dalla caduta del Muro di Berlino, non ha conosciuto significative evoluzioni politiche.

La nascita, nel 2005, del movimento Kefaya - fondato su rivendicazioni democratiche e sul rifiuto della successione ereditaria del presidente Hosni Moubarak- e, nel 2009, l'irruzione sulla scena dell'ex segretario generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica Mohammed El-Baradai sembravano segnali premonitori. Ma non accadde nulla.

Perché a Tunisi è caduto il regime e al Cairo no? Per comprenderlo, occorre analizzare la relazione tra proteste sociali e strutture politiche. Secondo alcuni, la principale differenza tra i due paesi deriverebbe dalla natura oppressiva e poliziesca del regime di Zine el-Abidine Ben Ali.

L'Egitto rappresenterebbe una versione più elastica dell'autocrazia: vi è libertà di parola- sulla stampa, in televisione, sui blog -, e di prendere iniziative politiche, come dimostra lo sviluppo esponenziale delle proteste sociali. E le rivendicazioni sociali del mondo del lavoro si sono moltiplicate (senza però tradursi sul piano politico) in seguito al movimento del 2005.

La Tunisia costituirebbe quindi il «negativo» di questa fotografia dell'Egitto: apparentemente priva di radici, la rivolta sociale si sarebbe trasformata rapidamente in una sommossa politica, malgrado la repressione che ha cercato di soffocarla, o per sua causa.

Tuttavia, le due situazioni presentano una strana similitudine. Nessuna forza politica può pretendere la paternità della rivoluzione tunisina.

La situazione non è diversa in Egitto, dove le organizzazioni dell'opposizione sono ampiamente scavalcate dalle proteste. In questo paese, i movimenti si sono alleati innanzitutto con i diversi attori mediatici, i quali riprendono la posizione del potere: lasciar fare, ascoltare le proteste, e, se necessario, accettare di arretrare. Ma solo in parte.

L'intera classe politica egiziana (compresi i Fratelli musulmani) è stata sorpresa dallo sviluppo delle mobilitazioni che rivendicavano servizi e infrastrutture, provenienti non solo dagli operai ma anche dai quartieri informali (le bidonvilles). Si sono registrate anche rivolte di malati contro la pessima qualità dei servizi ospedalieri.

Tuttavia, l'elemento di novità attiene a un altro ambito. Le categorie socialmente, culturalmente e politicamente più svantaggiate della popolazione si sono mostrate sensibili ai discorsi sulla «società civile», la «democrazia», i «diritti umani», la «cittadinanza» e le «riforme» politiche che hanno investito il paese a partire dal 2005. La retorica internazionale oggi dominante viene fatta propria o rivisitata dai soggetti più diversi, tra cui quelli appartenenti alle classi popolari.

I media si sono fatti cassa di risonanza della sofferenza sociale e trasmettono le proteste popolari. Rappresentano spazi politici alternativi di fronte alla chiusura pressoché totale di ogni luogo di espressione politica - come evidenziato dalle elezioni legislative del novembre-dicembre 2010, conseguite (con oltre il 90% dei voti) dal partito di Stato, il Partito nazionale democratico (Pnd). Alla vigilia di questa consultazione, i poteri pubblici avevano intrapreso una vasta operazione di addomesticamento di giornali, radio e televisioni.

Ben prima di questo giro di vite mediatico, i movimenti egiziani hanno conosciuto due sviluppi. Da un lato, si è assistito alla crescita di forme di azione violenta: dai blocchi stradali, per denunciare le morti accidentali provocate dalla carente manutenzione della rete stradale in alcuni quartieri, alle minacce di suicidio collettivo che, in seguito al gesto di Bouazizi, si sono moltiplicati.

Tale violenza rappresenterebbe la risposta alla passività del regime di fronte ad altri tipi di mobilitazione. Il regime, convinto del loro carattere «apolitico», non ha infatti risposto alle richieste di settori sociali non considerati strategici.

Tuttavia, dopo gli avvenimenti che hanno scosso la Tunisia, il potere ha reagito rapidamente: rinvio dell'adozione del testo di legge sulla riforma della funzione pubblica, assunzioni nel settore statale, annunci di misure di politica sociale ecc.

Quanto alle autorità religiose ufficiali, esse hanno ricordato che il suicidio è un atto di apostasia, in contrasto con quanto espresso dal popolare predicatore Youssef Al-Karadhaoui alla televisione satellitare Al-Jazeerah a proposito di Bouazizi.

La seconda caratteristica del movimento sociale egiziano è costituita dalla crescita di rivendicazioni che utilizzano riferimenti identitari e comunitari.

I beduini del Sinai, ad esempio, insorgono contro il trattamento securitario di cui sono vittime a causa della vicinanza della regione con Israele; le popolazioni nubiane protestano a causa delle loro condizioni di vita e rivendicano il risarcimento promesso in seguito al loro trasferimento all'epoca della costruzione della Diga di Assuan negli anni '60.

Ma sono le mobilitazioni dei copti - i quali si sono sollevati a causa dell'attentato contro la Chiesa di Alessandria all'alba del 1 gennaio 2011 - che, per le loro inedite caratteristiche, attirano l'attenzione.

Secondo numerosi analisti egiziani, il movimento sociale e politico tunisino sarebbe più «moderno», più maturo, più politico perché nato innanzitutto in ambienti sociali scolarizzati e alfabetizzati: le famose classi medie che parlano il linguaggio forbito dei diritti umani, della libertà e della democrazia.

Il vocabolario «identitario» e «comunitario» non avrebbe quindi più senso in Tunisia? Non è completamente vero, dato che esiste il «comunitarismo regionale» delle popolazioni dimenticate dal «miracolo tunisino» e che costituiscono l'autentica punta di diamante: un fenomeno che, prima di investire le periferie povere della capitale e l'avenue Bourghiba di Tunisi, ha toccato Gafsa, Sidi Bouzid, Thala, Kasserine e Jendouba.

Anche in Egitto il vocabolario della protesta è differente. Il linguaggio della morale e della religione caratterizza i movimenti sociali dei settori più poveri, poiché si tratta del solo lessico disponibile.

Negli ambienti scolarizzati, come quello dei funzionari del fisco o degli insegnanti di scuola superiore, il linguaggio della contestazione parla di giustizia e insiste sulla natura sociale e di categoria della mobilitazione. La stessa negazione della politica è un sotterfugio di chi conosce i limiti imposti dall'autoritarismo all'azione collettiva.

Come non vedere nella protesta della gioventù copta dopo l'attentato di Alessandria un tentativo di uscire dal recinto «comunitario» per porre la «questione copta» nello spazio pubblico?

Come non scorgere la questione della cittadinanza nella parola d'ordine «Vogliamo (il rispetto dei) nostri diritti», lanciata ai rappresentanti dello stato? In Egitto si assiste alla richiesta di rinegoziare le forme dell'unità nazionale. Il «comunitarismo» regionale tunisino esprime un'esigenza simile.

Bouazizi si è dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid e di fronte al ministero dell'interno si è svolta la grande manifestazione del 14 gennaio. Anche in Egitto, lo spazio della contestazione si caratterizza per tale rapporto con lo stato, attraverso raduni davanti a sedi di ministeri e di polizia.

Questa specificità comune evidenzia il legame delle popolazioni, in particolare di quelle più deboli, con il welfare edificato all'indomani dell'indipendenza e che è stato smantellato.

Ma i movimenti si rivolgono anche all'opinione pubblica internazionale. Abbiamo a che fare con società sempre più «globalizzate», che non percepiscono il mondo esterno come minaccioso.

All'epoca della «ibridazione» dei regimi politici - una teoria secondo la quale la globalizzazione rimette in forse le funzioni degli stati e tende ad attenuare le distinzioni tracciate tra regimi autoritari e democratici - le proteste nei due paesi indicano una parallela ibridazione delle forme d'azione collettiva e dei modi di espressione politica. Anche nei paesi arabi, la politica non si riduce più alle istituzioni.

In Egitto la chiusura autoritaria coesiste con una trasformazione importante dei rapporti tra stato e società. La Tunisia ha evidenziato che la distanza tra la protesta sociale di categoria e quella politica non è così grande.

*Istituto di ricerca per lo sviluppo


La rivolta egiziana scuote Mubarak, Obama al bivio: l'ok alla repressione potrebbe costargli caro
di S. Kahani - http://palaestinafelix.blogspot.com - 27 Gennaio 2011

Il Medio Oriente diventa sempre più complicato per l'amministrazione Obama. La rivolta popolare tunisina, la prima nel Mondo arabo a dare il benservito a un cacicco filo-occidentale, ha messo in discussione una delle pietre angolari della politica Usa nel teatro in questione: il sostegno di dittatori repressivi come "garanti" degli interessi dell'imperialismo americano; non c'é stato nemmeno il tempo di articolare quanto meno un abbozzo di strategia coerente che, ispirati e infiammati dall'esempio, anche i cittadini egiziani hanno preso a protestare, in numero e con convinzione decisamente maggiore di quanto non sia accaduto finora in Algeria e Giordania (a loro volta brevemente scosse da manifestazioni di piazza).

Una prolungata e protratta protesta in Egitto, tuttavia, porrebbe problemi tutti particolari, visto che esso non solo confina con Israele, ma è anche "custode" del lato più vulnerabile del quadrilatero assediato di Gaza (il lato da cui passa la maggior parte dei beni contrabbandati in barba alle restrizioni dello strangolamento economico sionista), sul modello dell'Egitto di Mubarak sono stati elaborati tutti gli stilemi di comportamento americano verso i regimi 'amici' dei paesi arabi, l'Egitto é uno dei più grandi recettori africani (e certamente il più grande recettore arabo) di "aiuti Usa", (anche se neppure lontanamente paragonabili a quelli ricevuti dallo Stato ebraico suo vicino).

L'interrogativo che rimbalza tra i saloni di Washington é delicato: se decine di migliaia di persone scendono in strada e ci restano, che cosa farà Mubarak? Che contegno assumeranno gli Usa?

Se non vi fosse altra via se non una capitolazione alla Ben Ali o una strage stile Tienanmen la Casa Bianca rischierebbe di perdere una pedina come il "Faraone" Mubarak, la vacca che ride? Oppure starebbero fermi e in silenzio per quel tanto che basti ai pretoriani di Hosni per ristabilire l'ordine a suon di spargimenti di sangue?

Se la parola passasse all'esercito, che in Egitto al contrario che negli altri Stati non serve a combattere i nemici esterni, ma a montare la guardia contro la minaccia rappresentata da 80 milioni di civili, la soluzione non potrebbe essere diversa; i poveri figli di contadini arruolati nella polizia hanno pochissimi privilegi da difendere e quindi ci sono andati molto piano finora con manganelli, gas e blindati, i militari invece, fanno parte di una delle pochissime elite privilegiate del regime e sarebbero spietati per difendere il loro ruolo, i loro 'benefit', i loro 'perk'.

Da una parte il 'pericolo' (insopportabile, per gli apostoli dell'imperialismo) di vedere affondare il loro tiranno di fiducia e vedere il più grande e influente movimento politico di ispirazione musulmana (la Fratellanza musulmana) prendere il potere immediatamente e senza colpo ferire, essendo il partito più antico, autorevole e popolare del paese, dall'altra la prospettiva di una perdita di prestigio e credibilità devastante, soprattutto dopo aver strenuamente e oltre ogni ragionevolezza sostenuto la fittizia 'Rivoluzione verde' in Iran che, seppur maldestramente organizzata e subito fallita, aveva almeno dato il 'la' al Dipartimento di stato per riversare quintali di bile velenosa contro il democratico e legittimo Governo repubblicano iraniano, colpevole di essersi difeso contro la gazzarra di poche dozzine di facinorosi.

L'acquiescenza complice durante una sanguinosa repressione egiziana mostrerebbe la duplicità dello 'standard morale' americano in tutta la sua drammaticità.

Dopo l'11 settembre 2001 la cricca di neoconservatori "bushevichi" al potere a Washington elaborò la dottrina della 'democratizzazione' e del 'regime change' in Medio Oriente, ma, in ogni paese dove si sono tenute elezioni regolari (Palestina, Irak...) i risultati sono stati sempre gli stessi: vittorie per i movimenti religiosi, scacchi e vergogna per i burattini della Casa Bianca.

Pure, gli Stati Uniti, nel passato piuttosto recente, sono stati in grado di mantenere il loro ruolo e la loro influenza in Sud-Est Asia anche facendo a meno dei loro 'dittatori di fiducia', ai generali sudcoreani, ai Marcos, agli eredi del fascista Chang Kai Shek si sono sostituiti stati più o meno democratici e più o meno accettati e rispettati dai loro cittadini; ora, non che chi scriva ritenga il perdurare dell'influenza Usa in quella regione un bene (affatto), pure le teste d'uovo di Washington e Langley potrebbero prendere quella situazione ad esempio e cercare di replicarla in Medio Oriente, ricoprendo i loro interessi geopolitici con una patina di rispettabilità internazionale.

Una maniera creativa e costruttiva di procedere, ad esempio, potrebbe essere quella di prospettare ai paesi filo-americani e non democratici della regione una serie di benefit economici in cambio di una parziale e graduale liberalizzazione dello scenario politico ed economico.

Ma gli Stati Uniti avranno l'intuito, la lungimiranza, le risorse (con questi chiari di luna...) per intraprendere un'operazione simile, che sarebbe costosa e molto lenta a fornire frutti duraturi? Obama e soci devono pensarci su e prendere una decisione chiara e impegnativa...prossibilmente prima che (per loro e per i loro interessi) la sabbia nell'ampolla superiore della clessidra non abbia totalmente smesso di fluire verso il basso.


Venerdì d'Egitto

di Mazzetta - Altrenotizie - 28 Gennaio 2011

Sarà un Venerdì particolare per l'Egitto. Secondo i piani concordati in rete dai rivoltosi, al termine della preghiera i fedeli dovrebbero uscire dalle moschee in corteo e dare vita a manifestazioni itineranti. Alcune moschee fungeranno da catalizzatore per i non praticanti e le folle di giovani che sono stati il nerbo delle proteste dei giorni scorsi.

I Fratelli Musulmani hanno annunciato l'adesione alla protesta, l'ex capo dell'Agenzia Atomica Internazionale, El Baradei, è ritornato in patria da Vienna, dove si era ritirato quando ha capito che la sua candidatura alle scorse presidenziali si sarebbe risolta nella solita truffa. E infatti Mubarak ha trionfato per l'ennesima volta con percentuali bulgare tra i pochi votanti spinti a forza dal regime verso i seggi.

Prevedibilmente ci saranno in piazza molte più persone che nei giorni scorsi. La repressione governativa, per quanto spietata, è sembrata debole agli egiziani, che nel migliaio di arresti e nella decina di vittime hanno letto per la prima volta un'offesa da vendicare e non il segnale che bisogna chinare la testa.

Il regime è atteso a una specie di prova del nove, la protesta mira alla cacciata del dittatore e lo scontro dovrà avere un vincitore, soluzioni di compromesso non sembrano nell'aria. L'unità politica delle opposizioni non potrà certo allearsi con il regime, non ha il controllo della piazza e nemmeno può dirsi rappresentativa delle folle che scendono in strada.

Lo stesso El Baradei, che è una personalità formalmente adatta ad incarnare un Egitto nuovo, gode di un supporto frammentato e può aspirare alla leadership solo se investito di un ruolo di garanzia e godendo di consensi che per il momento non sembra avere.

Il regime, apparentemente compatto, è bene organizzato per reprimere, ma bisogna capire che risorse abbia per agire in una situazione che non controlla alla perfezione e nella quale deve subire l'iniziativa e giocare un gioco deciso da altri. La sua tenuta è tutta da verificare, anche alla luce del velocissimo dissolvimento del regime tunisino e all'evaporazione del relativo partito unico di governo.

La rivoluzione tunisina avrà un'influenza fortissima proprio sul regime, perché offre un modello nel quale la transizione dalla dittatura a qualcosa di diverso evolve con il sacrificio minimo e per niente truculento di esponenti del vecchio regime.

Non c'è dubbio che, seguendo l'esempio tunisino, la quasi totalità della burocrazia, dell'esercito e delle classi dirigenti egiziane passerebbe senza colpo ferire la prova della dissoluzione della dittatura di Mubarak e del suo partito.

Questo ferisce la tenuta del potere almeno quanto la pressione della piazza, perché riduce drasticamente il numero delle persone che si vedono costrette a difendere la dittatura perché in pericolo di vita o a rischio di tragedie.

La palla è nel campo di Mubarak, nelle segrete stanze del potere egiziano: se la risposta sarà brutale si allontanerà la possibilità di una soluzione alla tunisina e la protesta potrà solo essere stroncata o radicalizzarsi, come ha già dimostrato di poter fare in reazione alla brutalità del regime, ad esempio devastando per la prima volta una sede del partito al potere come reazione agli omicidi di manifestanti a Suez.

Se l'Egitto cede alla rivoluzione, il problema per l'Occidente non è quello dei Fratelli Musulmani, che sono solo lo spauracchio con il quale Mubarak e la sua propaganda hanno giustificato le peggiori repressioni.

La piccola Tunisia è già un esempio; se il gigante egiziano dovesse virare decisamente verso una democrazia pretesa dalla base popolare contro l'élite e le pressioni internazionali delle grandi e piccole potenze, molte autocrazia arabe si troverebbero a fare i conti con un drastico calo di legittimità, mentre l'Occidente si troverebbe a rincorrere e a cucire nuovi rapporti con le nuove classi dirigenti, presto costretto a pietosi mea culpa (come quello recente di Sarkozy) e a fare i conti con decenni di complicità con i peggiori regimi repressivi.


«Siamo a una svolta senza precedenti»

di Michele Giorgio - Il Manifesto - 27 Gennaio 2011

Alaa Aswani l'altro giorno era con i manifestanti scesi in strada a scandire «Pane e Libertà» e «Via Mubarak». Lo stimato scrittore egiziano nei suoi romanzi, a partire da Palazzo Yacobian, ha raccontato la vita della sua gente, la miseria diffusa e l'opulenza per pochi, i più deboli costretti a subire le angherie di un potere corrotto e senza scrupoli.

Ma oggi quel potere scricchiola, non appare più invincibile. Per la prima volta in trent'anni il popolo egiziano vede la luce alla fine del tunnel. Aswani sente che il crollo del regime di Hosni Mubarak è più vicino. Ieri lo scrittore ci ha rilasciato questa intervista.

Siamo davvero alla svolta sognata dagli egiziani?
Sì, ne sono certo. Nei mesi scorsi avevo detto in più occasioni che il regime aveva vita breve e quanto stiamo vedendo e vivendo in questi giorni conferma che siamo di fronte a una svolta senza precedenti negli ultimi 40 anni. L'altra sera ho parlato a una folla di migliaia di persone riunita in Piazza Tahrir, al Cairo. Di fronte a me non avevo più il solito gruppo di amici e attivisti impegnati con coraggio a favore della democrazia e del lavoro, con i quali mi sono incontrato in questi anni.

Avevo invece tante persone qualsiasi: manovali, operai, avvocati, impiegati, donne e uomini che non hanno più paura della polizia e della repressione. Persone che vogliono libertà e democrazia ma anche lavoro e migliori condizioni economiche, perché in Egitto non esiste una separazione tra politica ed economia. È una novità assoluta. Nessuno potrà fermare il processo che si è messo in moto, dopo il 25 gennaio nulla sarà come prima.

In Egitto però, a differenza della Tunisia, l'esercito è con Mubarak e i sindacati sono addomesticati. L'insurrezione egiziana, dice qualche analista, manca di pilastri fondamentali per sovvertire il regime.
Sono considerazioni giuste ma fino a un certo punto. Non sottovaluterei la possibilità che siano proprio le forze armate a scaricare Mubarak. I vertici militari non hanno manifestato alcuna presa di posizione e io dubito fortemente che i nostri soldati possano aprire il fuoco e massacrare gente innocente.

Sono lo stesso popolo, vittime dello stesso potere, poveri in uguale misura. Quanto ai sindacati, quelli di regime sono già defunti e i nostri lavoratori sanno organizzarsi anche da soli.

L'opposizione egiziana che ruolo può avere, rimarrà «decorativa» come lei ama definirla oppure troverà stimoli per risorgere?
L'opposizione è quella che scende in strada a urlare contro il regime, quella che scandisce «Pane e Libertà», che non ha paura della violenza della polizia, come si è visto la scorsa notte (martedì, ndr) in Piazza Tahrir dove la brutalità dei reparti speciali non ha avuto limiti. L'opposizione non è quella chiusa nelle sedi di partiti che vengono artificialmente tenuti in vita dal regime per ragioni d'immagine.

E mi riferisco in particolare al Tagammu che non è più un partito di sinistra. I veri progressisti e comunisti in Egitto stanno tra la gente, partecipano alla lotta. Coloro che hanno scelto di non essere nelle strade in questi giorni capiranno di aver commesso un grave errore e di aver perduto l'occasione per partecipare alla rinascita dell'Egitto.

La rivolta tunisina è stata accolta con favore dall'Europa, che pure aveva protetto per anni il dittatore Ben Ali, e anche dagli Stati uniti. Il presidente Obama l'altra sera ha ribadito il suo sostegno ai diritti dei tunisini ma ha evitato qualsiasi riferimento a quanto accade in Egitto e il Segretario di stato Clinton ha espresso il suo sostegno a Mubarak. Non vi sentite traditi da coloro che democrazia e libertà le vogliono in Medioriente solo a certe condizioni?
La posizione dell'Amministrazione Usa non mi sorprende. Washington è incapace di modificare il suo approccio in politica estera, specie quando in ballo c'è il Medioriente. Non voglio difendere Obama ma sento che il presidente americano vorrebbe cambiare qualcosa e aprire una pagina nuova.

Ma è intrappolato tra le maglie strette delle imposizioni delle lobby, a cominciare da quella filo-Israele che vede in Mubarak un elemento centrale per il mantenimento dello status quo nella regione. Presto o tardi gli Usa capiranno i gravi errori che commettono in Medioriente.


Egitto, il giorno più atteso
testo raccolto da Luca Galassi - Peacereporter - 27 Gennaio 2011

Rania, 30 anni, racconta paure e speranze in vista della grande manifestazione contro Mubarak

Mi chiamo Rania Aala, ho trent'anni, e da quando sono nata ho sempre visto Mubarak al governo, sempre. E' frustrante per la mia generazione. Il partito al governo, l'Npd pensa che siccome ci sono quaranta milioni di poveri in questo Paese, allora siamo tutti ignoranti, politicamente incompetenti, senza leadership.

Anche i capi della cosiddetta 'opposizione' si sono comportati come se noi non esistessimo. Ci hanno lasciato fuori dall'equazione e sono diventati tristi, ridicolmente oppressivi.

Il picco della nostra frustrazione si è verificato in occasione di due fatti: le dichiarazioni di Gamal Mubarak, che vuol correre per la presidenza dopo il padre, uccidendo così tutte le nostre speranze per un futuro democratico e facendoci sentire impotenti e sconfitti, e i colossali brogli elettorali alle scorse parlamentari, che hanno dato un sonoro schiaffo alla nostra dignità.

Da questi due fatti, e con occhio e orecchio tesi a ciò che i coraggiosi tunisini hanno fatto, abbiamo deciso di far sentire la voce della classe media e istruita di questo Paese, perché l'unica speranza per noi era di organizzarci, non in modo partigiano, ma con una sola richiesta: mandare a casa il presidente e tutti i quadri al governo, i parlamentari, i media, i capi di tutte le istituzioni ufficiali.

Vogliamo in cambio un governo veramente patriottico, il rispetto della nostra libertà e dei nostri diritti, tutti i diritti, non solo quelli fondamentali. Veniamo da tutte le parti dell'Egitto, apparteniamo a diverse fazioni e a diverse esperienze. Per questo motivo nel movimento ci sono anche divisioni.

Non scendiamo in piazza perchè ci sono i Fratelli Musulmani, o El Baradei, né loro possono mettere il cappello alla rivolta. El Baradei è un patriota. Non è ciò che il governo vuol far sembrare. E' per il cambiamento e si è offerto per guidare la transizione proprio per evitare il caos. Lo sosterremo fino in fondo, perché il suo è un nome pulito.

Noi scendiamo in piazza in pace, e vi prego di dirlo, di ripeterlo cento volte, che si sappia nell'Unione Europea e negli Stati Uniti. Se si sparerà e verremo uccisi in massa è perché il governo ha deciso così. Noi scendiamo in piazza in pace, senza provocare. La metà di noi non hai mai manifestato in vita sua. Non siamo qui per il pane o per le riforme, siamo qui per cacciare Mubarak.

Il suo regime non sa come gestire una crisi se non con la violenza. Per questo ci sarà violenza, distruggeranno macchine fotografiche, arresteranno centinaia di persone e impediranno ai giornalisti di lavorare. Ma noi cercheremo di aggirare queste misure. La gente ha rotto le barriere del silenzio e della paura. Ci sarà violenza e scorrerà sangue.

Gli uomini del regime spareranno proiettili di gomma come aperitivo. Poi quelli veri. Lo hanno fatto a Suez e lo faranno in tutto il Paese oggi. I miei sentimenti alla manifestazione saranno questi: speranza, vendetta, gioia per il cambiamento, ma anche preoccupazione per le possibili violenze. Tuttavia, noi andremo in piazza in pace.


Yemen, ha paura anche Saleh
di Christian Elia - Peacereporter - 27 Gennaio 2011

Quattro cortei nella capitale, altri focolai di protesta in altre città. Il regime yemenita teme l'effetto Tunisia

"Le manifestazioni di queste ore a Sanàa non ci preoccupano, lo Yemen è un paese democratico e pluralista". Lo ha detto oggi Mathar Rashad Masri, ministro degli Interni yemenita. In questa affermazione, però, ci sono due menzogne.

La prima è che lo Yemen non è un Paese democratico. Le restrizioni alla stampa, il pugno di ferro contro ogni opposizione (in particolare i secessionisti della zona meridionale dello Yemen), la discriminazione della componente sciita della popolazione e la brutale repressione della loro nel nord del Paese non sono i tratti distintivi di un regime democratico.

La seconda bugia, però, è ancora più evidente: il regime di Abdullah Saleh ha paura, eccome.

La misera fine di Ben Alì in Tunisia, la folla inferocita contro Mubarak in Egitto, il tramonto triste, solitario e finale di Abu Mazen in Palestina, la folla in piazza in Algeria. Sembrano le scene di uno stesso film, al quale - di volta in volta - non vengono cambiati i sottotitoli, ma solo la latitudine.

Quattro cortei differenti, il più imponente dei quali è partito dall'Università di Sanàa, si sono riversati nel centro della capitale yemenita. "Le manifestazioni che sono in corso non sono così grandi come vengono descritte e non destano preoccupazioni - ha aggiunto Masri - il nostro Paese è diverso dagli altri. Noi come governo siamo impegnati a cercare una via per esaudire le richieste del popolo".

Il problema, che Masri tace, è che il popolo chiede la fine del trentennio di dominio di Saleh, l'uomo che ha riunificato il Paese e ne ha fatto il suo regno. Il ministro ha inoltre assicurato che la polizia "non reprimerà le manifestazioni ed eviterà ogni incidente in piazza", dichiarazione sintomatica dello stato d'animo delle sclerotiche dittature arabe.

Un telefonino può arrivare dove mille oppositori non si sono mai neanche avvicinati: mostrare al popolo, quello vero, delle campagne, il vero volto dei regimi che intellettuali senza seguito per anni, come stanche Cassandre, denunciavano dal Marocco al Golfo Persico.

Niente repressione, dunque, ma questo è da vedere. Un giovane si è dato fuoco ad Aden, nel sud dello Yemen, per protestare contro il carovita e lo stato di povertà della sua famiglia. Si chiama Fuad Sultan, ha venticinque anni.

Ma potrebbe essere nato al Cairo, in Tunisia o in Palestina. Ragazzi sotto occupazione, militare (nel caso d'Israele) o socio-culturale, negli altri regni dell'abuso e della sovranità delegittimata. Nella tarda serata di ieri, Sultan è sceso in strada, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco.

Immediati sono stati i soccorsi e ora il giovane è ricoverato in condizioni disperate in un ospedale locale. Secondo gli amici, il ragazzo voleva imitare il giovane ambulante tunisino, Mohammed Bouaziz, che con il suo gesto ha innescato la rivolta contro Ben Ali.

Si tratta del secondo caso di tentato suicidio per il carovita che si registra in Yemen dopo quello della scorsa settimana ad al-Baydha. Il presidente Saleh è stato rieletto nel settembre 2006 per un nuovo mandato di sette anni.

Un progetto di emendamento alla costituzione in discussione in parlamento potrebbe aprire la strada ad una sua presidenza a vita. Le fiamme di Fuad e gli slogan delle migliaia in piazza a Sanàa sono tutte per lui.