martedì 18 gennaio 2011

Obama riceve Hu col cappello in mano...

Alcuni articoli sulla visita del presidente cinese Hu Jintao a Washington, in programma oggi.

Obama si appresta a ricevere il suo omologo cinese col cappello in mano...


Usa e Cina, la sfida dei giganti per rilanciare l'economia del pianeta
di Federico Rampini - La Repubblica - 17 Gennaio 2011

Si apre domani sera a Washington la visita del presidente cinese. Quaranta anni dopo la diplomazia del ping pong, Hu Jintao porta nella Casa Bianca di Obama miracoli e ombre

Il 47% degli americani è convinto che il sorpasso del Pil tra Cina e Stati Uniti sia già avvenuto. Il risultato dell'autorevole sondaggio annuo Pew Research è rivelatore. In realtà nelle proiezioni più ottimiste l'economia cinese non raggiungerà le dimensioni americane prima del 2018 (altri rinviano lo storico aggancio verso il 2030).

Ma le percezioni contano, e di percezioni è fatto questo G2, il vertice sino-americano che si apre domani sera a Washington con una cena privata. I due padroni del mondo: che piaccia o no a Barack Obama e Hu Jintao, così li considerano le loro opinioni pubbliche, e le altre nazioni. Quella visione dei due padroni, per quanto controversa, rende perfettamente il percorso storico che ha cambiato i connotati del mondo.

Questa visita coincide con il quarantesimo anniversario della "diplomazia del ping pong", quando le due nazionali di tennis da tavolo furono usate nel 1971 come apri-pista per il primo incontro diretto tra Richard Nixon e Mao Zedong nell'anno seguente: la Cina di allora era un gigante povero, sempre minacciato dalle carestie, utile all'America solo come contrappeso politico-diplomatico all'Unione sovietica.

Per ritrovare la precedente visita di Stato del presidente cinese a Washington rispetto a quella di domani sera, bisogna risalire al 1997 con Jiang Zemin ricevuto da Bill Clinton: la Cina era già in piena modernizzazione, ma mancavano ben quattro anni al suo ingresso nell'Organizzazione del commercio mondiale, il suo impatto nella globalizzazione era modesto, e proprio in quell'anno doveva difendersi dal contagio della crisi finanziaria asiatica.

Oggi ci sembra lontano perfino il 2006, quando Hu Jintao fu ricevuto (ma non col rango della visita di Stato) da George Bush.

L'America pre-recessione era ben più sicura di sé. Al punto da infliggere al ospite, per pura sbadataggine, diverse offese di protocollo: l'insufficiente servizio d'ordine alla conferenza stampa consentì una mini-manifestazione di protesta di Falun Gong; poi l'inno nazionale fu attribuito alla Republic of China che è il nome ufficiale di Taiwan.

Errori che l'Amministrazione Obama non ripeterà certo: oggi un vertice sino-americano è preparato con ben altra cura. Hu rappresenta un paese che ha sfondato i 250 miliardi di dollari di attivo commerciale annuo con gli Stati Uniti nel dicembre 2010.

Il 21% di tutti i debiti esteri del Tesoro Usa sono detenuti da Pechino, per un totale di 850 miliardi. E la banca centrale cinese con 2.850 miliardi nelle sue casse (la massima parte in dollari) ha il 25% delle riserve valutarie mondiali. Il peso dell'ospite lo si misura dalla lotta senza quartiere che si è scatenata per un "posto a tavola" nella cena di Stato alla Casa Bianca.

Tutti i chief executive delle banche di Wall Street stanno facendo da settimane un lobbying forsennato per essere inclusi tra i Vip che "assisteranno alla storia". Hu da parte sua ha risposto con un gesto molto "imperiale": al primo posto nella lista degli invitati che spettano a lui, ha messo i sindaci di San Francisco e Oakland, i primi due sino-americani a governare due metropoli Usa.

L'idea del G2 non ha più quel fascino bonario e ingenuo che le fu attribuito all'inizio della presidenza Obama, quando prevaleva l'ottimismo della volontà. Oggi nessuno vede come realistico un "direttorio" a due che risolve tutti i problemi del pianeta. Le differenze, di interessi e di valori, sono troppo grandi. Ciò non toglie nulla alla centralità del loro rapporto: quando è produttivo, quando è conflittuale, quando è nello stallo, è sempre e comunque il più rilevante di tutti.

L'economia resta il dossier più corposo. Su questo terreno la definizione dei padroni del mondo non è esagerata. Il segretario al Tesoro Tim Geithner prevede che "al massimo in dieci anni la Cina avrà scalzato l'Europa come principale partner commerciale degli Stati Uniti".

A Washington il Fondo monetario vede un 2011 dominato da due motori di sviluppo: da una parte i paesi ex-emergenti tra i quali la Cina ha una leadership indiscussa; d'altra parte gli Stati Uniti che si avviano verso una crescita del Pil doppia rispetto all'eurozona.

Geithner preme per una più sostanziosa rivalutazione del renminbi, la moneta cinese che oggi gode di una "sotto-valutazione competitiva". Ammette che Pechino ha mantenuto una parte delle promesse: "In termini reali il renminbi si è rivalutato del 10% annuo".

I timori americani però si stanno spostando altrove. Anzitutto sul sistematico saccheggio della proprietà intellettuale da parte dei cinesi. Secondo i termini usati da un'indagine del Congresso, "perfino i ministeri di Pechino fanno ricorso regolarmente a software pirata, rubato dalle aziende informatiche Usa senza pagare i copyright".

Un altro coro di lamentele riguarda il livello dei sussidi di Stato erogati da Pechino alle sue aziende, falsando la concorrenza con gli stranieri. I casi più clamorosi riguardano la Green Economy tanto cara a Obama.

Le maggiori aziende americane dell'energia solare stanno chiudendo le fabbriche di pannelli fotovoltaici sul territorio Usa per delocalizzarle in Cina. In questo caso non conta il differenziale nel costo del lavoro (è un settore hi-tech a bassa intensità di manodopera) quanto il vantaggio incolmabile offerto dalla generosità dei sussidi pubblici cinesi.

La "dottrina Obama" prevede che dalla crisi economica si esca con un riequilibrio tra le due economie maggiori: alla Cina tocca "consumare di più, ridurre il risparmio, importare". Dalla rapidità di questo aggiustamento, dipenderà che l'America si senta meno defraudata nell'assetto attuale del G2.

Altrimenti c'è il rischio che uno dei due padroni del mondo denunci il contratto, e cerchi di forzare una revisione delle regole del gioco. Ma "l'incidente" potrebbe anche venire dalla Cina: lo scoppio di un bolla speculativa, un eccesso d'inflazione. Per questo Geithner evita di esasperare la tensione: lo status quo è molto meglio di un salto nel buio.

All'indurimento dei toni nel rapporto a due contribuisce di più la spinta al riarmo della Cina. Lo choc più recente è la scoperta che le forze armate di Pechino hanno messo a punto il loro "caccia-bombardiere invisibile", in codice il J-20, il cui primo test ha coinciso provocatoriamente con una visita a Pechino del segretario alla Difesa, Robert Gates.

Da Washington ha risposto Hillary Clinton con un duro richiamo sui diritti umani: "La Cina mantenga gli impegni, liberi i dissidenti politici e riformi il suo sistema politico, se vuole essere all'altezza delle sue responsabilità globali nel XXI secolo". Nella eccezionalità del vertice di mercoledì c'è anche questo: sarà la prima volta che un presidente degli Stati Uniti è costretto a offrire un ricevimento di Stato in onore di un leader straniero che tiene in carcere il premio Nobel della Pace (Liu Xiaobo).

Il tema che più cattura il sentimento dell'America alla vigilia di questo G2 è un altro. Il sorpasso di cui c'è la consapevolezza più acuta, è quello misurato nella classifica Ocse-Pisa sui risultati di apprendimento nei licei di tutto il mondo. Per la prima volta nella storia, i licei di Shanghai hanno conquistato il primato assoluto.

I licei americani sono arrivati al 15esimo posto nella capacità di lettura, al 23esimo nelle scienze, al 31esimo in matematica. "Chi vince a scuola oggi, vincerà la competizione economica del futuro", avverte Obama. La sfida dei padroni del mondo, dentro il G2, è diventata anche l'unica gara che conta, e il luogo dove si misura chi sta facendo le scelte giuste per il suo futuro.


Pechino pronta al sorpasso "il dollaro è al tramonto"
di Giampaolo Visetti - La Repubblica - 17 Gennaio 2011

L'incontro Obama-Hu jintao. Il leader cinese baderà a rassicurare la Casa Bianca su una ragionevole lentezza del tramonto Usa. Quarant'anni fa Mao chiese aiuto a Nixon. Oggi è Obama a chiedere alla Cina un programma di salvataggio per gli Stati Uniti e l'Occidente

Quarant'anni dopo l'avvio delle realazioni diplomatiche fra Cina e Stati Uniti, il presidente Hu Jintao atterra domani a Washington 1 con un'agenda inimmaginabile, rispetto a quella che Mao Zedong presentò a Richard Nixon.

Nel 1972 il leader di una nazione fallita chiese esplicitamente all'America un piano di aiuti per salvare 820 mili di contadini dalla fame. Domani il capo del Paese dei record, che si appresta a salvare e a guidare il mondo in questo secolo, baderà invece a rassicurare la Casa Bianca su una ragionevole lentezza del tramonto Usa.

I ruoli non sono ancora invertiti, ma oggi è Barack Obama a dover chiedere alla Cina un programma di salvataggio per gli Stati Uniti e per l'Occidente, cercando di capire non se, ma quando Pechino supererà anche Washington iniziando a controllare il mondo che gli Usa rappresentano.

Hu Jintao sa di essere ormai l'azionista di riferimento del cosidetto G2 e non ha nascosto l'intenzione di mettere sul piatto, già nella cena informale di domani sera, la preoccupazione cinese per il destino degli 860 miliardi di dollari investiti nel debito statunitense.

Forte del ruolo di nuovo banchiere di quello che resta il primo mercato finanziario del pianeta, attento a non allarmare i suoi indispensabili clienti europei, Hu porrà dunque subito a Obama le tre questioni-chiave che Pechino intende iniziare a risolvere nel corso della sua seconda visita ufficiale oltreoceano: la cessione dell'alta tecnologia delle imprese americane alle industrie cinesi, il ritiro delle forze armate Usa dall'Asia e il via libera ad un nuovo ordine monetario internazionale che nel medio periodo veda lo yuan affermarsi quale valuta di riferimento assieme a dollaro ed euro.

Il messaggio che porta a Washington è chiaro: "Un sistema monetario internazionale basato sul dollaro appartiene ormai al passato".

I tre punti dell'agenda segreta di Hu, irrobustita e allo stesso tempo indebolita dall'interdipendenza fatale tra i due "padroni del mondo", non possono ovviamente essere accolti in quella, assai meno assertiva, di Barack Obama.

L'importanza che Pechino assegna a questo incontro, ad un anno dal cambio della propria leadership, conferma però che il presidente cinese accetterà di sottolineare "i molti interessi bilaterali in comune nell'interesse di tutto il mondo", ma che questa volta pretenderà di non uscire dalla Casa Bianca a mani vuote.

Secondo i dirigenti cinesi la partita economica precede oggi quella politica e si gioca tra il valore dello yuan, capace di far fallire il mondo della produzione statunitense, impedendo la ripresa e pregiudicando un bis dei democratici, e la necessità della Cina di colmare il gap di conoscenza e tecnologia per trasformarsi realmente in una superpotenza postcapitalista, fondata su una classe media, con i requisiti per rendere stabile il sorpasso sul Giappone e iniziare quello sugli Usa.

Sia Hu che Obama, in una fase di massima incertezza globale, hanno interesse a non travolgere il precario equilibrio di un "temporaneo G2 necessario", secondo la definizione del premier Wen Jiabao.

Gli Stati Uniti, rappresentanti di un'Europa in frantumi, non possono però più permettersi la pazienza cinese e per questo hanno presentato un ordine del giorno in cui i nodi politici della sicurezza mondiale precedono i dossier finanziari e produttivi, fino a costituire la condizione per una soluzione dei secondi.

Affermare che in quattro giorni Hu Jintao e Barack Obama si spartiranno il controllo del mondo per i prossimi venticinque anni, come sintetizzano in queste ore i diplomatici europei, può essere una provocazione tesa a scongiurare un pianeta bipolare.

È vero però che alla fine di questa settimana sapremo come Cina e Usa hanno deciso di affrontare le questioni che preoccupano la maggior parte dell'umanità e soprattutto se ancora per un po' lo faranno formalmente insieme.

Lo scontro-simbolo tra dollaro e yuan, con l'euro alle corde, è la punta di un iceberg che sott'acqua vede gli interessi di Pechino e Washington sempre più in rotta di collisione. Dal 2008 gli Stati Uniti hanno perso due milioni di posti di lavoro, emigrati in Cina per effetto dell'outsouricing.

Gli Usa importano così merci cinesi per 296 miliardi di dollari, esportando per soli 69. È uno squilibrio commerciale senza precedenti, che alimenta l'impetuosa crescita del Pil di Pechino, l'investimento record nei titoli di Stato dell'Occidente in crisi, l'inedita influenza della Cina negli organismi internazionali e la sua corsa al riarmo.

Domani Obama cercherà di convincere Hu che solo arrestando la caduta Usa, rivalutando realmente lo yuan e scongiurando l'esplosione dell'inflazione cinese, può rendere stabile lo sviluppo di una nazione da 1,4 miliardi persone che da trent'anni cresce del 10% all'anno.

Il patto a due tra economia, politica e forze armate è reso però difficile da una reciproca sfiducia personale di fondo e le mosse che hanno preceduto l'imminente visita lo dimostrano.

Dopo i cyber-attacchi contro Google e lo scoppio della "guerra dei dazi", che hanno segnato il tempestoso 2010 del G2, la ripresa del dialogo è stata interrotta dal premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo, sponsorizzato da Washington, e dai missili nordcoreani contro il Sud, suggeriti da Pechino.

Hu Jintao, alla prima visita all'estero dopo l'assegnazione del Nobel "a una sedia vuota", è deciso a non finire sul banco degli imputati nell'unico Paese in grado di ricordargli il concetto universale di diritti umani.

L'incubo di un'implosione nucleare della penisola coreana, serve così alla Cina per arginare il ritorno dell'interesse militare Usa nel Pacifico, riaffermando il proprio. Il "mistero dello Stealth" è illuminante. Martedì scorso, mentre il segretario alla difesa Gates incontrava Hu a Pechino, l'esercito cinese ha testato il suo primo bombardiere invisibile.

La Casa Bianca ha minimizzato la beffa sostenendo che Hu, che si è fatto precedere in America da una serie di spot-tivù propagandistici interpretati dalle star nazionali, sarebbe stato all'oscuro del volo e adombrando uno scollamento tra partito e forze armate in Cina.

Ha dovuto poi prendere atto dell'ennesima dissimulazione della leadership comunista, interrogarsi sulle sue ragioni e lanciare l'allarme sul nascente pericolo di "una potenza militare atomica opaca e fuori controllo".

Pechino ha risposto che "la valutazione dello yuan dipende esclusivamente da opportunità interne" e gli amici-nemici del G2, compresa la delicatezza dei toni, sono tornati a preparare il vertice di mercoledì in silenzio e convinti dell'inaffidabilità della controparte.

Solo una missione, mentre la Cina si compra il mondo, spinge dunque Hu Jintao a Washington e a Chicago: salvare oggi i suoi creditori per non perdere lo slancio che sta garantendo alla Cina di farli fallire domani, sfilandoli a India, Giappone e infine anche all'Europa.

Conquistare il controllo del mondo nel Duemila è l'ultimo compito del suo mandato e su questo si gioca un ritratto su piazza Tiananmen, dove davanti a Mao ha appena riportato anche Confucio.


Obama e Hu, il nuovo ping-pong
di Giuliano Luongo - Altrenotizie - 18 Gennaio 2011

Un solo faccione dominava le colonne del Wall Street Journal di ieri, quello del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao: il leader cinese ha rilasciato una lunga serie di dichiarazioni sul futuro delle relazioni bilaterali e della cooperazione tra il suo Paese e gli Stati Uniti, proprio con una manciata di ore di anticipo sul suo prossimo incontro con il Presidente americano Obama.

Hu Jintao però, nonostante il generale tono di diplomazia, ha rivolto numerose critiche sia alla politica economica del rivale a stelle e strisce che al ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali.

Ma conviene andare per ordine: le dichiarazioni di Hu Jintao - non possiamo parlare di discorso, in quanto abbiamo per le mani solo delle risposte in forma scritta a quesiti posti da alcune testate statunitensi - sono partite con un tono alquanto generico, facente riferimento a delle non meglio identificate “differenze e problematiche” che rallentano l’avvicinamento tra i due paesi, senza far riferimento a manovre non propriamente di “buon vicinato” da parte americana, come la fornitura di armi a Taiwan.

Sono seguiti alcuni commenti negativi alla strategia della Federal Reserve al fine di stimolare la crescita attraverso ingenti acquisti di bonds per mantenere bassi i tassi d’interesse a lungo termine, una strategia che la Cina ha già criticato in passato, additandola come prima causa di incremento dell’inflazione nelle economie emergenti, inclusa la stessa Cina.

Il Presidente cinese ha detto che la politica monetaria americana “ha un forte impatto sulla liquidità e sui flussi di capitale globali, e perciò la liquidità del dollaro deve essere mantenuta ad un livello stabile e ragionevole” e ha inoltre smorzato le accuse americane alla propria politica economica, nonostante il fatto che il problema del valore dello yuan sarà di sicuro al centro delle discussioni con l’omologo d’oltreoceano.

L’influente politico asiatico ha quindi ribadito la convinzione della Cina riguardo al fatto che la crisi abbia rispecchiato “l’assenza di regolamentazione nell’innovazione finanziaria” ed il totale fallimento delle istituzioni finanziarie internazionali “nel riflettere il nuovo ruolo dei paesi in via di sviluppo nell’economia e nella finanza mondiale”. Ha poi invocato, con modalità un filino trite ma pur sempre d’effetto, un sistema finanziario che sia più “giusto, corretto e ben gestito”.

Fino a questo punto, sembrerebbe dunque di essere di fronte alle ennesime dichiarazioni-fuffa vuote di contenuti degne del peggior politico, ma invece Hu Jintao ha saputo dare una stoccata molto forte con le sue parole, una volta davanti al tema del dollaro come valuta di riserva internazionale: “Il sistema valutario internazionale è un prodotto del passato”.

Poche parole, pesanti come piombo: le generiche accuse al sistema finanziario mondiale ed al “piove, governo ladro” si concretizzano in un attacco diretto ad una direttrice dalla quale l’economia mondiale non ha mai saputo allontanarsi, ossia quella dello strapotere della valuta americana e della sua irrinunciabilità come intermediario degli scambi internazionali e come misura di valore.

Ma le affermazioni “ad effetto” non si sono fermate qui. Hu Jintao ha richiamato l’attenzione sul fatto che la Cina voglia affermare la propria valuta come punto di riferimento per l’economia internazionale; affermazione, questa, non da poco ma nemmeno eccessivamente nuova, visto che tanto gli addetti ai lavori quanto gli amateurs più interessati ben sanno che già da qualche anno la Cina è intenta a studiare le eventuali applicazioni dell’uso internazionale dello yuan nell’area del sud-est asiatico.

In ogni caso, nonostante Hu stesso ammetta che la “internazionalizzazione” della moneta cinese sarà un processo lungo, il guanto della sfida sembra lanciato: non più - o almeno non solo - una minaccia al dollaro che si concretizza nello spostare le preferenze su di un’altra valuta (l’euro, oramai da identificare come il fesso di turno dell’economia), ma anche nell’atto di offrire, seppure in futuro, una nuova valuta di riserva.

Non resta dunque che vedere in che modo la questione economico-monetaria verrà affrontata e trattata una volta giunti al tavolo delle trattative, o se da Washington diverse strategie spingeranno verso un ordine del giorno con differenti priorità.

Va ricordato che le note testate di cui sopra riportano anche le prospettive della Casa Bianca riguardo il prossimo importante incontro al vertice col rivale asiatico. Hilary Clinton esordisce con più entusiasmo rispetto al leader cinese, parlando di “accordi promettenti”, “futuro roseo” et similia.

Andando più nel concreto, l’amministrazione Obama punta a lanciare sul piatto altri argomenti scottanti come il caso Corea del Nord, il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo ed i problemi legati al regime di tutela del diritto d’autore sul territorio cinese.

Accanto a questo, Washington vuole anche dimostrare le proprie capacità nel produrre occupazione nonostante la disoccupazione oltre il 9% e, soprattutto, vuole riaprire anche il dialogo al livello di coordinamento militare: non dimentichiamo infatti il “no” secco di Pechino all’avvio di eventuali esercitazioni coordinate tra le forze armate dei due paesi.

Sulla base di questi elementi, non resta che fare alcune riflessioni sulla possibile agenda di questo tanto atteso meeting che riporta Hu Jintao sul suolo statunitense 5 anni dopo la sua ultima visita del 2006. Ebbene, bisogna essere consci del fatto che la Cina arrivi ormai al tavolo delle trattative come grande potenza non solo economica, non più come un semplice PVS territorialmente obeso.

Gli USA, invece, partono clamorosamente svantaggiati dal punto di vista dell’economia, trovandosi a dover “limitare i danni” nel dialogo con un paese che, in quanto a dinamismo, impartisce severe lezioni.

Si misurerà la spinta statunitense a svalutare il dollaro con la volontà di freno dei cinesi ad attuare questa strategia: se gli USA svalutano troppo, a Pechino ci si ritroverà con miliardi di dollari di nessun valore…ma comunque dalla Cina si potrà sempre prendere la decisione di “staccare la spina” al debito americano.

Il campo è alquanto minato, Washington rischia più di Pechino vista la situazione di crisi nera: se vuole raggiungere qualche vago successo o almeno cercare di rafforzare la propria posizione, lo Zio Sam deve far leva sui cosiddetti problemi “etici” e di geostrategia, si veda appunto il tema dei diritti ed il delirio nordcoreano.

Il “piccolo” problema è che, specie dopo il benedetto scandalo Wikileaks, gli USA si pongono ormai anche davanti all’opinione pubblica meno smaliziata, solo come una diversa potenza con un grado di oppressività appena minore ma meglio dissimulato rispetto all’avversario.

Non siamo dunque di fronte ad un momento storico per la sola Cina, che si presenta alle porte dell’America come (potenziale) “vincitrice”, ma siamo davanti ad un’occasione fondamentale per gli Stati Uniti, l’occasione per dimostrare di poter essere ancora la superpotenza di riferimento o, almeno, un grande partner con cui il confronto e la ricerca di un accordo sono obbligatori.


La Cina gioca la carta dell'euro
di Thomas H. Naylor* - www.counterpunch.org - 14 Gennaio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Pascal Sotgiu

Sepolto a pagina 3 della pagina economica del New York Times del 7 gennaio c'era un articolo che segnalava che la Cina si era impegnata ad acquistare bond spagnoli per un valore di 6 miliardi di euro (7,8 miliardi di dollari). Quel che il giornalista non ha notato è l'ampia portata delle conseguenze politiche ed economiche che quest'evento potrebbe avere.

La Cina attualmente detiene 2700 miliardi di dollari in riserve valutarie, oltre 900 miliardi dei quali sotto forma di debiti del Tesoro americano. Per anni i critici della politica monetaria degli Stati Uniti hanno sostenuto che in risposta ai bassi rendimenti sui titoli del Tesoro statunitense e al rischio di un declino precipitoso del valore del dollaro la Cina potrebbe staccare la spina ai suoi investimenti sulla Tesoreria americana.

Altri sostengono che ciò non accadrà mai perché l'economia cinese è così dipendente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti che esse potrebbero cessare se la Cina con le proprie azioni dovesse innescare un collasso dell'economia statunitense.

Nel contempo, la Casa Bianca continua ad assillare la Cina riguardo al suo record (di violazione) dei diritti umani, oltre a sostenere che il valore della valuta cinese, lo yuan, sia gonfiato.
Quando la Cina si è rifiutata di permettere al Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo di andare ad Oslo per ricevere il premio è stata oggetto di numerose critiche da parte di Washington.

In una serie di recenti visite nelle capitali europee il vice primo ministro esecutivo cinese Li Keqiang ha promesso il sostegno cinese alle economie dell'Unione Europea. Promettendo di comprare obbligazioni per miliardi di euro e impegnandosi per altri miliardi in accordi economici con gli europei, Pechino potrebbe star avvisando Washington che la misura è colma.

Investendo nelle economie europee, la Cina rafforza uno dei suoi altri mercati di esportazioni più importanti e si rende meno dipendente dagli Stati Uniti.

E' interessante il fatto che i bond spagnoli dovrebbero essere il primo investimento su Stati facenti parte dell'euro fatto dalla Cina. La Spagna è senza dubbio il paese più indipendente dell'Unione Europea.

Il suo primo ministro, José Luis Rodriguez Zapatero, è l'unico leader in Europa che ha il coraggio di resistere a Washington, a Tel Aviv e al Vaticano. Il governo socialista spagnolo è anche il più orientato a sinistra nell'Europa di oggi.

La Spagna ha significative partecipazioni strategiche in America Latina e in Africa, due parti del mondo in cui la Cina vorrebbe espandere la sua influenza nel quadro della ricerca di petrolio e di altre risorse naturali. Giocare la carta spagnola è stato un colpo di genio da parte di Pechino.

Credo che ci siano due motivi per cui Washington non abbia ceduto alle pressioni israeliane per smantellare il programma nucleare iraniano. In primo luogo, la Russia potrebbe danneggiare gravemente l'economia europea se dovesse tagliare le forniture di gas naturale verso l'Europa per rappresaglia.

In secondo luogo la Cina potrebbe accelerare il collasso dell'economia statunitense abbandonando i buoni del Tesoro americano. Intervenendo per aiutare salvare l'Unione europea, la Cina dimostra che la minaccia di staccare la spina sui propri investimenti in titoli del Tesoro USA è credibile.

L'unica cosa sorprendente della mossa della Cina sull'Europa è che essa non sia avvenuta prima. Ma il messaggio di Pechino a Washington è forte e chiaro: "Non scherzate con noi, né con l'Iran."

*Thomas H. Naylor è professore emerito di economia alla Duke University. E' co-autore di “Ridimensionare degli Stati Uniti” e “La generazione abbandonata: ripensare l'istruzione superiore” nonché co-fondatore dell'Istituto Middlebury.



Ecco come la Cina si prepara a "mangiare" l'Europa
di Mauro Bottarelli - Il Sussidiario.net - 18 Gennaio 2011

Non so voi, ma io ho sempre ritenuto il 99% dei cables resi noti da Wikileaks nient’altro che una versione mediaticamente gonfiata della cosiddetta scoperta dell’acqua calda (ieri l’ultima “rivelazione”: «Alle Cayman tutti i giorni si compiono operazioni illecite».

Ma vah? Aspettavamo proprio Julian Assange in crisi di liquidità per scoprirlo). Spulciando tra le migliaia di informazioni rese note, però, qualcosa di interessante - e quindi ignorato dalla grande stampa - si trova.

Ma ne parleremo più avanti. Una sola cosa è certa, infatti, alla vigilia del vertice Ecofin di oggi: la Germania e la sua linea di rigorismo sull’allargamento del Fondo di salvataggio europeo (i cui particolari sono stati ampiamente anticipati e trattati nel mio articolo dell’11 gennaio scorso) traballano. Esattamente come la maggioranza di governo tedesca, spaccata su questa ipotesi con i liberali della FDP sul piede di guerra e pronti alla crisi di coalizione.

Guido Westerwelle, vice-Cancelliere e capo della FDP, ha infatti detto chiaro e tondo che non esiste alcuna giustificazione alla richiesta di Bruxelles, poiché «solo una piccola parte del fondo è stata utilizzata, quindi non esiste necessità nemmeno di parlare di un suo incremento».

Gli ha fatto eco Otto Solms, portavoce della FDP per le materie finanziarie, secondo cui «l’espansione del Fondo lo tramuterebbe nei fatti in una bad bank per l’acquisto preventivo di bonds di eurolandia».

Non hanno tutti i torti, ma resta il fatto che la Commissione Europea, la stessa che vorrebbe giungere all’ampliamento del Fondo (EFSF) già alla riunione straordinaria dell’Ue del 4 febbraio, ha detto a chiare lettere che «un nuovo impulso della crisi del debito sarà inevitabile nel 2011».

E questo argomento sembra aver convinto sia Angela Merkel che il ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble, della necessità di un ampliamento e, soprattutto, di un cambio statutario che permetta al Fondo di acquistare bond sul mercato esattamente come sta facendo la Bce.

Ma come stanno le cose, quindi? A oggi sono stati stanziati 110 miliardi di euro per la Grecia, 85 per l’Irlanda, 60 di fatto già messi a bilancio per il Portogallo e poi chissà: Spagna? Belgio? Italia?

In più mettiamo nel calderone il conto per salvare le banche e arriveremo a svariate centinaia di miliardi di euro, nei fatti in gran parte sul groppone Ue, cioè dei tedeschi. In realtà, un terzo circa è a carico del Fmi (finanziato per oltre la metà da paesi extraeuropei), mentre due terzi sono a carico degli Stati di eurolandia: i quali, a oggi, hanno però messo un paio di decine di miliardi reali e niente più, nemmeno un cents dei quali fino a oggi è stato davvero versato lasciando i vari paesi senza alcuna perdita attuale nell’operazione.

Paradossalmente, se la crisi non degenererà fino alle sue più estreme conseguenze, questo salvataggio potrebbe rivelarsi addirittura un guadagno, costituito dallo spread tra il costo di finanziamento per i paesi creditori e il tasso elevato richiesto ai debitori (pensiamo al 5,75% chiesto a Dublino rispetto al 5% di Atene). I crediti tedeschi, insieme a quelli del Fondo Monetario, hanno poi seniority assoluta, cioè precedenza, rispetto a tutti gli altri.

Con il meccanismo della seniority il Fondo Monetario è riuscito in 60 anni a recuperare praticamente sempre i suoi crediti e a uscire regolarmente in utile: c’è da scommettere che anche la Germania riuscirà a cavarsela o comunque farà di tutto per giungere a questo epilogo.

A ben vedere la linea tedesca è quella di trovare i modi per trasferire risorse senza creare automatismi o precedenti, niente di più e niente di meno. Ma sarà possibile? E, soprattutto, servirà? La risposta è semplice: dipende come sarà fatto.

Nei fatti, “a causa” del suo rating AAA e della conseguente necessità di iper-collateralizzare i suoi prestiti, l’EFSF a fronte dei suoi nominali 440 miliardi di euro può prestarne soltanto 250: questo porta il valore nozionale del fondo di salvataggio europeo di 750 miliardi (440 + 250 del Fondo Monetario + 60 della Commissione Europea) a poco più di 450 di valore reale.

La Germania ha espresso la volontà di tramutare quel nozionale in un valore reale di 750 miliardi di euro, probabilmente ampliando le garanzie: questo garantirebbe la copertura del salvataggio di Portogallo, Irlanda e forse Spagna.

Il problema è che se si dà seguito alla volontà di José Manuel Barroso, numero uno della Commissione Ue, di tramutare il Fondo in acquirente attivo di bonds, capite che la coperta diventa corta e i margini operativi minimi: un simile accordo farebbe la gioia dei mercati forse per un paio di giorni e niente più.

La volontà della Commissione, in realtà, è chiara: tramutare l’EFSF, col tempo, nel nucleo di un’agenzia europea di debito e tramutare i bonds da essa emessi in obbligazioni sovrane dell’eurozona.

Per farlo, però, in primo luogo bisogna accrescere il volume del Fondo, nominale o reale, a circa 2mila miliardi di euro e poi dar vita a una garanzia congiunta di tutti gli Stati dell’eurozona: passo successivo sarà consentire all’EFSF di garantire i bonds emessi dai periferici, nonché la possibilità di finanziare la ricapitalizzazione del sistema finanziario.

In parole povere, aggirando con alcuni trucchetti le mosse più azzardate e palesi, si arriverebbe alla creazione di un’unione fiscale e dell’eurobond tanto caro a Giulio Tremonti. Lo accetterà Berlino? Molto, molto difficile.

L’alternativa, però, è tramutare l’attuale ampliamento junior del Fondo e l’aiuto cinese all’Ue in null’altro che una dilazione di tempo a favore delle banche europee per scaricare sui contribuenti europei e asiatici le loro liabilities, quantificabili solo per il sistema spagnolo in 181 miliardi di euro di prestiti potenzialmente problematici verso il settore immobiliare, qualcosa pari al 17% del Pil iberico (dati forniti a novembre dalla Banca centrale spagnola).

E sta proprio nell’interconnessione tra Spagna e Cina uno dei nodi della situazione attuale e pre-Ecofin dell’Europa in cerca di risposte. A confermarlo ci ha pensato niente meno che colui il quale possiamo definire “il presidente d’Europa”, ovvero Herman Van Rompuy, che la scorsa settimana durante una visita a Londra ha reso note la sue preoccupazioni riguardo l’attivismo cinese sul mercato obbligazionario europeo, finalizzato a suo dire non solo all’aiuto ma anche a una manipolazione valutaria.

«Quando comprano euro, l’euro si rafforza e la loro moneta si indebolisce un po’. Ma non intendo proseguire oltre su questo argomento, potrebbe rivelarsi delicato», ha sentenziato un po’ pilatescamente Van Rompuy.

I dati, però, parlano chiaro: la Cina è diventata la forza trasformatrice della crisi del debito europeo attraverso l’utilizzo di parte delle sue riserve da 2,87 trilioni di euro per “salvaguardare la stabilità globale”.

D’altronde, l’impronta di un creditore monstre si è palesata chiaramente la scorsa settimana nelle aste di bond portoghesi, spagnoli e italiani, tutte andate a gonfie vele e con rendimenti in crescita ma frazionale, comunque sotto il livello di guardia.

Pur non essendoci prove della manina cinese, il fatto che il vice-premier Li Keqiang abbia confermato la volontà di acquistare bond spagnoli per 6 miliardi di euro durante la sua visita a Madrid di due settimane fa rappresenta un bell’indizio al riguardo.

Inoltre, il Wall Street Journal ha confermato che il compratore segreto di 1 miliardo di debito portoghese in un’asta privata tenutasi due settimane fa è stata proprio la Cina e lo stesso ministro delle Finanze lusitano, Fernando Texeira dos Santos, ha definito Pechino «un compratore chiave» nell’asta della scorsa settimana.

Ma non solo: voci che circolano fra i traders confermano che anche la Bce è entrata aggressivamente sulla scena utilizzando 20 dealers per comprare debito portoghese sul mercato secondario (quindi con rendimenti più alti).

Questo doppio intervento istituzionale ha sì consentito alle aste di andare a buon fine, ma se da un lato ha creato una domanda artificiale e anti-mercato, dall’altro ha dato vita a un effetto di short-squeeze subito prima dell’asta portoghese portando a un calo dei rendimenti che ha colpito gli operatori del mercato che agivano in buona fede.

Nella City non hanno gradito. C’è da chiedersi, poi, a quale prezzo Pechino intenda ricoprire questo ruolo e quali concessioni strategiche esigerà in cambio. Per Charles Grant, capo del Centre for European Reform, la finalità ultima cinese è chiara: ottenere la fine dell’embargo europeo sulle armi, imposto dopo la strage di piazza Tienanmen del 1989 e visto come un’umiliazione da quella che oggi è a tutti gli effetti una superpotenza globale.

L’Ue, dal canto suo, ha rifiutato il ritiro dell’embargo fino a quando la Cina non ratificherà la Convenzione internazionali dei diritti civili e politici: l’arresto del premio Nobel, Liu Xiabao, poi, ha complicato ulteriormente la situazione.

Ma nonostante questo e le diffidenze di Gran Bretagna, Francia e Germania rispetto a quello che sarebbe visto come uno sgarbo dagli Stati Uniti (già spaventati dall’attivismo militare della Cina), la baronessa Ashton, capo della politica estera europea, parla da tempo di «una nuova via nei rapporti tra Ue e Cina, danneggiati da questo embargo».

Insomma, spaccatura su un argomento molto caldo e a sua volta legato a doppio filo al trattamento di favore che Pechino sta riservando al debito Ue.

Eccoci quindi tornare a WikiLeaks, tema trattato in apertura di articolo. Nel gennaio dello scorso anno, infatti, due calbles giunti dall’ambasciata Usa di Pechino citavano il capo della missione Ue, Alexander McLachlan e il suo malumore per il fatto che la Spagna avesse tentato di ingraziarsi il favore dei leader cinesi «a tutto svantaggio e alle spese degli altri Stati europei».

Di più, «la Cina è assolutamente a conoscenza del gioco di Madrid e sta sfruttando le divisioni interne all’Ue per guadagnare esposizione». E come avrebbe fatto la Spagna, già cosciente con mesi di anticipo delle proprie gravose necessità di finanziamento, a ingraziarsi Pechino?

Ce lo dice sempre un cable di WikiLeaks che citan ancora Alexander McLachlan e il fatto che molti paesi europei cominciassero «a essere stufi per il comportamento dell’ambasciatore spagnolo in Cina, Blasco Villa, e per le sue recenti dichiarazioni ai media cinesi riguardo il fatto che l’Unione Europea potrebbe considerare un alleggerimento dell’embargo sulle armi. I cinesi non credono agli spagnoli, ma stanno comunque usando questo argomento come una leva contro di noi».

Inoltre, l’agenda di Pechino conterrebbe anche un secondo obiettivo: ovvero, l’ottenimento dello status di economia di mercato da parte dell’Ue, fatto che renderebbe molto più difficile per l’Europa l’imposizione di misure anti-dumping verso l’import dalla Cina.

Bruxelles, d’altronde, ha già ammorbidito le sue tariffe punitive verso le scarpe cinesi: i margini per negoziare e ricattare, grazie anche a comportamenti come quello spagnolo, ci sono. Non si spiegherebbe altrimenti la volontà cinese di salvare l’Europa, visto che a fronte dell’aumento dell’inflazione interna, Pechino e i suoi fondi non potranno ripetere l’errore fatto con le banche Usa o il debito statunitense, dimostrando a cittadini sempre più arrabbiati come il governo sprechi il denaro pubblico.

Insomma, acquirente di ultima istanza del debito sovrano europeo a rischio default sì ma a un prezzo molto preciso. E salato, anche a livello di rapporti internazionali e stabilità globale.

Prima di pensare a una fiscalità comune, a un Fondo da allargare che emetta anche debito e ad altre ingegnerie economiche, sarà meglio sancire una comune linea di politica estera. E in fretta, se non vogliamo tramutare Bruxelles e le sue istituzioni in una succursale di Pechino e l’Ue in un protettorato cinese.