martedì 5 luglio 2011

Quei peracottari di Palazzo Chigi

Nessun altro commento, più che sufficienti il titolo, i seguenti articoli...e basta!


P.S. Tremonti ha annullato oggi la conferenza stampa di presentazione della manovra finanziaria a causa del maltempo...no comment anche qui e stendiamo l'ennesimo strato di velo pietoso.


Mondadori, storia di una sentenza comprata
di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 5 Luglio 2011

Nel 1991 la Corte d'appello annulla il Lodo arbitrale e sfila il primo gruppo editoriale italiano al patron dell'Espresso. Il corruttore è Cesare Previti che, con gli avvocati Pacifico e Acampora, pagò il giudice Vittorio Metta

Che la sentenza Mondadori del 1991 che annullò il Lodo arbitrale e sfilò il primo gruppo editoriale italiano a Carlo De Benedetti consegnandolo a Silvio Berlusconi fosse comprata, dovrebbero saperlo tutti.

Il corruttore si chiama Cesare Previti che, assieme agli avvocati Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, pagò il giudice Vittorio Metta per conto di B. e con denaro della Fininvest di B., utilizzatore finale del mercimonio criminale.

Da vent’anni dunque il presidente del Consiglio possiede abusivamente una casa editrice, con i suoi libri e i suoi settimanali, usandoli per accumulare utili e consensi. Ma non vuole saperne di restituire il maltolto. Un po’ di storia.

IL LODO

Nel 1988 Berlusconi, che già da tempo ha messo un piede nella casa editrice rilevando le azioni di Leonardo Mondadori, annuncia: “Non voglio restare sul sedile posteriore”. De Benedetti, che controlla il pacchetto di maggioranza, resiste all’assalto e si accorda con la famiglia Formenton, erede di Arnoldo, che s’impegna a vendergli il suo pacchetto azionario entro il 30 gennaio 1991. Ma gli eredi cambiano idea e, nel novembre del 1989, fanno blocco con Berlusconi che, il 25 gennaio 1990, si insedia alla presidenza della casa editrice.

Oltre a tre tv e al Giornale, dunque, il Cavaliere s’impossessa del gruppo editoriale che controlla Repubblica, Panorama, Espresso, Epoca e i 15 giornali locali Finegil, spostandolo dal campo anti-craxiano a quello filo-craxiano. La “guerra di Segrate”, per unanime decisione dei contendenti, finisce dinanzi a un collegio di tre arbitri, scelti da De Benedetti, dai Formenton e dalla Cassazione.

Il lodo arbitrale, il 20 giugno 1990, dà ragione all’Ingegnere: il suo patto con i Formenton resta valido, le azioni Mondadori devono tornare a lui. Berlusconi lascia la presidenza, arrivano i manager della Cir debenedettiana: Carlo Caracciolo, Antonio Coppi e Corrado Passera. Ma il Cavaliere rovescia il tavolo e, assieme ai Formenton, impugna il lodo dinanzi alla Corte d’appello di Roma.

Se ne occupa la I sezione civile, presieduta da Arnaldo Valente (secondo Stefania Ariosto, frequentatore di casa Previti). Giudice relatore ed estensore della sentenza: Vittorio Metta, anch’egli intimo di Previti. La camera di consiglio si chiude il 14 gennaio 1991.

Dieci giorni dopo, il 24, la sentenza viene resa pubblica: annullato il Lodo, la Mondadori torna per sempre a Berlusconi. L’Ingegnere lo sapeva già: un mese prima il presidente della Consob, l’andreottiano Bruno Pazzi, aveva preannunciato la sconfitta al suo legale Vittorio Ripa di Meana.

“Correva voce – testimonierà De Benedetti – che la sentenza era stata scritta a macchina nello studio dell’avvocato Acampora ed era costata 10 miliardi… Fu allora che sentii per la prima volta il nome di Previti, come persona vicina a Berlusconi e notoriamente molto introdotta negli uffici giudiziari romani”.

Nonostante il trionfo, comunque, Berlusconi non riesce a portare a casa l’intera torta. I direttori e molti giornalisti di Repubblica, Espresso e Panorama si ribellano ai nuovi padroni.

Giulio Andreotti
, allarmato dallo strapotere di Craxi sull’editoria, impone una transazione nell’ufficio del suo amico Giuseppe Ciarrapico: Repubblica, Espresso e i giornali Finegil tornano al gruppo Caracciolo-De Benedetti; Panorama, Epoca e il resto della Mondadori rimangono alla Fininvest.

I SOLDI

Indagando dal 1995 sulle rivelazioni della Ariosto sulle mazzette di Previti ad alcuni giudici romani, il pool di Milano scopre un fiume di denaro dai conti esteri Fininvest a quelli degli avvocati del gruppo e da questi, in contanti, a Metta.

Il 14 febbraio ‘91 dalle casse All Iberian parte un bonifico di 2.732.868 dollari (3 miliardi di lire) al conto “Mercier” di Previti. Da questo, il 26 febbraio, altro bonifico di 1 miliardo e mezzo (metà della provvista) al conto “Careliza Trade” di Acampora.

Questi il 1° ottobre bonifica 425 milioni a Previti, che li dirotta in due tranche (11 e 16 ottobre) sul conto “Pavoncella” di Pacifico. Il quale preleva 400 milioni in contanti il 15 e il 17 ottobre e li fa recapitare in Italia a un misterioso destinatario: secondo l’accusa, Metta.

Il giudice, nei mesi successivi, acquista e ristruttura un appartamento per la figlia Sabrina e compra una nuova auto Bmw, il tutto con denaro contante di provenienza imprecisata (circa 400 milioni). Poi lascia la magistratura, diventa avvocato e dove va a lavorare con la figlia Sabrina? Allo studio Previti, naturalmente.

Al processo, Previti giustificherà quei 3 miliardi Fininvest in Svizzera come “tranquillissime parcelle”, ma non riuscirà a documentare nemmeno uno straccio di incarico professionale in quel periodo.

Mentiranno pure Acampora e Pacifico. E così Metta, che tenterà di spacciare l’improvvisa liquidità per un’eredità. L’ex giudice giurerà di aver conosciuto Previti solo nel ‘94, ma i pm Boccassini e Colombo scopriranno telefonate fra i due già nel 1992-‘93.

Poi ci sono le modalità a dir poco stravaganti della sentenza Mondadori: dai registri della Corte d’appello emerge che Metta depositò la motivazione (168 pagine) il 15 gennaio 1991: il giorno dopo la camera di consiglio. Un’impresa mai riuscita a un giudice, né tantomeno a lui, che impiegava due-tre mesi per sentenze molto più brevi. Evidente che qualcuno l’aveva scritta prima che la Corte decidesse.

IL PROCESSO

Nel 1999 il pool chiede il rinvio a giudizio per Berlusconi, Previti, Metta, Acampora, Pacifico. Nel 2000 il gup li proscioglie tutti con formula dubitativa (comma 2 art. 530 cpp).

Ma nel 2001 la Corte d’appello accoglie il ricorso della Procura e li rinvia a giudizio tutti, tranne Berlusconi, appena tornato a Palazzo Chigi e salvato dalla prescrizione: a lui i giudici accordano le attenuanti generiche.

Perché a lui sì e agli altri no? Per “le attuali condizioni di vita individuale e sociale il cui oggettivo di per sé giustifica l’applicazione” delle attenuanti. La Cassazione conferma: il Cavaliere non è innocente, anzi è “ragionevole” e “logico” che il mandante della tangente a Metta fosse proprio lui.

Ma un fatto tecnico come le attenuanti “per la condotta di vita successiva all’ipotizzato delitto” giustifica le attenuanti ad personam. Anziché rinunciare alla prescrizione per essere assolto nel merito, B. prende e porta a casa. E fa bene: gli altri coimputati, senza le attenuanti, saranno tutti condannati.

In primo grado, nel 2003, Metta si prende 13 anni, Previti e Pacifico 11 anni sia per Mondadori sia per Imi-Sir, e Acampora (per la sola Mondadori) 5 anni e 6 mesi. Nel 2005, in appello, tutti condannati per Imi-Sir e tutti assolti (comma 2 art. 530) per Mondadori. Nel 2006 la Cassazione annulla le assoluzioni e ordina un nuovo appello che condanni pure per Mondadori.

LA SENTENZA

Il 23 febbraio 2007, in Corte d’appello, Previti, Pacifico e Acampora si vedono aumentare la pena di un altro anno e 6 mesi e Metta di 1 anno e 9 mesi, “in continuazione” con le condanne ormai definitive per Imi-Sir.

Scrivono i giudici che la sentenza Mondadori fu “stilata prima della camera di consiglio”, “dattiloscritta presso terzi estranei sconosciuti” e al di “fuori degli ambienti istituzionali”.

Tant’è che al processo ne sono emerse ”copie diverse dall’originale”. B. era all’oscuro dell’attività corruttiva dei suoi legali (che non assistevano la Fininvest nella causa, seguita dagli avvocati Mezzanotte, Vaccarella e Dotti)? Nemmeno per sogno: aveva – scrivono i giudici – “la piena consapevolezza che la sentenza era stata oggetto di mercimonio”.

Del resto “l’episodio delittuoso si svolse all’interno della ‘guerra di Segrate’, combattuta per il controllo di noti ed influenti mezzi di informazione; e si deve tener conto dei conseguenti interessi in gioco, rilevanti non solo sotto un profilo meramente economico, comunque ingente, ma anche sotto quello prettamente sociale della proprietà e dell’acquisizione dei mezzi di informazione di tale diffusione”.

Quando De Benedetti, sconfitto dalla banda Previti-Metta & C, accettò la transazione Ciarrapico per recuperare almeno parte del maltolto, si verificò un fatto inspiegabile: B. si oppose con foga al tentativo – assolutamente normale – della Cir di accennare, nel preambolo dell’accordo, alla sentenza che aveva appena annullato il lodo.

Perché mai non voleva firmare un atto che facesse riferimento alla sentenza Metta? Perché – deduce la Corte – era “a conoscenza dell’inquinamento metodologico a monte determinato dall’intervenuta corruzione del giudice”.

Alla fine i giudici citano la testimonianza “pienamente attendibile” della Ariosto, cui Previti aveva confidato “probabilmente nel luglio 1991 di essere stato lui a vincere la guerra di Segrate, e non Dotti”.

Anche i giudici d’appello definiscono Berlusconi il “privato corruttore”. Ma, diversamente dai loro colleghi che avevano disposto il rinvio a giudizio, stabiliscono che Previti, Pacifico e Acampora non concorrono nel reato del giudice Metta, bensì in quello del “privato corruttore”, cioè di B.:

“L’attività degli extranei nella consegna del compenso illecito si sostituisce a una condotta, che, altrimenti, sarebbe giocoforza posta in essere, in via diretta, dal privato interessato… La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell’interesse e su incarico del corruttore”. In pratica i tre avvocati Fininvest agirono come intermediari di B. che li incaricò di pagare Metta e, in seguito alla sentenza comprata, s’intascò la Mondadori. Essi, diversamente da lui, non meritano le attenuanti generiche, “non ravvisandosi alcun elemento positivo per attenuare il trattamento sanzionatorio”.

E questo per “l’enorme gravità del reato [e per] la gravità del danno arrecato non solo alla giustizia, ma all’intera comunità, minando i principi posti alla base della convivenza civile secondo i quali la giurisdizione è valore a presidio e a tutela di tutti i cittadini con conseguente ulteriore profilo di gravità per l’enorme nocumento cagionato alla controparte nella causa civile e per le ricadute nel sistema editoriale italiano, trattandosi di controversia (la cosiddetta guerra di Segrate) finalizzata al controllo dei mezzi di informazione; [per] la spiccata intensità del dolo; [per] i motivi a delinquere determinati solo dal fine di lucro e, più esattamente, dal fine di raggiungere una ricchezza mai ritenuta sufficiente”.

I DANNI

La Corte riconosce infine alla parte civile Cir di De Benedetti “tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, sotto una molteplicità di profili relativi non solo ai costi effettivi di cessione della Mondadori, ma anche ai riflessi della vicenda sul mercato azionario”.

Danni da quantificare in separata sede civile. Il 13 luglio 2007 la II sezione penale della Cassazione mette il timbro finale al caso, confermando in toto la sentenza d’appello-bis.

La vicenda – scrivono i giudici – “coinvolgente la Fininvest, fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris”, cioè del “mercimonio” della sentenza Metta, non ammette attenuanti: per “l’elevata gravità del reato e del relativo danno, l’intensità del dolo, i motivi a delinquere e i comportamenti processuali” caratterizzati da “mendacio”.

A quel punto la Cir, con gli avvocati Giuliano Pisapia ed Elisabetta Rubini, chiede alla Fininvest 1 miliardo di euro di danni. Nel 2009 il Tribunale civile di Milano condanna B. e Fininvest a risarcire Cir con 750 milioni. Il giudice Raimondo Mesiano viene pedinato e linciato da Canale5 e dalla stampa Mondadori, addirittura perché porta i calzini turchesi.

La Fininvest e B., diversamente da chiunque altro perda una causa civile, ottengono una sospensiva dell’immediata esecutorietà della sentenza: depositano una fidejussione e non pagano, in attesa dell’appello.

Ora che la sentenza di secondo grado è alle porte, un codicillo nascosto nella manovra finanziaria li esenta dal pagare anche se perdono in appello. È il “partito degli onesti”.



Cattivi pensieri
di Giovanni Bianconi - Il Corriere della Sera - 5 Luglio 2011

E pensare che il presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva salutato con favore il testo della manovra economica nella parte riguardante la giustizia perché, diceva, «non contiene norme ad personam». Quasi fosse un'insperata novità.

Ma ecco che nel decreto approvato dal governo e inviato al Quirinale per la firma, alle ultime tre righe dell'ultimo comma del terz'ultimo articolo - seminascosto in un malloppo di oltre cento pagine - compare una postilla che inevitabilmente rientra in quell'ormai logora definizione di cui pure le persone più a digiuno di leggi e questioni giudiziarie hanno imparato il significato: norma ad personam, appunto, cioè disegnata per risolvere o favorire la soluzione dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Una costante che si ripete da dieci anni.

Stavolta la vicenda riguarda il contenzioso civile per la vicenda Mondadori, tra il premier e l'ingegner Carlo De Benedetti. Dopo che nel processo penale è divenuta definitiva la condanna del giudice corrotto che nel lontano 1991 sancì il passaggio della casa editrice alla Fininvest di Berlusconi, è cominciata la causa per il risarcimento chiesto da De Benedetti; e nel 2009 il giudice Raimondo Mesiano ha stabilito, in primo grado, che la Fininvest del Cavaliere deve versare alla Cir dell'Ingegnere la cifra record di 750 milioni di euro.

Nel processo d'appello una perizia ha ridotto il valore del presunto danno tra 440 e 490 milioni. Comunque una bella somma. La sentenza è attesa a giorni.

Alla luce di questa situazione, le tre righe introdotte nel decreto legge contenente «disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria» assumono un significato fin troppo chiaro: la sospensione dell'esecuzione della sentenza, che secondo il codice vigente il giudice può stabilire in particolari situazioni, «è concessa in ogni caso per condanne di ammontare superiore a venti milioni di euro». Come quella della causa Mondadori e presumibilmente non molte altre.

Introdotta alla vigilia del verdetto d'appello, è difficile immaginare la ragione di una siffatta riforma diversa dall'esigenza di allontanare gli effetti (e soprattutto i costi per il capo del governo) di una possibile condanna della Fininvest.

Paventata pochi giorni fa da un preoccupato Berlusconi, che agli ex compagni di scuola radunati per un funerale confidava: «Dove li trovo tanti soldi?». Se la nuova norma dovesse entrare in vigore, il ricorso in Cassazione gli concederebbe qualche altro anno di tempo: per rinviare il pagamento basterà «prestare idonea cauzione». Poi si vedrà.

Il paradosso è che l'articolo in cui è stata infilata l'ennesima norma ad personam s'intitola «Disposizioni per l'efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie».

L'esecutività delle sentenze d'appello serve proprio a sveltire i tempi dei contenziosi, in modo da soddisfare più in fretta chi vince e scoraggiare ricorsi temerari o dilatori di chi perde. Il codicillo va nella direzione opposta. Nonostante il titolo. Ma evidentemente c'era un'urgenza più impellente da soddisfare.


Berlusconi e i cortigiani reggi-pitale
di Peter Gomez - Il Fatto Quotidiano - 5 Luglio 2011

La decisione di inserire nella legge finanziaria una norma per evitare alla Fininvest e al suo padrone di pagare alla Cir di Carlo De Benedetti il risarcimento per i giudici comprati durante il caso Mondadori e il conseguente scippo della casa editrice rappresenta una soglia di non ritorno.

Non per Silvio Berlusconi, che quella soglia l’ha già superata da un pezzo, ma per tutta la sua maggioranza e per i suoi (ultimi) supporter.

Dalla difesa della libertà del premier (dai processi e dalle sentenze) si passa a quella apertamente dichiarata dei suoi soldi. Sapendo oltretutto benissimo che un’eventuale condanna civile in secondo grado di Fininvest, anche eguale a quella inflitta in primo grado (750 milioni di euro), non ridurrà Berlusconi sul lastrico, ma lo renderà appena un po’ meno ricco.

Che Berlusconi lo faccia non stupisce. Il vecchio leader del Pdl sente di essere al tramonto. Al di là delle dichiarazioni di facciata, teme che questa sia la sua ultima legislatura da presidente del Consiglio. E allora tenta di arraffare tutto quello che c’è ancora da arraffare. In fondo tiene famiglia pure lui.

Più interessante è invece riflettere sulla stupidità del resto della Corte. Cercare d’introdurre, a quattro giorni dal verdetto d’appello sul lodo Mondadori, una norma del genere, è una follia per chi tra i cortigiani pensa di continuare a fare politica anche nei prossimi anni. La manovra impone sacrifici a milioni di cittadini.

Gli elettori del Pdl, e sopratutto quelli della Lega, hanno già preso malissimo la scelta di rinviare al 2013 i tagli ai costi della Casta. E ora si trovano di fronte a un decreto legge che punta a far pagare tutti meno uno: il loro leader.

Certo, nelle prossime ore, assisteremo al consueto fuoco di sbarramento teso a spiegare che qui chi doveva incassare non era l’erario, ma l’odiato Carlo De Benedetti.

Altre voci faranno poi notare che la legge vale per tutti quelli che hanno in ballo risarcimenti civili superiori ai 20 milioni di euro (cioè pochissime aziende ndr). Qualche buontempone, infine, dirà che la norma non cancella i pagamenti, ma si limita a congelarli sino alla cassazione.

Resta però un fatto: centinaia di migliaia di cittadini, anzi milioni, sanno benissimo per diretta esperienza personale che nelle cause civili, fino ad ora, prima si versava il dovuto e poi si sperava nel ricorso.

In questo clima, insomma, prenderli per fessi sui soldi (magari a colpi di televisioni e di tg) non è esattamente quella che si definisce una grande idea.

Se fino a due anni fa, quando votava le leggi pro Berlusconi, il centrodestra poteva sostenere che il premier aveva dietro di sé la maggioranza del paese, oggi a quella favola non crede più nessuno.

Per tutti, finalmente, la questione Berlusconi diventa quello che era sempre stata e che in molti facevano però finta di non vedere: una semplice questione d’interessi personali e soldi.

Una faccenda esclusiva di un uomo anziano che non riesce più a evitare di farla fuori dal vaso. Di un ricco signore che, giorno dopo giorno, rischia sempre più di vedere discostarsi di un passo coloro i quali gli reggono ancora il pitale.

Di un politico dal futuro sempre più breve, ormai disposto a combattere solo per sé e per la sua roba.


Calderoli, il ministro dal pensiero semplice
di Lidia Ravera - Il Fatto Quotidiano - 5 Luglio 2011

“Alcune etnie hanno maggior propensione a delinquere”. Lombroso? No, Calderoli. “Vogliamo i campanili, non i minareti”. Ratzinger? No, Calderoli. “Fatemi commissario per lo smaltimento dei rifiuti a me, ci vado con il lanciafiamme… ci vado armato, vado lì e faccio i buchi… se la camorra spara sparo anch’io… se i napoletani mi ammazzano non ho problemi…”.

Pierino Sciocchino di anni sei? No, Calderoli Roberto, di anni 55, laureato chirurgo maxillo-facciale (spaccatemi pure il muso, tanto me lo riaggiusto in un baleno), di professione ministro della Semplificazione, materia per la quale è decisamente portato.

Disgrazia vuole che l’Emergenza Cronica (tipico ossimoro partenopeo) dello smaltimento rifiuti nella Regione Campania, presenti un certo tasso di complessità: il ministro, specializzato nel pensiero facile, non sa che cosa dire.

Chiaro sintomo dello stato di frustrazione, è assumere atteggiamenti minacciosi: “Voleranno le sedie!”, grida a Pontida. Guardi in alto, ministro: gli asini volano già.



Il più grosso insulto del governo alla rete
di Claudio Messora - www.byoblu.com - 4 Luglio 2011

Nella lunga e triste storia degli assalti alla rete, oggi dobbiamo aggiungere, increduli e sbigottiti, l'ultima colossale e paradossale presa per il culo.

Nel video qui sotto, che riassume tutti i tentativi - dichiarati - di ricondurre internet ad una grande, immensa televisione, grosso modo lo schema è sempre lo stesso: si prende uno spazio libero (la rete) e si cerca di mettergli la museruola.

Mai è avvenuto il contrario, a costo di togliere ripetutamente fondi agli interventi economici e strutturali in favore dello sviluppo della banda larga più volte annunciati e ricordiamoci che siamo cinquantatreesimi nel mondo per penetrazione della rete internet).

Improvvisamente, la settimana scorsa il governo decide invece che è prioritario "un piano di interesse nazionale per il diritto di accesso a Internet, mediante la razionalizzazione, la modernizzazione e l’ammodernamento delle strutture esistenti". Parole di Paolo Romani, quello del famigerato Decreto.

Sentire Romani che parla di
Diritto di accesso a internet é come vedere il lupo fondare un'associazione a difesa e tutela delle vecchine che abitano da sole in una casa nel bosco e attendono ogni pomeriggio una nipotina con una torta nel cestino.

Potrebbe mai essere qualcosa di diverso che la solita ingegnosa presa per il culo?


E infatti l'ipotesi
dura 48 ore, giusto il tempo di convincere il direttore di LA7 a far sfumare l'intesa con Santoro per Annozero.

LA7
è una creatura Telecom Italia Media, la quale vive e sopravvive anche grazie all'infrastruttura di rete di esclusiva proprietà di Telecom Italia, la stessa infrastruttura che il piano Romani vorrebbe razionalizzare (in parole povere, sottrarre e ripartire tra gli altri operatori).

Il governo dei monopolisti dell'informazione, che ha sempre ostacolato e minacciato la rete, questa volta ha superato se stesso: è riuscito a strumentalizzare perfino le legittime aspirazioni dei cittadini italiani ad avere un'agenda digitale degna dell'Europa (e non la vecchia scalcinata caffettiera che abbiamo adesso, mantenuta ad arte in uno stato di decandenza e inefficienza totale) per minacciare la concorrenza e costringerla a non dare spazio a una voce libera.


La cosa è paradossale:
si combatte la libertà (di avere Annozero in un qualsiasi palinsesto) agitando strumentalmente la libertà (lo sviluppo di una infrastruttura internet adeguata).

E' come vedere due assassini che si minacciano vicendevolmente di uccidere i rispettivi padri confessori se l'altro oserà convertirsi e non peccare più
.

E' l'insulto più basso e volgare che la cricca di governo potesse fare al popolo italiano: minacciare di favorire i suoi interessi per impedire ad un terzo di perseguire i suoi, ottenendo alla fine di perseguire solo ed esclusivamente i propri.

Una perversione degna dello psicopatico di
Saw - L'enigmista. Il paradosso finale è che se mai Santoro, per andare in onda svincolato da ogni rete televisiva nazionale, dovesse scegliere di tentare l'esperimento della rete - alla maniera del PalaDoza per intenderci -, si troverebbe a dover contare sullo stesso mezzo - internet - per mantenere il controllo del quale chi era pronto ad offrirgli un contratto - LA7 - ha ritrattato.

Con quali garanzie, insomma, potrebbe ora affidarsi alle
infrastrutture di rete di proprietà di quella stessa azienda che le possiede solo per avere ceduto ai ricatti di chi, se potesse, le distuggerebbe?

Anche questo è
conflitto di interessi.