martedì 12 luglio 2011

Quei peracottari di Palazzo Chigi - update

Dopo 3 giorni di silenzio dall'intervista/"conversazione informale" a Repubblica, in cui straparla di Tremonti, il cosiddetto premier riacquista oggi la favella attraverso un comunicato che ovviamente non è affatto farina del suo sacco.

Parole che lui infatti non avrebbe mai pronunciato spontaneamente, ma che è stato costretto a sottoscrivere dalla drammaticità degli eventi di Borsa.

Così come qualcuno, di certo non Berlusconi, ha costretto Ghedini a dichiarare pubblicamente che Fininvest pagherà i dovuti 560 milioni alla Cir di De Benedetti.

In sintesi, la manovra con il supporto dell'opposizione sarà modificata in quantità e un po' anche in qualità e già un minuto dopo la sua approvazione dovrebbe scattare quella "goccia" che darà il la alla caduta del governo.

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Mafia, il ministro impermeabile al sospetto
di Francesco La Licata - La Stampa - 12 Luglio 2011

Lo stato di salute di un Paese si misura anche dalle capacità di reazione, in difesa della soglia di decenza, che dimostrano le istituzioni ogni volta che la loro credibilità viene messa in discussione da scandali piccoli e grandi.

Non v’è comunità al mondo che possa vantare di essere impermeabile alla corruzione, al malaffare e a tutti i moderni mali incurabili. Ma sicuramente ci sono modi diversi di far fronte alla «malattia».

Se è vero tutto ciò, dobbiamo concludere che le nostre istituzioni - e la politica in particolare - non godono di buona salute.

La recentissima vicenda che riguarda il ministro delle Politiche agricole, il «responsabile» Saverio Romano, per cui il gip di Palermo ha richiesto l’imputazione coatta per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ne è dimostrazione illuminante.

Anzi, per il modo in cui la storia è stata affrontata dal protagonista, per l’assoluta assenza di reazione a livello istituzionale e di opinione pubblica (la comunicazione innanzitutto) - eccettuata quella addirittura precedente del Quirinale - non è esagerato affermare che l’«affare Romano» sia da considerare una vera e propria cartina di tornasole delle pessime condizioni in cui versa la vita pubblica italiana.

L’inchiesta giudiziaria su Saverio Romano non è esattamente roba da poco. Quelle indagini hanno portato già alla condanna definitiva dell’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, e riguardano un intreccio di boss e politica attorno ad un gruppo mafioso vicino a Bernardo Provenzano.

Per una imputazione analoga, il concorso esterno, Giulio Andreotti ha subito un lungo processo, dopo una velocissima autorizzazione a procedere richiesta, tra l’altro, dallo stesso imputato eccellente che così si sentì libero di potersi difendere al meglio.

Ma il ministro Romano non ha avvertito la stessa necessità, neppure quando - ancora prima che il Gip decidesse per l’imputazione - il Capo dello Stato aveva esternato le sue perplessità sulla nomina avanzata dal presidente del Consiglio.

Anzi, in quella occasione, l’allora indagato dava quasi per scontato che si andasse verso un sicuro proscioglimento e non ebbe esitazioni a presentarsi al Quirinale per il giuramento, accompagnato da moglie e figli, come in un giorno di festa.

Era abbastanza chiara l’origine della forza contrattuale di Saverio Romano: la debolezza del governo che per garantirsi la maggioranza saldava il debito coi «responsabili» chiamati a riempire il vuoto lasciato dalla fronda dei finiani.

La stessa forza che oggi gli consente di mostrarsi addirittura «sconcertato» per la decisione del giudice e di intravedere un «corto circuito tra le istituzioni e dentro le istituzioni».

Ma oggi qualcosa è cambiato, in peggio. Romano è imputato di mafia, eppure la cosa non sembra sollevare troppo scandalo. Certo, è possibile che funzioni da freno la condizione generale del Paese: c’è la crisi e la speculazione contro l’Italia, c’è lo scandalo Bisignani, l’inchiesta sull’uomo di fiducia del ministro Tremonti, il nostro garante presso i mercati europei e c’è un presidente del Consiglio condannato a risarcire una cifra da capogiro, dopo una lunga tornata mediatica (ed ora anche giudiziaria) che lo ha visto al centro di scandali a sfondo sessuale.

Insomma, non stiamo bene. Ma proprio per questo, forse, la vicenda processuale del ministro Romano, passata quasi in sordina, finisce per assumere il valore di controprova del nostro malessere.


“Il mercato ha sfiduciato Berlusconi”
di Giorgio Meletti - Il Fatto Quotidiano - 12 Luglio 2011

L'economista Giacomo Vaciago: "Occorre una svolta anche politica per tornare credibili. Mario Draghi? Non è stato ascoltato. Lui chiede da sei anni di far ripartire la crescita"

“La speculazione è una cosa brutta, che esiste dai tempi di Adamo ed Eva. Però ha sempre ragione. Stavolta ha sfiduciato il governo Berlusconi. Nessun italiano potrebbe darle torto”. Ironico e arrabbiato l’economista Giacomo Vaciago spiega la tempesta finanziaria come farebbe con i suoi studenti.

Come esplode la crisi?
I mercati finanziari temono che il debito pubblico italiano sia insostenibile. Moody’s e Standard & Poor hanno dato l’allarme già da mesi. Tremonti ha risposto con una manovra finanziaria fatta con l’urgenza del decreto legge per rimandare gli interventi fra tre anni. Il governo mostra di avere altre priorità, la giustizia, il lodo Mondadori, Milanese e Bisignani. Gli investitori reagiscono vendendo i titoli di Stato italiani.

Quanto ci costerà questo scherzo?
In dieci giorni il rendimento richiesto dai mercati per il debito italiano è salito talmente da incrementare il costo per interessi almeno del dieci per cento. Sul 2012 si può prevedere un maggior costo di 8-10 miliardi di euro, che vanno naturalmente aggiunti alla manovra di Tremonti.
Lacrime e sangue?
Certo, con proteste di piazza. Tutto questo per non aver ascoltato il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che da sei anni chiede di far ripartire la crescita.

Che nesso c’è tra crescita dell’economia e debito pubblico?
Aumentando il prodotto interno lordo crescono le entrate fiscali e lo Stato ha le risorse per ridurre il debito. Se l’economia cresce, come sta accadendo in Italia, meno dell’inflazione, i conti pubblici non posso che peggiorare, e il debito aumenta.
Diventiamo come la Grecia?
Purtroppo sì. E la colpa è di tutta l’Europa. La crisi di debito e bassa crescita parte a novembre 2009 per tutta l’Unione, e tutti i 17 governi hanno fatto finta di niente. L’Italia ha fatto la sua parte, approfittando dei bassi tassi d’interesse per fare nuovi debiti, ma non per investire, per finanziare le spese correnti. E adesso con le ricette lacrime e sangue le cose non potranno che peggiorare. L’economia frenerà ulteriormente, e rischiamo di passare da una manovra all’altra, con la gente sempre più inferocita.
Questo attacco dei mercati al debito italiano può chiudersi in pochi giorni come una fiammata?
Negli altri Paesi quando è partito non si è più fermato.

Che cosa si può fare per fermare la frana
Cambiare l’immagine del Paese, rapidamente. Mi aspetto che il presidente Napolitano convochi Berlusconi e i capi dell’opposizione per decidere, insieme, che cosa fare. Ma chi avrà il coraggio dell’impopolarità?
Quale ricetta dovrebbe uscire dal caminetto bipartizan?
Una convincente terapia di severi tagli di spesa pubblica e misure per la crescita. La Germania sta crescendo e noi non la seguiamo più come una volta, quando si diceva la locomotiva tedesca. Il vagone Italia si è sganciato e va verso la Grecia.

Per placare la furia dei mercati è necessario un cambio di governo?
In tutti i Paesi europei colpiti dalla crisi del debito gli esecutivi sono caduti. Ripeto, quello che serve è una svolta nella politica economica, perché i mercati hanno colpito la politica di Tremonti, hanno sfiduciato il governo Berlusconi per le sue politiche dell’ultimo anno, non degli ultimi giorni. Questo è un governo debole, diviso sulle ricette economiche. Non so se sarà in grado di dare il colpo di reni.

All’origine di questa crisi ci sono speculatori che vogliono male all’Italia e al suo governo, magari comunisti?
Ma figuriamoci. La crisi è di tutta la zona euro, e a un certo punto gli operatori fanno di tutte l’erbe un fascio, e non è che ci trattano peggio degli altri. I mercati sono globali, e seguono il debito sovrano di 192 Paesi, ma mica tutti i giorni.

E così concentrano la loro attenzione in modo casuale su questo o quel Paese. Oggi tocca a noi, e lo sapevamo che prima o poi sarebbe capitato. L’unica cosa da non dire è che altri Paesi stanno peggio dell’Italia: è vero ma non serve a niente. Chi lo dice non sa come funzionano i mercati.


I gravi rischi della tempesta perfetta
di Mario Deaglio - La Stampa - 12 Luglio 2011

La telefonata del cancelliere tedesco Angela Merkel al primo ministro italiano Silvio Berlusconi, apparentemente rassicurante e di appoggio alla manovra finanziaria che si appresta ad essere esaminata dal Parlamento, costituisce in realtà un duro monito - mentre è riunito un vertice europeo di crisi - a procedere speditamente sulla via del risanamento finanziario, un invito pressante a resistere alle forti tentazioni, emerse in questi giorni, di un annacquamento della manovra appena presentata.

Ed è un segnale di quanto profonda sia la crisi attuale e di quanto limitate siano le opzioni di un’Italia almeno parzialmente sotto tutela europea.

Il limite delle opzioni italiane deriva dal fatto che l’Italia si trova in una situazione che qualcuno ha chiamato «tempesta perfetta» e che si verifica quando tutte le dimensioni di una crisi si influenzano e si aggravano a vicenda.

La «tempesta perfetta» che si è scatenata in questi giorni sull’Italia è a un tempo finanziaria, economica e politica. È illusorio pensare di «sistemare» una di queste dimensioni senza sistemare anche le altre; e senza tener conto che, in realtà, l’attacco speculativo che coinvolge il debito pubblico italiano e la Borsa italiana potrebbe essere il culmine di uno scontro più vasto tra euro e dollaro in una situazione di forte disordine monetario mondiale.

Tra moneta americana e moneta europea è in atto una sorta di duello tra due debolezze: gli americani devono fare i conti con un rilancio non riuscito della loro economia, con un «tetto» del debito pubblico di fatto già sfondato, senza il consenso parlamentare, con qualche preoccupante segnale di inflazione incipiente; gli europei con i conti pubblici pericolanti di molti Paesi dell’euro.

L’attacco al debito pubblico italiano - oggi tecnicamente non più debole di ieri - potrebbe essere una sorta di diversivo per cercar di evitare, o quanto meno di procrastinare, una diffusa perdita di fiducia nel dollaro che rischia di lasciarsi sfuggire la sua posizione di punto centrale del sistema valutario mondiale.

Per l’Italia, la «tempesta perfetta» comporta pericoli molto gravi. Significa che tutti i nodi vengono al pettine nello stesso momento: la manovra finanziaria non può essere disgiunta da un nuovo equilibrio politico (di questo si è già avuto qualche sentore nel mutare dei rapporti tra Lega Nord e Popolo della Libertà, con una maggiore forza dialettica della prima) e probabilmente da un nuovo patto sociale, il che richiede consensi più vasti di quelli dell’aritmetica parlamentare. Perché questi consensi si materializzino è necessario che il tutto si collochi nell’ottica di una fondata speranza di ripresa quanto meno nel medio periodo.

La manovra finanziaria contiene al suo interno numerosi elementi di elasticità, forse già pensati per poter essere anticipati in una situazione di emergenza: lo slittamento in avanti di quanto è previsto dalla manovra per il 2013 e per il 2014 rappresenterebbe un «indurimento» apprezzato dai mercati.

Occorrerebbe però anche l’introduzione di alcuni elementi non presenti nel progetto attuale, che potrebbero attenuare gli eccessi dell’attuale compressione della spesa pubblica, chiaramente insostenibile nella sua forma attuale, da parte della maggioranza degli enti locali: un programma di vendita, almeno parziale, di poste e ferrovie (due imprese pubbliche di grandi dimensioni che potrebbero avere motivi di interesse per i mercati), una vendita di oro che, per quanto relativamente modesta dati i vincoli internazionali che l’Italia deve rispettare, darebbe un’idea del carattere strutturale dei rimedi che si stanno approntando, e un inasprimento delle misure per la compressione del costo della politica.

Naturalmente si dovrebbero scordare provvedimenti volti a sanare situazioni particolari come quelli che possono coinvolgere la Fininvest, tolti dal testo definitivo della manovra attuale, ma che qualcuno pensa di ripresentare.

Le grandi linee di un nuovo patto sociale dovrebbero essere rappresentate da sacrifici paralleli per «capitale» e «lavoro». I sacrifici per il «capitale» sarebbero rappresentati da una qualche forma di imposta patrimoniale.

I sacrifici per il «lavoro» dall’attenuazione di alcune conquiste del passato nell’ambito dei contratti nazionali; la falsariga dovrebbe essere rappresentata dai grandi accordi sindacali tedeschi dell’anno scorso che hanno fortemente contribuito al robusto rilancio dell’economia della Germania.

Naturalmente i dettagli sarebbero tutti da studiare e toccherebbe a chi si trova al governo gestire questo parallelismo con la necessaria credibilità e decisione.

Tutto ciò sarebbe probabilmente sufficiente a «mettere in sicurezza» il sistema italiano e a prepararlo per una nuova fase espansiva dell’economia europea, se questa ci sarà davvero, oppure a conferirgli particolare solidità se questa fase espansiva non dovesse materializzarsi.

La logica di un simile insieme coordinato di provvedimenti è che questo Paese si merita qualcosa di meglio del piccolo cabotaggio che ha caratterizzato la sua politica e la sua economia negli ultimi anni, qualcosa di meglio del dissolversi della sua coscienza pubblica in uno scetticismo privo di qualsiasi moralità, purtroppo evidente nella successione di scandali pubblici e privati che l’hanno caratterizzato di recente.

A centocinquant’anni dalla formazione dello Stato italiano, l’Italia ha ancora molte cose da dire sull’orizzonte mondiale e non dovrebbe aver bisogno di una telefonata del Cancelliere tedesco per sapere che cosa deve fare.


Italia sotto attacco. Borsa peggio dell'11 settembre
di Angelo Miotto - Peacereporter - 11 Luglio 2011

Le misure lanciate in pompa magna dalla Consob si sono rivelate molto inefficaci. Le vere contromisure: una seria e ferrea regolamentazione dei derivati e in particolare quelli che scommettono sul fallimento degli Stati

Sfiorata quota 290. Lo spread, la differenza registrata fra borsa italiana e tedesca sui titoli di Stato, ha toccato un nuovo record storico. E tutto questo nonostante, o forse proprio per le dichiarazioni della Consob, che ha introdotto una stretta sulle vendite allo scoperto, quelle che alimentano appunto la speculazione, in particolare al ribasso.

La Borsa è in rosso, il mercato obbligazionario sta messo peggio di quanto avvenne l'11 settembre, per dare la dimensione di quello che sta accadendo. Niccolò Mancini, trader a Milano e collaboratore di E il Mensile, non ha dubbi, il trend negativo di venerdì sta peggiorando ancora di più e le prospettive non sono per nulla rosee.

"Ormai il rendimento dei Btp a dieci anni, quello che intercetta la voglia di risparmio sicura della famosa casalinga, è arrivato al 5.50. E se il rendimento sale, lo Stato si indebita ancora di più. Alla fine le misure lanciate in pompa magna dalla Consob si sono rivelate molto inefficaci.

Le vere contromisure da prendere sono quelle di una seria e ferrea regolamentazione dei cosiddetti derivati e in particolare quelli che scommettono sul fallimento degli Stati, i Cds (Credit default swap). La speculazione oggi è scatenata, perché si fa forza della debolezza che si è venuta a creare nei mercati".

La contromisura ideata dalla Consob è stata uno strumento ha avuto un impatto negativo?

L'impressione che girava fin dalle prime ore del mattino fra gli esperti è racchiusa in una domanda provocatoria: "Ma che lavoro faceva Vegas prima di arrivare a capo della Consob?".
I provvedimenti emessi da venerdì in poi non risolvono nulla e aumentano la tensione. Non solo non è utile, ma dice anche agli attori degli scambi che c'è un problema, lo evidenzia. Ha reso più aggressiva la speculazione, come ha detto oggi il più grosso gestore internazionale dell'obbligazionario, della Pimco. Ha lanciato tre messaggi: i primi due evidenti e il terzo, secondo me, gravissimo.

Quali?

Che i rendimenti dei titoli di Stato sono destinati a salire e che la situazione italiana non è più sostenibile. Con i risultati di oggi ci siamo mangiati l'altra metà della manovra finanziaria. La prima l'abbiamo fatta fuori venerdì.

E il terzo messaggio, quello gravissimo?

Dice che c'è un 50 percento di probabilità che l'Italia abbia problemi ad accedere al mercato obbligazionario, cioè un 50 percento di probabilità che le aste previste per giovedì vadano deserte o con un eccesso di offerta rispetto alla richiesta, il che certificherebbe il default.

Traduciamo.

Per sostenere i costi lo Stato deve emettere dei titoli obbligazionari: Btp, Cct, Bot. Giovedì c'è un'asta di Btp, a tasso fisso, e se andasse deserta o se, come detto, la richiesta fosse inferiore all'offerta per il nostro Paese si porrebbe un problema di fallimento.

Cosa si può o si deve fare, adesso?

Intervenire sui derivati, a livello almeno europeo, meglio se globale, che toglierebbe il fiato soprattutto alle banche di affari americane che ci stanno massacrando, facendo in modo che i derivati siano usati come strumenti di copertura finanziaria - per quello erano nati - e tagliare le gambe alla speculazione. È una manovra da fare nel più breve tempo possibile. In questo momento il vero problema, anche se Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo vanno male, è l'Italia.

Ma la regolamentazione, se non si è fatta, è perché non si vuole fare.
Vero. Ma il gioco sta diventando sempre più pesante. Fra venerdì e oggi sul fronte dei mercati a livello italiano siamo messi peggio dell'11 settembre, per l'obbligazionario. La sensazione è che si attacchi l'Italia per smontare l'euro.

In base a quali piani?

Mandare tutto a gambe all'aria e andare a incassare quello che alcuni player hanno investito proprio sui Cds, i derivati che investono sul fallimento degli Stati.

Speculazione pura

Sì. E poi c'è un altro dato, incredibile e politico. Almeno fino ad ora non c'è nessuno che dica nulla. Né Tremonti, né Berlusconi. Poi vedremo.



Il Lodo Berlusconi
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 11 Luglio 2011

Per farsi un’idea dello stato di coma in cui versa l’etica pubblica nel nostro Paese, è sufficiente vedere la trattazione generale della sentenza della Corte D’Appello che ha condannato la Fininvest a pagare oltre 560 milioni alla Cir di Carlo De Benedetti.

Lo schieramento berlusconiano, come pure una parte di quello del centrosinistra, hanno incrociato le lame solo circa l’obbligatorietà o meno del pagamento immediato e delle eventuali conseguenze che potrebbero derivarne.

E quindi via alle danze: deve pagare subito, dice qualcuno; no, solo dopo il pronunciamento della Cassazione a seguito del ricorso Fininvest, dicono altri. Che i giudici potessero già da ora sospendere l'esecutività del provvedimento ma che hanno scelto di non farlo pare essere un dettaglio, come pure la distinzione tra reo e vittima.

In qualche modo accumunati dal fatto di essere due uomini d'indubbia ricchezza - al punto che pagare o incassare la cifra sembrerebbe essere un esclusivo elemento di princicipio - entrambi si trovano al centro di rocambolesche quanto indecenti ricostruzioni della vicenda che invece é limpida.

Non pare destare peraltro interesse per nessuno il fatto che l’Ingegner De Benedetti sia la vittima dello scippo perpetrato grazie alla corruzione e che attende da molti anni vedersi riconosciuti i propri diritti e rimborsato quanto illecitamente sottratto.

Ma sfugge ai più il dato eclatante della vicenda: e cioè che la Corte D’Appello, come già quella d’Assise, hanno affermato che l’attuale Presidente del Consiglio ha ordinato ad un suo avvocato (poi da lui nominato ministro della Difesa) di corrompere un giudice (utilizzando fondi neri) per assicurarsi un verdetto favorevole in un processo.

Il fatto che Berlusconi, diversamente da Previti e dal giudice Metta, non sia stato condannato, dipende solo dal fatto che gli vennero riconosciute le attenuanti generiche nella condanna e che queste, riducendo l’ammontare della pena, l’abbiano fatta rientrare nella prescrizione successivamente intervenuta. E la domanda del giorno è dunque questa: in quale Paese al mondo un Premier potrebbe rimanere al governo?

Ma non è tutto. La sentenza sul Lodo Mondadori racconta con chiarezza anche come e attraverso quali mezzi l’imprenditore Silvio Berlusconi abbia trasformato le sue aziende in un impero mediatico. E, ciò che a tutti é noto, é come poi, grazie anche al suddetto impero mediatico, abbia costruito la sua fortuna politica.

La pretesa di trovare ora l’ennesima norma “ad personam” (magari infilandola di soppiatto nella manovra finanziare da sottoporre alla fiducia delle Camere), che dovrebbe obbligare i giudici a bloccare il risarcimento alla Cir di De Benedetti, indica come nessun segnale di giustizia e, prima ancora, d’opportunità politica, possa increspare il gigantesco conflitto d’interessi del premier.

L’Italia, dal suo punto di vista, è nulla se messa in contrasto con le sue aziende. Del resto, per questo era entrato in politica, per salvare le sue aziende che affogavano nei debiti e rilanciarle con le buone o con le cattive, per trasformare la sua “roba” in interesse nazionale e portare l’interesse nazionale a divenire una variabile dei suoi conti privati.

Ma, come si diceva, l’importanza assoluta che la sentenza sul Lodo Mondadori offre all’attenzione dei meno acuti sta proprio nell’indicare il percorso imprenditoriale e politico attraverso il quale Berlusconi è passato da imprenditore relativamente ricco a padrone assoluto dell’Italia. Il consenso di cui gode Silvio Berlusconi, infatti, è dato anche dal controllo dei mezzi di comunicazione di massa.

Non solo le televisioni, ormai tutte sotto il suo controllo, alcune attraverso la diretta proprietà, altre con la direzione delle reti, altre ancora tramite la raccolta pubblicitaria. Lo stesso vale per i giornali quotidiani e per le riviste settimanali a larga diffusione, per le case editrici e per le stesse radio, alcune di sua proprietà e altre controllate tramite la pubblicità.

In sostanza, Berlusconi controlla a suo piacimento il mercato della circolazione delle idee ed esalta o minimizza, secondo le sue convenienze, i fatti che lo riguardano.

Insomma, quasi tutto ciò che si vede, si sente e si legge è sotto il suo controllo: quindi, tutto ciò che serve a intrattenere, a informare e a formare, risponde alla voce e agli interessi del padrone.

E per i giornalisti che volessero tenere la testa alta, almeno quelli che non lavorano in realtà circoscritte, quali sarebbero gli spazi editoriali a disposizione dove poter lavorare se non quelli che le spire del Biscione offrono?

La sentenza del lodo Mondadori ha ora messo nero su bianco quanto già tutti sapevano: la vicenda personale di Berlusconi è una delle pagine più torbide della storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Ad eccezione della legalità, nulla è stato risparmiato.

Nessuna sua iniziativa, imprenditoriale, politica e personale, ha saputo dipanarsi senza violare ogni tipo di legge. E la sintesi della sua stagione politica é risultata essere, in sostanza, la difesa di quanto fatto da imprenditore prima e da politico poi, la crescita delle sue aziende, la pretesa d'immunità totale.

Ma il paese non può più essere tenuto in pugno da un aspirante sultano che tutto compra e tutto vende nelle forme e nei modi che sappiamo. Perché questa è la sua vera quintessenza che emerge tratteggiata dalla sentenza sul Lodo Mondadori: la sua “roba” e il suo denaro sono la ragione della sua vita. Incapace di sedurre, acquista. Incapace di essere, si dispera per avere. L’uomo qualunque ha il terrore di diventare uno qualunque.


Sì alla manovra, poi Berlusconi a casa
di Massimo Giannini - La Repubblica - 12 Luglio 2011

Bentornati nel Club Med. Narcotizzati da tre anni di falsa propaganda "sviluppista", ci eravamo illusi di essere usciti definitivamente dal girone infernale dei "latinos", i Paesi reietti del Mezzogiorno di Eurolandia.

E invece eccoci qui. In due sedute micidiali, il "venerdì nero" che ha chiuso la settimana scorsa e il "lunedì nero" che ha aperto quella in corso, siamo tornati nel mirino infallibile della speculazione.

Lo "spread" sui tassi di interesse al record da quando esiste l'euro, la Borsa che brucia in un solo giorno un'altra ventina di miliardi.

È il temuto effetto-domino, l'estensione del morbo dei debiti sovrani che dalla Grecia (e dopo aver colpito l'Irlanda) si diffonde inesorabilmente al Portogallo, alla Spagna e ormai anche all'Italia.

Nel silenzio prolungato di Silvio Berlusconi, e in quello imbarazzato di Giulio Tremonti, parla a sproposito il ministro dello Sviluppo Romani, che dice: "Non c'è motivo di preoccuparsi, la speculazione contro l'Italia è basata sul nulla".

Ancora una volta, un'approssimazione e un dilettantismo che fanno accapponare la pelle. Sostenere una tesi del genere equivale a non aver capito nulla di ciò che sta accadendo nei mercati e nel Paese.

Primo: c'è moltissimo da preoccuparsi. In gioco non c'è qualche spicciolo di guadagno per le banche d'affari. C'è invece il futuro dell'euro, perché se saltano Stati come la Spagna o l'Italia salta la moneta unica, e dunque va in malora un ventennio di storia europea, con tutto il buono che ne è derivato per i "volonterosi" che aderirono al sogno di Maastricht.

E nelle leadership europee non sembra esserci consapevolezza della drammaticità della fase, che richiederebbe ben altre e più energiche reazioni.

Lo stillicidio di polemiche e di rinvii sugli aiuti alla Grecia, per esempio, è stato un atto irrazionale e irresponsabile: come spargere sangue nel mare di un mercato infestato dagli squali della speculazione.

Servirebbe una politica di aiuti imponenti, sul modello del Tarp americano, non solo ai Paesi periferici, ma anche al sistema bancario dell'eurozona, che comunque necessita di un rafforzamento patrimoniale. E invece si nicchia, si chiacchiera, si indugia.

Secondo: la speculazione contro l'Italia non è affatto basata sul nulla. Ha invece solidissime basi, che questo governo di apprendisti stregoni ha "costruito" in tre anni di non gestione della crisi. Sul piano tecnico, la manovra da 40 miliardi va approvata in fretta.

Ma andrebbe anche rafforzata e anticipata, come chiedono la Banca d'Italia e la Confindustria, e come Repubblica aveva invocato subito dopo la sua finta approvazione in Consiglio dei ministri.

Troppe misure incerte nella quantità. Troppe misure erratiche nella tempistica. Non si può affidare quasi la metà dell'intervento di risanamento a una legge delega fiscale e assistenziale di cui nessuno può oggi conoscere i tempi e i modi di attuazione.

Ci saranno i margini per rinvigorire e rendere più sostenibile questa "stangata a orologeria", senza che nel frattempo le "locuste" non spolpino quel poco che è rimasto?

Sul piano politico, governo e maggioranza affondano nell'entropia e nell'ignavia. Un premier marchiato a fuoco da una sentenza che lo definisce ufficialmente "corruttore di giudici" non è e non può essere in grado di gestire credibilmente il caos che regna sotto di lui.

Un ministro dell'Economia sul quale pendono sospetti e che teme di subire il cosiddetto "trattamento Boffo" non è e non può essere in grado di sostenere serenamente il compito immane che il momento difficilissimo vissuto dal Paese gli carica sulle spalle. Siamo all'epilogo della parabola berlusconiana.

La telefonata della Merkel al premier è la conferma plastica di quanto andiamo ripetendo da tempo: il presidente del Consiglio italiano non conta più nulla, ed è ormai di fatto "commissariato" dalle cancellerie d'oltre frontiera.

Il dramma è che nell'abisso rischia di finire non solo il Cavaliere, ma l'intera nazione. È un pericolo che va scongiurato. Le opposizioni si dimostrino all'altezza.

Questa manovra deve passare in Parlamento il più presto possibile, per mettere in sicurezza l'impegno collettivo sul pareggio di bilancio.

Ma un minuto dopo Berlusconi deve andare a casa. È ora di separare, finalmente, la biografia del Cavaliere da quella della nazione.