venerdì 11 dicembre 2009

BASTA!!!

Non ci sono ulteriori commenti sulla disgustosa e irreversibile deriva della situazione politica italiota.

Rimane solo una parola da urlare a squarciagola: BASTA!!!!


Dove ci porta lo stato d'eccezione
di Ezio Mauro - La Repubblica - 11 Dicembre 2009

Ieri è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d'eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.

Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l'intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier.

Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa "forme e limiti" per l'esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere "profondo rammarico e preoccupazione" per il "violento attacco" del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione.

Siamo dunque giunti al punto. L'avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.

Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all'opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.

Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità.

Lo travolge la coscienza dell'avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell'ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: "Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?".

La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d'eccezione. Carl Schmitt diceva che "è sovrano chi decide nello stato d'eccezione", perché invece di essere garante dell'ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo.

Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione ("abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale"), rende l'istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l'unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.

Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d'eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune.

Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio.

La teoria politica dà un nome alle cose: l'assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l'autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.

Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza.

I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l'ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l'eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare.

Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell'attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l'unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell'interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell'esclusivo interesse del singolo. L'eccezione, appunto.

Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l'abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario?

È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all'accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un'ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell'uomo più potente d'Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?

L'eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un'istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.

Per questo, com'è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d'eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell'Italia di oggi.


Delusione del Colle: fine del dialogo
di Federico Geremicca - La Stampa - 11 Dicembre 2009

A dir la verità, non è che lì sul Colle - forti delle amare esperienze fatte in questo ultimo anno - ci credessero davvero. Però, poiché la speranza è l’ultima a morire, lo speravano. Speravano, cioè, che per una volta il pesantissimo affondo portato dal Presidente del Consiglio contro la magistratura, la Corte Costituzionale e gli ultimi tre Capi dello Stato, venisse smentito o almeno corretto nei toni, attenuato nella sua inedita violenza.

Dunque, hanno atteso. Naturalmente invano. Anzi, quando Silvio Berlusconi è tornato sulla questione («Non c’è niente da chiarire, sono stanco delle ipocrisie») anche i più prudenti tra i consiglieri del Presidente hanno inteso che non c’era altra via da seguire che mettere l’elmetto e tornare in campo.

Sono nate così le poche righe dattiloscritte nelle quali - forse per la prima volta - il discorso di un capo di governo (per altro svolto fuori dei confini nazionali) viene definito «violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia». Non solo: a far intendere che la misura è considerata ormai colma, nella nota del Quirinale viene espressa non solo la «preoccupazione» del Presidente della Repubblica, ma soprattutto il suo «profondo rammarico».

Un rammarico che, a tarda sera, fonti della presidenza spiegavano sottolineando almeno un paio di fatti. Il primo: col suo «violento» j’accuse, Berlusconi ha di fatto mandato gambe all’aria quello che la nota del Colle definisce «spirito di leale collaborazione... che giorni fa il Senato ha concordemente auspicato».

Il secondo: giusto due mesi fa (il 7 ottobre) Napolitano era dovuto intervenire per difendere se stesso, i suoi predecessori e la Corte Costituzionale da un attacco dai toni e dai contenuti del tutto analoghi. In quella occasione - attaccando magistratura e Corte Costituzionale - il premier affermò polemicamente che «tutti sanno da che parte sta il Presidente della Repubblica...»: e il Capo dello Stato fu costretto a intervenire per ricordare che «il Presidente della Repubblica sta dalla parte della Costituzione». Si pensava che la questione fosse così chiarita.

Ma naturalmente si pensava male... E non sono gli unici motivi di rammarico. Al Colle, infatti, si lamenta l’infondatezza di una serie di affermazioni con le quali la maggioranza (compresi alcuni ministri) ha contestato il fatto che l’unica istituzione che non sarebbe mai difesa quando attaccata sarebbe, appunto, la presidenza del Consiglio. «E’ di non molti giorni fa - si ricorda al Quirinale - l’intervento col quale il Presidente ha richiamato “tutte le istituzioni”, magistratura compresa, ad uno spirito di maggior serenità, responsabilità e collaborazione».

L’obiezione che arriva dal Popolo della Libertà sarebbe, dunque, infondata. Così come si smentisce, naturalmente, l’esistenza di un presunto «asse» tra il Quirinale e la presidenza della Camera. Ieri Fini è stato il primo a contestare le affermazioni tedesche di Silvio Berlusconi chiedendo al premier un «chiarimento» (e ricevendone in cambio un «sono stanco delle ipocrisie»).

Ma anche in questa occasione, si spiega, tra Quirinale e presidenza della Camera non c’è stato alcun contatto preventivo. Anzi, la dichiarazione di Fini è arrivata quando il Presidente della Repubblica non era stato ancora nemmeno informato del nuovo attacco del premier: alla fine di una giornata fitta di impegni, infatti, il Capo dello Stato stava incontrando famiglie di bambini provenienti da vari paesi del mondo e curati (in alcuni casi addirittura salvati) grazie ai fondi raccolti da Telethon.

E’ solo finita quell’udienza che il Presidente è stato informato dell’accaduto, decidendo - come detto - di attendere una possibile rettifica di Berlusconi prima di intervenire in difesa della Costituzione e degli organi dello Stato pesantemente attaccati dal premier. E così, il tentativo di rinsaldare quello «spirito di leale collaborazione» invocato dal Presidente, subisce un colpo duro e dalle conseguenze nuovamente imprevedibili.

Il premier andrà avanti con la sua polemica o raffredderà il clima? E cosa è lecito aspettarsi dal sistema dei partiti nei prossimi giorni? Lì al Colle si valutano con preoccupazione le dichiarazioni rilasciate nella durissima giornata di ieri: tanto quelle di sostegno al premier, quanto quelle di solidarietà al Capo dello Stato.

Si cerca di tratteggiare, insomma, il quadro della situazione ed il dislocarsi delle varie forze in campo. E qualcuno, in fondo, segnala e fa notare alcuni rumorosissimi silenzi. Come quello della seconda carica dello Stato, il presidente del Senato, muto per tutto il giorno di fronte al pesante attacco mosso alla magistratura, alla Corte Costituzionale ed agli ultimi tre Presidenti della Repubblica...


E il Cavaliere sfida il Quirinale. "Usano i pentiti? Io vado al voto"
di Liana Milella - La Repubblica - 11 Dicembre 2009

"Lo grido io, a tutto il mondo, chi sono. La sinistra mi butta addosso gli Spatuzza e i Graviano? E io mi rivolgo al popolo, vado alle elezioni, e stravinco ancora una volta. Nel nome di Berlusconi. Nel mio nome". Non era voce dal sen fuggita quella del Cavaliere a Bonn. Era voce pensata e calibrata. Studiata a tavolino. Contro le colombe che lo invitano alla prudenza e lavorano per ricucire il rapporto lacero con Fini e con Napolitano il premier strappa la tela e alza la voce.

Da una settimana Berlusconi ha annusato l'aria e ha scelto la via della prova di forza. Scioccato dalla performance del pentito Spatuzza, preoccupato per quella di Graviano, anche se il suo avvocato Niccolò Ghedini continua a dirgli che "in quelle carte non c'è niente per cui preoccuparsi", il Cavaliere ha ordinato ai suoi di forzare ovunque la mano.

Il Guardasigilli Alfano si esibisce con il ministro dell'Interno Maroni sui miracoli del governo contro la mafia, ribadisce che "sul processo breve si va avanti". E lui parla a Bonn, aggredisce la Consulta e l'attuale presidente della Repubblica con i suoi due predecessori, domenica già pregusta il bagno di folla nella sua Milano, in piazza Duomo, per la festa del tesseramento.

Avanti, da solo, contro tutti. Come dice ai suoi il leader dell'Udc Casini, che è già pronto a ritirare le aperture sul legittimo impedimento perché non ci sono più le condizioni sufficienti, "ormai Berlusconi ha avvicinato al massimo a sé la riga entro cui deve mantenersi chi sta dalla sua parte". Gli altri sono fuori.

A cominciare da Napolitano e Fini, se i due non faranno quello che il premier pretende come dovuto. Ovviamente le leggi per salvarlo dai processi passati e futuri. Per questo nella sede Ppe Berlusconi provoca volutamente il capo dello Stato. La sua è una minaccia chiara, che il presidente intende assai bene, e che respinge con uguale forza e fermezza.

Per certo, dopo quello che già chiamano "l'editto di Bonn", è in crisi nera il rapporto tra i due palazzi. Napolitano ha parlato sia con Bersani che con Casini, si è reso conto che i suoi tentativi per ricucire un dialogo sulle riforme sono finiti in pezzi e che la prospettiva di uno scontro diretto con il Cavaliere si fa sempre più prossima. Un Cavaliere che spadroneggia, mentre le opposizioni si indeboliscono.

Il ciclone Berlusconi si abbatte su un presidente della Camera che decide di vestire del tutto i panni di terza carica dello Stato. Quando Fini legge le agenzie telefona subito a Napolitano. Dice ai suoi: "Sappiamo come la pensa, ma un premier non può parlare in quel modo e in quel contesto". E ancora: "La mia richiesta di chiarimento è doverosa sul piano istituzionale, la faccio nel pieno di questo ruolo e non certo come uomo politico". Poi un amaro commento: "La verità è che Silvio sta distruggendo tutto".

Ma il Cavaliere vuole per sé due leggi, il processo breve e il legittimo impedimento. Le vuole al più presto. Stavolta dal Quirinale e da Fini non ammette sorprese. Li avverte entrambi. "Io vado avanti. Se Napolitano non firma sappia che la mia reazione sarà identica a quella di oggi. Se insiste mi rivolgerò direttamente ai cittadini, sono pronto ad andare al voto e agli italiani chiederò di darmi il via libera per cambiare completamente la Costituzione". Se la prende con la Consulta, giusto l'istituzione che Napolitano prima e Fini poi difendono.

A chi, nell'ultima settimana, ha provato a convincerlo che sarebbe meglio rinunciare al processo breve per puntare tutto sul legittimo impedimento, Berlusconi ha risposto con un secco niet: "Li voglio tutti e due, e basta". Subito il primo, incardinato al Senato, per concentrasi poi sul secondo, che sta alla Camera, dove teme l'azione frenante del duo Fini-Bongiorno.

Della presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno non fa che parlare male perché la considera l'ispiratrice delle uscite giudiziarie di Fini. A cui addebita anche, per il tramite di Napolitano, l'ultima stroncatura del Csm sul processo breve. Un parere che gli ha fatto cadere gli ultimi dubbi sulla possibilità di bloccare il processo breve.

Fini, Napolitano, Casini, il dialogo a sinistra. Eccoli, in fila, i "nemici" del Cavaliere. Tutti quelli che lo invitano al dialogo, alla politica delle riforme condivise, ma poi alle sue spalle si augurano che siano i pentiti a sbalzarlo di sella. Per questo il premier dice ai suoi: "Voglio quelle due leggi e non voglio essere costretto a pagare un prezzo alla sinistra. Non tratto con Bersani e non cedo nulla a chi mi attacca ogni giorno. Contro tutto questo ho diritto di difendermi ovunque, soprattutto all'estero".


La campagna elettorale senza fine
di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - 10 Dicembre 2009

Di tutto ha bisogno l'Italia di oggi, tranne che di una tensione permanente ai vertici delle istituzioni. Viceversa, i capitoli di questo brutto romanzo d'appendice sembrano infiniti. E' vero, Berlusconi ha parlato ieri in una sede non istituzionale, ma politica (il congresso dei popolari europei).

Tuttavia egli era a Bonn - cioè fuori dei confini nazionali - non solo nella veste di capo del Pdl, bensì in quella di presidente del Consiglio in carica che parlava di fronte a una vasta rappresentanza della classe dirigente dell'Europa moderata. A cominciare da Angela Merkel.

Ebbene, agli esponenti del più grande partito continentale Berlusconi ha offerto una fotografia drammatica e inquietante del suo paese. L'ossessione verso la magistratura politicizzata ha fatto aggio su tutto il resto, al punto che le angosce domestiche sono state riversate senza alcun filtro su di un uditorio perplesso e incuriosito.

Come in un intervento telefonico a un «talk show» serale, il presidente del Consiglio ha di nuovo delegittimato la Corte costituzionale, accusando di fatto gli ultimi tre capi dello Stato («tutti di sinistra») di aver coperto, volenti o nolenti, l'espropriazione della volontà popolare a vantaggio dei pubblici ministeri.

Questa sarebbe «la verità senza ipocrisie», come ripetevano ieri sera i collaboratori del premier. Tuttavia si tratta, nella migliore delle ipotesi, di una verità politica, utile in una campagna elettorale. Al contrario, la verità istituzionale è diversa e parla di un sistema fondato sull'equilibrio delle garanzie, come previsto dalla carta costituzionale.

Ancora pochi giorni fa Giorgio Napolitano aveva voluto rassicurare il premier: nessun fattore improprio ed extra-politico avrebbe stravolto il cammino di una maggioranza nata dal voto degli italiani. Era un richiamo alla validità di un meccanismo garantista che ha proprio nel Quirinale il suo arco di volta. E che nessuno Spatuzza, allo stato delle cose, sarà in grado di spezzare.

Il fatto che Berlusconi affermi per l'ennesima volta di non riconoscersi in questo equilibrio, crea un problema politico-istituzionale piuttosto rilevante. La sfiducia conclamata verso la Corte Costituzionale e di fatto verso la presidenza della Repubblica (non parliamo della magistratura), mina nel profondo il patto istituzionale su cui si regge, non solo la legislatura, ma l'assetto complessivo dei poteri.

Sotto questo aspetto, il presidente del Consiglio ha esposto al congresso del Ppe un manifesto elettorale, una piattaforma per rivolgersi presto o tardi al popolo in cerca di una nuova investitura. Di sicuro il suo non sembrava il discorso di un personaggio desideroso di unire il paese, piuttosto era l'appello di un combattente che si prepara all'ultima battaglia.

Nella sostanza, il Berlusconi di Bonn è, sì, un uomo esasperato dalle inchieste giudiziarie, ma è anche un leader politico che non teme di incrinare la stabilità istituzionale di cui dovrebbe essere il custode, in quanto capo della maggioranza. E c'è da dubitare che il vero significato dell'intervento di ieri sia il rilancio delle riforme costituzionali (dalla giustizia al presidenzialismo).

Il centrodestra ha avuto per anni la possibilità di riformare il paese e, se si vuole, anche di riportare la magistratura nel suo alveo. Ma non lo ha fatto, lo ha solo minacciato. È tutto da dimostrare che domani, in un clima aspro e conflittuale, saranno centrati gli obiettivi mancati in un decennio.

È molto più probabile che il premier si proponesse tre risultati immediati. Primo, ricompattare dietro di sé il centrodestra percorso da gravi lacerazioni, da Milano alla Sicilia. Il problema non riguarda solo il presidente della Camera, ancora ieri molto critico verso il discorso di Bonn. Tocca anche una Lega sempre più forte e autonoma nel Nord, come si è visto nella polemica contro il cardinale Tettamanzi. Berlusconi sentiva il bisogno di riproporre la sua leadership anche sul piano mediatico.

Secondo, le norme di salvaguardia giudiziaria, a cominciare dalla disciplina del «processo breve», incontrano crescenti difficoltà. Il fuoco dell'artiglieria berlusconiana serve a spianare il terreno e suona come monito agli organi costituzionali affinchè non mettano bastoni tra le ruote del governo.

Terzo, il premier parla e agisce, in Italia e all'estero, come se fosse sempre alla viglia di un trionfo nelle urne. La tensione perenne gli serve per tenere pronto e vigile il suo elettorato. Ma tutto questo ha un prezzo ed è il logoramento istituzionale. La Costituzione subisce colpi gravi, soprattutto nell'immaginario collettivo, e nessuno Stato è in grado alla lunga di reggere un simile conflitto. La destabilizzazione non paga.


Veleni e rischi
di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 11 Dicembre 2009

La chiave per capi­re lo sfogo di Sil­vio Berlusconi da­vanti alla platea del Ppe, ieri a Bonn, è certa­mente l’esasperazione. Troppi veleni e troppe ten­sioni, anche nel centrode­stra; e troppa incertezza. Al­trimenti, non si capirebbe come un presidente del Consiglio dotato di una maggioranza schiacciante possa dire che «la sovrani­tà è passata dal Parlamen­to al partito dei giudici».

Lo stupore della platea fa pensare che il discorso sia stato iscritto più nella cate­goria delle stranezze italia­ne che in quella degli attac­chi alla democrazia, come sostiene l’opposizione: an­che se la scelta di parlare ad un congresso interna­zionale accentua l’imbaraz­zo. È come se da giovedì le ano­malie del Belpaese fossero state offerte al giudizio del­l’Europa. Le nazioni alleate sono state informate del rapporto tormentato fra magistratura e potere poli­tico; fra i processi e l’inve­stitura popolare di un capo di governo.

Il sospetto, pe­rò, è che il problema sia as­sai poco sentito fuori dai nostri confini; e che l’esportazione di un conflit­to istituzionale in una fase di crisi economica e finan­ziaria generalizzata sia ac­colta come un tema stacca­to dalla realtà.

I contraccol­pi interni, però, ci sono: so­prattutto per il nuovo attac­co alla Consulta. Berlusconi, l’uomo che ha forgiato e dominato la Seconda Repubblica, sem­bra diventato il suo invo­lontario picconatore. Eppu­re, è convinto di non esse­re lui a sferrare i colpi che rischiano di lesionare il Pa­ese: si considera la vittima di una serie di sabotatori annidati in un potere sen­za legittimazione popola­re; e senza diritto di repli­ca.

Ma in una lotta che ap­pare sempre più di soprav­vivenza, i rischi si moltipli­cano. Per questo il presi­dente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quel­lo della Camera, Gianfran­co Fini, non potevano tace­re; e infatti la cosa più ru­morosa è il silenzio della seconda carica dello Stato, Renato Schifani. La «preoccupazione» ed il «rammarico» espressi da Napolitano fotografano una situazione in bilico.

Il fatto che Berlusconi abbia scelto di non replicargli di­mostra che la sua offensi­va non risponde ad una strategia a tavolino; che non c’è la volontà di rom­pere con il Quirinale, seb­bene le critiche del Pdl al presidente della Repubbli­ca segnalino un’ostilità strisciante.

La prospettiva di un governo costretto a procedere per altri tre anni in un clima di conflittuali­tà così accentuata fa venire i brividi. Promette un logo­ramento ed una paralisi de­cisionale dei quali paghe­rebbe il prezzo il Paese, ol­tre che Berlusconi. Il premier ribadisce la volontà di rivoluzionare le istituzioni.

Ma se davvero ne è convinto, non si spie­ga il senso di impotenza che filtra dalle sue parole sui giudici. Mai come in questi giorni si ha l’impres­sione di un Berlusconi combattuto fra voglia di uscire dall’accerchiamento tornando davanti al corpo elettorale, e consapevolez­za che il Paese gli chiede di governare. Per quanto giu­stificata da un contorno di veleni, l’esasperazione non è il consigliere migliore. E gli annunci non seguiti da scelte conseguenti posso­no rafforzare gli avversari.


Rincorsa pericolosa
di Marcello Sorgi - La Stampa - 11 Dicembre 2009

E’ inutile girarci attorno: quello di Berlusconi ieri a Bonn, al congresso del Ppe, è stato un discorso di rottura, di un leader che sta prendendo la rincorsa per andare ad elezioni anticipate e che a questo punto conta solo sull’appoggio del popolo - del «suo» popolo - per uscire dalle difficoltà. Un piano esposto in un tono che il Presidente della Repubblica, anche lui nel mirino del premier, ha definito «violento», e che ha lasciato stupiti parte dei delegati europei cattolici moderati che erano lì ad ascoltarlo.

Ad evitare equivoci e a neutralizzare l’efficacia - ormai scarsa - degli unguenti e dei brodini che i più prudenti collaboratori del Cavaliere si affrettano a spargere e a distribuire da mesi, per lenire i bruciori provocati dalle sue ultime uscite, Berlusconi stesso, interrogato poco dopo il suo intervento, a proposito delle reazioni durissime che aveva provocato a Roma, da Fini all’opposizione fino al Quirinale, ha risposto che non aveva «niente da chiarire».

E aveva detto quel che aveva detto perché «stanco delle ipocrisie. Tutto qui».

Non siamo insomma di fronte all’ennesima «uscita di pancia» di un uomo che ci ha abituato da sempre a un linguaggio fuori dalla politica, quando non antipolitico (ieri tra l’altro ha parlato di sé come di uno «con le palle»).

Semmai lo è stato, il Cavaliere non è più uno sprovveduto: è in carriera da quindici anni e sa benissimo quel che fa. Se ha scelto Bonn, e la platea del Ppe, per alzare la mira contro la Corte Costituzionale, i magistrati e gli ultimi tre Presidenti della Repubblica, è perché è consapevole che con questi argomenti e con questi obiettivi, la legislatura già avvitata su se stessa andrà verso un precipizio, e nessun accordo sarà possibile per salvarla.

Né con la parte della sua maggioranza più vicina al presidente della Camera, giustamente convinto che le riforme, e soprattutto quella della giustizia, non debbano alterare l’equilibrio costituzionale tra i diversi poteri.

Né tanto meno con quella parte dell’opposizione, che faticosamente, e d’intesa con Napolitano, stava valutando proprio in questi giorni la possibilità di un’intesa, magari provvisoria, per por fine alla guerra che s’è aperta dopo la cancellazione del lodo Alfano da parte della Consulta.

Per chi ancora nutriva qualche dubbio, ora è chiaro che di queste mediazioni, compromessi, accordi ipotizzati e sudati a costo di buona volontà e reciproche rinunce dei diversi interlocutori, a Berlusconi non importa niente. Non gli servono.

L’Italia com’è, e il suo sistema istituzionale che funziona normalmente, in cui appunto chi vince le elezioni governa, porta in Parlamento per farle approvare le leggi che fanno oggetto del suo programma, ma se poi sbaglia, o forza, o comunque fa qualcosa che non è previsto dalla Costituzione, incappa nella rete degli organi di garanzia, per Berlusconi non assomigliano per niente a ciò che ha promesso ai suoi elettori.

Dunque, sono da cambiare. Con le buone o con le cattive, con chi ci sta e contro tutti quelli che non ci stanno. Tra i quali ultimi, per inciso, il Cavaliere annovera i magistrati che da anni cercano vanamente - anche se talvolta in maniera persecutoria - di processarlo, e che per questo vanno assimilati a tutti gli altri suoi avversari «comunisti», presenti e nascosti, a suo giudizio, nelle pieghe dei poteri e dell’establishment nazionali.

Dal discorso di Bonn - pronunciato non a caso all’estero, per smentire il ritratto dell’Italia che a dispetto del Cavaliere i media stranieri fanno circolare in tutto il mondo - è lecito ricavare anche di che tenore sarà la prossima campagna elettorale del premier.

Con al fianco Bossi, l’unico alleato che considera fidato e che ieri s’è affrettato, da solo, a schierarsi con lui, Berlusconi, ottenuto lo scioglimento delle Camere anche grazie al sostegno della Lega, con cui la trattativa preelettorale è molto avanti, si rivolgerà agli elettori con uno schema molto semplice.

Non starà neppure a perdere tempo per sminuire le accuse che si porta sul collo o alleggerire il peso delle vicende personali che hanno macchiato la sua immagine. Dirà più o meno così: come sono io lo sapete, ma se non volete che tornino «quelli», votatemi anche stavolta.

Un giudizio di Dio. Voglia il Cielo che un Paese ridotto com’è riesca a evitare anche questa prova. O a sopportarla, con le ultime risorse, se davvero ci si arriverà.