lunedì 28 dicembre 2009

Update iracheno

Ancora un aggiornamento sulla situazione in Iraq.


Racconto di Natale (con orrore) a Falluja
di Javier Espinosa* - www.elmundo.es - 27 Dicembre 2009
da www.resistenze.org

Il Washington Post, nell’edizione del 1° dicembre, pubblica un articolo sulle conseguenze dell’invasione USA dell’Iraq, riportando un’inchiesta della rivista medica dell’Università di Bassora che afferma che, rispetto alle cifre del 1989, i bambini che muoiono di cancro nella città sono aumentati del 65% nel 1997 e del 60% nel 2005.

Sono gli “effetti collaterali” di anni della guerra sporca. Bushra Ali, funzionario del Dipartimento di prevenzione (sic!) delle radiazioni del Ministero dell’Ambiente, dice: “I nostri dati dicono che ci sono più di 200 km. quadrati a sud di Bassora che contengono manufatti bellici, molti dei quali sono contaminati dall’uranio impoverito.”.

Il dottor Jawad al-Ali riporta: “Abbiamo visto nuovi tipi di cancro che non si conoscevano in Iraq prima della guerra del 2003, come i cancri fibrosi (dei tessuti molli) e i tumori ossei. Questi segnalano chiaramente le radiazioni come loro causa”.

Falluja fu devastata nel novembre 2004 nel corso di due offensive delle forze speciali USA, appoggiate da commandos dell’esercito iracheno del burattino Allawi, bombardata con uranio impoverito, napalm e fosforo bianco.

L’orrore perpetrato contro civili inermi fu denunciato nel novembre 2005 da una trasmissione di RaiNews24, nel corso della quale il direttore del Centro Studi per i diritti umani della città, Mohamad Tareq al-Deraji disse: “Una pioggia di fuoco è scesa sulla città, la gente colpita da queste sostanze di diverso colore ha cominciato a bruciare, abbiamo trovato gente morta con strane ferite, i corpi bruciati e i vestiti intatti”.

Troppo spesso siamo costretti a leggere statistiche, numeri e numeri che a volte ci fanno dimenticare che stiamo parlando di essere umani e – troppo spesso – di esseri “inumani” a cui è stata rubata l’umanità, così come il capitalismo e l’imperialismo ci rubano non solo il futuro ma anche la vita stessa. Per una volta tanto, invece di aride - anche se terribili – cifre, possiamo renderci conto di cosa queste significhino, in carne, ossa e sofferenze.

A fine novembre 2009 i giornalisti del britannico Guardian e dello spagnolo El Mundo sono tornati a Falluja. Mentre nel mondo occidentale “cristiano” i cui governi hanno tutti partecipato all’invasione e alla distruzione di un intero popolo, ci si appresta a festeggiare il Natale - la nascita del “bambino” Gesù - a Falluja (come in altre città irachene) le cose stanno un po’ diversamente: la “Natività” per gli abitanti della martoriata cittadina ha un altro volto, terribile, quello della barbarie del capitalismo.

FALLUJA, LA STORIA ORRIBILE CHE CI NASCONDONO

Nella carta d’identità irachena n. 283.678 si vede solo il piccolo volto di una neonata. Shukriya e Jassem hanno deciso di nascondere la sua terribile condizione coprendo il corpo della piccola con un asciugamano. Il documento testimonia che Fatma, la minore dei sei figli della coppia irachena, è nata il 27 aprile 2006. “Gli altri sono nati prima della guerra (del 2003) e nessuno di loro ha avuto problemi di salute” spiega la madre della piccola.

Quando i medici dell’ospedale di Falluja le fecero l’ecografia, le annunciarono che avrebbe avuto tre gemelli. “Avevano visto tre teste”, dice Shukriya. Ma il giorno del cesareo l’attesa della donna si tramutò in un incubo. I medici estrassero per primo un mostro senza vita. Un cranio quasi senza corpo, unito ad uno “straccio” di carne. Poi trovarono Fatma. Aveva due teste. Le mancava il palato e aveva un buco nel cuore.

Nelle sue ripetute visite all’ospedale Shukriya scoprì che il caso di sua figlia non era unico, che nella città irachena stavano nascendo un inesplicabile numero di bambini deformi o malati di rare anomalie congenite. Questa fu la stessa conclusione a cui giunsero i medici dell’Ospedale Generale di Falluja, che cominciarono a documentare con foto queste strane malattie.

Cronìca (la rubrica di El Mundo n.d.r.) ha avuto accesso a decine di queste istantanee, impubblicabili per la loro crudezza. Sono immagini che riflettono quello che sembra essere “un grave disastro”, come è stato definito nelle pagine dello studio realizzato dalla ONG Centro di Conservazione dell’Ambiente di Falluja.

Foto di creature con un solo occhio, con due teste, gonfie e con gli intestini esposti (una rara condizione chiamata exomphalos - fuoriuscita dall’ombelico di parte degli intestini, n.d.r.), con parte della colonna vertebrale esposta (spina bifida), coperti di squame o mancanti totalmente di arti.

“Le ragazze di Falluja sono terrorizzate dalla possibilità di avere figli di fronte all’incremento del numero di bambini nati con deformazioni grottesche”. Questa il messaggio lanciato nella lettera inviata il 12 ottobre scorso all’Assemblea Generale dell’ONU da un gruppo di attivisti ed esperti internazionali guidati dall’ex ministra per i Problemi della Donna Irachena, Nawal Al-Samarrai, per richiamare l’attenzione su ciò che sta succedendo nella cittadina araba.

Settembre: 75%, deformi

Il documento presentava una terribile statistica che Samarrai ha attribuito a cifre raccolte nel citato Ospedale Generale di Falluja. Secondo queste cifre, in settembre sono nati in quel centro 170 bambini, dei quali il 24% è morto nel giro di una settimana. Il 75% dei neonati morti sono stati catalogati come “deformi”. Nell’agosto del 2002 il registro contabilizzava 530 nascite, 6 morti nei primi sette giorni di vita e un solo caso di deformità.

“Cominciammo a sentir parlare di questo problema durante il governo di Iyad Allawi (giugno 2004-aprile 2005), ma non si fece niente. In varie occasioni cercai di far sì che le famiglie colpite ricevessero aiuti ma i ministri avevano pausa degli americani” precisa Samarrai, che ha rinunciato al suo incarico in febbraio. “Non c’è alcun dubbio sulla relazione che esiste tra questi neonati deformi e l’uso di armi come il fosforo bianco e l’uranio impoverito. E’ solo un esempio dei crimini di guerra che hanno commesso gli americani e per questo abbiamo chiesto all’ONU che si apra un’indagine internazionale” assicura.

Dal Vietnam a Falluja

La guerra colpì Falluja come un ciclone. L’esercito statunitense si impiegò a fondo in aprile e specialmente nel novembre e dicembre del 2004 in una battaglia strada per strada, che gli esperti equiparano solo ai feroci combattimenti che vi furono nella città vietnamita di Hue nel 1968. Secondo statistiche locali, quasi 36.0000 delle 50.000 case della città furono abbattute o soffrirono gravi danni, oltre a 60 scuole e 65 moschee.

“Quando tornammo, i gatti e i cani erano grossissimi per la gran quantità di carne umana che avevano mangiato” ricorda Ismail Abdul Karim, presidente della ONG locale Alakhiyar, una delle associazioni che stanno cercando di spezzare il silenzio informativo che si è creato intorno ai neonati deformi. Fin al primo momento i residenti di Falluja denunciarono che le forze statunitensi avevano usato ogni tipo di armi devastatrici: dall’uranio impoverito (noto con la sigla DU) al fosforo bianco.

Solo l’anno seguente, e dopo che la RAI italiana (RaiNews24 n.d.r.) aveva mostrato immagini inequivocabili nel documentario “Falluja: il massacro nascosto”, Washington ammise di aver utilizzato fosforo bianco, ma “solo contro nemici combattenti” spiegò il colonnello Barry Venable, portavoce del Pentagono. “Il fosforo bianco è un’arma convenzionale, non è un’arma chimica. Non è illegale e non è proibita” affermò il militare.

A cinque anni da quella data è ancora facile scoprire abitazioni ridotte in macerie nelle strade di questa cittadina a 70 chilometri a ovest di Bagdad. La città che prima era abitata da 600.000 persone continua ad essere accerchiata da muri, recinti di filo spinato e controlli. Qualsiasi visitatore, anche il redattore di Crònica, deve ottenere un permesso per entrarvi. Questo non ha impedito il riattivarsi delle violenze negli ultimi mesi né il ritorno delle azioni disperate dei suicidi.

Campo di lapidi

Il simbolo dell’orrenda eredità che il conflitto ha lasciato nella popolazione è il cosiddetto “cimitero dei martiri”. L’ex stadio di calcio di Falluja che, come è successo a Sarajevo, dovette venir usato come necropoli durante le offensive del 2004.

I seppellitori dell’improvvisato cimitero recuperano dalla memoria avvenimenti più vicini. Si ricordano perfettamente di Fatma. “Sì, aveva una testa molto grande”, ricorda Jamsa Mohamed Saleh. L’impiegato del cimitero cammina tra la file di tombe e comincia a indicare le piccole lapidi dedicate ai bambini. Ce ne sono dozzine. “Da circa due anni non finiscono mai di arrivare bambini. Ne sotterriamo tra i 30 e i 50 al mese. La maggioranza nascono morti. Lavoro qui dal 1989 e non avevo mai vista niente di simile. Dicono che si tratta delle armi che usarono gli americani” indica.

Il suo collega Kamel Yassem Mohamed si incarica di lavare i corpi secondo la tradizione dell’Islam. “Moltissimi sono neonati deformi” dice. Schiacciati da un fenomeno che non capiscono, i genitori delle vittime decisero l’anno scorso di riunirsi in una scuola. “Facemmo un appello e scoprimmo 350 bimbi”, racconta Ismail Abdul Karim. In un filmato realizzato durante la protesta, si possono vedere un gruppo di piccoli malati sotto uno striscione che dice “Bambini invalidi vittime delle operazioni militari”. Si vedono anche alcuni di loro. Uno dei piccini ha le gambe ridotte a moncherini che sembrano pinne.

La piccola Tiba Aftan piange sconsolata sotto il peso prodottole dal tumore che ha sul viso. Durante le prime settimane di vita, Aftan sembrava una bimba sana. Ma sua madre ha raccontata alla tv di Al Yazeera come sua figlia è passata dall’essere una deliziosa neonata ad un essere sfigurato. “Tre giorni dopo la sua nascita mi sono accorta che aveva delle piccole arterie sopra l’occhio. Dicevano che erano solo un segno del parto” ha spiegato.

Quando Aftan aveva un mese di vita le ramificazioni cominciarono a crescere e ad estendersi. Diventarono una massa color viola di aspetto inquietante che le coprì metà del viso. “I medici mi dissero che non c’era una cura, che aveva un tumore ai vasi sanguigni” continua la madre. Aftan ha avuto fortuna. Dopo aver girato per molti ospedali è potuta andare in Giordania, dove i medici le hanno asportato la protuberanza.

Buchi nel cuore

Sono innumerevoli i casi di bambini che non sono stati così fortunati. Basta fare una visita al nuovo ospedale di Falla, uno dei pochi progetti di ricostruzione che sembrano essersi materializzati in Iraq durante l’invasione statunitense, Qui medici come Ali Abdel Hamid riconoscono di non capire l’incremento di neonati che nascono con disturbi incompatibili con la vita.

“Le anomalie congenite ci sono in tutti i paesi, ma a Falluja la quantità è spaventosa. Il problema più comune ora è quello che chiamiamo infermità cardiache ereditarie. I neonati nascono con i due ventricoli del cuore collegati da un buco. Questo è normale nel resto del mondo ma lo è anche che il buco si chiuda quando il bimbo cresce: ma qui non succede. I bambini muoiono. I buchi nel cuore sono enormi. Ieri è morta un’altra bimba per questo. Prima della guerra ne avevamo tre o quattro al mese; adesso la cifra è la stessa, ma a settimana” denuncia il medico. Hamid accompagna il giornalista nel giro delle stanze dell’ospedale, dove si moltiplicano i casi di piccini colpiti da questo difetto.

A solo 29 giorni di vita, Sharaf Sabah ha dovuto essere operata di spina bifida. Vicino a lei dorme Malak Ahmed, che è nato cinque giorni fa. Il suo cranio sembra bombato. “Gli sta suppurando il cervello. Si sta riempiendo di liquido” dice la dottoressa Samira Telfah Abdel Gani.

In un'altra stanza si trova Hudeifa Udei, una neonata che è venuta al mondo 48 ore fa. Ha le gambine storpie, come se fossero le zampe di un rospo. “Se chiedi a qualsiasi esperto o leggi libri di medicina, ti diranno che queste deformazioni sono il prodotto della contaminazione dell’ambiente. Ma non abbiamo prove definitive sulla relazione che c’è con le armi usate dagli statunitensi” dice Abdel Gani.

Al pronto soccorso

Da giorni Samira è incaricata di certificare con fotografie la presenza di queste malattie congenite. Solo nei primi 10 giorni ha trovato14 neonati deformi. La normalità sarebbe trovarne da tre a quattro casi su 100 parti. “La maggioranza presenta problemi cardiaci ma ci sono anche bambini col cranio deformato o con sei dita” dice. La conversazione si interrompe temporaneamente quando i medici devono accorrere al pronto soccorso. “Non abbiamo il tempo di realizzare uno studio formale su queste anormalità perché il giorno per giorno è questo: bombe e guerra” si affretta a dire la dottoressa.

Anche se ammette di non disporre di prove definitive, un altro medico dell’ospedale – Anis Ahmed – ricorda che al ritorno nella città, dopo l’offensiva nordamericana, “gli stessi soldati ci dissero di non mangiare il cibo che avessimo trovato nelle case né di bere l’acqua dei rubinetti e neppure di utilizzare i vestiti che avevamo lasciato negli armadi. Dissero di buttare via tutto. Volevano che bevessimo solo dalle taniche d’acqua che avevano portato loro. Perché, mi chiedo. All’arrivo trovammo decine di uccelli morti per le strade. Io penso che c’è un legame evidente tra le armi che hanno usato e ciò che sta succedendo”.

Le domande che si pone la popolazione di Falluja continuano ad aumentare. Come i casi di malformazioni. L’Ospedale di Falluja non è l’unico centro sanitario che ha constatato l’espansione di queste malattie non frequenti.

L’oculista Adula Melhem rivede ogni settimana vari casi di neonati venuti al mondo con “palpebre deformi e atrofia oculare. Sono anche molto comuni – aggiunge il medico – le cataratte, i danni ai nervi ottici e anche deformità di tutta l’orbita oculare. A volte i bimbi nascono con un occhio più piccolo e alcuni anche senza occhi”.

Nonostante il pronostico dei medici fosse stato del tutto negativo, Shukriya non ha mai smesso di lottare per la sopravvivenza di Fatma. L’ha portata da specialisti di Bagdad e Ramadi. Tutti le hanno spiegato che l’unica opzione per salvare la bimba era una complessa operazione impossibile da realizzare in Irak. “Ho dovuto impegnare tutti i miei gioielli d’oro (il corredo che le donne arabe mettono insieme per il matrimonio – n.d.r.). Più di 3 milioni di dinari (circa 2.500 euro, una piccola fortuna in questo paese – n.d.r.)”.

“I dottori le hanno spiegato la ragione di questa malformazione?”. “Tutti dicevano che è stato a causa delle armi che hanno usato i nordamericani.”. “Ricorda qualche caso simile nelle famiglie dei suoi fratelli, dei suoi genitori, dei suoi nonni?”.”No, non ci siamo mai trovati di fronte a qualcosa del genere.”.

Il giorno della fine

L’agonia di Fatma ha raggiunto lo zenit in febbraio. “Soffriva molto. Cominciò a gonfiarlesi la testa. I medici mi dissero che si avvicinava la fine. Una notte vidi che le si modificava il viso. Non potevamo andare all’ospedale perché c’era il coprifuoco. Sembrava che la testa le stesse per scoppiare”. Jessem fu il primo ad accorgersi che le sofferenze della piccola erano finite, Le afferrò una mano e si rese conto che non viveva più. “Passammo la notte pregando col Corano accanto al suo corpo. La mattina, cessato il coprifuoco, la portammo a seppellire”.

La foto di Fatma, la bimba con due teste, è appesa ora in vari luoghi come la sede della ONG Alakhiyar. E’ diventata un simbolo sconvolgente. I suoi genitori la pensano come il resto delle famiglie di Falluja colpite da questo flagello. Esigono delle risposte. Un’inchiesta ufficiale. “E che gli americani paghino per la sofferenza e il dolore che Fatma ha dovuto sopportare” conclude Shukriya.


* Javier Espinosa, inviato speciale di El Mundo a Falluja


Irak, la conta dei morti
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 27 Dicembre 2009

Nel 2003, alle domande dei giornalisti sui danni collaterali in Afghanistan ed Iraq, il comandante delle truppe d’invasione, il Generale Tommy Ray Franks, rispondeva: “noi non contiamo i morti”.

Alla fine del novembre scorso, fonti governative irachene annunciavano che, a sei anni e mezzo dall’inizio dell’occupazione, gli 88 civili rimasti uccisi negli ultimi trenta giorni rappresentavano un record positivo, il minimo storico mai raggiunto dall’inizio dell’operazione “Iraqi Freedom”.

La mattina dell’8 dicembre 2009, otto giorni dopo il confortante annuncio del contestato governo al-Maliki e a poche ore dalla notizia di nuove elezioni, fissate dal Parlamento per 7 marzo 2010, una serie di potenti deflagrazioni, avvenute nell’arco di pochi minuti, colpivano varie zone di Baghdad causando la morte di 127 persone ed il ferimento di almeno 450 civili.

Un bilancio di sangue causato da cinque autobombe fatte esplodere nel centro della capitale e che verrà accompagnato dai quattro attentati del 15 dicembre, tre nei pressi della Zona verde della capitale ed uno nella città di Mossul, nei quali perderanno la vita cinque persone e altre 14 rimarranno ferite.

Si è aperta così la strada verso la transizione democratica, una strada fatta anche di numeri, vittime su cui si misura il successo o il fallimento della colossale operazione messa in piedi dall’amministrazione Bush nel 2003, una guerra che secondo il presidente americano avrebbe dovuto rendere quel paese una nazione libera e democratica, un modello per tutto il Medio Oriente, “un esempio di nazione vitale, pacifica e capace di auto governarsi”.

Per intensità gli attacchi dell’8 dicembre sono stati simili a quelli avvenuti il 25 ottobre scorso contro il Ministero della Giustizia e il Governatorato di Baghdad, in cui erano morte 155 persone, e a quelli del 19 agosto in cui avevano perso la vita 95 iracheni. Prima di allora altri quindici grandi attentati con centinaia di vittime.

Dall’8 dicembre l’idea di Baghdad come una città sicura inizia ad offuscarsi e dopo il panico dei primi momenti iniziano ad emergere i soliti dubbi, interrogativi su questioni che come al solito rimarranno irrisolte.

Il primo riguarda sicuramente il numero delle vittime, anche in questo caso diverso da quello diramato dagli organi di governo: 77 secondo le autorità, 127 per i media iracheni indipendenti; una replica di quanto avvenuto due giorni prima con le vittime della scuola elementare di Sadr City, notizia liquidata dai telegiornali vicini al governo con un servizio di circa quaranta secondi.

Numeri ufficiali sui quali si gioca la credibilità di un establishment che cerca di trascinare il paese fuori dal pantano della guerra civile e per farlo continua a sostenere che negli ultimi 18 mesi gli attentati in Iraq sono fortemente diminuiti.

In ottobre le autorità di Baghdad hanno diffuso una notizia secondo la quale tra il 2004 ed il 2008 i morti causati dalle violenze sarebbero stati 85 mila. Prendendo in esame l’intero conflitto, l’Iraq Body Count, il progetto sulla sicurezza che dal 2003 registra le vittime della guerra irachena, parla di 94.705 -103.336 morti; nell’ottobre 2006, Lancet aveva pubblicato numeri numero totalmente diversi: 655 mila iracheni rimasti uccisi a causa degli effetti dell’invasione.

Anche se molti analisti ritengono che a partire dal 2008 l’Iraq è diventato un paese sicuramente più sicuro e che questo è dovuto principalmente alla consolidata distribuzione settaria avvenuta in seguito ai violenti scontri registrati tra il 2005 e il 2007, c’è comunque chi si interroga ancora sugli effetti della guerra scatenata dall’amministrazione Bush contro il regime di Saddam Hussein. Dubbi che riaffiorano soprattutto ora che dall’altra parte del mondo si comincia a puntare il dito contro chi continua a giustificare le finalità di quel conflitto.

Tony Blair, che nel 2010 sarà chiamato a rispondere della decisione di invadere l’Iraq, continua infatti ad affermare che deporre il dittatore iracheno sarebbe stato comunque “giusto”, anche di fronte alla certezza che non esisteva alcun arma di distruzione di massa. A convincere Blair della necessità di schierarsi al fianco di George W.Bush sarebbe stata la “consapevolezza” che il leader iracheno “rappresentava una minaccia per tutta la regione”.

Sta di fatto che a sei anni e mezzo di distanza dall’invasione e a pochi mesi dal ritorno a casa di tutti i militari americani, l’Iraq deve ancora fare i conti con la sicurezza, un’emergenza che con il passare del tempo diventerà sempre più un affare iracheno, un affare che può essere riassunto nelle parole di Abbas al Bayati, membro della Commissione Difesa del Parlamento iracheno: “la popolazione ha bisogno di risposte convincenti dai comandanti della sicurezza” perché “se la sicurezza verrà meno, crollerà tutto”.


Il mesto Natale dei cristiani
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 23 Dicembre 2009

Natale sottotono per i cristiani iracheni. La situazione precaria della sicurezza nel Paese, che va facendosi più tesa man mano che si avvicinano le elezioni parlamentari, fissate per il 7 marzo prossimo, sconsiglia celebrazioni e festeggiamenti troppo vistosi.

Tensione pre-elettorale ma non solo. Quest'anno il Natale in Iraq cade in coincidenza con l' Ashura - una delle festività religiose più importanti del calendario sciita, che commemora il martirio dell'Imam Hussein, nipote del profeta Maometto, ucciso assieme ai suoi seguaci a Karbala, nel 680 d.C.

Ed è per questo che Imad al-Banna, il vescovo caldeo di Bassora, città del sud abitata in grande maggioranza da sciiti, ha invitato i cristiani a "non mostrare la loro gioia, a non festeggiare pubblicamente la festa della Natività". Sarebbe inopportuno, argomenta, mentre gli sciiti sono nel lutto.

Non va meglio nel nord, dove pure i cristiani sono parecchi – relativamente parlando, s'intende.

Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, dice che nessuna delle nove chiese che compongono l'arcidiocesi locale ha in programma la Messa di Natale quest'anno.
"E' la prima volta che abbiamo dovuto annullare le nostre celebrazioni", sottolinea.

E' dall'invasione guidata dagli Stati Uniti del marzo 2003 che per la minoranza cristiana in Iraq (una comunità antichissima) le cose si sono messe davvero male. Alla violenza che ha investito tutto il Paese, fatta eccezione per le tre province che compongono la regione autonoma del Kurdistan, nel nord, dove in molti di loro si sono rifugiati, si aggiungono costanti persecuzioni mirate, attentati contro le chiese, omicidi, sequestri, ed espulsioni forzate.

La comunità cristiana nel suo complesso si è ridotta di almeno il 25 per cento.

Proprio la settimana scorsa, a Mosul, la terza città dell'Iraq, nel nord, una doppia autobomba contro una chiesa ha ucciso quattro persone, ferendone altre quaranta.
La ricorrenza sciita dell' Ashura, che quest'anno cade due giorni dopo Natale, ha complicato la situazione.

Religiosi cristiani, a Baghdad ma anche in altre città irachene, riferiscono di aver ricevuto avvertimenti di possibili attacchi: per questo hanno deciso di limitare al minimo le celebrazioni pubbliche natalizie, consigliando ai loro fedeli di festeggiare in famiglia, ma in modo discreto.

"Faremo le nostre preghiere, ma niente festeggiamenti", dice Abdel Ahad, pastore della chiesa cattolica siriaca di Baghdad, sottolineando che è "per solidarietà con la gente di Bassora".

Ma nella capitale irachena non tutti sono disposti a parlare apertamente. C'è anche chi ha paura. Come un prete della Chiesa caldea della Vergine Maria, che si trova in centro.

"In passato, a Natale la nostra chiesa sarebbe stata piena, saremmo stati in strada assieme, musulmani e cristiani", dice il religioso, a condizione che non venga fatto il suo nome. "Adesso ci sono meno persone. Stiamo preparando una Messa per la Vigilia – abbiamo un organo, un coro, e un albero di Natale. Niente di speciale".

Non si celebrerà, invece, a Kirkuk. Nella città del nord dell'Iraq, dove già ci sono forti tensioni fra arabi, kurdi, e turcomanni, un cartello sulla porta della Cattedrale caldea si scusa "con tutti i fratelli per il fatto che non si tengono celebrazioni, e non si accettano saluti né ospiti".

"Preghiamo per la pace e la sicurezza in Iraq", continua il messaggio, "non possiamo celebrare a causa del nostro lutto per le vittime degli attentati di Mosul e di Baghdad".

I pochi cristiani che ancora restano in Iraq vivono per lo più in enclavi isolate.

Secondo Sako, l'arcivescovo caldeo di Kirkuk, negli ultimi tre mesi dalla città contesa sarebbero fuggiti 10.000 cristiani. A Bassora, nel sud, esponenti religiosi locali dicono che la comunità cristiana si è dimezzata: rimangono all'incirca in 2.500, a causa degli attacchi delle milizie.

Nel corso dell'estate 12.000 cristiani avrebbero lasciato Mosul, stando alle cifre della Missione di assistenza all'Iraq delle Nazioni Unite.

Le autorità irachene sostengono che si stanno prendendo misure di sicurezza per proteggere i cristiani nel corso delle celebrazioni natalizie. Vengono ispezionate le chiese e rafforzata la loro protezione.

Ma sono in molti a non fidarsi.

Come Georges Matti, dipendente della North Oil Company, la compagnia di Stato che gestisce i giacimenti petroliferi del nord. "Avevano promesso di proteggerci in passato, ma finora non ci sono riusciti", sottolinea. "Siamo le vittime dei conflitti politici fra vari gruppi iracheni, o per mano di estremisti religiosi che pensano che, per il fatto di essere cristiani, siamo i lacchè dell'Occidente".

Sfiducia anche da parte dei religiosi.

"Festeggiavamo il Natale con tanta gente, con gioia, visite, ospiti", dice amareggiato il pastore della Chiesa della Vergine Maria. "Ora sono qui da solo. Viviamo come topi".

Gli fa eco Ahad, il pastore siro-cattolico.

"Sono stufo. Sono sette anni che parlo con la stampa. Non ho nulla da dire", sbotta. "Lo sto chiedendo al governo iracheno, agli americani, e nessuno ci ha aiutati".


L'Iran vuole una commissione mista per decidere sul giacimento petrolifero di Fakka
da www.osservatorioiraq.it - 23 Dicembre 2009

La sorte del giacimento petrolifero di Fakka, conteso fra Iran e Iraq, sarà affidata ai risultati del lavoro di commissioni miste composte da esperti dei due Paesi, dopo l'incidente dello scorso fine settimana, che ha visto truppe iraniane impossessarsi di uno dei pozzi del giacimento.

Questa la decisione di Tehran, annunciata oggi a Baghdad, nel corso di una conferenza stampa, dall'ambasciatore Hassan Kazemi-Qomi, che ha ribadito che "le forze iraniane non sono entrate in territorio iracheno, e il nostro governo ha deciso di lasciare il problema del giacimento petrolifero alle commissioni miste iraniano-irachene".

Precisando che le forze iraniane "sono nelle loro posizioni, al checkpoint iraniano sui confini, che distano solo 100 metri dal giacimento petrolifero", Kazemi-Qomi ha sottolineato che "il pozzo [quello occupato dai soldati di Tehran] venne scoperto nel 1974 dalla commissione iraniano-irachena, e sigillato fino alla demarcazione dei confini".

"Dopo un anno firmammo un accordo con l'Iraq", ha proseguito il diplomatico, "e le commissioni miste iniziarono a lavorare, ma tutto si fermò a seguito della guerra fra i due Paesi durante il periodo del passato regime".

“Gli accordi firmati fra i due Paesi", ha concluso Kazemi-Qomi, "rimarranno come sono nonostante le guerre e i cambi di governo".

A quanto riferito dal portavoce del governo di Baghdad, Ali al Dabbagh, i soldati iraniani che avevano occupato il pozzo petrolifero nel giacimento di Fakka, in una zona al confine tra Iraq e Iran, nella provincia di Maysan, nel sud-est del Paese, si sarebbero ora parzialmente ritirati, rimuovendo la bandiera che avevano innalzato. Il governo iracheno ha invitato Tehran a ritirare completamente le proprie forze dalla zona.

L'Iran, che sostiene che il pozzo occupato si trova in territorio iraniano, ha definito l'incidente di Fakka "un malinteso".

In Iraq ci sono state manifestazioni di protesta contro l'incursione iraniana, in zone sia sciite che sunnite.

Il ministro degli Esteri, Hoshyar Zebari, dovrebbe riferire a giorni in Parlamento sulla vicenda.


Proteste a Karbala, a Ramadi contro l'occupazione iraniana del pozzo petrolifero di Fakka
da www.osservatorioiraq.it - 22 Dicembre 2009

Un migliaio di persone sono scese in piazza oggi a Karbala, per protestare contro l'occupazione di un pozzo nel giacimento di Fakka, da parte di truppe iraniane, avvenuta alcuni giorni fa, in una zona di confine nella provincia di Maysan, nel sud-est del Paese.

Raccogliendo l'invito dell'Associazione che raggruppa gli avvocati iracheni, i manifestanti si sono radunati di fronte al consolato iraniano, nella città santa sciita del sud dell'Iraq. Fra loro anche molti esponenti della società civile, secondo quanto riferito dal presidente dell'associazione, Rabie al-Massudi.

"I dimostranti si sono diretti verso il consolato iraniano per far sentire la loro voce", ha detto Massudi, che ha definito l'incursione iraniana in territorio iracheno una "violazione della sovranità irachena, e una violazione flagrante dei diritti umani".

Ieri un'altra protesta si era svolta a Ramadi, capitale della provincia di al Anbar, nell'ovest dell'Iraq, abitata in stragrande maggioranza da sunniti.

In centinaia avevano manifestato in modo pacifico, con un corteo che si era diretto verso il centro cittadino, per chiedere il congelamento dei rapporti con il governo di Tehran in seguito all'occupazione del pozzo nel giacimento di Fakka.

Fra le richieste dei dimostranti, secondo quanto riferito da uno di loro, Hamad Abdullah, il ritiro delle forze iraniane dalla zona occupata, e "scuse ufficiali al popolo iracheno per questa interferenza in territorio iracheno".

Dopo l'occupazione del pozzo petrolifero, le forze iraniane si sarebbero parzialmente ritirate tre giorni fa, rimuovendo la bandiera che avevano innalzato, a quanto riferito dal portavoce del governo di Baghdad, Ali al Dabbagh.

L'Iraq ha invitato Tehran a ritirare completamente le proprie forze dalla zona.

Dal canto suo, l'Iran, che sostiene che il pozzo occupato si trova in territorio iraniano, oggi ha definito l'incidente di Fakka "un malinteso".

Il portavoce del ministero degli Esteri di Tehran, Ramin Mehmanparast, in una conferenza stampa, ha detto che i ministri degli Esteri di Iraq e Iran hanno raggiunto "un'intesa" in un colloquio telefonico tre giorni fa, il giorno del ritiro parziale dei soldati iraniani dalla zona che era stata occupata, e che andrebbe formata una commissione mista, composta da esperti, per esaminare il problema della demarcazione dei confini. E' questa, ha sottolineato, "la soluzione migliore".

Il "silenzio" degli arabi

Oggi un deputato kurdo, Mahma Khalil, ha criticato quello che ha definito il "silenzio" dei Paesi arabi sulla vicenda, chiedendo loro di prendere una posizione.

Il parlamentare iracheno, eletto nelle liste della Kurdistan Alliance, la coalizione che raggruppa le principali forze politiche kurde, ha elogiato come "positivo" il comportamento tenuto dal governo di Baghdad, sottolineando che "non c'è stato nessun comunicato da parte di un Paese arabo che criticasse l'Iran per la sua occupazione del pozzo petrolifero iracheno".

Il Presidente del Parlamento, Iyad al Samarrai'e, ha annunciato che il ministro degli Esteri Hoshyar Zebari nei prossimi giorni si presenterà a riferire sulla vicenda.

E' intenzionato a discutere dell'incursione iraniana anche il vice presidente Tariq al Hashimi, che oggi è partito alla volta di Doha, in Qatar, per una visita ufficiale di diversi giorni su invito dell'emiro sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani.

Secondo un comunicato diffuso dalla Presidenza della Repubblica, Hashimi, "nel corso dei suoi colloqui con i funzionari del Qatar, cercherà di ottenere il sostegno dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo al processo politico, e di incoraggiarli ad aprire ambasciate a Baghdad, oltre a discutere la recente violazione iraniana nel giacimento petrolifero di Fakka".


Il petrolio di Halfaya parla cinese
da www.osservatorioiraq.it - 22 Dicembre 2009

E tre. Dopo la firma degli accordi preliminari per i giacimenti di Majnun e Gharraf, assegnati dall'Iraq nel secondo round di gare d'appalto che si è concluso da poco, oggi è stata la volta di Halfaya.

A siglare l'intesa iniziale con il ministero del Petrolio di Baghdad, che dovrà avere l'Ok del Consiglio dei ministri, un consorzio guidato dai cinesi: la compagnia di Stato CNPC, assieme ai partner - Petronas, malese, e Total, francese.

E' l'alleanza che l'11 dicembre scorso è riuscita ad aggiudicarsi il giacimento nel sud dell'Iraq, che ha riserve stimate in oltre 4 miliardi di barili – battendo ben tre offerte rivali, fra cui quella dell'italiana ENI, capofila di un consorzio che si è piazzato ultimo nella gara.

Ora CNPC & partners dovranno portare la produzione a 535.000 barili al giorno, dagli attuali 3.100 barili, su un arco di 13 anni, per un compenso di 1,40 dollari a barile. Il consorzio guidato dall'ENI ne aveva chiesti 12,90 per arrivare a 400.000 barili.

A comunicare la firma dell'accordo iniziale è stato il portavoce del ministero del Petrolio, Asim Jihad.

Nei prossimi giorni, fino al 30 dicembre, è prevista la firma degli altri quattro accordi preliminari relativi ai giacimenti assegnati nel secondo round di gare – Badra, West Qurna 2, Najma e Qayara, i primi due andati a consorzi guidati da compagnie russe, Gazprom e LUKOIL, gli altri alla Sonangol, dell'Angola.

Con il contratto per Halfaya la CNCP si conferma come uno degli operatori leader nel settore petrolifero iracheno.

La compagnia di Stato cinese infatti lavora già nel giacimento di Ahdab, dopo aver avuto confermato un contratto concluso negli anni '90, all'epoca di Saddam Hussein, pur con termini modificati. Trasformato cioè da Production Sharing Agreement (dove la compagnia straniera ha diritto a una quota della produzione) in "contratto di servizio", nel quale essa viene semplicemente pagata per il lavoro eseguito.

CNPC inoltre si è aggiudicata il contratto per lo sviluppo di Rumaila, il maggiore giacimento iracheno, con riserve stimate in almeno 17 miliardi di barili, come partner della BP.

Quello per Rumaila era stato l'unico contratto a venire assegnato nel primo round di gare d'appalto, il 30 giugno scorso, quando le major petrolifere avevano ritirato le loro offerte di fronte alle cifre che il ministero iracheno del Petrolio era disposto a pagare, ritenute troppo basse.

Successivamente, alcune hanno fatto marcia indietro, accettando le condizioni dell'Iraq. Fra queste, l'ENI, che si è aggiudicata il contratto per il giacimento di Zubair, come capofila di un consorzio del quale fanno parte anche la statunitense Occidental Petroleum Corp. e la sudcoreana KOGAS.

L'accordo, ancora in fase iniziale, è in attesa dell'OK del Consiglio dei ministri.