venerdì 6 agosto 2010

Governo-Pdl: chi tira l'acqua una volta per tutte?

Il tempo stringe, il cesso è stracolmo, la puzza nauseante.

Bisogna azionare assolutamente lo sciacquone. Qualcuno lo faccia il prima possibile, please!!!


I numeri del Cavaliere
di Piero Ostellino - Il Corriere della Sera - 6 Agosto 2010

Dopo il voto parlamentare sul sottosegretario Caliendo, è evidente che l'espulsione di Fini dal Popolo della libertà è stato un errore del quale, ora, Berlusconi è prigioniero. Se prima doveva convivere, nel Pdl, con un coinquilino fastidioso, ora, deve fare i conti, in Parlamento, con un altro oppositore.

Quella che, prima, era una maggioranza stabile, adesso è una maggioranza «variabile», in quanto dipendente dal voto dei finiani.

Un minimo di realismo - che in politica è sempre buon consigliere - avrebbe dovuto suggerire al capo del governo di convivere. Gli amici - non del tutto disinteressati, oltre che avventati - gli hanno consigliato di divorziare.

Forse, il Cavaliere dovrebbe ascoltare maggiormente chi non gli è pregiudizialmente né favorevole né contrario, e parla di problemi, invece di fidarsi solo di chi asseconda la sua idea «patrimoniale» della politica e a ridurla alla propria persona.

Ora, quel che è singolare, anche molti dei suoi amici nella maggioranza lo danno per finito e, forse, si apprestano già a saltare giù dalla barca che fa acqua, mentre i nemici dell'opposizione lo temono ancora come dimostra il rifiuto del Partito democratico anche della sola ipotesi di elezioni anticipate.

L'aspetto paradossale di questa asimmetria fra le posizioni della maggioranza e quelle dell'opposizione ha, d'altra parte, un fondamento reale. Mentre, in Parlamento, il suo governo è esposto a finire in minoranza, a seconda delle circostanze e degli umori dell'ex alleato, nel Paese i numeri pare diano ancora ragione a Berlusconi che sembra ancora il più capace di parlare alla «pancia» degli italiani.

E' l'effetto della personalizzazione della politica che va sotto il nome di populismo. Che non è una brutta parola, ma un modo di esprimersi della sovranità popolare; è l'«uomo qualunque» che vota.

Anche qui, però, un certo realismo, da parte del Cavaliere, e persino dei suoi stessi avversari, non guasterebbe.

Preso atto che, in Parlamento, è, ad ogni votazione, ostaggio dei finiani, Berlusconi non dovrebbe ignorare che, nel Paese, rischia di diventarlo, al Nord, della Lega - l'alleato che, nella situazione che si è creata, gli assicurerebbe il (probabile) successo elettorale - e, al Sud, del nuovo concorrente, il «Futuro e libertà» di Fini, che potrebbe far diventare aleatorio quello stesso (probabile) successo elettorale.

Stretto nella duplice morsa che egli ha prodotto con l'espulsione di Fini dal Pdl, il presidente del Consiglio ha un solo modo di ripristinare la propria leadership appannata. Recuperare la vecchia spinta propulsiva liberale della prima ora. Interpretare le esigenze economiche e sociali e le pulsioni di «piccoli», imprese, professionisti e autonomi che potrebbero essere fortemente attratti dalla Lega.

Ne sarà capace? Questa è l'incognita con la quale deve realisticamente fare i conti.


Il Popolo in Libertà
di Marco Damilano - L'espresso - 5 Agosto 2010

L'addio di Fini. Le divisioni nel partito. L'ombra di Tremonti. La Babele del centrodestra sta mettendo a dura prova i nervi di Berlusconi. Che punta sulle elezioni anticipate per far fuori i dissidenti

Il Popolo della libertà è morto, il governo non sta tanto bene e la legislatura chissà. Con il voto alla Camera in ordine sparso sulle mozioni di sfiducia per il sottosegretario alla Giustizia Antonio Caliendo, coinvolto nell'affaire P3, si dissolve in una sera di metà estate l'Invincibile Armada messa su da Silvio Berlusconi due anni fa.

Al suo posto, una maggioranza appesa agli umori di qualche deputato, come nel recente passato: "Quando c'era l'Unione di Romano Prodi pensavo: guarda questi imbecilli che ci stanno consegnando il governo del Paese. E ora noi, invece...", impreca il colossale sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto.

Una pattuglia di transfughi raccolti attorno a Gianfranco Fini, con un piede dentro l'attuale coalizione, ministri e sottosegretari che su Caliendo votano a favore con il governo di cui fanno parte, e uno già fuori, gli altri parlamentari che si astengono con i centristi in vista di un terzo polo tutto da costruire: "Un caso di schizofrenia, roba da abrogare la legge Basaglia e riaprire i manicomi", li liquida il super-berlusconiano Giorgio Stracquadanio.

Una "valanga di fango mediatica" ben orchestrata dai quotidiani della famiglia Berlusconi che si abbatte sul presidente della Camera e sulla sua compagna Elisabetta Tulliani: con tanto di appartamenti a Montecarlo, società off shore, quadri e brillanti, fantomatiche vincite all'Enalotto e tutto quello che possa macchiare l'immagine dell'ex co-fondatore del Pdl, spaventarlo, condizionarne le mosse.

Sciogliete le righe. Liberi tutti. È il big bang della legislatura. Il sipario calato sull'era della Seconda Repubblica, il blocco di partenza di una nuova stagione per ora caotica. Una svolta che si consuma, per gli amanti dei ricorsi storici, tra il 25 luglio e l'8 settembre, data che nei piani del Cavaliere potrebbe segnare ancora una volta il tutti a casa, lo scioglimento del Parlamento ed elezioni anticipate da tenersi a fine ottobre.

L'obiettivo ormai dichiarato del premier, pronto all'autoaffondamento per poi risorgere. Con una nuova squadra di parlamentari, composta interamente a sua immagine e somiglianza, senza fastidiosi dissidenti tra i piedi, senza presidenti della Camera venuti dal Msi che a sessant'anni scoprono il fascino della democrazia parlamentare solo per fare un dispetto a lui.

E con un partito che avrà un nome, un simbolo e un'organizzazione interamente nuovi. La sigla Pdl è ormai associata a una stagione litigiosa e grigia e non è mai piaciuta al suo fondatore. Di certo c'è solo che nel simbolo resterà il suo nome: Berlusconi.

Il brand che ha accompagnato il Cavaliere nelle sue trasformazioni: Forza Italia, Polo della libertà e del buongoverno, Casa delle libertà, Popolo della libertà... Tutto il resto, d'altra parte, non conta niente. Via le strutture provinciali, comunali, regionali, altro che congressi in arrivo come promesso nell'ultima direzione del partito, quella della rissa davanti alle telecamere con Fini.

Al loro posto, un esercito di 60 mila volontari in ogni angolo d'Italia, uno per sezione elettorale, schierati per l'ordalia alle urne prossima ventura. I guerriglieri della Libertà, le sentinelle del voto in cui pescare la nuova classe dirigente facendo piazza pulita dei potentati locali. "Vogliamo spazzare via le tradizionali strutture di partito", detta l'ultrà Stracquadanio. Con un solo condottiero, Lui.

Berlusconi dedicherà l'estate alla costruzione del futuro soggetto politico, tra una festa nel castello romano di Tor Crescenza (vedi articolo a pag. 41) e un vertice con quel che resta del vecchio partito. Poi accenderà i motori e a settembre si partirà con la nuova creatura.

Non è l'unica operazione a nascere dalle ceneri del Pdl. L'altra, ancora più spericolata, vede i parlamentari ex Pdl riuniti da Fini nel gruppo Futuro e libertà per la prima volta schierati con i centristi dell'Udc di Pier Ferdinando Casini e l'Alleanza per l'Italia di Francesco Rutelli che meno di un anno fa si trovava nel lato opposto della galassia politica, nel Pd.

Ed è un paradosso della storia che i due fondatori del bipolarismo, Rutelli e Fini che nel '93 si contesero al ballottaggio l'elezione a sindaco di Roma affossando definitivamente la Dc, ora marcino uniti per scompaginare i poli. Insieme ai deputati dell'Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo si sono astenuti sulla sfiducia a Caliendo, anticipo di un più consistente cartello elettorale quando verrà il momento.

In mezzo a questi due estremi, il Predellino 2 che porterà alla nascita di Forza Silvio e il tentativo di Terzo polo scatenato dall'addio di Fini al Pdl, c'è lo spettacolo del partito di maggioranza relativa che si frammenta in mille fazioni, come la Dc nella fase terminale della sua storia. Con la differenza che le correnti della Balena bianca regolavano i conti secondo un copione ben collaudato, accumulo delle tessere e congressi.

Mentre nel Pdl, dove in due anni si è votato solo per espellere Fini, la ressa per garantirsi un posto al sole nella corte del Cavaliere rischia di provocare guai addiritura maggiori della scissione finiana. Come si è capito l'altra mattina, quando ha squillato il cellulare di un rispettato notabile del partito berlusconiano, l'avvocato-deputato Gaetano Pecorella.

Dall'altra parte c'è il coordinatore del partito Denis Verdini, per nulla intimidito dalle numerose inchieste giudiziarie che lo riguardano. "Volevo sapere se è vero che vai in giro a dire che non ti senti più in sintonia con gli ideali del Pdl", la mette giù dura Denis, l'ex macellaio arrivato ai vertici della politica nazionale. "È falso", replica gelidamente Pecorella. "Ma questa è la prima volta che mi chiami in dodici anni. E se mi fai un'altra telefonata così diventerà vero".

Analogo, sereno dibattito tra compagni di partito è andato in scena in pieno Transatlantico. Il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini in piedi come una scolaretta rimproverata ad alta voce dal deputato salernitano Mario Pepe, un bassetto ipercinetico che gira con i calcoli della pensione da parlamentare sempre in tasca, perfetta reincarnazione dei peones della prima Repubblica, i deputati senza stellette che facevano cadere i governi, i "bastardi senza gloria" che si battono per non morire, ovvero per il proseguimento della legislatura. "Se fanno ministri e sottosegretari certa gente i finiani da trenta deputati passano a cento", minaccia Pepe. E giura di avere dalla sua decine di colleghi: Pianetta, Armosino, Rosso, Stradella...

Il malcontento degli azzurri è esploso quando si è venuto a sapere che gran parte delle poltrone da assegnare venivano stabilite nella sede meno istituzionale.

La nuova infornata di nomine governative prevedeva la promozione a ministro dello Sviluppo economico del berlusconiano Paolo Romani e come sua vice la new entry Annamaria Bernini, bolognese, finiana passata nel campo berlusconiano.

Tutto deciso nel maniero di Tor Crescenza, sede estiva del premier, la Camp David di Berlusconi, la sua Castelgandolfo. Rapidamente occupata da un quartetto di giovani intraprendenti deputate, le romane Mariarosaria Rossi e Annagrazia Calabria, la calabrese Jole Santelli, la palermitana Gabriela Giammanco.

Nel partito le chiamano le Crescentine: la corrente del Castello, la più influente sul premier che da qualche tempo usa concludere la giornata al telefono con le sue predilette, a notte fonda. Informazioni, rassicurazioni e delazioni: di quello ti puoi fidare, di quell'altra no, quell'altro ieri parlava male di te Presidente, riferiscono le deputate al Cavaliere, che prende nota e terrà presente, quando si tratterà di fare le liste per le prossime elezioni.

Quanto basta per scatenare ancora di più il panico tra i potenziali esclusi, soprattutto in questa atmosfera da fine Impero. "Qual è il nostro stato d'animo? Angoscia", racconta uno dei leader del gruppo parlamentare che raccoglie gli sfoghi dei più disperati: i parlamentari delle regioni del Nord che vedono il loro scranno in pericolo a vantaggio della Lega, quelli del Sud che potrebbero vedersela con il polo Fini-Casini-Rutelli, quelli che sono alla terza legislatura e non saranno ricandidati.

Tutti a cercarsi un santo in paradiso che li porti al tavolo in cui si compilano le liste. Si incontrano nei ristoranti intorno alla Camera. Molto gettonato, ed è un grande ritorno, la terrazza dell'hotel Raphael dietro piazza Navona. Qui, al posto di Bettino Craxi, riceve lontano da sguardi indiscreti l'ambizioso senatore Gaetano Quagliariello, ci dobbiamo accontentare.

In previsione dell'appuntamento elettorale ogni ras si è fatto la sua corrente su misura: un'associazione, una fondazione, una rete di circoli. Ci sono gli ex socialisti di Fabrizio Cicchitto con l'associazione Riformismo e libertà e quelli di Brunetta e Frattini con la Free foundation.

Gli ex An di Ignazio La Russa con il network la Nuova Destra, da non confondere con gli adepti di Maurizio Gasparri (Italia Protagonista), di Altero Matteoli (Fondazione della libertà) e di Gianni Alemanno (circoli della Nuova Italia). Finito? Macché: Quagliariello sbandiera la fondazione Magna Carta, i ciellini di Roberto Formigoni si vedranno a fine mese al meeting di Rimini con Rete Italia.

E poi ci sono gli scajoliani, i più a rischio data la caduta in disgrazia del loro boss, i Promotori della libertà della ministra Michela Vittoria Brambilla, i post-berlusconiani di Liberamente, con le ministre Gelmini, Carfagna e Prestigiacomo e due forzisti della prima ora come Mario Valducci e Gianfranco Miccichè. E i senza corrente, per questo più di tutti graditi al Capo, Angelino Alfano e Sandro Bondi.

In questa babele capita che i distinguo dalla linea ufficiale arrivino da dove meno te lo aspetti. Raccontano, per esempio, che Mara Carfagna si sia battuta fino all'ultimo con il premier per evitare l'espulsione di Fini e del suo amico Italo Bocchino.

Peggio ancora, la ministra più bella del mondo avrebbe confidato agli amici di sentirsi più vicina ai finiani che ai berlusconiani e di aver considerato l'ipotesi, clamorosa, di schierarsi dalla parte del presidente della Camera. A trattenerla, una remora di tipo sentimentale: "Non potrei mai lasciare il partito, senza Berlusconi non avrei mai fatto politica". Però, intanto, Mara ci pensa.

C'è un unico personaggio nel Pdl che non ha bisogno di fondazioni e di truppe per pesare il suo potere. Giulio Tremonti si limita a presiedere la sezione italiana dell'Aspen Institute e tanto basta. Un apparente distacco che autorizza agli occhi del Cavaliere le peggiori congetture.

Non c'è solo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani che nelle ore calde della vigilia del voto su Caliendo ha per la prima volta ammesso di essere disposto a votare un governo guidato dal ministro dell'Economia, un tabù rotto nonostante la frettolosa smentita.

C'è l'area Fini-Casini-Rutelli che ha già spedito messaggi di dialogo. Un emissario centrista di rango ha sondato un fedelissimo di Tremonti, il presidente della commissione Finanze della Camera Gianfranco Conte.

Risultato: nessuna disponibilità a presiedere governi tecnici, ma Tremonti vede di cattivo occhio uno scioglimento delle Camere che consegnerebbe il Paese a sei mesi di ordinaria amministrazione con il rischio di una nuova ondata speculativa.

Un pressing analogo i finiani lo stanno tentando anche in direzione Lega. Persino il Carroccio è incerto sullo show down elettorale: Roberto Calderoli è sulla linea del "meno male che Silvio c'è", con Berlusconi tutta la vita. L'altro Roberto, il ministro dell'Interno Maroni, si è dichiarato pubblicamente per le elezioni in autunno se la maggioranza non tiene. Ma Bossi è molto più dubbioso e aspetta di vedere quante carte abbia realmente in mano Fini.

Il sipario cala, dopo lo strappo con il Pdl il presidente della Camera ha bisogno di tempo per mettere in scena uno spettacolo diverso. Il tempo che il Cavaliere non può concedere, se vuole essere eletto al Quirinale in modo trionfale nella prossima legislatura. Ma il tutti a casa non sarà una passeggiata neppure per lui.


Fuga dal Pdl
di Peter Gomez - www.ilfattoquotidiano.it - 5 Agosto 2010

Il passaggio di Chiara Moroni dalle file del Pdl a quelle dei finiani è un buon esempio di quanto ci attende nelle prossime settimane. Ora che il partito di Silvio Berlusconi, almeno a Montecitorio, non ha più i numeri per governare, l’emorragia di parlamentari in uscita dal gruppo degli azzurri minaccia di farsi continua.

Da una parte, pensano di andarsene una serie di deputati e senatori che con il Popolo della Libertà sono sempre c’entrati poco. Gente di destra, ma non berlusconiana, che si era ritrovata da quelle parti sopratutto a causa del bipolarismo. Non sono in molti, ma i loro nomi sono significativi.

Un esempio? Santo Versace che continua a giurare una (poco convinta) fedeltà al premier, ma che poi reclama legalità e selezione delle classi dirigenti con le stesse parole usate da Fabio Granata. Un sistema sicuro per arrivare, più prima che poi, alla resa dei conti con B.

Questa pattuglia è comunque sparuta. Molto più nutrita è invece quella dei parlamentari che, per pure ragioni d’interesse, abbandoneranno il Cavaliere se davvero si andasse verso le elezioni anticipate.

Vediamo perché: con questo sistema elettorale alla Camera come al Senato si entra solo per nomina diretta del proprio capo partito. La forza elettorale individuale, la capacità di ben amministrare o di convincere i cittadini, non contano niente. E qui nasce il problema: molti deputati e senatori, in caso di votazioni a marzo (la data vagheggiata da Berlusconi) non sono per nulla certi di essere ripresentati.

Alcuni di loro sono arrivati ai ferri corti (per le ragioni più svariate) con notabili importanti del partito. E quindi temono la vendetta dei vertici. Altri semplicemente hanno paura di essere sostituiti dalla velina o dalla presentatrice di turno.

In ogni caso tutti percepiscono le urne come un pericolo: all’ultimo momento il loro nome nelle liste potrebbe non esserci o essere piazzato troppo in basso. E allora perché rinunciare solo per l’impuntatura del Capo a due anni di stipendio e a una comoda poltrona?

Meglio per loro far presente che al voto non c’è nessun bisogno di andarci o, addirittura, tirare un’imboscata al premier. Lasciar sfiduciare il governo e nel momento in cui il presidente Napolitano dovesse aprire le consultazioni appoggiare un esecutivo diverso, possibilmente tecnico.

Se si arriverà a quel punto, entrerà poi in azione la consueta e ancor più numerosa squadra: quella composta dai topi che fuggono quando la nave (Berlusconi) affonda. E, con tutta probabilità, si muoverà anche la Lega disposta, come sempre, ad appoggiare chiunque sia in grado di garantire (o almeno di promettere) il federalismo.

Ovviamente anche il Cavaliere si rende conto di questi rischi.

Lui e i suoi collaboratori più stretti, è vero, non sono troppo lucidi. Lo dimostrano ampiamente i calcoli sballati sulla reale consistenza dei finiani alla Camera. Ma si tratta pur sempre di gente tosta, vendicativa e, a volte, persino cattiva.

Per questo adesso Berlusconi punta a un risultato immediato: indebolire Gianfranco Fini. Togliere al presidente della Camera quel sex appeal che lui riesce a far valere persino sulla sinistra.

Ci riuscirà? Dipende tutto da quanto è seria la faccenda dell’appartamento di Montecarlo, regalato al partito da una ricca militante e oggi misteriosamente affittato al cognato dell’ex leader di An.

Finora le minacce di querela e le balbettanti spiegazioni dei tesorieri di Alleanza Nazionale, hanno solo confermato che la vicenda monegasca non è da prendere sotto gamba. Se il caso monta ancora la figura del legalitario Fini rischia di incrinarsi. E di molto.

Il presidente della Camera, comunque ha una strada maestra per uscire vincente da questa storia: spiegare, se può, tutta l’operazione immobiliare nei minimi particolari. Per il Paese, dopo anni di bugie, la trasparenza rappresenterebbe una sorta una rivoluzione copernicana.

Ma è ovvio che questa, più che un’ipotesi o un auspicio, è per il momento solo fantascienza. A oggi l’unica certezza è il Cavaliere che, nelle prossime settimane, cercherà di evitare la propria fine trascinando nel fango chiunque tenti di opporsi. Lo ha sempre fatto. Lo farà ancora. Anche se adesso questa tattica appare solo utile per rallentare l’agonia. Non per fermarla.


Chiara Moroni, Barbara Contini, Enrico Musso: tre schiaffoni al partito dei cortigiani, addio Pdl
da www.destradipopolo.net - 5 Agosto 2010

Per molti parlamentari del Pdl è arrivato il momento delle scelte, talvolta anche dolorose: schierarsi contro il premier è comunque un atto di coraggio, soprattutto perchè non c’è nulla da guadagnare, solo da perdere.

Anche in termini di immagine personale, killerati anche nel personale dalle trippe (truppe presuppone già una nobiltà di cui sono privi) scelte del feudatario.

Dalla Perina a Bocchino, da Menia a Granata, da Barbareschi alla Contini e via diffamando: come uno si schiera con Fini, dai giornali di centrodestra inizia la campagna di sputtanamento personale, una cosa vergognosa per un Paese civile.

Incapaci di contrastare le tesi politiche di Fini sul terreno socioculturale, dove sarebbe legittimo criticarle, avviluppati alla “banda del buco” bossiana cui cedono pagine intere dei giornali di regime per spacciare il nulla prodotto dalla Lega per grandi contributi alla causa, i killer dalla mira sbagliata fanno persino titoli acchiappagonzi che non trovano poi riscontro nel testo dell’articolo.

Diffamate, diffamate che qualcosa resterà, è la parola d’ordine: anche senza riscontri, anche senza prove, anche senza testimoni, tutto è consentito quando il mandante paga profumatamente.

Persino i sondaggi sono diventati ad personam in un delirio di onnipotenza . Se un finiano viene fotografo con la spesa fuori da un supermercato, sicuramente sarà scappato senza pagare il conto, se invece è in prossimità di una banca certamente starà preparando una rapina.

E il tutto a difesa non di persone oneste, ma di corrotti, condannati per mafia, di una marea di inquisiti, collusi, concussi, di condannati per reati comuni (una trentina siedono in Parlamento nelle file del Pdl), di puttanieri e cortigiani-.

Ieri abbiamo assistito a un fatto che sarebbe inaudito in qualsiasi governo di destra europeo: un ministro della Giustizia che difende un inquisito attaccando la magistratura, proprio lui che la dovrebbe rappresentare.

Ben ha detto Chiara Moroni, lasciando il Pdl per Fini: “la battaglia garantista non piò essere confusa con l’impunità, certe frequentazioni sono inammissibili, Caliendo doveva dimettersi”.

E la figlia di Sergio, morto suicida nel 1992 con una lettera-testamento che allora lasciò il segno nelle coscienze di tanti, ha aggiunto: “Oggi non viviamo un’emergenza garantista, come ai tempi di mio padre, oggi dobbiamo pretendere che i politici siano irreprensibili, che si recuperi una cultura dell’etica pubblica. Fini sta portando avanti un progetto innovativo, il mio abbandono del Pdl è molto doloroso sul piano personale, ma voglio continuare a poter esprimere la mia identità e la mia libertà“.

Una bella dose di accuse le ha subite anche Barbara Contini che è passata con Fini.
Ieri ha replicato: “Mi hanno offerto di tutto perchè rimanessi nel Pdl, il governo non è degno del rispetto che io ho per le istituzioni. Il mio impegno l’ho dimostrato nei teatri di guerra, non in quello di Palazzo Grazioli”.

Altre parole dure dal sen. Enrico Musso, passato dal Pdl al Gruppo misto: “La coalizione non sta attuando il programma per cui è stata eletta e affonda negli scandali. Serve un partito serio, senza scandali e senza zoccole”.

Sono tre parlamentari che hanno rotto le ipocrisie di un ambiente che è andato a cercare persino il voto di Grassano, l’ex leghista subentrato a Cota e sotto processo per truffa (700.000 euro sottratti al Comune di Alessandria), ma che non si vergogna a diffamare chi lascia il Pdl in tutta coscienza e onestà.

Altro che ciarpame senza pudore, se la nave affonderà c’è da sperare che si porti dietro non solo chi sbagliato volutamente rotta, facendo incagliare il bastimento sugli scogli, ma anche quei servi che hanno incassato laute prebende per nascondere l’orizzonte di una destra vera, onesta, libera, sociale, legalitaria, unitaria, occidentale.

Niente scialuppe di salvataggio per loro, solo pagaiate in fronte.


La pdl Rossi "Le mie feste per il morale del Cavaliere"
di M. Gu. - www.corriere.it - 5 Agosto 2010

«Dopo la rottura con Fini, il premier aveva la faccia scura. Così ho radunato un gruppone di venti deputate»

«I colleghi sono invidiosi? Non me ne ero accorta. Io le invidie le sconfiggo col sorriso e col dialogo».
Mariarosaria Rossi, deputata del Pdl anche detta la «Madonna di Cinecittà». Anni?
«Ne ho 39, però me ne danno tutti 27».

Le cronache hanno preso a interessarsi a lei...
«Io non leggo i giornali, faccio male?».

Si è scritto che ha organizzato «feste e balli» per Berlusconi al Castello di Tor Crescenza.
«Niente balli, due cene politiche con le deputate. Tutto è nato nelle ore della rottura con Fini. Eravamo nella sala del governo e il premier aveva la faccia scura. Così ho radunato un gruppone di venti deputate e siamo andate a tirarlo su di morale. Gli abbiamo detto che siamo con lui, qualunque cosa succeda».

È vero che il premier la chiama al telefono?
«Sono anni che recluto militanti, riempio pullman e organizzo manifestazioni in suo sostegno... Qualità particolari? Nessuna. Ho solo un grande entusiasmo. Credo in Silvio, perché fa i fatti e ha una storia pazzesca».

E le cene al castello?
«È un posto bellissimo, per ragionare di politica è meglio di Palazzo Grazioli. Gli ho fatto fare due torte stupende, con scritto "meno male che Silvio c'è". È deluso da Fini, amareggiato per la rottura. Ma anche determinato e molto sereno».

I deputati del Pdl dicono che lei e le onorevoli Calabria, Giammanco e Santelli siete un po' le preferite del premier.
«Malignità. Io sono abituata a creare entusiasmo e a reclutare donne. Nella mia azienda ne ho assunte per l'80 per cento. E tutte alla prima esperienza».



Ecco perchè Romani non può diventare ministro dello Sviluppo Economico

di Gianni Barbacetto - www.ilfattoquotidiano.it - 5 Agosto 2010

Un curriculum degno del governo dei Cosentino, dei Brancher, degli Scajola. Ma questa volta Napolitano non lo vuole
E’ da una vita che aspetta di diventare ministro. E adesso che stava per farcela, per sedersi sulla poltrona lasciata libera da Claudio Scajola al ministero dello Sviluppo economico, si è messo di mezzo il Quirinale.

Paolo Romani
ha una storia professionale, politica e giudiziaria che mal si addice alla carica di ministro della Repubblica: soprattutto per una lunga e complessa indagine per bancarotta di cui è stato protagonista. Eppure ha tanto aspettato questo momento: facendo di tutto, nell’attesa, per rendersi utile al capo.

Nel 2007, benché fosse già viceministro, ha fatto perfino l’assessore all’urbanistica a Monza, attento a presidiare gli interessi immobiliari locali della famiglia Berlusconi (che allora voleva costruire Milano 4 sull’area monzese della Cascinazza). Ora stava per raggiungere la meta. Ma forse non ce la farà. Eccola, la storia del quasi ministro bloccato a un passo dal traguardo.

Paolo Romani è uomo di televisione. Un pioniere: ha cominciato nel 1974 a lavorare nelle “tv libere”, impiantando, con Marco Taradash, TeleLivorno. Poi è stato al fianco di Nichi Grauso a Videolina, di Alberto Peruzzo a Rete A. Ha guidato la prima Telelombardia di Salvatore Ligresti.

Infine si è messo in proprio, inventandosi Lombardia 7. La rete ottenne un certo successo. Non per il tg: il programma forte era “Vizi privati”, strip molto espliciti e molto caserecci presentati da un’ingovernabile Maurizia Paradiso. Con la scatenata Maurizia, dopo un lungo sodalizio, Romani finì per litigare e, dice la leggenda, il litigio degenerò in scontro fisico e molto doloroso.

Era stato un giovane liberale. Ma nel 1994 Romani resta folgorato da Silvio Berlusconi e s’imbarca in Forza Italia. Sceglie la politica, anche perché gli affari non vanno più benissimo. Viene eletto deputato, vola a Roma e abbandona Lombardia 7 al suo destino.

Nel 1994 la vende, almeno formalmente: giusto in tempo per evitare l’onta del fallimento. Sì, perché i nuovi proprietari comprano la tv già piena di debiti e poi la lasciano naufragare. È un’allegra banda a cui non interessano per niente i programmi e i palinsesti.

Hanno altri obiettivi: incamerare le frequenze, bene prezioso da rivendere in futuro; e fare giochi di prestigio con la pubblicità. Attraverso un giro di “cartiere” e di fatture false, infatti, fanno razzia di molti miliardi di lire (almeno 81 tra il 1997 e il 2001), messi al sicuro in Svizzera.

Poi fanno sparire i documenti contabili e portano al fallimento prima Lombardia 7, che “salta” nel 1999 lasciando debiti per oltre 12 miliardi di lire, poi anche Rtv Produzioni di Padova, che s’inabissa nel luglio 2000. Risultato: intervengono tre procure della Repubblica, quella di Bergamo, quella di Monza, quella di Bologna.

Nel 2003, zitti zitti, tentano il colpo finale: vendere le frequenze alla Rai, che le vuole utilizzare per il digitale terrestre. Merito della legge Gasparri, che dà il via libera alla compravendita delle frequenze (come permettere ai posteggiatori di vendersi le piazze dei parcheggi). L’allora direttore generale della Rai, Flavio Cattaneo, incontra gli emissari del gruppo, che gli offrono le frequenze a prezzi d’amatore: 7,5 milioni di euro per quelle di TvSet e addirittura 24 milioni per quelle di Lombardia 7.

È un giornalista che rovina la festa: Paolo Biondani sul Corriere della sera (“Nasce indagata la tv del futuro”) racconta che dietro TvSet c’è la banda già inseguita da tre procure d’Italia per bancarotta, associazione a delinquere, false fatture, riciclaggio, falso in bilancio.

E Romani? Zitto. Formalmente non c’entra nulla. Ha venduto Lombardia 7 nel 1994. Ma della società che conta, Lombardia Pubblicità, resta legale rappresentante almeno fino al 1998 e azionista e proprietario del 5 per cento fino al 2003.

Insomma: continua ad avere rapporti d’affari con la banda. Nel mondo delle tv private c’è poi chi mette in dubbio che abbia venduto davvero, c’è chi sussurra di accordi sottobanco. Ma questi sono solo sospetti, maldicenze senza prove.

Di sicuro c’è solo che Romani, per il fallimento di Lombardia 7, è stato a lungo indagato per bancarotta preferenziale: per aver cioè intascato i soldi di un’azienda in crisi, togliendoli di fatto ad altri creditori. Ha infatti sottratto a Lombardia 7, prima di volare a Roma, oltre 1 miliardo di lire: in assegni “monetizzati dallo stesso Romani”. Al termine delle indagini, il pubblico ministero ha però chiesto per lui l’archiviazione, ritenendo di non avere elementi sufficienti per ottenere una condanna in dibattimento.

Il giudice per le indagini preliminari l’ha rifiutata, ordinando l’imputazione coatta. Il pm ha eseguito l’ordine. Infine un secondo gip ha definitivamente archiviato. Romani ha dovuto comunque pagare 400 mila euro come risarcimento al curatore fallimentare della sua (ex) tv.

Con un curriculum così, anche Romani è pronto a entrare nel governo dei Cosentino, dei Brancher, degli Scajola. Ma può dirigere lo Sviluppo economico un uomo che in vita sua ha diretto una sola azienda, che poi è miseramente fallita? Per ora qualcosa o qualcuno lo ha impedito. Nei prossimi giorni sapremo come andrà a finire.