mercoledì 4 agosto 2010

Iran sotto crescente pressione

Crescono di giorno in giorno le pressioni della comunità internazionale nei confronti del regime iraniano.

E una serie di eventi lo rende evidente: dapprima le sanzioni Onu, USA e UE, poi l'attentato del 16 Luglio avvenuto nella Grande Moschea di Zahedan, capitale della provincia di Sistan-Baluchestan al confine col Pakistan, con 21 morti e almeno un centinaio di feriti. Attentato rivendicato dal gruppo ribelle sunnita Jundullah, già autore in passato di altri attentati sanguinosi.

Sta aumentando inoltre la presenza di navi da guerra occidentali e israeliane nel Golfo Persico. E oggi infine ci sarebbe stato un attentato fallito nei confronti dello stesso presidente Ahmadinejad.

Si parla di feriti, ma il governo iraniano nega che l'attentato sia avvenuto.
E Ahmadinejad non ne ha fatto cenno durante il discorso che ha poi tenuto nello stadio di Hamadan, mentre nei giorni scorsi aveva invece parlato di un piano israeliano per ucciderlo.

Insomma, una lenta ma inesorabile pressione economica-militare-mediatica è in pieno atto contro il regime iraniano che poche settimane fa ha firmato un importante accordo con il Pakistan per la costruzione di un gasdotto tra i due Paesi.

Pressioni che "casualmente" negli ultimi giorni stanno iniziando a montare anche contro il Pakistan...


Iran: chi sanziona chi?
di Michele Paris - Altrenotizie - 30 Luglio 2010

Con l’approvazione di un pacchetto di sanzioni unilaterali nei confronti dell’Iran, l’Unione Europea qualche giorno fa ha scelto, come previsto, di assecondare la strategia intimidatoria degli Stati Uniti verso Teheran.

Se le nuove misure restrittive in nessun modo favoriranno un esito pacifico della questione del nucleare iraniano, è probabile piuttosto che potranno finire per danneggiare la politica energetica di quegli stessi paesi europei che ne sono stati i promotori.

Le sanzioni decise da Bruxelles hanno fatto seguito a quelle imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU lo scorso dieci giugno e, soprattutto, a quelle decisamente più pesanti licenziate subito dopo dal Congresso americano su richiesta della Casa Bianca.

Come queste ultime, le risoluzioni UE intendono colpire le compagnie aeree commerciali e navali iraniane, il settore bancario e quelli assicurativo e finanziario. Inoltre, saranno congelati i visti d’ingresso dei leader dei Guardiani della Rivoluzione nei paesi dell’Unione e i loro beni.

Ancora più importante è poi il giro di vite al settore energetico. Ogni tipo di investimento europeo in questo ambito viene messo fuori legge, così come qualsiasi progetto di assistenza tecnica. Restrizioni molto pesanti per un blocco di paesi che rappresenta il principale partner commerciale della Repubblica Islamica, la quale esporta verso l’Europa poco meno di un terzo del proprio greggio e una buona fetta delle sue imponenti risorse di gas naturale.

L’esaurirsi degli investimenti esteri - quanto meno europei ed americani - potrebbe creare grossi problemi all’Iran, che continua ad avere gravi carenze per quanto riguarda la capacità di raffinare il petrolio che estrae.

Per far fronte a tale ritardo, tuttavia, il vice-ministro del petrolio, Alireza Zeighami, ha rivelato recentemente alla televisione di stato Press TV che il suo governo intende stanziare 46 miliardi di dollari per costruire una serie di nuove raffinerie e garantire all’Iran l’autosufficienza nel prossimo futuro.

Il problema dell’eventuale mancanza d’investimenti esteri, secondo il vice-ministro, verrebbe risolto tramite il finanziamento dei progetti da parte di consorzi di banche indipendenti.

A sentire ancor di più le ripercussioni delle sanzioni potrebbe essere il settore del gas naturale, del quale l’Iran possiede le quantità più ingenti su scala planetaria, dopo la Russia. Lo sfruttamento dei giacimenti di gas iraniani risulta però al di sotto delle reali potenzialità, tanto da necessitare di qualcosa come 8 miliardi di dollari di investimenti in nuovi progetti estrattivi.

A detta degli stessi esponenti del governo di Teheran, i due terzi delle riserve del paese rimangono tuttora da esplorare, soprattutto nel gigantesco giacimento di South Pars nel Golfo Persico che l’Iran condivide con il finora più intraprendente emirato del Qatar.

Gli ostacoli causati dalle sanzioni di Bruxelles al comparto energetico iraniano difficilmente mancheranno di scatenare ritorsioni nei confronti dei paesi europei, andando a minare in primo luogo la loro sicurezza energetica.

Il rischio concreto è che le forniture di petrolio e, soprattutto, gas naturale, possano subire una battuta d’arresto proprio mentre in Europa ci s’interroga sui rischi della dipendenza dal gas russo e si cerca disperatamente di diversificare le fonti di approvvigionamento.

Per l’UE, insomma, si tratta di dover pagare anche le conseguenze della battaglia combattuta al fianco di Washington; ufficialmente per tentare di fermare un programma nucleare che, pur senza prove concrete, si continua a definire finalizzato alla costruzione di armi atomiche, ma in realtà per far cadere l’attuale regime iraniano e installare un governo più accomodante verso l’Occidente.

Effetti indesiderati che gli Stati Uniti, almeno in quest’ambito, non sentiranno, in quanto non importano direttamente gas o petrolio dall’Iran, né con questo paese intrattengono relazioni commerciali significative.

Come ha spiegato chiaramente un anonimo docente di scienze politiche della Teheran University alla testata Asia Times, “l’UE ha seguito ciecamente le orme degli Stati Uniti, i quali non hanno particolari interessi economici in Iran. Ciò avrà implicazioni geo-economiche negative per l’Unione Europea”.

In sostanza, appare assurdo che da Bruxelles si possa dire all’Iran: “Vogliamo continuare a mettere le mani sul vostro petrolio o sul vostro gas, ma allo stesso tempo faremo di tutto per soffocare il vostro settore energetico”.

A conferma di possibili rappresaglie, per le transazioni di petrolio e gas, Teheran ha già minacciato di passare dall’Euro ad altre valute, tra le quali la moneta degli Emirati Arabi, il dirham. Una mossa che potrebbe provocare un nuovo sensibile indebolimento dell’euro.

In risposta alle sanzioni, è facilmente ipotizzabile che l’Iran finirà anche per intensificare i legami sul fronte energetico con le potenze asiatiche. Cina, India e Giappone, che rappresentano già un mercato importante per le esportazioni iraniane di greggio e gas naturale, non sembrano infatti disposte a mettere a repentaglio la propria sicurezza energetica per assecondare Washington.

In pericolo, dunque, ci sono molti progetti in fase di studio o già avviati tra l’Europa (e le sue compagnie energetiche) e l’Iran, a cominciare dal cosiddetto “Gasdotto Persiano” che dovrebbe collegare il già citato giacimento di South Pars con il mercato europeo, passando per la Turchia.

Una Turchia che ha duramente criticato le sanzioni europee, giunte tra l’altro a pochi giorni dall’accordo tra Ankara e Teheran per la costruzione di un altro gasdotto da 1,3 miliardi di dollari che collegherà i due paesi diplomaticamente sempre più vicini.

Un’impasse, quella tra Iran e UE, che coinvolge anche l’ENI, costretto a disimpegnarsi dai progetti in corso da tempo nella Repubblica Islamica. Già lo scorso mese di aprile, l’ad Paolo Scaroni, in una conferenza stampa seguita all’assemblea degli azionisti, aveva annunciato che l’ENI “non perseguirà altri progetti in Iran finché la situazione internazionale e geopolitica non lo consentirà”.

Attivo principalmente nel giacimento di South Pars e, da ultimo, solo in quello on-shore di Darquain, l’ENI ha recentemente proceduto alla “consegna degli impianti” relativi proprio a quest’ultimo, ma non prenderà parte per il momento a nessun nuovo progetto nel paese.


L’Unione Europea e le sanzioni all’Iran
di Pamela Schirru - www.eurasia-rivista.org - 1 Agosto 2010

In principio è stata l’amministrazione americana – con il sostegno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – a mettere a punto un pacchetto di sanzioni contro l’Iran e il suo programma nucleare. Lo scorso 9 giugno per la sesta volta dodici membri del Consiglio di Sicurezza hanno espresso il loro voto a favore delle misure restrittive da applicare all’Iran, accusato di essere restìo a ridimensionare la portata del suo programma nucleare.

A più di un mese di distanza dalla presa di posizione americana e degli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ora è arrivato il turno dell’Unione Europea. E proprio le sanzioni UE si annunciano più “dure” rispetto a quelle approvate a New York nel mese di giugno. Riuniti a Bruxelles, i 27 ministri degli Esteri della Ue hanno varato una lunga serie di sanzioni senza precedenti contro l’Iran.

Se il pacchetto Usa mirava a colpire un parte consistente dell’apparato militare, ossia i Guardiani della Rivoluzione, le banche operanti all’estero sulle quali grava il sospetto di connessioni con il programma nucleare perseguito dal Presidente Mahmud Ahmadi-Nejad, e punta soprattutto ad imporre controlli serrati ed ispezioni a bordo delle navi cargo che effettuano attività di import ed export di prodotti all’interno e fuori dei confini nazionali iraniani, il blocco di sanzioni votato dall’Unione Europea a carico del governo iraniano, accusato di non rispettare il “Trattato di non proliferazione” da lui stesso ratificato, mira invece a colpire e indebolire il settore delle industrie del gas e del petrolio, attraverso l’introduzione di un divieto di nuovi investimenti in questi campi e di un divieto di assistenza tecnica e di trasferimento di tecnologie.

Limiti e restrizioni i cui effetti si riflettono non solo entro i confini nazionali iraniani, bensì anche nel bacino degli innumerevoli rapporti commerciali con i principali partners economici: Russia, Cina, Arabia Saudita e perfino con l’Europa stessa.

A tal proposito, occorre tenere in considerazione numeri e cifre nel settore iraniano della produzione di petrolio, gas ed energia: l’economia persiana è dominata dalle industrie petrolifere, gestite a livello statale dalla National Iranian Oil Company che opera sui mercati internazionali attraverso l’esportazione di ingenti quantità di greggio.

Calcolato in percentuali, l’Iran esporta circa due milioni e settecentomila barili di petrolio al giorno. Di questi, il 30% è destinato ai paesi europei (circa il 13% solo all’Italia), la restante percentuale è spartita tra i mercati asiatici e quello russo. Il principale acquirente di petrolio iraniano è senza dubbio la Cina, grande consumatrice di energia.

In questo quadro, l’Iran si colloca al secondo posto – stavolta dopo la Russia – per quanto concerne il possesso di riserve di gas naturale, calcolato in 26 milioni di metri cubi corrispondente a circa il 18% delle riserve mondiali. Anche la preziosa riserva di gas è ovviamente un prodotto da esportazione verso i mercati esteri. Principale cliente ancora una volta la Cina. A cui fanno poi seguito il Giappone e l’India.

Un’intricata ragnatela di molteplici rapporti commerciali con Asia ed Europa che potrebbe risentire del pesante pacchetto di sanzioni inviato da Bruxelles. 34 le società sottoposte alle misure restrittive decise e approvate dalla diplomazia europea, pronte a colpire duramente i maggiori istituti bancari iraniani per sospetta attività di finanziamento al programma nucleare iraniano.

Le restrizioni cingono la vita della grande banca Melli, con filiali sparse in tutta Europa (Amburgo, Londra, Parigi) e già inserita nella lista Usa di istituti che sostengono (indirettamente) il progetto nucleare iraniano. Nel mirino delle misure Ue compaiono anche numerose personalità.

Anche su di loro grava il sospetto di coinvolgimenti in attività legate al nucleare o di finanziamenti sottobanco per la realizzazione di missili balistici. Tra le persone sanzionate figurano: Ali Davandari, capo della banca Mellat; Mohammad Mokhber, Presidente del fondo d’investimento collegato alla Guida Suprema Alì Khamenei, nonché membro del CDA della Banca Sina.

Colpiti dalle restrizioni anche numerosi membri dei Guardiani della Rivoluzione. Frenate anche le operazioni di scambio attuate dalla principale società di navigazione nazionale – la IRISL – comprese le sue succursali dislocate in Asia, Medio Oriente ed Europa: Corea del Sud, canale di Suez, Alessandria in Egitto, Porto Said; ma anche Qatar, Kuwait, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, passando per la Germania, la Russia e il Kazakhstan.

Le limitazioni sancite dall’Unione Europea a Bruxelles e varate a carico dell’Iran e del suo prolifico settore economico se per un verso mirano a mettere sotto stretta sorveglianza l’azione politica iraniana, legata a doppio filo al suo programma nucleare, dall’altro possono rivelarsi pericolose per l’Europa medesima dal momento che vanno a colpire il cuore dei rapporti commerciali dei principali partners europei: Roma, Berlino, Parigi per citare i più importanti hanno, nel complesso, un interscambio commerciale con l’Iran calcolato in 15 miliardi di euro, circa il 60% di tutti i rapporti commerciali dell’Iran con l’Unione Europea. A seguire, l’Olanda, la Spagna e la Grecia che insieme costituiscono il 25% dei rapporti commerciali fra Tehran e UE.

A sancire questo patto tra il Vecchio Continente e il Vicino Oriente ha contribuito pure la scelta del presidente iraniano di fissare i prezzi in euro per la vendita o l’acquisto di petrolio. Una decisione presa nell’ottobre del 2007, che ha favorito i partners europei e ha invece creato non pochi problemi al dollaro statunitense.

L’Europa si fregia di una posizione migliore sulla bilancia commerciale internazionale. Ma proprio per tale ragione, non si può non soppesare la portata di una decisione così drastica presa a Bruxelles: sanzionare l’economia iraniana significa – per alcuni versi – limitare il mercato di casa propria.

Non si può escludere che l’Unione Europea, prima di varare il suo pacchetto di sanzioni, non abbia riflettuto in anticipo sugli effetti e le conseguenze che, una simile presa di posizione avrebbe potuto scatenare sul piano economico.

Tra le società e gli organismi attivi nel controllo degli scambi strette nella morsa delle sanzioni figurano: Hanseatic Trade Trust e Shipping con sede ad Amburgo (Germania), Irinvestship Ltd con sede nel Regno Unito, la quale si occupa di prestiti e servizi legali, finanziari, assicurativi nonché di servizi di commercializzazione, noleggio e gestione dell’equipaggio.

IRISL Ltd (Barking, Felixstowe) sempre dislocata in Inghilterra di proprietà al 50% della Irinvestship e al 50% della British Company Johnson Stevens Agencies, la quale fornisce coperture del carico e del servizio container fra l’Europa e il Medio Oriente, come pure due servizi distinti tra Medio Oriente e l’Estremo Oriente. IRISL Europe Gmhb, sempre con sede ad Amburgo in Germania.

Appare chiaro quanta potenziale influenza detenga l’Islamic Republic of Iran Shipping Lines (ovvero, la società di navigazione nazionale iraniana) su territori strategici del Vecchio Continente: Germania e Regno Unito.

Gli effetti delle restrizioni entro i confini nazionali iraniani sono piuttosto evidenti: in primo luogo la mancanza di rifornimenti. L’Iran, non solo è il principale fornitore di petrolio sul mercato internazionale, ma è anche il maggiore acquirente di carburanti dall’estero. Il divieto di transito e di attracco di navi cargo nei porti iraniani comporta una perdita non indifferente di greggio e denaro.

In secondo luogo, il divieto di attività imposto alle banche determina un’ingente perdita in termini di investimenti di capitali. Nessun istituto della Repubblica Islamica può aprire filiali in Europa, quindi nessuna potenza potrà investire o commerciare traendone delle garanzie o dei vantaggi.

Alla mancanza di investimenti di capitali provenienti dall’estero potrebbe fare seguito l’indebolimento delle raffinerie e industrie iraniane, prive della tecnologia necessaria per produrre una quantità di energia tale da soddisfare il consumo dell’intera popolazione, per questo costretta ad importare il 40% del fabbisogno di carburanti.

Europa e Iran, un continente e una Repubblica in bilico tra interessi commerciali da tutelare e timori da spazzare via. Il governo iraniano non rinuncia al suo programma nucleare e, quindi non intende abbandonare la strada dell’arricchimento dell’uranio, pur avendo sottoscritto nei mesi passati accordi mediati da potenze altre.

La diplomazia europea risponde a suon di sanzioni al fine di riportare l’Iran sulla “retta via dei negoziati”. Intanto, non tutti plaudono alla decisione di Bruxelles. Assai critica verso il pacchetto di sanzioni è apparsa subito la Russia.

Difatti, Mosca ha immediatamente criticato la decisione presa dai 27 Ministri degli Esteri dell’euro-zona di approvare un nuovo pacchetto di misure restrittive ai danni dell’Iran, definendo la scelta “inaccettabile e soprattutto fuori dal quadro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.

La presa di posizione russa arriva in una fase delicata dei suoi rapporti con Tehran. Rapporti ad alta tensione alimentati dalla decisione di Mosca di aderire al pacchetto di sanzioni varato il 9 giugno scorso dalla comunità internazionale.

Ma l’Iran non sembra intimorita dalle minacce attuate dall’Unione Europea (messe nero su bianco nel documento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 26 luglio 2010) e ha così replicato: “Il popolo iraniano non rinuncerà al suo diritto di produzione di energia tramite il nucleare e soprattutto non dimenticherà chi ha colpito e infastidito negli anni in cui percorreva l’irto sentiero del progresso scientifico e tecnologico”.


Pakistan e Iran a tutto gas

di Michele Paris - Altrenotizie - 19 Luglio 2010

Qualche settimana fa Iran e Pakistan hanno siglato un importante accordo per la fornitura di gas naturale che dovrebbe provvedere al fabbisogno energetico pakistano. L’intesa per la costruzione di un gasdotto da quasi 8 miliardi di dollari, che diventerà operativo a partire dal 2014, è giunta nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, impegnati ad isolare Teheran attraverso le sanzioni economiche appena approvate dal Congresso, ma costretti a non esercitare troppe pressioni su un alleato fondamentale nella strategia di stabilizzazione del vicino Afghanistan.

L’impianto in questione partirà dal sito del più grande giacimento di gas naturale conosciuto del pianeta, quello di South Pars, nell’Iran meridionale, e una volta a regime fornirà 21,5 milioni di metri cubi di gas al giorno al Pakistan. Prima dell’inizio dei lavori, però, Islamabad entro il 2011 dovrà svolgere uno studio circa la fattibilità della porzione di gasdotto che sorgerà sul proprio territorio.

L’annuncio del lancio del progetto è arrivato più o meno in concomitanza con la firma di Obama sul pacchetto di sanzioni unilaterali contro l’Iran (Comprehensive Iran Sanctions, Accountability, and Divestment Act), votate dagli USA dopo i provvedimenti adottati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La nuova legislazione americana prevede ritorsioni nei confronti di quelle compagnie straniere che fanno affari con la Repubblica Islamica, in particolare nel delicato settore energetico.

La contrarietà di Washington all’accordo sul gasdotto era stata ribadita di recente dall’inviato speciale del presidente Obama in Afghanistan e Pakistan, Richard Holbrooke. A queste pressioni, tuttavia, Islamabad non ha finora ceduto, malgrado le promesse di forniture alternative di gas proveniente dal Tagikistan attraverso l’Afghanistan. Le insistenze americane avevano convinto invece l’India ad uscire dall’iniziativa che inizialmente prevedeva il coinvolgimento anche di Nuova Delhi.

La determinazione del governo pakistano rischia ora di mettere nuovamente in imbarazzo la diplomazia statunitense. L’esclusione dal mercato americano delle compagnie straniere che contravvengono alle sanzioni contro l’Iran, non avviene in ogni caso in maniera automatica ed è probabile che alla fine da Washington si finirà per chiudere un occhio.

Il Pakistan si trova d’altra parte in una situazione di estrema scarsità di energia elettrica - tanto da aver perso circa il 2 per cento del proprio PIL nell’ultimo biennio - così che azioni punitive da parte degli USA comporterebbero un nuovo grave motivo di tensione all’interno di una relazione bilaterale già sufficientemente agitata.

Come noto, per gli Stati Uniti il Pakistan rappresenta a partire dall’autunno del 2001 un partner potenzialmente decisivo nell’azione di contrasto alla guerriglia islamica che rende precaria l’occupazione dell’Afghanistan. Le sollecitazioni americane verso Islamabad per azioni sempre più incisive nei confronti dei gruppi talebani e legati ad Al-Qaeda operanti entro i propri confini si sono moltiplicate negli ultimi anni.

A fronte delle rassicurazioni ufficiali e delle operazioni militari, però, i vertici delle forze armate pakistane (e ancor più i servizi segreti) continuano a mantenere un rapporto molto stretto con molte di queste cellule jihadiste attive oltre frontiera, considerate un prezioso valore aggiunto per influenzare un futuro Afghanistan pacificato, da cui escludere il più possibile l’arcirivale indiano.

Allo stesso tempo, l’equilibrismo diplomatico del Pakistan è complicato dalla necessità di evitare screzi con Washington, da cui provengono ingenti aiuti economici e militari. Un contributo che, in ogni caso, non ha reso meno ostile l’opinione pubblica pakistana nei riguardi degli Stati Uniti e di un governo locale considerato troppo arrendevole ai diktat del potente alleato.

La prova di forza sulla questione del gasdotto iraniano ha fornito così l’occasione al primo ministro Raza Gilani e all’impopolare presidente Zardari di dimostrare di saper resistere in qualche misura alle pressioni americane.

La strategia energetica di Islamabad ha finito poi per far emergere un altro fronte di contrasto con gli USA, in questo caso intorno alla questione del nucleare e dell’espansione dell’influenza cinese in Asia centrale.

Il Pakistan, pur possedendo armi atomiche, non è firmatario del Trattato di Non-Proliferazione (TNP) e non potrebbe perciò accedere, almeno in linea teorica, al mercato della tecnologia nucleare per scopi pacifici.

Dal momento che all’India, anch’essa fuori dal Trattato, negli ultimi mesi dell’amministrazione Bush era stato concesso in via eccezionale di stipulare un accordo con Washington per ottenere assistenza nella creazione di una rete di centrali nucleari, il Pakistan ha richiesto agli USA il medesimo trattamento riservato all’odiato vicino orientale.

Incassato il rifiuto americano di siglare un simile trattato, il Pakistan si è rivolto alla Cina. Anche se a Pechino non sarebbe consentito di fornire tecnologia nucleare a paesi non firmatari del TNP, un progetto per la costruzione di due reattori nella provincia pakistana del Punjab è stato recentemente suggellato, senza alcuna reazione ufficiale da parte di Washington.

La presenza cinese in Pakistan è già ben consolidata e rappresenta precisamente un altro fronte della crescente rivalità con gli USA in un’area strategicamente molto importante e ricca di risorse naturali.

In cambio degli investimenti promessi da Pechino, il governo pakistano ha ad esempio concesso lo sfruttamento del porto di Gwadar, situato sulla costa sud-occidentale della provincia del Belucistan che si affaccia sul Mare Arabico.

Una mossa quella cinese che rientra in una strategia più ampia, dettata dalla necessità di assicurare alle forniture di materia prima provenienti dal Medio Oriente rotte alternative a quella che passa attraverso lo Stretto di Malacca, soggetto al controllo navale statunitense.

Per l’identico motivo, la Cina ha da poco concluso un accordo con la giunta militare del Myanmar per la costruzione di un oleodotto che dovrebbe collegare i due paesi e pare stia valutando di estendere il gasdotto tra Iran e Pakistan fino al proprio territorio.

Oltre a turbare gli Stati Uniti, l’ascendente cinese sul Pakistan inquieta ovviamente anche l’India, la quale ha a sua volta un rapporto tormentato con Pechino. Come contrappeso, da almeno un decennio l’India si è avvicinata agli Stati Uniti, i cui rapporti sempre più stretti con il Pakistan hanno però suscitato i timori di Nuova Delhi.

L’irruzione della Cina nello scacchiere centro-asiatico per tutelare i propri interessi geo-strategici, così, non fa altro che aumentare le tensioni in un’area del globo dall’equilibrio già estremamente precario.


Navi israeliane nel Golfo Persico

di Manlio Dinucci - Il Manifesto - 23 Luglio 2010

Il passaggio di una flotta USA-israeliana attraverso il Canale di Suez non si deve interpretare come un segnale contro l’Iran, bensì come una minaccia diretta contro il Pakistan. E’ vero che avviene poco dopo il voto sulle sanzioni contro l’Iran al Consiglio di Sicurezza, però si tratta innanzitutto di una risposta contro l’accordo sul gas firmato fra Teheran e Islamabad.

Israele schiera sottomarini armati di missili nucleari al largo delle coste iraniane: così titolava ieri il giornale israeliano Ha’aretz, riprendendo un’inchiesta del britannico Sunday Times. Secondo quanto dichiarato da un ufficiale israeliano, uno dei quattro sottomarini «Dolphin», forniti dalla Germania, si trova già nel Golfo e, con i suoi missili da crociera a testata nucleare (1.500 km di gittata), può colpire qualsiasi obiettivo in Iran.

Alla fine della settimana scorsa, una dozzina di navi da guerra statunitensi e almeno un’unità lanciamissili israeliana avevano attraversato il Canale di Suez, dirette nel Golfo persico, per accrescere la pressione su Teheran.

La ragione non è solo quella dichiarata: impedire che la Repubblica islamica si doti di armi nucleari. Ve n’è un’altra, più pressante: agli inizi della settimana scorsa Teheran ha firmato con Islamabad l’accordo, del valore di 7 miliardi di dollari, che dà il via alla costruzione di un gasdotto dall’Iran al Pakistan. Un progetto che risale a 17 anni fa, finora bloccato dagli Stati uniti.

Nonostante ciò, l’Iran ha già realizzato 900 dei 1.500 km di gasdotto dal giacimento di South Pars al confine col Pakistan, che ne costruirà altri 700. Un corridoio energetico che, dal 2014, farebbe arrivare in Pakistan dall’Iran, ogni giorno, 22 milioni di metri cubi di gas. Il progetto iniziale prevedeva che un ramo del gasdotto arrivasse in India, ma New Delhi si è ritirata temendo che il Pakistan possa bloccare la fornitura.

C’è però sempre la Cina, disponibile a importare gas iraniano: la "China national petroleum corporation" ha firmato con l’Iran un accordo da 5 miliardi di dollari per lo sviluppo del giacimento di South Pars, subentrando alla francese Total cui Teheran non ha rinnovato il contratto (mentre l’italiana Eni continua a operare nei giacimenti di South Pars e Darquain).

Per l’Iran si tratta di un progetto d’importanza strategica: Teheran infatti possiede le maggiori riserve di gas naturale dopo quelle russe, ancora in massima parte da sfruttare, e attraverso il corridoio energetico verso est può sfidare le sanzioni volute dagli Stati uniti.

Ha però un punto debole: il suo maggiore giacimento, quello di South Pars, è offshore, situato nel Golfo Persico e quindi esposto a un blocco navale, come quello che gli Stati uniti possono esercitare facendo leva sulle sanzioni approvate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu (che la settimana scorsa ha dato via libera al quarto pacchetto di misure punitive contro la Repubblica islamica).

A Washington brucia che il Pakistan, suo alleato, abbia firmato l’accordo con l’Iran pochi giorni dopo le sanzioni Onu. Da qui la mossa militare, in accordo con gli alleati europei, in particolare la Francia.

La portaerei Harry Truman, che guida il gruppo navale diretto nel Golfo Persico, ha fatto scalo a Marsiglia, effettuando il 4-7 giugno nel Mediterraneo, con i suoi 80 caccia, un’esercitazione di interoperabilità con l’aviazione imbarcata sulla portaerei francese «De Gaulle». E mentre era in navigazione verso Suez, il 14 giugno, ha ricevuto la visita del ministro della difesa tedesco, accompagnato dal capo di stato maggiore della marina.


La morte di Neda a Teheran

di Aldo Vincent - www.giornalismi.info - 3 Agosto 2010

Girano alcuni pazzi per il Web. Alcuni si ostinano a parlare di signoraggio, altri avanzano dubbi sul jet che ha colpito il Pentagono, qualcuno sostiene che il primo viaggio sulla Luna è fasullo, altri che il crollo della seconda Twin Tower fu provocato...

Tutti pazzi. Gli internauti scrivono, guarda che sei pazzo, ma loro imperterriti sfornano documenti, foto e filmati...
Ehehehehe

Uno di questi pazzi da ricovero sono io.

Avanzai nel giugno scorso alcuni dubbi sulla morte di Neda, la martire iraniana diventata un’icona del Web e mi presi la mia bella dose di fankuli da non credere. Non devo continuamente ripeterlo ma io ho un passato da professionista come fotoreporter, fotografo di scena, operatore video e producer, quindi quando guarda un video o un documento fotografico ho sempre quella distorsione professionale che me lo fa guardare con occhi differenti dai vostri.

Per iniziare notai una cosa, qui:
Neda è con il padre (con la maglia a righe azzurre alla sua destra ma poi si scoprì essere l’insegnante di piano) si gira un attimo prima dell’incidente per verificare se la telecamera la segue... www.youtube.com/watch?v=pLSt-ic7RJM

In questo della CNN si vede meglio: www.youtube.com/watch?v=NSDmd6TRs3A&feature=related

Questo è il video di protesta messo on line da Freedom e Democracy on Iran il 23 Giugno 2009 con le foto di Neda.

Questo è il video su cui scrissi e manifestai i miei dubbi. Io ho visto la ragazza a terra e nella mano sinistra tiene qualcosa, poi con lo sguardo si accerta che la telecamera si avvicini quindi si passa la mano sinistra sul volto e compare il sangue. Quando appare “morta” la mano sinistra stringe ancora quella che potrebbe essere una boccetta. www.youtube.com/watch?v=3HC4cxxEzCM&feature=related

difficile combattere contro i mulini a vento, peggio è resistere alla tempesta d’insulti che vengono dal Web che ha deciso di fare di Neda un’icona della resistenza iraniana.
Però qualche eccezione vi fu.

GIORNALETTISMO

fece notare le prime incongruenze, una tizia dichiarò: “Lì con mio padre potevo esserci io e non mia sorella ...” ma poi si scoperse che chi accompagnava Neda con il suo medico era il maestro di piano e non il padre... Neda Soltan(i): viva, morta o X?

Gianluca Freda scrisse un post particolareggiato per contestare la “morte” di Neda

Oliviero Beha ripostò il mio post titolandolo E SE VINCENT AVESSE RAGIONE ?

Oggi, dopo qualche avvisaglia avutasi durante l’anno circa lo scambio di fotografie dal passaporto di Neda ad una presunta sosia, esce un articolo di Repubblica che sembra mettere a posto tutto. www.repubblica.it/


P.S. Io ho vissuto a Teheran, non sono depositario di nessuna verità rivelata, ma una che riesce a fuggire da lì deve avere appoggi indescrivibili. Che sia passata in Grecia e poi a Francoforte la dice lunga su alcuni sospetti che avevo sull’ambasciata greca di cui ero ospite e su cui scrissi.
Quando muore una persona il rito funebre complicatissimo dura tre giorni. Per Neda nulla. Dicono che era proibito, ma un regime teocratico secondo me si guarderebbe bene da contrastare un rito funebre. Ma è un’opinione.
Durante la mia permanenza a Teheran ho visto porcherie fare dagli americani, che al confronto questa di Neda è una passeggiata a Disneyland
E con questo chiudo
Per il momento...


Fu scambiata per la ragazza uccisa. La falsa Neda fugge dal suo Paese

di Vanna Vannuccini - La Repubblica - 2 Agosto 2010

Zahara Soltani, 33 anni, sosia di Neda e oggi profuga in Germania. "Il regime mi perseguitava, voleva che mi sostituissi alla sua vittima"

La morte di Neda Agha-Soltan ha sconvolto milioni di persone in tutto il mondo. Poco più di un anno fa la studentessa iraniana fu uccisa dalle milizie di Ahmadinejad in una strada di Teheran.

Su un video che fu fatto girare in rete, milioni di persone videro gli ultimi momenti della giovane donna colpita a morte da un proiettile della polizia, riversa a terra con gli occhi ancora aperti e fiotti di sangue che uscivano dal naso e dalla bocca, mentre alcune persone cercavano inutilmente di soccorrerla e un uomo vicino gridava il suo nome: "Neda!".

Quell'immagine fu la prova schiacciante della brutale repressione del regime iraniano contro i milioni che protestavano contro la truffa elettorale che riportò al potere Ahmadinejad. Neda diventò l'icona del movimento di opposizione.

Tra chi vide quell'immagine sconvolgente c'era un'altra giovane iraniana. Aveva un cognome simile a quello della ragazza uccisa, Soltani, e anche lei frequentava la stessa università Azad, anche se - di quattro anni più vecchia di Neda Soltan - ormai come insegnante; e anche lei veniva chiamata familiarmente Neda, sebbene il suo nome vero fosse Zahra: è molto comune oggi in Iran che donne che hanno ricevuto nomi tipicamente islamici come Zahra o Fatemeh, preferiscano farsi chiamare con nomi che non appartengono alla tradizione islamica.

Non appena il video della morte di Neda venne diffuso su internet la stampa internazionale cercò di capire chi fosse quella ragazza. Dalla rete emerse così una foto di Neda Soltani, 33 anni, molto somigliante alla vittima, almeno per quanto permetteva di vedere il foulard che le copriva la testa. La sua foto fu pubblicata su internet come quella della ragazza uccisa e mostrata in diversi reportage televisivi.

Un errore che "ha cambiato la mia vita", racconta oggi Neda (Zahra) Soltani, ormai al sicuro in Germania dove ha ottenuto asilo politico. La sua tranquilla esistenza tra casa e insegnamento a Teheran ebbe infatti immediatamente fine.

Lei ricorda ancora la sorpresa di trovare decine di messaggi sulla sua mail, e lo shock di quando scoprì di essere data per morta. Lei naturalmente smentì, rivelò il caso di omonimia, e altrettanto fece la famiglia dell'altra Neda, pubblicando in rete le vere foto della ragazza uccisa.

Ma le autorità iraniane, che cercavano disperatamente di contrastare il video che rivelava le dimensioni della violenza usata contro manifestanti inermi, pensarono di aver trovato il modo per beffare il mondo.

Il 24 giugno, il giorno dopo la pubblicazione delle foto sul web, la polizia segreta era già sulle sue tracce. Impaurita, Neda Soltani cercò di mettersi in contatto con i media internazionali per spiegare l'errore e con Amnesty International per chiedere aiuto.

L'intelligence la prelevò per un primo interrogatorio tre giorni dopo. "Volevano convincermi a presentarmi alla televisione iraniana per affermare che Neda era viva e che il video era solo una montatura, volevano che dicessi che la mia foto era stata data ai media occidentali dall'ambasciata greca".

Poi passarono alle minacce e le misero di fronte il tabulato delle chiamate che aveva fatto a Amnesty International, dicendo che non aveva scelta: o faceva come loro dicevano o sarebbe stata accusata di spionaggio. Il giorno dopo Neda Soltani lasciò l'Iran. "Tutto quello che avevo era uno zaino, il mio laptop e una borsetta", racconta al New York Times. Rimase in Turchia per nove giorni, poi passò in Grecia e di lì in Germania.

Ora Neda Soltani vive nelle vicinanze di Francoforte, non ha un lavoro, e si sente sperduta. "Ho nostalgia di casa. La mia vita è stata sconvolta dai media occidentali e dalla polizia segreta iraniana. Spero che almeno i media si rendano conto di quello che hanno fatto".