lunedì 30 agosto 2010

Da Iraqi Freedom a New Dawn: fuga dalla sconfitta

Domani si conclude ufficialmente la missione Iraqi Freedom, iniziata nel Marzo 2003, e comincia l'operazione New Dawn (Nuova Alba).

Si completa il ritiro delle truppe combattenti USA, ma 52.000 soldati resteranno comunque in Iraq.

Un Paese distrutto fisicamente, economicamente, moralmente e che non ha ancora uno straccio di governo dopo sei mesi dallo svolgimento delle elezioni legislative.

Qui di seguito alcuni articoli sulle condizioni disastrose in cui si trova il Paese alla vigilia della cosiddetta Nuova Alba...


Goodbye Baghdad
di Michele Paris - Altrenotizie - 30 Agosto 2010

Con la propagandata uscita di scena di tutte le truppe di combattimento americane nel mese di agosto, a oltre sette anni dall’inizio della guerra, in Iraq rimangono circa 50 mila soldati che dovrebbero lasciare definitivamente il paese entro la fine del 2011.

Il piano di ritiro, già concordato da George W. Bush con il governo di Baghdad nel 2008, non segnerà tuttavia il disimpegno statunitense dall’Iraq. Se un certo numero di militari sarà destinato a rimanere più a lungo, il ritiro delle forze armate sarà in parte bilanciato dall’arrivo di un esercito di appaltatori e guardie di sicurezza private alle dipendenze del Dipartimento di Stato.

Lo spostamento della quarta brigata Stryker in Kuwait ha dato l’occasione al presidente Obama di annunciare trionfalmente l’obiettivo raggiunto e il mantenimento della promessa che aveva fatto durate le presidenziali di porre fine alla guerra voluta dal suo predecessore.

Nonostante la necessità di presentare la situazione irachena in termini positivi per motivi elettorali in vista del voto di medio termine tra un paio di mesi, dalla Casa Bianca ci si rende perfettamente conto delle gravi minacce che continuano ad incombere sull’Iraq del post-Saddam Hussein.

Oltre al persistere di una profonda crisi sociale ed umanitaria, negli ultimi mesi il tasso di violenza nel paese occupato ha raggiunto i livelli più alti da oltre due anni a questa parte. Una serie di sanguinosi attentati, che hanno colpito in particolare Baghdad e le principali città sunnite, mettono in discussione i progressi fatti segnare tra il 2007 e il 2008.

Il continuo stallo della situazione politica a quasi sei mesi dalle elezioni parlamentari non promette poi nulla di buono. Ciò che permette ai politici e ai media americani di diffondere un messaggio rassicurante circa le condizioni dell’Iraq è piuttosto il numero relativamente contenuto di decessi tra i soldati USA, da qualche tempo per lo più confinati all’interno delle loro basi.

In ogni caso, le truppe che restano tuttora sul territorio iracheno sono in grado di condurre operazioni di combattimento, anche se ufficialmente il loro compito è quello di provvedere alla transizione verso il pieno controllo del paese delle forze locali. Ai vertici del Pentagono, peraltro, sono in pochi a credere in un ritiro completo degli americani dall’Iraq anche dopo la data stabilita dal cosiddetto SOFA (Status of Forces Agreement).

Allo stesso tempo, proprio da Baghdad sono già giunti i primi segnali di una volontà di chiedere alle forze occupanti di rimanere nel paese ben oltre il 2011. Secondo il numero uno dell’esercito iracheno, generale Babaker Zerbari, ad esempio, i soldati americani dovrebbero prolungare la loro presenza almeno fino al 2020.

Saranno insomma le “condizioni sul campo” a decidere della durata dell’occupazione dell’Iraq, come stabilito dagli accordi con Washington. Tra le due parti, infatti, è prevista la costruzione di un “rapporto di lunga durata nel campo economico, diplomatico, culturale e della sicurezza”. Gli Stati Uniti, poi, avranno facoltà di impiegare ogni mezzo “diplomatico, economico o militare” contro eventuali minacce “interne o esterne” al governo di Baghdad.

Quel che è certo è che una parte dei compiti legati al mantenimento della sicurezza nel paese e all’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito irachene saranno affidati a “contractors” privati sotto la responsabilità del Dipartimento di Stato USA.

Ad una schiera di privati, che si stima toccherà almeno le settemila presenze, toccherà anche, tra l’altro, occuparsi della difesa degli avamposti americani in Iraq, della conduzione dei voli di ricognizione senza pilota (droni) e dell’attivazione di squadre speciali per interventi in situazioni di crisi.

L’impiego massiccio di operatori a libro paga di aziende appaltatrici private rappresenta già un grave problema sia in Iraq che in Afghanistan, dove il presidente Karzai ha appena emanato un ordine per allontanare quasi tutti i contractors operanti nel paese. La situazione che si prospetta per l’Iraq nei prossimi anni rischia così di mettere nelle mani dei privati un numero ancora maggiore di delicate operazioni che possono avere profondi effetti sulla stabilità del paese.

Il Dipartimento di Stato, inoltre, non sembra avere la competenza necessaria per guidare un esercito di queste proporzioni, che si stima potrebbe costare alle finanze americane oltre due miliardi di dollari. “Il Dipartimento di Stato non ha mai operato in maniera indipendente dalle forze armate americane in una realtà così vasta e potenzialmente piena di rischi”, ha dichiarato al New York Times James Dobbins, ex ambasciatore presso l’UE e già inviato speciale in Afghanistan, Bosnia, Haiti e Somalia. “Si tratta di una situazione senza precedenti”, ha aggiunto.

Il presunto disimpegno promosso da Barack Obama ha ridotto di circa 90 mila unità la presenza delle forze armate americane in Iraq. Ciò non ha ovviamente decretato alcun attenuamento del militarismo a stelle e strisce in Medio Oriente e nel continente asiatico, dal momento che le truppe ritirate dall’Iraq sono state trasferite in Afganistan. Qui si è ormai superata quota 100 mila, in previsione di nuove operazioni che faranno aumentare ancora il numero di vittime civili e militari.

La strategia di Washington non è altro che un’operazione di facciata, diventata indispensabile in seguito alla crescente opposizione interna nei confronti dello sforzo bellico su più fronti. Un impegno militare giustificato dalla lotta al terrorismo islamico ma in realtà dettato dalla necessità di assicurarsi il controllo di un’area cruciale del pianeta per gli interessi geo-strategici americani che continuano ad essere gli stessi anche con un presidente democratico alla Casa Bianca.


Iraq, la grande fuga

di Christian Elia - Peacereporter - 19 Agosto 2010

Si ritira l'ultima unità combattente Usa, prima del 31 agosto, lasciando gli iracheni al loro destino

Lo spiegano tutti i manuali militari, per coloro che trovano interessanti un certo tipo di letture, come un grande esercito debba ritirarsi da un teatro di guerra. In silenzio, senza offrire punti di riferimento ai nemici che - dall'avvento della guerriglia - avrebbe un bersaglio molto facile nelle elefantiache colonne in ritirata.

Gli statunitensi, alla chetichella, hanno applicato alla lettera la tradizione bellica e ieri l'ultima unità combattente Usa ha abbandonato l'Iraq. L'operazione Iraqi Freedom, iniziata il 20 marzo 2003, chiuderà comunque i battenti il 31 agosto prossimo, come era già deciso dal 2008, ma per non esporre i militari a stelle e strisce ad agguati dei ribelli iracheni il ritiro è avvenuto in tempi diversi.

Restano 52mila uomini, con compiti di consulenza e addestramento per le truppe dell'esercito iracheno e della polizia, che saranno il motore della nuova operazione statunitense in Iraq, la New Dawn (Nuova alba), che inizia ufficialmente il 1 settembre prossimo ed è destinata a durare per tutto il 2011, ma con la possibilità di essere prolungata.

L'ansia della classe politica e dei militari iracheni non è servita a convincere l'amministrazione Obama a rinviare il ritiro delle truppe combattenti. L'accordo, del resto, è stato scritto nel 2008 dall'allora presidente Usa George W. Bush e dal premier iracheno Nouri al-Maliki.

Obama, vinte le elezioni, si è limitato a ereditarlo e a confermarlo. D'altronde, sempre più la politica militare Usa si affida in toto alle intuizioni del generale David Petraeus, ora comandante del fronte afgano.

Proprio la battaglia in Afghanistan, per il governo Usa, è quella determinante. A Washington sperano che, come in Iraq, Petraeus s'inventi quell'exit strategy che i politici repubblicani e democratici Usa non hanno saputo immaginare né per Baghdad né per Kabul.

Petraeus, in Iraq, ha preso in mano una situazione rovente. Nel 2006, dopo tre anni di conflitto, la medie delle vittime era di 3mila al mese. Ha avuto un'intuizione chiave, il generale. Coinvolgere i sunniti nella pacificazione del Paese. Non ci voleva un genio, ma dall'invasione del 2003 i sunniti erano stati purgati dalla società, dalla politica, dai ranghi militari.

L'arrivo dei combattenti del jihdaismo internazionale, sotto le insegne vere o presunte di al-Qaeda, avevano creato un ginepraio nel quale hanno perso la vita più di 4500 militari Usa e quasi un milione di iracheni. Petraeus tratta con i clan sunniti, affidando alle loro milizie, i Consigli del Risveglio (al-Sahwa), il compito di combattere i miliziani 'stranieri'. L'hanno fatto e la situazione è cambiata.

L'attentato dei giorni scorsi alle reclute dell'esercito iracheno, in fila davanti al ministero della Difesa a Baghdad, costato la vita ad almeno settanta persone, dimostra come la situazione sia tutt'altro che pacificata.

Solo che i ribelli, adesso, puntano su attentati singoli che facciano più danni possibile, mentre per anni lo stillicidio era quotidiano e terribile. Anche la classe politica irachena non è pronta e lo dimostra il fatto che il 7 marzo scorso si è votato, ma ancora non si è potuto formare un governo, tra sciiti moderati e filo-iraniani, curdi e sunniti da coinvolgere nel potere.

La realpolitik, però, non può fare soste e adesso l'Afghanistan è la priorità del governo Usa. E' là che serve Petreaeus, è là che serve il grosso della macchina militare Usa, sempre più costosa e sempre più tallone d'Achille di un'economia statunitense che fatica a riprendersi.

Nel periodo di massima espansione, il contingente Usa in Iraq contava 170mila uomini. Un'enormità. L'alba nuova di oggi è sorta sui marines, piegati sotto i loro zaini, che si dirigono verso il Kuwait e l'Arabia Saudita. Resta da da capire se anche per l'Iraq è un nuovo giorno.


L'addio dei marines senza vittoria. A Baghdad resta il fantasma del Libano

di Bernardo Valli - La Repubblica - 30 Agosto 2010

Invincibili ma non vittoriosi, gli americani lasciano l’Iraq. Senza un saluto, senza un addio. In sette anni più di un milione di soldati Usa si sono avvicendati in questo Paese. La gente non sa se essere soddisfatta o preoccupata della partenza delle truppe straniere per la situazione in cui la lasciano

Il primo soldato americano che ho incontrato sette anni fa non aveva più di vent'anni. Era di New York e aveva un'espressione smarrita. Forse soltanto stupita. Era appena entrato nella capitale nemica, l'aveva espugnata, ma non sapeva contro chi puntare il fucile automatico. Nessuno lo minacciava.

Sulla piazza, nel quartiere popolare allora chiamato Saddam City e poi ribattezzato Sadr City, c'erano soltanto centinaia di ragazzi preoccupati di mettere al sicuro il loro bottino: frigoriferi, armadi, ventilatori, seggiole, materassi, appena rubati nei ministeri, negli ospedali, nei commissariati di polizia, nelle caserme abbandonate.

Quei ragazzi non guardavano neppure quel soldato americano mandato in avanguardia nel labirinto di Baghdad. A loro importava che non ci fossero più poliziotti e soldati iracheni nei paraggi. Erano tutti scomparsi.

Se l'erano svignata. E lui, il giovane Marine di New York, era stupito di non imbattersi in qualche nido di resistenza. Invece della battaglia che si aspettava, assisteva ad un saccheggio. Forse, pensò, gli iracheni festeggiano cosi la fine della dittatura.

Comunque ai suoi occhi la guerra appariva ormai conclusa. Di questo era sicuro. Ed era altrettanto certo di averla vinta. E invece tutto stava per cominciare.

Dopo quel Marine, che fu tra i primi a entrare a Sadr City, nei sette anni successivi più di un milione di soldati americani si sono avvicendati in Iraq. Quasi tutti adesso sono partiti. E dopo avere raggiunto il vicino Kuwait sono ritornati in patria o sono stati smistati in Afghanistan. Ma se ne sono andati senza cantare vittoria, anche se con il piglio di soldati di un grande esercito potente e invincibile.

Nell'epoca dei conflitti asimmetrici una forza armata tradizionale (confrontata a realtà sociali e culturali ostili, da cui emergono guerriglie che agiscono nella clandestinità, e col terrorismo), può infatti essere militarmente invincibile ma non vittoriosa. L'avventura in cui è stata impegnata dal potere politico si rivela in tal caso fallimentare.

È accaduto altrove negli ultimi decenni, ed è accaduto in Iraq. Dove le bombe continuano ad esplodere, dove il nuovo esercito iracheno non è sicuro di garantire la sicurezza prima del 2020, e dove la gente non sa se essere soddisfatta per la partenza delle truppe straniere d'occupazione o essere preoccupata per la situazione in cui esse hanno abbandonato il Paese.

Molti dicono: "Hanno cominciato consentendo un saccheggio e ci lasciano nelle peste". Non pochi sono coloro che rimpiangono Saddam. Ma è un rimpianto dettato dalla collera o dalla paura. È il "si stava meglio quando si stava peggio" che non va interpretato alla lettera.

Non ci sono stati comunque sventolii di fazzoletti da parte della popolazione, e nessuno ha rivolto un saluto riconoscente ai soldati in partenza, che hanno portato un po' di democrazia. Il valore di quest'ultima, nei limiti in cui è stata realizzata, è giudicato dai più inferiore a quello della sicurezza.

Neanche un saluto! Eppure quel milione e più di soldati non erano fantasmi. I fantasmi non muoiono, e qui di americani ne sono morti quattromila quattrocento. E nei sette anni di loro presenza almeno centomila iracheni sono morti, secondo calcoli al ribasso. Probabilmente il doppio.

La stragrande maggioranza degli iracheni comuni non ha avuto contatti normali diretti con gli americani. Anche questo spiega la freddezza per la loro partenza. Li ha visti insaccati nelle loro tute, nascosti dietro lenti scure, con le armi puntate, che sfrecciavano a bordo di veicoli blindati (gli Humvees) nelle città e villaggi.

Nessuno si è mai imbattuto in un militare americano isolato, e ancor meno disarmato, in una strada di Baghdad. E ancor meno in un caffè in compagnia di una donna o di un amico autoctono. Lo impedivano tante cose: i costumi locali, la diffidenza, e anzitutto il rischio di essere presi di mira da un terrorista. Quindi uccisi o rapiti.

Un esercito di 160.000 uomini (quale era quello americano negli anni più intensi del conflitto) fa vivere un folto numero di persone addette ai servizi o di commercianti. Non è stato cosi in Iraq. Escluso un esiguo numero di iracheni, i civili impiegati nelle basi militari, o attorno ad esse, erano e sono stranieri: se non americani, provenienti da Paesi emergenti. Dalle Filippine all'India.

Oppure dall'America Latina e dall'Europa. Da fuori, dall'estero, venivano anche i viveri. Acqua minerale compresa. Sul piano dei normali contatti umani (e in gran parte anche di quelli economici) è stato un esercito di fantasmi.

Tra 48 ore ne rimarranno soltanto 50.000, non più ufficialmente "combattenti", ma nella veste di consiglieri. E con loro resta una Baghdad che sembra un campo trincerato. Una capitale sfregiata da centinaia di chilometri di muri di cemento armato, dietro i quali sono trincerati ministeri, caserme, alberghi, case private, interi quartieri. E strade sfondate, spesso sommerse dalle immondizie, ed edifici diroccati, feriti dalle autobombe dei kamikaze.

Al centro della metropoli la famosa Green Zone, città nella città dove sono rinchiusi vip politici e rappresentanze diplomatiche. Anzitutto quella degli Stati Uniti. Loro al sicuro, blindati, e noi fuori, esposti a tutte le insidie. È inevitabile, ma non suscita simpatia.

La situazione è paradossale, mi dicono i redattori di Al Sabah (Il Mattino), quotidiano governativo. Paradossale perché la parziale partenza degli americani è fonte al tempo stesso di soddisfazione e di paura. Il ritiro delle truppe di occupazione appaga l'orgoglio nazionale, ma accentua l'angoscia per la sicurezza. Ed anche la sfiducia nelle autorità nazionali, che non sono neppure in grado di assicurare acqua ed elettricità.

La raffica di attentati quasi simultanei di mercoledì scorso (56 morti e centinaia di feriti in 13 città, a nord e a sud del Paese) ha dimostrato che l'opposizione armata, ormai dedita soltanto al terrorismo, è in grado di promuovere operazioni a vasto raggio. E non è garantito che polizia ed esercito nazionali siano in grado di affrontarle o prevenirle.

Gli attentati del 25 agosto sono subito stati rivendicati da Al Qaeda (la versione irachena, che unisce varie organizzazioni clandestine), con un comunicato in cui si dice che "le ali della vittoria spazzeranno via anche il nuovo giorno".

Una frase che sembra una sfida alla "Nuova Alba", il nome dato dagli americani all'operazione che comincia il 1° settembre. Il Primo Ministro Nuri al-Maliki ha subito reagito, ordinando a esercito e polizia di intensificare la sorveglianza (ha dichiarato l'"allerta massima"), e con un messaggio televisivo ha invitato gli iracheni a tenere gli occhi aperti, a denunciare senza esitare qualsiasi movimento sospetto.

Mercoledi sarà un giorno cruciale. Il generale Odierno, comandante delle truppe Usa, passerà le consegne a un generale iracheno, e poi lascerà Baghdad. E da quel momento gli americani che restano non saranno più, almeno ufficialmente, dei "combattenti". Reale o fittizia, la transizione ha un forte valore simbolico.

In un ristorante sulla riva del Tigri, a tarda sera, alla fine del quotidiano digiuno del Ramadan, incontro un notabile politico della città di Falluja, dove si trovano numerosi appartenenti a Sahwa. Sahwa è la milizia creata dagli americani con i sunniti recuperati dall'insurrezione armata. Molti erano militari dell'esercito di Saddam.

In un primo tempo si sono alleati con Al Qaeda per opporsi al potere degli sciiti e agli americani, poi hanno finito per divorziare dagli integralisti religiosi che praticavano il terrorismo.

E si sono affiancati agli americani. Adesso, mi dice l'uomo di Falluja, i capi di Sahwa si preparano a formare gruppi di autodifesa autonomi. Si aspettano infatti un'influenza sempre più forte degli iraniani sulle autorità sciite che controllano esercito e polizia.

E quindi non si fidano. Pensano che Tehran colmerà il vuoto lasciato dagli americani, e spingerà i partiti sciiti ad inasprire l'ostilità nei confronti dei sunniti. Destinati ad essere ancor più emarginati. A Falluja sono convinti che gli iraniani agiscano sia a livello politico, sia nella clandestinità.

Chiedo al notabile di Falluja se l'Iran non sia diventata un'ossessione. E lui, per provare quel che afferma, mi dà elementi che non sono ovviamente in grado di verificare. All'Iran sono attribuiti, non sempre a torto, molti dei malanni che affliggono il Paese, mentre gli americani allentano la presa.

Sarebbero loro, gli iraniani, grazie ai rapporti con i partiti sciiti iracheni, a rendere ancora impossibile, o difficile, la formazione di un governo sei mesi dopo le elezioni legislative di marzo. E sarebbero sempre loro ad alimentare il terrorismo, attraverso gruppi clandestini su cui esercitano una forte influenza.

Tra i tanti paradossali effetti dell'intervento americano in Iraq forse il più ricco di conseguenze è l'emergere di una maggioranza sciita. Essa è senz'altro legittima, perché uscita dalle urne, ma è anche sconvolgente, perché ha risvegliato dopo secoli lo slancio di una comunità a lungo frustrata, che ora vive un clima risorgimentale. Ed essa esige il potere a Baghdad, ma è divisa, rissosa al suo interno, e non riesce a realizzare il suo secolare progetto. Lo slancio sciita iracheno favorisce per molti aspetti l'Iran, potenza sciita e principale nemico degli Stati Uniti.

Questo mette in allarme l'intero mondo sunnita. Arabia Saudita in testa. Insomma l'Iraq è diventato un campo di battaglia, in cui intervengono tante forze straniere, e sul quale gli americani, perlomeno in apparenza, limitano il loro intervento. Questo fa pensare al tragico Libano degli anni Ottanta. Ma assai più grande.


Il ritiro degli americani lascia alle spalle un Paese corrotto e diviso

di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - 20 Agosto 2010

«Sono preoccupato più dallo stallo politico che dal ritiro degli americani. Il problema principale non è il terrorismo di al-Qaeda ma la corruzione». Le parole di Saywan Barzani, 38 anni, ambasciatore in Italia e nipote del leader kurdo Mas’ud, riflettono la maggiore preoccupazione degli iracheni: un governo assente, politici indecenti, un'economia che galleggia sul petrolio ma non crea né posti di lavoro né servizi. Le truppe sfilano senza squilli di tromba oltre il confine con il Kuwait ma la battaglia non è finita.

A Tehran, Damasco, Riyadh, e Ankara, insidiosi vicini di Baghdad, tutti contrari all'invasione del 2003, sanno che il Paese è vulnerabile al gioco delle influenze: per gli Stati Uniti la posta era fare dell'Iraq un alleato occidentale, per gli altri l'obiettivo è farlo restare nel marasma del Medio Oriente. Ecco perché la guerra dei sette anni continuerà.

La prima domanda da farsi è se l'Iraq sia un posto migliore di prima. Per i kurdi e gli sciiti del sud massacrati da Saddam non c'è dubbio. Troppo facilmente si dimentica che le guerre del Raìs prima di tutto furono conflitti civili trasferiti all'esterno: l'attacco all'Iran nell'80 aveva come motivazione profonda soffocare l'opposizione sciita. I conflitti con i kurdi erano mirati a eliminare con i gas un'etnia che reclamava l'indipendenza.

Il Kurdistan è una regione autonoma che vorrebbe annettersi Kirkuk, la contesa città del petrolio. Gli sciiti occupano la maggioranza dei posti e dominano le province con le riserve di oro nero.

Eppure sono inquieti e turbolenti, pronti a farsi manovrare da personaggi come il mullah Muqtada Sadr, uno dei bracci operativi dei pasdaran iraniani. I sunniti non riescono invece a inghiottire l'amaro calice di avere perso il potere dopo secoli di predominio.

Il terrorismo continua soprattutto per questa ragione, resa ancora più incandescente dal fatto che il premier al Maliki non vuole cedere il passo a Iyad Allawi che ha ottenuto una risicata maggioranza mettendo insieme rappresentanti sciiti e sunniti.

«Al-Qaeda è ancora presente ma è pure un marchio di comodo sugli attentati perché la rete è in gran parte organizzata dal partito Ba’ath» dice Barzani, confermando involontariamente che se non ci sarà una cooptazione degli spezzoni del vecchio regime difficilmente l'Iraq avrà pace.

La seconda domanda è come sarà l'Iraq del dopoguerra. Sicuramente diverso da quello uscito dall'invasione del 2003.

Se gli americani nel 2011 se ne andranno perderanno parte della loro presa. Già oggi i due maggiori partner economici sono l'Iran e la Turchia. Tehran ovviamente punta sullo sciismo, Ankara manovra sui due lati del Kurdistan: non è un caso che si siano messi d'accordo per controllare la frontiera.

I vicini, Siria e Arabia Saudita comprese, sono i più interessati ad avere ai confini un Paese debole e diviso. Per questo, nel malessere quotidiano iracheno, la tentazione dell'uomo forte è sempre viva. La figura del capo supremo sembra quasi irrinunciabile e oggi si chiede a uno Stato inefficiente di sostituirla: «In Kurdistan - dice Barzani - siamo 6 milioni e 1,6 prendono uno stipendio pubblico, i contadini hanno smesso persino di andare nei campi».

Sarà comunque un Iraq più povero, non sotto il profilo economico ma antropologico e culturale: minoranze come i cristiani sono state quasi annientate. «Io stesso - confessa Barzani - appartengo a una confraternita sufi che predica un Islam spirituale, estraneo agli affari terreni». E forse non c'è niente di più inattuale ma necessario di questo nell'Iraq settario del dopoguerra.


La milizia filo-occidentale in Iraq abbandonata alla vendetta degli insorti

di A. Terenzi - www.clarissa.it - 29 Agosto 2010

I Figli dell'Iraq, conosciuti come Sahwa (risveglio), la milizia filo-occidentale messa in piedi dagli Americani per sviluppare in Iraq le strategie di contro-insurrezione del gen. Petraeus, è arrivata a contare 113.000 uomini, nel momento della sua massima attività.

Prima sotto il diretto controllo degli Usa, dai primi mesi del 2009 è passata al governo iracheno, all'epoca guidato dagli sciiti, che ovviamente guardano con sospetto questa milizia, dato che per lo più i Figli dell'Iraq invece sono stati reclutati tra i sunniti - in tal modo contribuendo ad acuire lo scontro interreligioso ed interetnico.


Nell'aprile del 2009, il governo iracheno si era impegnato ad assorbirne almeno il venti per cento nella polizia e nelle forze armate, ma oggi ancora 50.000 Sahwa sono in attesa di una occupazione, mentre continuano a percepire tra i 255 e i 610 dollari al mese.

Con il disimpegno diretto degli Usa, gli Sahwa sono ovviamente atterriti dalla prospettiva di trovarsi in un completo isolamento, mentre sono continuo bersaglio di un numero crescente di attacchi terroristici, nella situazione di disintegrazione politica, etnica e religiosa cui l'Iraq sta assistendo da mesi, in assenza persino di un governo centrale.

"I terroristi dicono di noi: voi siete I figli dell'America e non lasceremo vivo neanche uno di voi, dopo il ritiro degli Usa", racconta un comandante Sahwa di Samarra. Il perché è facile da comprendere, come spiega Zuhair al-Chalabi, il funzionario del governo che si occupa degli Sahwa: "la guerra contro Al-Qaeda è una guerra di intelligence e molti capi di Al-Qaeda sono stati arrestati grazie alle soffiate degli Sahwa".

Come accaduto già in Vietnam, ora i collaboratori delle forze armate americane si trovano abbandonati alle ritorsioni delle forze insurrezionali ed è evidente che agli Usa interessa ormai ben poco dei Figli dell'Iraq, avendo a che fare con problemi ben più complessi, nella intricata partita mediorientale.


L'Iraq non sa quanti siano i suoi rifugiati all'estero

da www.osservatorioiraq.it - 30 Agosto 2010

Non abbiamo idea di quanti siano i rifugiati iracheni all’estero. Chi parla così non è uno qualunque, ma il ministro per le Emigrazioni e gli sfollati, che sottolinea che sarebbe importante saperlo, per poterli aiutare direttamente nei Paesi nei quali ora vivono.

Abdul Samad Sultan dice [in arabo] al quotidiano arabo al Sharq al Awsat che “né il ministero dell’Emigrazione né qualunque altra parte irachena ufficiale” sono in possesso dei numeri dei rifugiati all’estero.

Il motivo? Non esistono uffici del ministero nei Paesi in cui si trovano i rifugiati, spiega, nonostante una legge del ministero lo preveda. Noi, però, “non abbiamo colto questa opportunità”, sottolinea il ministro.

E così, aggiunge Sultan, il ministero per l’Emigrazione deve basarsi sui dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR): numeri che non sono affatto precisi – dice.

Mentre sarebbe importante, continua il ministro iracheno, avere un quadro chiaro, per potere aiutare direttamente questi rifugiati “in cooperazione con i Paesi i cui si trovano e le organizzazioni umanitarie”.

Questo perché queste famiglie, dice Sultan, “attualmente non possono tornare in Iraq a causa della loro situazione”.

E così il suo ministero ha deciso di muoversi – inviando apposite commissioni in Siria, Giordania, e Libano (i tre Paesi dove vive la maggior parte degli iracheni che sono stati costretti a lasciare il loro Paese), per seguire la situazione.


Il Parlamento del Kurdistan discuterà del contrabbando di petrolio verso l'Iran

da www.osservatorioiraq.it - 30 Agosto 2010

Nuovi sviluppi nella vicenda del contrabbando di petrolio dal Kurdistan iracheno verso l’Iran.

Il governo della regione autonoma (KRG) si sarebbe impegnato a rendere pubblici tutti i documenti sulla vendita di greggio.

A dare la notizia è un esponente di Goran, il movimento di opposizione kurdo che sta incalzando le autorità (da quando la cosa è venuta fuori) affinché venga fatta chiarezza a riguardo.

Adnan Othman, il suo capogruppo nel Parlamento regionale, riferisce [in arabo] al quotidiano arabo al Sharq al Awsat che il governo del Kurdistan “si è impegnato a presentare al Parlamento i documenti e le ricevute relativi alle operazioni di esportazione e vendita del petrolio all’estero”.

A questo si è arrivati attraverso una serie di riunioni sulla questione – fra i vari blocchi politici rappresentati nel Parlamento kurdo e le autorità della regione autonoma. Tre riunioni, per la precisione: è stato proprio nel corso della terza, con il Consiglio dei ministri, che il governo regionale ha promesso di presentare la documentazione alla Presidenza del Parlamento.

Adesso, sottolinea Othman, “la palla è nel campo della Presidenza del Parlamento, perché si tenga una seduta speciale per discutere questa questione, e rivelare la verità di fronte all’opinione pubblica del Kurdistan”.

“Mettere i puntini sugli i”, così dice l’esponente del movimento di opposizione.

Sulla vicenda del contrabbando di petrolio dal Kurdistan verso l’Iran, Goran, che della trasparenza e della lotta contro la corruzione ha fatto una bandiera, sembra proprio deciso ad andare a fondo.


Bassora, una finestra sulle ambizioni e le disfunzioni dell'Iraq

di Ned Parker e Raheem Salman - 6 Agosto 2010 - Los Angeles Times

Traduzione di Luisa Bordiga per Osservatorio Iraq

Le compagnie petrolifere straniere intuiscono le opportunità del dopoguerra, ma sono spaventate dalla mancanza di sicurezza. Gli abitanti sperano nel loro arrivo; non credono più ai propri leader

Gli uomini della sicurezza in borghese attendono nella lobby dell’Hotel Mnawi Basha. Enormi orologi annunciano l'orario di New York e Dubai. Un inglese si vanta ad alta voce al cellulare di avere appena chiuso un contratto con il governo iracheno, poi esce di corsa, accompagnato da un manipolo di collaboratori in giacca e cravatta, verso un
convoglio di auto in attesa.

L'hotel a 5 stelle trasuda delle ambizioni e delle preoccupazioni di barracuda che non vedono l'ora di fare affari nel nuovo mercato in ascesa del sud dell'Iraq. I loro discorsi passano schizofrenicamente dai dollari ai disastri, e ancora dai disastri ai dollari.

"Questo è il momento giusto," dice un americano che lavora con un'azienda di servizi petroliferi. "L'anno prossimo sarà troppo tardi."

Il petroliere ha cominciato a cercare una villa da comprare, e ha ingaggiato una compagnia di sicurezza locale per la propria protezione. Si accomoda su una delle poltrone di pelle beige della lobby, e parla nervosamente con un collega a proposito del recente bombardamento dell'aeroporto di Bassora, dove si trovano le forze armate statunitensi e molti dei dipendenti delle società petrolifere.

A bassa voce dicono che la maggior parte delle compagnie petrolifere straniere ci stanno andando caute, perché il futuro incerto del Paese le spaventa.

"Non c'è sicurezza, non c'è ordine", dice l'amico del petroliere, che ha investito anche lui parecchi soldi in Iraq.

L'Iraq ha firmato 11 contratti con società petrolifere straniere allo scopo di aumentare la produzione giornaliera da 2,6 a 12,5 milioni di barili in sette anni. Ma l'ingente sforzo va sviluppandosi nel contesto di un governo paralizzato, con faide assai radicate fra i principali partiti, una proliferazione di gruppi armati clandestini, e una polveriera di rancori che aspetta solo una scintilla.

Bassora è una finestra sia sulle ambizioni dell'Iraq sia sulle disfunzioni che potrebbero sabotare il Paese. E' una città con due facce: l'una fatta di centri commerciali e supermercati di lusso, l'altra di baracche ed enormi discariche.

*
Dhia Jaffar, direttore della South Oil, parla con l'aria impostata di uno che è sopravvissuto ai suoi nemici.

Durante il regno di Saddam Hussein, la sua adesione al partito islamico Da’wa gli era valso il soggiorno nella famigerata prigione di Abu Ghraib, dove molti membri del partito sono scomparsi nel nulla.

Jaffar è sopravvissuto lì dentro cinque anni, e gli è stato permesso di tornare a lavorare per la South Oil, dove ha passato i successivi venti anni "sullo scaffale," come dice lui con un sorriso sornione. Ha aspettato, svolgendo impieghi periferici, e muovendosi con cautela, senza attirare l'attenzione.

Dopo anni ai margini, Jaffar è salito, nell'Iraq del dopo Saddam, insieme al partito Da’wa, guidato dal Primo Ministro Nuri al Maliki. Nel marzo del 2008, Maliki ha ordinato alle truppe di strappare il controllo della città alle bande armate e alle fazioni politiche che avevano praticamente distrutto Bassora.

Il Primo Ministro ha affermato il proprio controllo della South Oil, precedentemente di dominio dell'allora governatore di Bassora, Mohammed Waeli, appartenente al partito rivale sciita e fondamentalista Fadhila. L'estate scorsa, Jaffar ha ottenuto la responsabilità dell'azienda e dei più grandi giacimenti petroliferi dell'Iraq.

Jaffar ed il suo partito contano sul fatto che l'investimento nei giacimenti contribuirà a rompere la presa dei gruppi armati sciiti e delle bande criminali, in una provincia dove il tasso di disoccupazione è di almeno il 25 per cento. I contratti firmati dalle compagnie petrolifere prevedono una spesa di 5 milioni di dollari all'anno per la formazione degli iracheni nel settore energetico.

"Una delle cose più importanti è che i giovani abbiano lavoro," dice Jaffar. "Alla fine del mese, le loro tasche saranno piene di soldi...la situazione della sicurezza migliorerà".
Col tempo, dice Jaffar, Bassora potrà abbagliare come qualsiasi altra città del Golfo. "Se saremo intelligenti," dice, "staremo meglio di Dubai."

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Dai quartieri di edilizia economica ai confini della città, gli abusivi possono vedere le fiamme intermittenti dei giacimenti.

L'abitazione di Qadhim Abdullah ha alle pareti poster di macchine sportive e colorati dipinti di Hussein, la figura che gli sciiti venerano, che tiene in braccio un bambino ferito.

La figlia di 16 mesi giace con la febbre sul pavimento, in mezzo alla stanza, arrotolata in una stoffa arancione sporca e coperta di mosche. Certi giorni, Abdullah si mette in fila alle 6 del mattino, per saltare nel retro di un camion e lavorare nei cantieri per una giornata. Pensa alle società che stanno arrivando, e spera in un boom dell'edilizia.

"Se lavoriamo, la situazione sarà migliore," dice.

Il suo amico Qassem va in giro con il suo carretto trainato da un asino la mattina presto, alla ricerca di cavi e rottami da rivendere. Non ha tempo di pensare al governo o alle società petrolifere. Le sue preoccupazioni sono più pressanti.

Mentre un paio di ragazzini con magliette uguali mangiano del cioccolato sciolto, a pochi metri da alcune pozze di liquami a cielo aperto, Qassem ed i suoi parenti scherzano sulla vendita del rene dei loro bambini al mercato nero. Qassem è ossessionato dalla salute del suo asino, e dice, scherzando ma non troppo: "Preferirei che si ammalasse mio figlio invece che l'asino, perché l'asino è la nostra vita."

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E' sera, e Waeli è nella sua villa di arenaria presa in affitto, vestito con jeans e una polo verde a maniche corte. Il giorno seguente, l'ex governatore volerà in Germania per firmare un accordo di cooperazione con uomini d'affari per facilitare gli investimenti a Bassora. Una sua foto gigante assieme all'ambasciatore tedesco uscente è in bella mostra su una mensola.

Una volta, Waeli era il politico più controverso di Bassora. Le forze armate britanniche, che controllavano la regione, consideravano spesso lui e i suoi parenti come i leader del racket del petrolio nel sud dell’Iraq e della violenza stile gang. Waeli ha respinto le accuse, e ha dato la colpa ai suoi nemici per aver instillato il sospetto. Stasera punta il dito contro il vicino Iran e i partiti politici rivali, dicendo che vogliono indebolire Bassora ed impedirne l'ascesa.

La percezione che il Consiglio Provinciale sia stato inefficace sotto la guida del partito di Maliki, ha fomentato la nostalgia per Waeli, che ha lasciato l'incarico nella primavera del 2009. Sembra che la gente abbia dimenticato le voci sui suoi collegamenti con la violenza legata alle fazioni. Al contrario, lo ricordano per aver piantato alberi lungo le autostrade, e approvato un quartiere di nuova edilizia popolare.

Oggi si definisce un uomo d'affari e un facilitatore. Possiede una flotta di 65 camion per aiutare nel trasporto di macchinari delle compagnie straniere. Gestisce una società di security di 70-80 uomini per proteggere gli stranieri.

Si siede su un divano con un bicchiere di succo. Su una TV a schermo piatto una sitcom kuwaitiana fa satira sull'ex Primo Ministro israeliano Ariel Sharon.

"Sono in questo business da un anno e mezzo," dice Waeli. "Perché so come gestire queste cose e so di cosa ha bisogno l'Iraq".

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Abu Mariam, proprietario del parco divertimenti BassoraLand, pensa in grande.

Si vanta di aver importato nuove attrazioni dalla Germania e dalla Turchia. Ha aperto un ristorante che offre hamburger, fajita, e pizza.

Mariam ha comunque la sua parte di grattacapi. Gira per il parco lamentandosi dei capi tribù che dice vogliono estorcergli denaro, della mancata fornitura gratuita di elettricità da parte del governo, delle minacce dei gruppi religiosi armati. L'unica persona che ringrazia è il generale dell'esercito iracheno a capo del comando di Bassora, che ha lasciato un corpo di guardia fuori dai cancelli di BassoraLand.

Luci blu, rosse, e gialle lampeggiano dalle montagne russe e dalle attrazioni con nomi come Massima Adrenalina e la Piovra. Due giovani osservano senza perdere un particolare. Una donna ha dato buca a uno di loro, quindi stanno lì seduti a guardare le luci delle giostre e le ragazzine con vestiti verdi a balze che corrono via dai genitori.

Uno dei due, un impiegato statale di nome Wassem, dice che il parco è troppo caro per molte famiglie.

"Se la situazione rimane così, la gente non collaborerà o non rispetterà il governo", dice. "Quando non c'è elettricità, né acqua, né servizi pubblici, sorgono i problemi".

Il suo amico Sabah annuisce. "Speriamo che gli stranieri lavorino qui. Non ci fidiamo più della nostra gente, quindi che lavorino gli stranieri".

All'improvviso, un'interruzione di elettricità e il parco finisce al buio pesto. I bambini urlano dalla Piovra con i suoi tentacoli rotanti. La corsa rallenta, e i tentacoli si abbassano. La cagnara di voci si placa, e tutti aspettano nel buio.


Promemoria iracheno per Obama
di Christian Elia - Peacereporter - 30 Agosto 2010

I veterani della guerra in Iraq scrivono al presidente, per non ripetere gli stessi errori in futuro

''Mi firmerò John, perché il mio nome non è importante. La faccia la metto da quando ho aderito a Iraq Veterans Against The War, quindi non lo faccio certo per paura. Preferisco un'identità collettiva, che parli a nome di tutti noi che in Iraq ci siamo andati, con lo zaino carico di false certezze''.

Domani, 31 agosto 2010, finisce ufficialmente la missione Iraqi Freedom. Iniziata il 20 marzo 2003, quando una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti d'America ha invaso l'Iraq per rovesciare il regime di Saddam Hussein. In pochi giorni l'esercito iracheno - già provato dalla guerra con l'Iran negli anni Ottanta e dalla Guerra nel Golfo del 1991 - va in frantumi.

La statua di Saddam Hussein a Baghdad viene tirata giù il 9 aprile 2003. E arriva la prima menzogna, quella che racconta di folle plaudenti, ma che a una più attenta analisi delle immagini originarie non rende la stessa situazione raccontata dai media internazionali.

Ne seguiranno mille altre di bugie. Le prime vittime, è sicuro, sono i civili iracheni. Ma anche tanti soldati Usa. Molti di loro hanno perso la vita, tanti altri resteranno invalidi per sempre. Altri ancora, come John, sono tornati a casa diversi, cambiati.

''Potrei essere un latinos o un asiatico, musulmano o cattolico, nero o indiano, non è importante. Sono uno di quelli che ha capito di essere stato usato per ammazzare degli innocenti, senza una ragione. Almeno apparentemente finisce Iraqi Freedom, ma questo non cancella l'inganno'', scrive John, rispondendo alla domanda di PeaceReporter: come racconteresti questa guerra, magari a tuo figlio? ''Rispondo come ti risponderebbero tutti quelli che, come me, hanno aderito all'associazione. E come molti altri, che magari hanno preferito tornare a casa, senza parlare dell'inferno che si portavano dentro.

Alcuni sono annegati in quell'inferno, molti - purtroppo - hanno portato con sé mogli e figli''. John e gli altri hanno scritto al presidente Barack Obama che ha mantenuto la promessa elettorale di ritirare le unità combattenti entro agosto 2010.

Ma Obama non è sincero fino in fondo. In primis perché l'accordo per il ritiro è stato siglato due anni fa, dall'amministrazione Bush. Secondo gli attivisti di Iraq Veterans Against The War mente anche su un altro punto.

''L'occupazione dell'Iraq continua e, più che di ritiro, si dovrebbe parlare di una redistribuzione delle truppe. Restano 50mila uomini, per non parlare dei 75mila contractors'', spiegano i veterani nella lettera aperta al presidente Usa. ''Abbiamo girato gli States in lungo e in largo, raccogliendo i pareri di tutti i ragazzi che hanno trovato nella nostra associazione un megafono per urlare la loro rabbia. Ragazzi avvicinati dai reclutatori, che ti promettono gli studi per te e i tuoi fratelli, che ti fanno vedere un futuro migliore.

Nessuno ci ha mai detto che lo dovevamo conquistare il nostro futuro - scrive John - lottando metro per metro con altri poveri, altri fanatici, altri disperati. Come noi''. Ecco che nasce questa specie di promemoria, spedito dai veterani a Obama, ma che sembra pensato per restare come monito a tutta la coscienza collettiva statunitense.

''Non abbiamo reso la vita degli iracheni migliore rovesciando la brutale dittatura di Saddam'', recita la lettera aperta indirizzata a Washington. ''Anzi, l'abbiamo peggiorata. Niente acqua, niente elettricità. Il servizio sanitario e il sistema scolastico sono stati distrutti. Un milione di iracheni sono morti, quattro milioni di loro hanno perso la casa e hanno abbandonato il Paese, ormai lacerato dalle divisioni etniche e religiose, con un carico di invalidi che peserà per anni sul futuro dell'Iraq''.

La fotografia impietosa della missione Iraqi Freedom - definita debacle nel titolo della lettera aperta - continua. ''Gli sfollati sono stati abbandonati in Siria, Giordania, Libano e in mille altri posti. Dove le persone non hanno nulla per sopravvivere, situazione che ha ridotto tante donne irachene nell'incubo della prostituzione''.

Non è solo il passato che indigna i compagni di John, ma anche il futuro appare un incubo.
''La situazione politica è paralizzata: si è votato il 7 marzo scorso, ma nessun governo è stato insediato. Per cosa sono morti 4400 militari americani? Per cosa sono rimasti invalidi decine di migliaia di ragazzi statunitensi? Se lo chiedono in molti, visto che solo nel 2009 sono stati 245 i veterani dell'Iraq a suicidarsi''.

I veterani chiedono che chi li ha mandati a uccidere e morire risponda al Paese: ''George Bush, Dick Cheney, Condoleezza Rice, Colin Powell, Karl Rove, Donald Rumsfeld...nessuno ha pagato per questo fallimento. Nessuno ha pagato per aver autorizzato la tortura. Nessuno di loro ha spiegato agli americani come e perché hanno speso 750 miliardi di dollari dei contribuenti Usa in Iraq''.

La lettera si chiude con un appello al Congresso e all'Amministrazione Usa: ''Ritiriamo tutte le truppe e i contractors dall'Iraq, chiudiamo le basi militari. Variamo un piano di sostegno allo sviluppo e alla ricostruzione irachena, per agevolare il rientro dei profughi.

Variamo un piano per utilizzare negli Usa i soldi spesi nelle guerre come quella in Afghanistan. Incriminiamo coloro che si sono macchiati di crimini contro i civili iracheni e contro l'America stessa''. L'appello è firmato da ventuno associazioni e, online, continua a raccogliere adesioni.

''Se penso di cambiare le cose? Certo che lo penso'', dice John. ''Almeno ci provo. Altrimenti cosa risponderò a mio figlio quando mi chiederà cosa abbiamo fatto in Iraq?''.


Iraq: Missione compiuta
da www.luogocomune.net - 27 Agosto 2010

Il 30 agosto si è conclusa "Iraqi Freedom". Inizia la missione "New Dawn" ("nuova alba"). Restano però 50mila militari USA iperarrmati, insieme a 72mila mercenari ("contractors"). Ora che i giornalisti possono tornare a parlare con i cittadini iracheni, cominciamo a capire quale sia la terribile realtà lasciata alle spalle.

Un video spiega la nuova situazione.