domenica 1 agosto 2010

Il trentennale della strage di Bologna e la vigliaccheria cialtrona del governo

E così dopo dopo l'assenza del ministro della Giustizia Alfano a Palermo, per le commemorazioni della strage di via D’Amelio, anche domani in occasione del trentennale della strage di Bologna non ci sarà un ministro o un sottosegretario in veste ufficiale a rappresentare il governo. Ma solo il Prefetto.

Ancora una volta l'indifferenza, ma soprattutto la vigliaccheria, del governo evidenziano quanto l'attuale esecutivo sia formato da una banda di cialtroni senza alcun senso dello Stato, preoccupati solo a presenziare a feste pecorecce di compleanno, a partite di calcio.

E a farsi i cazzi propri.


La fuga dei ministri dalla piazza di Bologna
di Michele Serra - La Repubblica - 30 Luglio 2010

Nel trentennale del gesto politico più sanguinario della storia repubblicana, Bologna per la prima volta ricorda i suoi morti senza il governo e (quasi) senza lo Stato. La presenza onorevole e simbolica del prefetto non basterà a coprire la voragine di un'assenza oggettivamente gravissima, perché sancisce ufficialmente la mancanza di una memoria condivisa.

E dopo trent'anni, riconsegna il lutto alla comunità bolognese come fosse «cosa sua». I precedenti sono noti. La sentenza definitiva sulla strage, che ne attribuisce l'esecuzione ai terroristi neri (strage fascista, dunque, non è una forzatura ideologica) viene defalcata a «verità politica» da buona parte della destra italiana, così che anche la sola strage terroristica che abbia avuto una lettura giudiziaria pienamente conclusa viene risospinta nel limbo insopportabile delle mezze verità e dei misteri inafferrabili.

Questa lesione, più recente, è andata a sommarsi al radicato astio che una piazza così orribilmente offesa già nutriva per il potere politico del tempo, accusato di depistaggi, coperture, silenzi: in due parole, di alto tradimento.

Di qui la radicata pratica dei fischi rabbiosi che accolgono ogni anno governanti anche incolpevoli, ma giudicati responsabili della continuità omertosa dello Stato, simboli di un potere inaffidabile, ipocrita e distante.

Non interessa, qui, valutare ragioni e torti di questa frattura che in trent'anni, piuttosto che ridursi, si è radicalizzata. Interessa misurarla, la frattura, in tutta la sua incurabile profondità: un lutto nazionale tra i più dolorosi e significativi viene infine giudicato non gestibile, politicamente incontrollabile, dal governo centrale, che lo rimbalza alle autorità locali (con macabro sarcasmo, si potrebbe dire che anche questo è federalismo...).

Si noti che il ministro incaricato non avrebbe dovuto parlare in piazza ma in Comune, per tutelarlo dalle contestazioni e per tentare di interrompere il rituale aspro dei fischi. Tanto non è bastato al governo per decidere di essere a Bologna questo 2 agosto.

La fuga di Roma da Bologna colpisce anche perché si aggiunge a un quadro di separazione progressiva e tumultuosa dei cittadini dalla politica, e della politica dai cittadini. Paiono vite parallele, dunque mai convergenti, anche quando l'occasione riguardi tanto la società quanto le istituzioni, vedi le commemorazioni palermitane di Falcone e Borsellino che sono state quasi «privatizzate» dai cittadini per evitare contiguità indesiderate.

Probabile che anche a Bologna molte voci commentino con sollievo la latitanza del governo, «stiano pure a casa loro». Ma un Paese nel quale la politica teme il popolo (a meno di incontrarlo in festose adunate di consenzienti, o di farne comparsa per tripudi di massa) e il popolo disprezza la politica, è un paese schizofrenico, sdoppiato, e in ultima analisi paralizzato fino a che accada qualcosa che sblocchi questo impotente ringhiarsi, evitarsi, detestarsi.

Se nell'agenda del governo, alla data del 2 agosto, non è segnata con l'evidenziatore la parola «Bologna», significa che il prezzo di quattro fischi non vale il dovere di rappresentare lo Stato, nemmeno nel chiuso di un Palazzo comunale.

Sia viltà politica, sia pura sottovalutazione, sia il calcolato sgarbo a una città ex-rossa e oggi commissariata (e quasi felice di esserlo: altro scacco alla politica), è una prova di sconsolante debolezza.



Bologna, 2 agosto 1980, il capitolo più atroce dello stragismo.Trent'anni di bugie
di Andrea Colombo - Giovanni Fasanella - www.glialtrionline.it - 1 Agosto 2010

Fin'ora una sentenza sbagliata e nessuna verità. Perchè?

Ottancinque morti, centinaia di vite spezzate, una città pugnalata al petto un paese sconvolto. Dalla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna sono passati tre decenni e la verità è ancora ignota. Non è la sola strage rimasta avvolta nel mistero, però è la sola per cui chi sarebbe delegato almeno a cercare la verità ha smesso di tentare.

I magistrati della procura di Bologna e la stessa Associazione dei parenti delle vittime della strage hanno preferito accontentarsi di una verità di comodo, confezionata senza nemmeno troppa cura dai servizi segreti per impedire, in nome della ragion di Stato, che venissero alla luce gli intrighi internazionali che fecero da cornice alla strage.

Gli allora ragazzini dei Nar erano il capro espiatorio perfetto. Erano fascisti e addossargli la responsabilità del misfatto avrebbe soddisfatto tutti quelli che da anni ripetevano che le stragi erano fasciste. Erano terroristi, e chi avrebbe mai fatto caso a un ergastolo in più o in meno tra i tanti. Erano privi di ogni potente copertura, e quindi si poteva stare sicuri che nessuno si sarebbe formalizzato a fronte di un impianto processuale che era tutto un'unica, gigantesca falla.

Il gioco è riuscito solo a metà e ogni anno che passa riesce sempre meno. Perché non la destra, ma la miglior sinistra di questo paese, a partire dal Manifesto di Rossana Rossanda, non ha accettato il ricatto antifascista e ha gridato forte e chiaro che quella sentenza era sbagliata.

Perché prima i dubbi, poi la certezza dell'errore giudiziario si sono fatti sempre più strada tra chiunque abbia avuto a che fare con quella vicenda: giornalisti, storici, magistrati. Perché la verità che a Bologna nessuno cerca continuano a cercarla, da soli, quegli stessi giornalisti, storici e magistrati o ex magistrati. E pazientemente, tassello per tassello, la ricostruiscono.

Per la procura di Bologna e per il presidente dell'Associazione parenti delle vittime sono tutti traditori, revisionisti, complici dei fascisti, nemici, da colpire e mettere all'indice. Lo hanno fatto per anni, continueranno a farlo e ce ne dispiace. Ma a quei parenti delle vittime vorremmo lo stesso dire che sbagliano, che chi insegue la verità nascosta da una sentenza che la verità occulta è oggi il loro miglior amico.

Perché i condannati sono innocenti

Sono passati trent'anni dall'inferno di quel 2 agosto 1980, quando gli orologi della stazione di Bologna si fermarono e 85 vita furono spazzate via dalla più deflagrante e assassina fra le troppe esplosioni che avevano costellato il decennio precedente. È la strage più sanguinosa e feroce. È quasi l'unica di cui non si possa dire, "una strage senza colpevoli", tre persone essendo state condannate in via definitiva per quel misfatto.

Ma è anche quella sulla cui matrice regnano più dubbi, e sulla colpevolezza di quei colpevoli ormai giurerebbero in pochi. Ad avanzare quei dubbi non sono stati gli amici degli imputati, non è stata la destra da cui provenivano. I Gasparri che oggi strepitano sono rimasti per anni, anzi decenni, in silenzio, troppo impauriti e troppo calcolatori per prendere una posizione aperta quando non erano in tanti a farlo.

A sollevare quei sospetti sulla colpevolezza di Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Francesco Ciavardini è stata per prima la sinistra, sono, stati una testata e una intellettuale militante certo non sospetti di simpatia per i fascisti di qualsivoglia millennio: il manifesto e Rossana Rossanda. Ed è nata dalla sinistra la più importante associazione innocentista, "E se fossero innocenti".

Certo, gli imputati erano stati terroristi d'estrema destra, e tuttavia troppe erano le ombre che oscuravano la verità dell'unico teste che inchiodava gli ex militanti dei Nar, Massimo Sparti, malavitoso e nazista. I parenti che smentivano in coro la sua ricostruzione. Le contraddizioni su quei documenti che, Fioravanti gli avrebbe chiesto per Francesca Mambro subito dopo la mattanza.

L'assurdità di quella confessione che Fioravanti avrebbe deposto nelle sue infide mani, «Hai sentito che botto? Noi c'eravamo vestiti da tirolesi». Tanto per passare inosservati. La scarcerazione per gravissimi motivi di salute, un cancro allo stato terminale, retroceduto poi, anzi scomparso miracolosamente. La rimozione del direttore del centro clinico che si rifiutava di confermare l'inesistente malattia mortale. L'incendio in cui andarono distrutte le cartelle cliniche incriminate proprio pochi giorni prima che venissero ricontrollate.

Le versioni che cambiavano di processo in processo, in una vertiginosa girandola di bugie. Non c'era bisogno di essere fascisti per avvertire l'olezzo dell'intrigo, della manovra torbida nemmeno tanto ben allestita, della costruzione a freddo di un capro espiatorio.

Non c'era solo Sparti del resto. Troppo ambigui, per dire poco, gli altri testimoni. Quella Raffaella Furiozzi che all'epoca della strage era una bimba e che disse di essere stata informata di ogni cosa da un fidanzato, nel frattempo deceduto, che a sua volta aveva saputo tutto da una terzafónte. In gergo si dice "de relato de relato" e di solito conta ben poco.

Oppure Angelo Izzo, quel galantuomo che nell'80 stava in galera già da sei anni, non per terrorismo ma per stupro e omicidio, e che uscito di galera ha ucciso altre due donne. Fu lui a fornire l'elemento mancante all'impianto accusatorio: il movente. Fioravanti aveva ammazzato Piersanti Mattarella per conto di Licio Geli. Aveva eliminato Mino Pecorelli su ordine del venerando. Aveva messo la bomba per conto della loggia.

Era il killer della P2 e dunque non c'era più da chiedersi perché, senza mai aver giocato prima col tritolo in vita sua, si fosse risolto a un così efferato crimine. Gli incappucciati ordinavano. Lui eseguiva. Giovanni Falcone, un tipo serio, ascoltò Izzo, poi lo incriminò per falso. Per quei due omicidi, Fioravanti è stato assolto, e anzi in un caso neppure è arrivato al rinvio a giudizio. Gelli non lo ha mai visto in vita sua. Il movente approntato grazie a Izzo, sempre il galantuomo, è caduto.

La strage è rimasta "appesa nel vuoto". Senza movente. Senza ragione.

Ce n'era più che a sufficienza per dare vita a una campagna innocentisia, e se, all'inizio la sinistra storse parecchio il naso, con gli anni sono stati sempre di più i politici, gli intellettuali, i militanti che dell'innocenza di quei colpevoli si sono convinti. E lo sono anche molti, moltissimi magistrati, anche se devono stare bene attenti a dirlo.

Negli anni '90 Guido Salvini, nel quadro dell'ultima inchiesta su piazza Fontana, quella che ha portato all'accertamento delle responsabilità di Freda e Ventura, trovò elementi che scagionavano i Nar e indicavano una pista alternativa.

La procura di Bologna lo ha denunciato al Csm, lo ha accusato di "invasione di campo", gli ha dannato la vita e l'esistenza professionale per anni e anni. Sempre in nome della verità e dell'antifascismo, per carità. All'epoca non era facile indicare la direzione in cui avrebbero dovuto indirizzarsi le indagini se non fossero state "impistate" verso i Nar.

Negli anni, però di elementi nuovi ne sono emersi eccome. Carlos, il terrorista internazionale, ha trovato modo di raccontare che alla stazione quel giorno e in quell'ora, c'era un suo uomo Thomas Kram. Non che sia stato lui a mettere la bomba, per carità, tutta una manovra israeliana per incastrarlo, giura Carlos; uno che conosce solo le maniere oblique.

Sta di fatto che senza la sua ammissione della presenza di Kram a Bologna non si saprebbe niente, e nemmeno si saprebbe che per le autorità italiane non era affatto un nome ignoto. La sua presenza, anzi, era stata segnalata col massimo di urgenza.

Anche Francesco Pazienza, metà agente dei servizi, metà uomo di Gelli, uno di quelli condannati per il cosiddetto "depistaggio", ha detto infine la sua: «Il depistaggio è stato fatto dal Sismi per non far emergere la reale verità della bomba di Bologna. Secondo l'allora procuratore Domenico Sica c'era di mezzo la Libia, e coinvolgerla in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e l'Eni».

La ricerca "innocentista", ormai, ha ceduto il passo a quella sulla verità, e il libro di Rosario Priore, il magistrato che indagò su Ustica, e Giovanni Fasanella è un passo importante in quella direzione. Solo da Bologna, purtroppo, nessun dubbio viene accolto, e chi sostiene l'innocenza dei condannati, chi insiste sulla necessità di cercare altrove per non lasciare quel crimine impunito viene trattato da traditore, da "revisionista".

Perché per la sinistra la strage di Bologna è stata in effetti uno spartiacque, e lo è ancora. Separa quelli che pensano che difendere l'innocenza degli ex Nar sia politicamente dannoso, o che ritengono, come mi hanno detto in molti, «Sono innocenti, però non sta a noi difenderli. Ognuno si difende i suoi», da quelli per cui le ragioni della verità vengono prima di quelle della convenienza di fazione o dell'antifascismo. Sono due sinistre diverse. Opposte.

...

Quella falsa verità data in pasto al PCI

Giovanni Fasanella - Andrea Colombo*

Come si fa a parlare dello stragismo italiano, delle bombe, degli anni di piombo, continuando a ignorare tutto quello che c'era intorno, il contesto internazionale, gli interessi delle varie potenze, incluse quelle di "medio calibro" che erano in gioco in quegli anni?

Da questa domanda e da questo presupposto sono partiti, per scrivere il loro libro, Intrigo internazionale, Rosario Priore, magistrato di lungo corso, già titolare dell'inchiesta su Ustica, e Giovanni Fasanella, uno dei giornalisti italiani che più metodicamente si è occupato di quella fase storica.

Fasanella, come sempre quando si rimette in discussione la verità giudiziaria sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, la reazione dell'Associazione dei parenti delle vittime e dei magistrati bolognesi è stata molto dura...

Sia il magistrato titolare dell'inchiesta che il presidente dell'Associazione ritengono che la verità giudiziaria sia un dogma inattaccabile. Chiunque osi sollevare un dubbio viene immediatamente tacciato di essere un traditore del popolo, senza rispetto per la verità giudiziaria. Un eretico da mettere al rogo. Il problema, però, è che molte cose sono cambiate dall'anno della sentenza definitiva.

Disponiamo di molti elementi in più. Molti archivi sono stati aperti. Molti personaggi hanno raccontato il loro frammento di verità. Pur dando per scontato che le sentenze vanno rispettate, gli elementi che abbiamo oggi in mano ci inducono a pensare che tutta quella chiave di lettura, al di là delle responsabilità dei singoli individui, è stata in qualche modo un teorema.

E quali sono le falle di quel teorema?

Non tiene conto del contesto internazionale. Si adagia su uno schemino che i sevizi, interessati a non far capire il quadro reale, hanno dato in pasto come un osso all'opposizione, confermando tutto quel che i comunisti avevano detto sulle stragi da piazza Fontana in poi. Gli hanno dato in pasto questo osso, e il Pci si è adagiato.

Ma questa verità appare oggi molto fragile e viene messa in discussione da più parti, non solo dalla destra ma da chiunque ragioni con la propria testa. Nessuno chiede la riapertura delle indagini, anche se alcune indagini sono pur state riaperte, ma abbiamo il dovere, l'obbligo morale di approfondire, di cercare la verità. Non una verità che accontenti qualcuno ma la verità.

Puoi specificare meglio a quale contesto internazionale fate riferimento?

Quello internazionale è appunto il contesto che è sempre stato escluso dalle ricostruzioni sia storiche che giudiziarie che giornalistiche.. Che la violenza politica e il terrorismo, sia di destra che di sinistra, abbiano. una radice interna profonda è incontestabile. Però col solo contesto interno non si spiega tutto.

Il quadro è estremamente complesso: la realtà interna ha interagito con un contesto internazionale nel quale c'erano più giocatori, ciascuno con un proprio specifico interesse a soffiare sul fuoco delle nostre tensioni interne.

Questo contesto abbiamo ricostruito in intrigo internazionale, con particolare attenzione al ruolo delle piccole e medie potenze, come la Francia, l'Inghilterra, la Rdt, la Cecoslovacchia. Ciascuna di queste piccole o medie potenze perseguiva un proprio interesse.

E la strage come si colloca in questo contesto internazionale conflittuale?

Direi che si colloca nel quadro del conflitto mediterraneo tra l'Italia da un lato, la Francia e l'Inghilterra dall'altro. Ma tocca anche il conflitto ìsraelo-palestinese. L'Italia aveva fatto con i palestinesi un patto inconfessabile, il lodo Moro, che lasciava ai palestinesi ampia libertà operativa nel nostro paese purché non compissero attentati in Italia.

Dopo l'assassinio del protagonista di questo patto, molte cose cambiano; molti equilibri saltano. E tentano di far fuori Gheddafi, perché Ustica questo è: un tentativo di uccidere Gheddafi, e Bologna si collega in qualche modo a Ustica.

Sono però due contesti diversi, uno riguarda il confitto tra potenze europee, a la tentata uccisione di Gheddafi e Ustica, l'altro riguarda invece il conflitto israelo-palestinese e il e patto tra Moro e Olp. In quale delle due cornici va a inquadrata la strage di Bologna?

Io e Priore abbiamo pareri diversi. Io ritengo che Bologna sia una ritorsione per aver salvato Gheddafi. Priore pensa invece all'ala più radicale dei palestinesi, il che non esclude l'appoggio di manovalanza italiana. In entrambi i casi, comunque, il contesto è quello dei conflitti nell'area mediterranea.

Le condanne ai danni dei vertici dei servizi per il depistaggio su Bologna, sono state considerate sempre un indizio della responsabilità diretta degli stessi servizi nella strage. Il che smentirebbe il quadro internazionale...

I depistaggi non comportano necessariamente una responsabilità diretta. Il depistaggio viene messo in atto per coprire verità che non si possono dire. Per quanto riguarda Bologna non si poteva confessare quell'accordo particolare con ì palestinesi e per Ustica non potevamo certo dire di aver spifferato a Gheddafi quali erano i corridoi aerei privi della copertura radar Nato. Gli avevano detto che poteva adoperare quei corridoi perché lì i radar non arrivavano.

E cosa avremmo fatto se i magistrati avessero accertato che erano stati i francesi, un paese amico, ad abbattere il DC9? Come avremmo potuto non reagire? La mia sensazione è che per questo sia stata costruita una verità giudiziaria che accontentava tutti: confermava le tesi del Pci sulla matrice fascista dello stragismo e allo stesso tempo copriva una verità non rivelabile.

Da Bologna, l'ex pm Claudio Nunziata nega però ogni valore a queste ipotesi...

Quando vedo magistrati come Armando Spataro, che scrivono libri di 600 pagine per dire non c'è più niente da sapere, mi chiedo: "ma allora che scrivono a fare?". E quando Nunziata accusa Priore di affermare la stessa verità di Valerio Fioravanti, non posso non pensare che anche i magistrati dovrebbero avere la stessa onestà intellettuale e umiltà di Priore. Priore che parte dal riconoscere i limiti delle verità giudiziarie, incluse quelle raggiunte da lui.

Dice: "Siamo arrivati solo sino a certo punto", e prova a spiegare perché non si è mai arrivati oltre. E risponde che è stato perché le inchieste erano condizionate da teoremi e chiavi di lettura ideologiche, oppure perché le ragioni della verità erano in contrasto con la ragion di stato. In Italia esiste da sempre questo eterno confitto eterno tra le ragioni della giustizia e della legalità e quelle dell'interesse di Stato.

*di Andrea Colombo, Storia nera. Bologna la verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti (Cairo Editore, 2007)


2 agosto 1980, "Io non dimentico"
di Stefano Benni - La Repubblica - 1 Agosto 2010

Mi sembra di avere scritto su questo ricordo, ma non so quando. Dieci, venti anni fa. Ma quando ricordo è adesso. Sento la notizia da Brunella, che compra il giornale la mattina presto a Santa Maria di Leuca.

Non occorre parlare o mettersi d'accordo. Partiamo, con una vecchia Citroen, e guidiamo alternandoci per ore e ore. Quando arriviamo, siamo ancora nel pieno dei soccorsi, ancora scavano.

Trent'anni fa Bologna era diversa. Era stata colpita perché era diversa, perché era una speranza. Ora è una città come tante del Nord Italia, né brutta né bella. Ma tante persone ricordano quella data. E non certo per nostalgia del dolore. Per la speranza che combatté quel dolore. Perché qualcosa di quella speranza è rimasta. Ci sono state altre stragi, altro sangue, altro dolore inutile.

L'ultima strage, quella della legalità, si consuma non con la violenza delle bombe, ma non l'astuzia della propaganda e della potenza economica. Possiamo disquisire se le persone sono le stesse, o altre, o nuove, o migliori o peggiori.

Quello che è successo a Duisburg in nome del cosiddetto show, è una strage. Possiamo distinguere dicendo che non è stata pianificata, che tutti sono pentiti. Ma per chi ha perso delle persone care, è difficile distinguere, fare una scala del dolore, trovare qualche consolazione.

Quello che mi è facile invece, è ricordare chi ha ancora speranza. Pensare a quelli che scavavano, a quelli che scavano ancora. Quelli che sperano non ci sia il nome di una persona cara di un elenco di vittime.

Quelli che si sentono responsabili, e cercano di evitare stragi future. Quelli che vogliono la verità. So che sono ancora tanti, anche a Bologna. Forse non sono più rappresentati, forse la loro speranza è stata ferita e irrisa, forse qualche volta pensano: perché scavare quando tutto crolla?

Ma io so che queste persone ci saranno sempre, e mi conforta. Ogni volta che torno a Bologna, vedo i nomi sulla lapide della stazione. Qualcuno si ferma e si interroga, qualcuno nemmeno sa cosa significano quei nomi. Qualcuno neanche li guarda.

Ma qualche anno fa, vidi una donna straniera entrare, e mettere dei fiori sotto la lapide. Le parlai: non era una parente, era una donna che faceva solo un gesto di ricordo, di rispetto, non davanti alle autorità, ma davanti ai suoi sentimenti.

Al di là di ogni retorica e cerimonia, c'è sempre la forza di queste persone che sperano. E io spero che Bologna le ascolti molto di più, che sappia ritrovare il rapporto con la sua energia passata, che non ne faccia una statua in un museo.

Anche io, nel mio piccolo sforzo, scavo ancora, anche se dovrei e vorrei farlo di più. E scavando ho ritrovato il ricordo di quegli anni e posso dirlo forte: non dimentico e non voglio dirlo solo il due agosto.