sabato 7 agosto 2010

Venezuela-Colombia-USA: le relazioni pericolose

Resta alta la tensione tra Venezuela e Colombia dopo la decisione, presa una settimana fa dal presidente Hugo Chavez, di schierare unità di fanteria e aviazione al confine con la Colombia in funzione difensiva in caso di aggressione.

Oggi intanto entra in carica ufficialmente il nuovo presidente colombiano Juan Manuel Santos e con ogni probabilità la tensione con il Venezuela andrà via via scemando.

Sempre che gli Usa non si mettano di traverso, come è loro solito fare nel continente che continuano a considerare il giardino di casa...


Washington provoca Caracas
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 6 Agosto 2010

A poche ore dall’insediamento del nuovo presidente colombiano, Juan Manuel Santos, la tensione tra Venezuela e Colombia, costruita ad arte dall’uscente presidente Uribe, trova un nuovo focolaio interessato da parte di Washington. Larry Palmer, designato dal Dipartimento di Stato come prossimo ambasciatore statunitense in Venezuela, si è infatti lasciato andare a dichiarazioni che di diplomatico hanno ben poco.

Scimmiottando le affermazioni di Uribe, nel rispondere alle domande poste in un questionario destinato al Senato statunitense (che dispone della facoltà di accettare o rifiutare la designazione dell’ambasciatore proposta dalla Casa Bianca) Palmer ha sostenuto che “nelle forze armate di Caracas il morale è basso; ciò a causa dell’aumento dell’influenza cubana, aspetto che sarebbe già stato rifiutato dai militari venezuelani”. Lo stesso Palmer ha poi aggiunto di aver chiari “i nessi tra la guerriglia colombiana ed il governo del Venezuela”.

Le parole di questo nuovo ambasciatore di guerra hanno trovato la pronta replica delle autorità venezuelane. Il Ministro della Difesa, Carlos Mata Figueroa, ha dichiarato che “le forze armate del Venezuela respingono categoricamente le dichiarazioni rilasciate da Palmer” e considerano che questo ipotetico ambasciatore “ in modo assurdo, temerario e irresponsabile, ha attaccato la dignità e il decoro dei militari venezuelani”. E ancora: “Solo una mente meschina, perversa e contorta potrebbe confondere la nostra collaborazione tra popoli fraterni con un’intromissione straniera”.

A giudizio del Ministro venezuelano, Palmer cerca di coinvolgere il Venezuela nel conflitto armato interno alla Colombia, “svelando il piano orchestrato dalle canaglie imperialiste rappresentate dal governo degli Stati Uniti”.

Ognuno sceglie i toni che preferisce, ma é ifficile dargli torto, in effetti, giacchè aldilà degli aggettivi, le dichiarazioni di Palmer sembrano direttamente confermare l’escalation della provocazione da parte di Washington nei confronti del governo venezuelano. Presentare le proprie credenziali da ambasciatore dopo simili affermazioni, sarebbe infatti un'autentica sfida alla sovranità del paese ospitante.

Le affermazioni dell’ambasciatore designato sembrano collocarsi perfettamente nel piano politico-mediatico redatto da Washington e Bogotà destinato a portare Venezuela e Colombia ad una guerra.

Il piano, già denunciato dal Presidente Hugo Chavez, prevederebbe l’eliminazione dell’inquilino di Miraflores e l’insubordinazione di settori delle forze armate venezuelane che dovrebbero sabotare dall’interno le capacità di reazione dei militari leali alla Costituzione e all’autorità politica e istituzionale del Paese di Simon Bolivar.

Il secondo aspetto del progetto golpista prevederebbe, infatti, sia l’entrata in azione delle forze armate colombiane (da qui la falsa accusa di sostegno alle FARC da parte di Caracas ndr) e sia - ove fosse necessario - il successivo affiancamento dei militari statunitensi, che dalle basi militari in Colombia, dalla IV Flotta di stanza nel Mar dei Caraibi e dalle truppe di terra stanziate in Costa Rica, dovrebbero riuscire a prevenire - o a respingere - eventuali reazioni dei paesi amici del Venezuela, significativamente Cuba e Nicaragua.

Il piano, naturalmente, pur con tutta la sua pericolosità, è naturalmente un progetto che non sarà né semplice, né indolore, provare a trasferire dalla carta a terra. D’altra parte, le dichiarazioni di Uribe circa la presunta copertura venezuelana ai guerriglieri colombiani delle FARC, non ha raccolto grandi consensi nel subcontinente. Anzi, l’arcinota qualità di Bogotà nel fabbricare paccottiglia propagandistica spacciandola per denuncia internazionale, proprio nei giorni scorsi ha subìto un’ulteriore conferma.

Un ufficiale dell’esercito colombiano, infatti, ha ammesso di aver manipolato a fondo il computer portatile di Raul Reyes, “ambasciatore” delle FARC ucciso durante un raid dell’esercito colombiano in territorio ecuadoregno, che vide un saldo di venticinque persone assassinate e la successiva crisi diplomatica tra Quito e Bogotà, che ha rischiato di degenerare persino sul piano militare, dal momento che il presidente Correa non consente passeggiate dei militari colombiani nel proprio territorio.

Quella del pc di Reyes è stata una delle pagine più comiche della fabbrica dei falsi di Uribe. Su quel computer, a detta dell’ex presidente colombiano, c’era di tutto: alleanze, appoggi, relazioni, strutture, capacità operative: insomma, sessanta anni di storia guerrigliera colombiana in un portatile.

Ovviamente, nello stesso portatile, come per incanto, appariva la conferma di tutte le tesi politico-propagandistiche di Bogotà e Washington circa la complicità internazionali con le FARC e l’ELN. Venezuela, Nicaragua, Cuba, Ecuador; tutti i paesi dell’ALBA venivano miracolosamente confermate, guarda caso, dall’analisi dell’hard disk.

Oggi, però, con la confessione del militare colombiano, si sa quel che già s’immaginava: le cosidette “evidenze” erano falsi costruiti su misura per gli scopi politici di Washington e Bogotà.

A poche ore dall’insediamento di Santos, dunque, le parole dell’ambasciatore designato sembrano voler indicare che Washington non gradirebbe un’eventuale correzione di linea rispetto a quella (fallimentare) di Uribe nei confronti del Venezuela.

In risposta alla reazione dei paesi latinoamericani, che attraverso l’Unasur hanno fatto presente come questa crisi tra Bogotà e Caracas vada fatta rientrare al più presto e come l’intero continente attenda dal neopresidente colombiano un deciso cambio di rotta, in direzione della normalizzazione dei rapporti con il Venezuela, l’intenzione della Casa Bianca sembra essere quella d’innalzare quanto più possibile la tensione con Caracas.

In questo senso, la designazione di Palmer sembra voler inviare contemporaneamente un messaggio sia alla Colombia che al Venezuela. Non è un caso se l’Honduras é stato il suo precedente incarico..

E se si vuole avere una conferma diretta a questa linea interventista di stampo imperiale che la Casa Bianca di Obama ha intrapreso verso l’America Latina, basta scorrere la pubblicazione della “lista nera”, cioè dei paesi che a detta di Washington non combattono il terrorismo.

Cuba, Nicaragua, Bolivia, Ecuador, Venezuela; l’elenco dei “cattivi” abbonda soprattutto dei paesi membri dell’ALBA, che hanno avuto l’indicibile torto di abolire l’obbedienza dovuta al gigante del Nord.

La lista, infatti, come’è ovvio, non ha niente a che fare con il terrorismo; è invece l’elencazione annuale che gli Stati Uniti fanno dei loro avversari politici. Anzi, spesso nemmeno dei loro avversari, quanto piuttosto dei paesi che non riconoscono al locale ambasciatore statunitense il ruolo di proconsole dell’impero.

La lista dei “cattivi” non è per niente diversa da quelle stilate dalle precedenti amministrazioni repubblicane, a significare una certa continuità di vedute e d’intenti tra il deplorato Bush e la novità Obama. L’idea che gli Stati Uniti possano fornire pagelle, decretare status, organizzare colpi di stato e destabilizzazioni nei paesi che considerano indipendenti non conforta certo chi riteneva che il dopo-Bush potesse mostrare un cambio di rotta, un’inversione di tendenza dal governo unipolare ad una governance multipolare.

Si deve perciò ricordare che Miami è un autentico resort per terroristi ricercati da diversi paesi dell’area, primo fra tutti l’ultraprotetto Posada Carriles, definito dagli stessi organismi a difesa dei diritti umani Usa “il bin Ladin delle Americhe”.

Ora, che gli Stati Uniti, principali finanziatori e sostenitori del terrorismo contro Cuba e Venezuela, ispiratori di colpi di stato e dispensatori di aiuti economici e militari ai gruppi di destabilizzazione nei paesi come Cuba, Bolivia, Ecuador, Cuba, Venezuela e Nicaragua possano avere il coraggio di definire altri paesi come complici del terrorismo, risulta comico e insieme tragico.

Da questo punto di vista le dichiarazioni provocatorie di Larry Palmer non sono quindi espressione di accenti fuori luogo delI’ambasciatore in pectore, né di estremismo verbale per compiacere i senatori repubblicani della Commissione Esteri; bensì una riduzione lessicale coerente di quanto il Dipartimento di Stato esprime con maggiore ampiezza. Il Presidente Chavez, da parte sua, definendo “gravi” le dichiarazioni di Palmer, ha affermato che queste sono “oggetto di valutazione” e che “potrebbero inibirlo”.

Sostanzialmente, ammesso che lo stesso riceva dal Senato nordamericano l’approvazione alla nomina, Miraflores valuta se rifiutare il gradimento alla nomina del neoambasciatore Usa. Perché a Washington possono approvare i loro desideri, ma è a Caracas che si decide il destino del ciarliero ambasciatore.


Perché la guerra al Venezuela?
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 1 Agosto 2010

E’ possibile credere alle storielle propagandistiche della Colombia? E’ possibile offrire credito alle denunce di Uribe? Il nuovo presidente colombiano, Juan Manuel Santos, per ora ritiene di non doversi pronunciare sul contenzioso con Caracas.

Sembra che abbia in mente una strategia diversa da quella del suo predecessore, ma il silenzio di queste ore da parte sua va certamente interpretato come una questione di garbo istituzionale nei confronti del Presidente uscente.

Il quale, con le valigie già in mano, ignorando a sua volta proprio quel garbo istituzionale che gli imporrebbe il silenzio, ha tentato d’ipotecare fino all’ultimo i prossimi passi del neo-eletto, proponendo come soluzione al contenzioso con Caracas lo smantellamento dei supposti campi delle FARC in Venezuela, la resa dei guerriglieri ivi allocati e la promessa che verranno giudicati con “equità e giustizia”, ricordando che durante i suoi mandati alla guida del paese “molti hanno deposto le armi”.

Ovviamente, occulta che questi siano stati soprattutto paramilitari, gli unici ai quali sono stati offerti benefici di ogni tipo. Ma, soprattutto, finge di dimenticare la profonda differenza motivazionale che intercorre tra l’insurrezione e i sicari del sistema contro cui l’insurrezione nasce. Equiparare guerriglieri antigovernativi a squadroni della morte filo-governativi é possibile solo per Uribe, che dei paramilitari è stato socio protettore.

E a poco è servita la campagna mediatica dei giornali di regime, che hanno addossato alla guerriglia qualunque violenza nel paese, fosse essa a carico di narcos, di delinquenza comune o di paramilitari.

Perché Uribe, proprio per i suoi legami con le elites militari colombiane e con la Casa Bianca, diversamente dal suo predecessore, Pastrana, non ha mai cercato altro che non fosse, a qualunque costo, la vittoria militare sulla guerriglia: esito che è tutt’ora impensabile.

Se invece si vuole cercare un qualche ruolo di Chavez nel conflitto interno alla Colombia (che dura da quasi 60 anni) questo si può trovare facilmente proprio nell’opera di pacificazione che il leader venezuelano ha svolto e svolge.

Irritando non poco alcuni esponenti delle stesse FARC, fu proprio Chavez che, con tutte le ragioni, invitò i guerriglieri colombiani a comprendere che era cambiata la realtà internazionale e regionale e che la nuova fase storica imponeva l’abbandono delle teorie insurrezionaliste e la conquista del potere per la via delle armi. Serve invece, ha reiterato Chavez alle FARC, un negoziato che non significa una resa, ma la ricerca di una soluzione politica del conflitto.

Che questa sia stata una posizione dettata anche dalla necessità di pacificare l’area per evitare un conflitto tra Colombia e Venezuela, non può essere taciuto; ma resta il fatto che il ruolo di Chavez nello scenario della guerra civile in Colombia è stato di mediazione tra le parti, non di parte attiva al fianco della guerriglia.

E va ricordato, in proposito, che proprio su richiesta dello stesso Uribe il Presidente venezuelano svolse un ruolo di mediazione e di pacificazione nella guerra civile colombiana; fu semmai lo stesso governo di Bogotà a tradire gli impegni presi per lo scambio di prigionieri, tentando così - dopo aver chiesto una mediazione - di delegittimare il mediatore a livello internazionale.

C’è comunque da dire che le ultime dichiarazioni di Uribe (definirle proposta appare effettivamente eccessivo) in principio sembrano voler lasciare intendere che la magistratura colombiana giudica sotto dettatura del governo.

Ma, soprattutto, che in assenza di un qual si voglia straccio di prove, l’ormai ex-presidente continua a proporre le sue accuse al Venezuela come si trattasse di prove documentabili e documentate, e non di affermazioni politico-propagandistiche. Come se, in definitiva, invece che come connotato politicante senza scrupoli, egli stesso venisse percepito all’estero come politico serio e credibile

D’altra parte, proprio all’estero la credibilità internazionale dei governanti di Bogotà è pari al grado di sovranità nazionale che esercitano: zero. Se sul piano interno la connessione tra esercito regolare, politici e paramilitari conferma ogni giorno la qualità di democrazia interna, per quanto riguarda la politica estera Bogotà altro non è che un’ambasciata Usa nella regione.

La Colombia, da diversi anni, è ormai un protettorato degli Stati Uniti ed è per loro conto che mantiene alta la tensione militare nel continente. Semplicemente, fa quello che Washington, direttamente, non può permettersi di fare.

E’ per questo, per sostenere questo ruolo, che prevede la strategia di crisi continua con le democrazie latinoamericane, che la Colombia é diventata la più grande base militare statunitense nel mondo.

Non a caso da qualche mese la già massiccia e ingiustificata presenza statunitense in Colombia si è accresciuta ulteriormente. Il governo di Bogotà ha firmato un protocollo segreto con Washington che consente alle truppe statunitensi l’insediamento di sette nuove basi militari sul territorio colombiano.

Nemmeno il Parlamento di Bogotà dispone d’informazioni esatte circa effettivi, struttura logistica e tipologia di armamenti che il Pentagono ha disposto e disporrà nelle nuove basi. La storiella, come già dai tempi del Plan Colombia, è sempre quella del narcotraffico.

Una storiella che fa acqua da tutte le parti, giacché proprio la presenza massiccia delle truppe statunitensi in territorio colombiano ha coinciso con l’incremento enorme della produzione della droga in Colombia.

E’ esattamente lo stesso film che si può ammirare sugli schermi afgani, dove la produzione di oppio è enormemente cresciuta da quando le truppe d’occupazione occidentale, a guida Usa, si trovano in Afghanistan. Fino all’arrivo del primo contingente occidentale, alla fine degli anni ’80, la produzione di oppio vedeva l’Afghanistan agli ultimi posti al mondo; oggi, invece, è al primo.

Dunque, il paese primo al mondo per consumo di stupefacenti è lo stesso che invia i suoi militari per combattere il traffico della droga, che però aumenta in proporzione con l’aumento degli effettivi militari. Sarà che i militari Usa sono incompetenti? Sarà che trattasi di coincidenze?

Il fatto è che i numeri raccontano una storia diversa dalla propaganda. L’unica cosa certa e documentabile è che la presenza dei militari aumenta la produzione. Quindi, quella della lotta al narcotraffico altro non è se non una storiella.

La verità è che le truppe Usa in Colombia rispondono alla necessità degli Stati Uniti di ribadire - se non il dominio, ormai in buona parte perso - almeno il controllo militare come monito all’indipendenza dell’America Latina. Perché la minaccia dell’America latina verso gli Stati Uniti è una minaccia economica e politica, non certo militare.

L’integrazione e la cooperazione regionale crescente, lo sviluppo di un mercato interno continentale, la creazione di organismi finanziari regionali, l’allargamento del mercato del lavoro e lo sfruttamento delle risorse naturali del sottosuolo e della biodiversità, sono diventate le priorità della ripresa economica latinoamericana, che non a caso cresce, in evidente controtendenza con le economie liberiste del resto del continente.

I governi progressisti latinoamericani, chi con accento socialdemocratico, chi più marcatamente socialista, sono comunque impegnati in una lotta serrata contro la povertà e non per avvantaggiare i capitali speculativi.

Per questo rappresentano, obiettivamente, una minaccia profonda agli interessi delle grandi corporation statunitensi, che erano abituate a pasteggiare allegramente sulle risorse latinoamericane per costruire accumulazioni enormi di capitali.

E anche sul piano più squisitamente politico, la crescente unità politica latinoamericana ha dato luogo alla nascita di organismi rappresentativi del subcontinente dai quali sono assenti gli Usa. Può apparire simbolico o sostanziale, ma certo che, unitamente all’intensa attività diplomatica e agli scambi commerciali con l’estero (Cina, Iran, Russia ed Europa) la nuova proiezione internazionale del blocco democratico latinoamericano ha definitivamente mandato in soffitta il Washington consensus, cioè la dipendenza del Sud dagli interessi politici ed economici del Nord.

Non è più Washington il luogo nel quale si decide chi sarà il presidente di qualsivoglia paese latinoamericano; non sono più gli Usa a decidere come dovranno votare i paesi latinoamericani negli organismi internazionali; non è più il Pentagono a definire l’agenda degli acquisti militari in America latina e non sono più le grandi corporation statunitensi a decidere quali prodotti e in quali paesi andranno immessi sul mercato internazionale.

E, conseguentemente, dove andranno pianificati saccheggi di risorse e bulimia di profitti per compensare le perdite che si determinano nel mercato interno statunitense. Il mercato di riserva ha ribaltato i banchi.

Un dato tra i tanti: l’indice di nutrizione latinoamericano è cresciuto simultaneamente alla riduzione degli interessi Usa nel subcontinente. Un’altra “sinistra” coincidenza? O la logica conseguenza della morte prematura dell’ALCA e dei diversi TLC bilaterali, che versavano al Nord braccia economiche e ricchezze saccheggiate in cambio di maggior debito per il Sud?

Quella finta libertà degli scambi, che era liberista quando immetteva eccedenze del Nord nei mercati latini, mentre diventava protezionista quando chiudeva quelli statunitensi ai prodotti a sud del Rio Bravo, è stata sostituita dalla cooperazione latinoamericana in ambito regionale.

E se con i mega prestiti diretti alle elites locali, che divenivano megadebito per le popolazioni, s’imponevano le regole della Banca Mondiale, del Banco Interamericano di Sviluppo e del Fondo Monetario, con i suoi devastanti piani di “aggiustamento strutturale”, oggi sia il microcredito cooperativo, sia il finanziamento dei progetti regionali vengono affrontati nella Banca del Sud. Per parlare di finanziamenti ai progetti di sviluppo, per parlare di prestiti e linee di credito, non serve più parlare inglese. Tra simili ci si capisce meglio.

Ma, pur distratti dall’impegno in altri scenari internazionali, gli Usa non possono più permettersi un ruolo comprimario nel patio trasero. Non si tratta solo di rettificare le scelte dell’Amministrazione Bush, che aveva puntato sull’Asia Minore e sul Golfo Persico come luoghi privilegiati della sua necessità di controllo delle fonti energetiche e della riaffermazione della leadership internazionale a stelle e strisce. Si tratta invece di recuperare il terreno perso anche nel “giardino di casa”.

La crisi dell’impero rende sempre più difficile fare a meno della ricchezza delle sue provincie, o presunte tali. Per uscire dalla crisi economica che l’attanaglia, gli Stati Uniti hanno il disperato bisogno di tornare a saccheggiare le risorse latinoamericane e di riprendere il controllo politico, energetico e militare su tutta l’area che va dall’Alaska alla Terra del Fuoco.

Per questo tentare di rovesciare il governo bolivariano in Venezuela è considerato indispensabile per Washington. Fermare Chavez significherebbe diverse cose, tra le quali indebolire gravemente le economie di Cuba, Nicaragua e, in parte, Bolivia ed Ecuador; stroncare sul nascere la Banca del Sud, assestare un colpo micidiale all’ALBA, frapporre un ostacolo decisivo agli investimenti cinesi, russi, brasiliani e iraniani sul piano energetico e militare, oltre che negli scambi commerciali, indebolendo così l’economia argentina, brasiliana e uruguayana, oltre che venezuelana, boliviana ed equadoriana.

E, ancor prima, significherebbe eliminare la minaccia concreta di dover da un giorno all’altro veder interrotta la fornitura del 23% del fabbisogno petrolifero statunitense, che viene estratto dal Venezuela. Far cadere Chavez significherebbe, quindi, assestare un colpo durissimo al processo indipendentista e regionalista delle democrazie latinoamericane. Altro che FARC o narcotraffico: l’operazione contro il Venezuela è la prima fase del progetto: l’indipendenza e la sovranità dell’America Latina, sono l’obiettivo finale. Che poi ci riescano, é tutto da vedere.


I passi falsi degli Usa in Colombia
di Stella Spinelli - Peacereporter - 30 Luglio 2010

La storia degli Usa nel paese andino è fatta di leggi violate e diritti umani calpestati in totale impunità. Eppure resta un modello da emulare a cominciare dall'Afghanistan

"Il livello di addestramento ed equipaggiamento degli eserciti di altre nazioni sostenuti per raggiungere gli obiettivi degli Stati Uniti è cresciuto in maniera esponenziale dal 2001, ma c'è grande preoccupazione su un nodo cruciale: fino a che punto il governo Usa sta applicando le leggi e vigilando sull'impatto che il suo programma di aiuti militari sta causando sui diritti umani all'estero?".

Inizia così il documento sugli aiuti militari degli Stati Uniti in Colombia presentato ieri a Bogotà e stilato da una delle Ong statunitensi più rispettate e autorevoli del Sud America: For, The Followship of reconciliation, con sede a New York.

"L'esperienza del finanziamento militare degli Usa alla Colombia ci mostra che esistono vincoli allarmanti fra le unità militari colombiane che ricevono assistenza dagli Stati Uniti e le stragi di civili per mano dell'esercito - spiegano a For -.

Per prevenire errori simili a quelli fatti in Afghanistan e in Pakistan, è necessario che le commissioni del Congresso degli Stati Uniti e l'Ufficio dell'Ispettorato generale del Dipartimento di Stato studino a fondo il caso della Colombia e l'applicazione delle leggi che dovrebbero evitare che l'assistenza per la sicurezza sia data a unità che commettono palesi violazioni dei diritti umani".

Durante gli anni delle indagini che hanno portato a questo documento, For ha raccolto tantissimi dati su più di tremila esecuzioni extragiudiziarie commesse dalle Forze armate colombiane e nella lista ci sono oltre 500 unità militari colpevoli di queste stragi e assistite dagli Stati Uniti dal 2000.

"Abbiamo rilevato che molte unità militari colombiane hanno commesso addirittura più esecuzioni durante e dopo aver ricevuto i più alti livelli di assistenza da parte degli Stati Uniti. Anche se è chiaro che ci sono altri fattori che contribuiscono agli alti livelli di omicidi, è emersa la necessità di un'indagine che vada a fondo delle ragioni per le quali esiste questa apparente correlazione", dichiara la Ong Usa.

Sono tante le leggi statunitensi create proprio per evitare che gli aiuti Usa siano utilizzati per commettere violazioni dei diritti umani. Una delle principali è la Enmienda Leahy o Ley Leahy, che proibisce che venga assistita un'unità della quale il Dipartimento di Stato abbia la prova che sia coinvolta in gravi violazioni dei diritti umani. E, stando a quanto ha sempre dichiarato il Dipartimento di Stato, la Colombia è il paese dove questa legge è stata applicata in modo più rigoroso.

"Invece a noi di For risulta il contrario - spiegano - . Abbiamo le prove che molti funzionari Usa che hanno disobbedito alla legge Leahy - spiegano -. In base alle nostre analisi, se la Legge Leahy fosse realmente rispettata, verrebbe sospesa l'assistenza a quasi tutte le brigate fisse dell'Esercito e a molte brigate mobili, dato che esecuzioni di civili manu militari sono avvenute in quasi tutte le giurisdizioni. E invece, la maggior parte dell'addestramento militare in Colombia continua a essere finanziato dal Dipartimento della Difesa nordamericano".

L'unica eccezione prevista dalla severa legge Leahy permette che l'assistenza non sia tolta in quei casi in cui si stiano prendendo "misure effettive" o dove si stiano facendo "i passi correttivi necessari" per portare davanti a un tribunale i responsabili di tali violazioni.

Ma questo non è senz'altro il caso della Colombia, dato che lo stesso Dipartimento di Stato ammette nei suoi documenti che solo l'1,5 percento delle esecuzioni extragiudiziali denunciate sono arrivate a inchiodare i colpevoli.

Come indicano i grafici e i dati del documento For, dopo il novembre 2008, il numero degli omicidi di civili commessi dalle forze armate colombiane è sì sceso in maniera sostanziale, ma la ragione inquieta.

Se apparentemente questo calo pare dovuto al fatto che lo Stato, dopo i vari scandali venuti a galla, in primis quello dei Falsos Positivos, ha dichiarato pubblicamente che avrebbe preso drastici provvedimenti per ripulire l'esercito, in realtà è solo un'inflessione apparente. E' curioso infatti notare come il numero delle vittime civili non sia cambiato di una virgola e come, invece, a cambiare siano stati soltanto i presunti colpevoli.

Sui registri questo è, infatti, il periodo in cui sono vertiginosamente aumentati gli omicidi di civili attribuiti ai gruppi paramilitari successori delle Auc.
"Se l'assistenza degli Stati Uniti stesse riscontrando un effetto positivo sulla condotta dei militari colombiani nel rispetto dei diritti umani - aggiungono - i numeri delle denuncie di omicidi di civili per mano dell'esercito sarebbero dovuto diminuire ovunque". Invece non è così.

For
, per mettere in evidenza la relazione fra sostegno Usa e aumento esecuzioni da parte dei militari colombiani, ha identificato le giurisdizioni delle brigate in relazione agli anni in cui hanno ricevuto il sostegno degli Stati Uniti. E il risultato parla chiaro: "Le esecuzioni di civili denunciate sono aumentate ovunque gli Stati Uniti abbiano incrementato la loro assistenza".

In sedici casi, i massicci rinforzi Usa hanno coinciso con un aumento del 56 percento delle denuncie di omicidi extragiudiziari manu militari. Stessa percentuale, ma in diminuzione, è emersa in determinate giurisdizioni negli anni dopo che i livelli di aiuti Usa sono stati ridotti drasticamente. D'altro canto, in tutte quelle zone dove le brigate erano state coinvolte in episodi di violenza inusitati, l'arrivo del sostegno Usa non ha che peggiorato le violazioni.

"Questo suggerisce che quando si ignora un problema nel decidere se aumentare o meno l'appoggio Usa a una brigata, questo problema non fa che peggiorare". Da qui l'appello, affinché venga svolta al più presto un'indagine ufficiale made in Usa che chiarisca e cambi questa vergognosa correlazione, frutto del totale disprezzo anche delle leggi a stelle e strisce.

E che porta con sé anche serie questioni etiche, e non solo in Colombia, dato che la storia degli Usa nel paese andino è vista come modello da emulare a cominciare dall'Afghanistan.


Fosse comuni e forni crematori. Ecco l'eredità di Uribe
di Stella Spinelli - Peacereporter - 6 Agosto 2010

Mentre una delegazione europea prende atto della fossa comune con i 2000 cadaveri della Macarena, un paramilitare confessa: 'Per disfarci dei corpi usavamo spesso forni crematori fai da te'

Una delegazione europea, con sei eurodeputati, ha certificato durante un sopralluogo pubblico a La macarena, dipartimento centrale del Meta, culla dei Falsos Positivos, l'esistenza di una fossa comune contenente circa duemila cadaveri.

A guidarla, il sacerdote gesuita Javier Giraldo, figura d'eccezione nella lotta per i diritti umani in Colombia, rappresentante del Centro di indagine ed educazione popolare (Cinep), fondazione no profit da sempre impegnata nella denuncia dei crimini di Stato e dei soprusi paramilitari.

Che ha spiegato come tortura e omicidio generalizzato siano i tragici comun denominatori della normalità colombiana, anticipando come il prossimo settembre saranno presentati altri casi documentati di sparizioni forzate e omicidi in altre regioni del paese.

In una atmosfera surreale, i delegati europei hanno ascoltato, attoniti, le tragiche testimonianze dei sopravvissuti, contadini stroncati da fatica e terrore, che hanno finalmente deciso di rompere il silenzio denunciando come l'esercito colombiano usasse gli elicotteri per gettare nelle fosse i corpi di civili massacrati e spacciati per guerriglieri, con l'intento di ottenere qualche licenza speciale.

Erano in tanti, circa 800, i campesinos, venuti da tutte le regioni in cui l'esercito ha agito indisturbato, ingannando, illudendo e ammazzando, a sangue freddo. Con loro anche la senatrice Piedad Cordoba, simbolo di quella mediazione con la guerriglia in nome di una pace che sembra sempre così lontana.

È stata lei a tracciare il parallelo fra la gravissima crisi umanitaria che interessa le estese regioni orientali e il Plan Colombia, unito al Plan Patriota, i due programmi governativi sostenuti dagli Usa per combattere il narcotraffico e sconfiggere la guerriglia. Dei quali è conseguenza. Effetto collaterale.

Mezzo giustificato dal fine: sfollare e spadroneggiare in territori preziosissimi dal punto di vista sia strategico sia naturalistico. Il tutto con un altro vantaggio: colpire le comunità dalle quali la guerriglia trae vita e sostegno, facendo piazza pulita.

Anche la eurodeputata della commissione per i diritti umani, Ana Gómez, non ha potuto che sottolineare l'aberrazione dell'assassinio di un popolo da parte di un esercito fratello. Parole, segni, da parte europea, dopo lunghi anni di colpevole silenzio, che ha permesso all'establishment colombiana di essere accolta con tutti gli onori nei loro tanti giri diplomatici nel Vecchio Continente. Dichiarazioni che forse inaugurano un'era di cambiamento nei rapporti verso uno Stato che finora ha orchestrato il paramilitarismo e complottato con il narcotraffico, nell'indifferenza generale.

E quanto questo complotto fosse fondato sul sangue e l'orrore emerge unendo come in grandi puzzles testimonianze e ricordi appartenenti a una parte e all'altra della barricata. L'ultima testimonianza shock in ordine di tempo è quella che ha rilasciato il paramilitare Iván Laverde Zapata, che davanti ai magistrati ha raccontato che per smaltire il numero impressionante di cadaveri che facevano a destra e a manca, cadaveri insostenibili perché avrebbero gonfiato in maniera inspiegabile le statistiche ufficiali, hanno funzionato per anni veri e propri forni crematori.

Una maniera sbrigativa e pulita per far sparire le tracce di mattanze inenarrabili contro il popolo. Una pratica barbara, che ha subìto un'impennata proprio durante i due mandati di Uribe e della sua sicurezza democratica.

Non solo. Zapata ha spiegato come in Antioquia, mentre Uribe era governatore, molti cadaveri venisero fatti sparire anche nel fiume Cauca. Stessa pratica anche nel dipartimento di Santander. Mentre altrove, si ricorreva a pratiche da macelleria: cadaveri fatti a pezzi e nascosti in varie fosse comuni, di cui La Macarena ne è eclatante esempio.

Questa è una parte della testimonianza del paramilitare: "Ci sono molti morti che non sono stati ritrovati perché qui nelle vicinanze di Medellín, ad un'ora, si trovavano dei forni crematori. Molta gente è stata bruciata. Io ho assistito a questi fatti [...]. Tra il 1995 ed il 1997 le vittime venivano buttate nel Cauca, dopo aver aperto i corpi e averli riempiti di pietre [...], avendo l'ordine di far scomparire le vittime, è sorta l'idea dei forni crematori [...].

Dell'istallazione del forno si è occupato Daniel Mejía, era delle Auc e della Oficina de envigado. Il forno lo faceva funzionare un tale detto Funeraria, credo si chiamasse Ricardo, mentre due signori si occupavano della manutenzione delle griglie e delle ciminiere, perché si ostruivano col grasso umano [...]. Portavamo al forno tra le 10 e le 20 vittime a settimana, vive o morte, e c'era un procedimento preciso da seguire: quando arrivavamo bisognava suonare e ci dicevano ‘Questa spazzatura portatela giù', allora andavamo dentro e le portavamo in sacchi di plastica per non sporcare di sangue.

Dopo aver dissanguato il cadavere, ci chiedevano: ‘Chi lo manda questo?'. Avevano una cartella in cui annotavano tutto. Noi entravamo e dovevamo aspettare le ceneri... poi si mostravano a Daniel e si buttavano al fiume o dove ci dicevano. Il forno fu inaugurato gettandovi dentro una persona viva, perché aveva rubato dei soldi ".



Uribe, amico del Mossad, a capo della commissione Onu sulla Flottilia

di Stella Spinelli - Peacereporter - 3 Agosto 2010

La Commissione Onu che dovrà indagare sull'assalto militare israeliano alla Flottiglia della pace sarà presieduta da Alvaro Uribe, il presidente colombiano uscente, uomo vicino agli Usa che ha fatto del disprezzo per i diritti umani una bandiera

Alvaro Uribe, presidente uscente della Colombia, non resterà senza lavoro l'8 agosto, quando il suo successore, Manuel Santos gli succederà a Palazzo Narino. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, lo ha appena scelto per presiedere il Comitato d'indagini sull'aggressione israeliana subìta dalla Freedom Flottilla turca carica di aiuti umanitari destinati a Gaza. Era il 31 maggio scorso.

Dopo due lunghi mesi di intense consultazioni, il governo di Tel Aviv ha dunque concesso che una commissione Onu indaghi su quanto avvenne quando le truppe speciali israeliane assaltarono la nave in cui vennero assassinati nove attivisti turchi.

È la prima volta che lo stato ebraico accetta un'inchiesta internazionale sull'operato del suo esercito, tanto che non sono mancate le polemiche interne: "E' un fatto senza precedenti e il risultato di una cattiva gestione di governo", ha tuonato Tzipi Livni, ex ministro degli Esteri e ora leader dell'opposizione.

Plauso e soddisfazione invece da buona parte della comunità internazionale, Stati Uniti in testa. Ad affiancare Uribe, l'ex primo ministro della Nuova Zelanda Geoffrey Palmer e due rappresentanti di Turchia e Israele. Con la promessa che lo stato ebraico collaborerà.

Una buona notizia, dunque, per lo meno in apparenza. Ed è così che ce la presentano. Ban Ki-Moon in testa. Finalmente un Comitato super partes, di prestigio, composto da "esperti", dicono. Eppure, chiunque abbia masticato un po' di storia recente colombiana non può che sgranare gli occhi e sobbalzare dall'indignazione nel leggere il nome del prescelto Onu.

Alvaro Uribe
è considerato da commissioni internazionali e organizzazioni non governative in difesa dei diritti umani, comprese molte associazioni più o meno direttamente collegate alle Nazioni Unite stesse, uno degli uomini più oscuri e sinistri del panorama internazionale. Su di lui pendono non solo sospetti, ma anche cause di corruzione e legami con il narcotraffico.

E non finisce qui. Durante i suoi due mandati di governo, la Colombia non ha visto che incrementare esecuzioni extragiudiziali per mano dell'esercito regolare, con migliaia di civili morti ammazzati e fatti sparire in fosse comuni.

Ha visto oltre 4 milioni di sfollati interni, ignorati e ingannati. E la guerra interna, negata dalle versioni ufficiali, continuare imperterrita. E che dire delle decine e decine di collaboratori di Uribe, compreso parenti e amici, finiti indagati e spesso condannati per i reati più svariati, legati però, sempre e comunque, alla gestione del potere e alla spartizione dei proventi.

La Colombia di Uribe è un paese ingiusto e macchiato di sangue innocente. Per non parlare della serie di scandali gravissimi che hanno fatto tremare Palazzo Narino fino alle fondamenta: dai servizi segreti deviati e usati per scopi personali dal medesimo Uribe, il quale ordinava loro di spiare e minacciare uomini chiave della società colombiana; ai voti pagati a suon di prebende per ottenere la maggioranza per la riforma costituzionale che gli avrebbe permesso una seconda elezione.

Elencare in poche righe tutte le malefatte di un personaggio di tale portata è impossibile. A parlare sono i fatti della storia recente colombiana. Ma una cosa fra tutte va sicuramente evidenziata: Alvaro Uribe è da sempre e soprattutto un fedelissimo della Casa Bianca e molto amico di Israele.

È grazie all'appoggio incondizionato ricevuto dal governo Bush che ha potuto ingaggiare una guerra campale contro guerriglia e narcotraffico, e sotto sotto costringere milioni di persone a fuggire da terre fertili e preziose per multinazionali affamate.

È grazie ai soldi, tanti, destinati dalla Casa Bianca al Plan Colombia se ha potuto fare e disfare a suo piacimento. Un appoggio che ha, comunque, generosamente ricambiato svendendo il territorio colombiano agli interessi privati ed esteri.

Prima di lasciare la poltrona, una delle sue ultime mosse, è stato concedere l'installazione di sette basi militari agli Usa, trasformando del tutto il paese in un vero avamposto strategico a stelle e strisce.

E se si pensa alla posizione geografica della Colombia e agli stati con cui confina, i conti son presto fatti. E non scordiamo il ruolo, comprovato, che il Mossad, servizio segreto israeliano, ha da sempre nell'addestrare le truppe colombiane, affiancate da soldati e contractors Usa e israeliani.

Che avevano rapporti molto stretti anche con le orde di paramilitari che da decenni mettono a ferro e fuoco il paese.
Particolari anche i legami economici tra Colombia ed Israele, con una predilezione per il mercato delle armi e della tecnologia che l'ex ministro della Difesa di Uribe, Santos - ora eletto presidente - ha sempre mantenuto strettissimo, dimostrando costanza e fedeltà

Averlo nella Commissione Onu di "esperti" super partes in cerca della verità, dunque, non è una buona notizia. Uribe non è super partes, non è votato alla verità, non è indipendente. Ma una cosa è certa. È esperto, sì, e molto, di diritti umani. Calpestati e violati, puntualmente, in nome del profitto.


Chavez e Israele: il Medio Oriente in America Latina
di Alessandro Iacobellis - www.eurasia-rivista.org - 23 Luglio 2010

In mezzo a tutto il fiorire di reazioni (o meglio, di mancate reazioni…) della comunità internazionale al sanguinoso attacco israeliano contro la Striscia di Gaza di fine 2008-inizio 2009, è passato in secondo piano l’atteggiamento assunto dal Venezuela di Chavez.

La Repubblica Bolivariana, infatti, ha deciso, in data 6 gennaio, l’espulsione dell’ambasciatore d’Israele Shlomo Cohen, in risposta a quella che il presidente ex-parà ha definito la “barbarie” di Gaza.

Decisione destinata prevedibilmente ad avere parecchie ripercussioni sul futuro degli equilibri geopolitici dell’America Latina. Intanto, già il giorno successivo, è arrivata immediata e scontata la risposta di Tel Aviv: l’espulsione dell’Incaricato d’Affari del Venezuela in Israele, Roland Betancourt.

Il Venezuela infatti non aveva alcuna rappresentanza diplomatica in Israele, ma appunto un Incaricato per il disbrigo di Affari diplomatici. Relazioni di basso livello, insomma. Già in netto peggioramento da quando Chavez espulse una prima volta l’ambasciatore israeliano durante la guerra al Libano dell’estate 2006, e anche in seguito all’inesorabile avvicinamento politico ed economico all’Iran di Ahmadinejad.

Come dicevamo, la notizia è passata molto in sordina, almeno sui nostri media: trafiletto fra le vittime di un bombardamento e l’altro, e un atteggiamento come per indicare che un atto del genere rientri piuttosto nel folklore della politica sudamericana, tanto lontana dal teatro mediorientale.

Lettura decisamente superficiale: in America Latina, infatti, non solo gli Stati Uniti (con la loro storica politica di ingerenza nel cortile di casa dettata dalla dottrina Monroe), ma anche Israele stesso ha sempre giocato una partita decisiva per la propria influenza internazionale.

Premessa: il principale fronte di scontro (per ora fortunatamente solo politico, ma che occasionalmente rischia di sfociare in guerra vera e propria) che si gioca attualmente nel subcontinente americano è ormai da diverso tempo sull’asse Colombia-Venezuela.

Due Paesi vicini, per certi versi fratelli (entrambi devono la loro indipendenza a Simon Bolivar e furono protagonisti del suo grande progetto politico, facendo anche parte della stessa nazione, la Grande Colombia, dal 1819 al 1831) ma al tempo stesso divisi da una rivalità storica e da due destini politicamente agli antipodi.

In realtà il ruolo di Israele nelle aree di crisi sudamericane ha radici ancora più lontane, ed è soprattutto legato alla funzione di immenso deposito di armi, di cui gli Stati Uniti sono sempre stati generosi fin dalla sua nascita, nel 1948.

Avendo quindi il governo israeliano guadagnato ben presto la fama di immensa armeria e di Paese più militarizzato al mondo, soprattutto a causa della sua storia di guerra semi-permanente con i vicini arabi nel corso di tutti questi decenni, non deve sorprendere che durante la Guerra Fredda esso fosse divenuto un punto di riferimento per tantissimi regimi che aspiravano ad entrare nell’area di influenza statunitense nelle regioni più delicate del globo.

Il Sud America fu, come noto, una delle principali vittime della contrapposizione USA-URSS. Per niente disposti a perdere la loro storica zona di controllo a sud, gli statunitensi non persero tempo a reprimere con la forza tutti quei partiti e movimenti popolari che, anche quando non comunisti o filo-sovietici, reclamavano giustizia sociale per le masse del continente, da sempre sottoposte a sfruttamenti e vessazioni da parte di ristrette oligarchie gradite agli interessi di Washington.

Atteggiamento che, si sa, si spinse anche al rovesciamento di governi democraticamente eletti, come quello del socialista Allende in Cile, con la successiva installazione del regime di Pinochet.

Questo fu solo il primo passo di una catena che vide, a partire dagli anni ’70 e con un picco nel decennio successivo, l’irruzione sulla scena della famigerata counter-insurgency, la politica di controguerriglia eterodiretta dagli USA contro i movimenti di liberazione nazionale della regione. Lo schema si ripeteva meccanicamente in quasi ogni Paese del Centro e Sud America: laddove la popolazione richiedeva più libertà e giustizia, ecco che i governi venivano affidati a giunte militari o comunque ad ambienti di apparati legati a Washington.

Naturale che, in diversi casi, le opposizioni popolari ricorressero alla guerriglia armata. Ed è proprio a quel punto che interveniva Israele: armi, addestramento e consiglieri militari, di concerto con l’alleato nordamericano.

A decenni di distanza, con molti segreti scoperchiati (e con tanti altri di cui invece non sapremo mai nulla) è certo che il principale fornitore di armi per regimi brutali come quelli di Haiti, Argentina, Brasile, Paraguay, Panama, Perù, Costarica, Repubblica Dominicana, Honduras e Guatemala fu proprio Israele, assieme al reclutamento e addestramento dei Contras in Nicaragua in funzione anti-sandinista, ingrassando al tempo stesso la dittatura di Somoza di ingenti carichi di armi.

I contratti di vendita e collaborazione con questi regimi erano mascherati da innocui aiuti tecnici e da non meglio definita “pacificazione rurale”, da intendersi in realtà come liquidazione di massa e sistematica di campesinos in odor di guerriglia.

Scendendo nel dettaglio, si possono ricordare episodi della Guerra Sporca in El Salvador che videro protagonisti gli squadroni della morte freschi di addestramento israeliano: la tristemente famosa polizia segreta dell’ANSESAL, capeggiata dall’ufficiale Roberto D’Aubuisson, che non molto tempo dopo entrò anche in politica alla guida del movimento reazionario ARENA, da lui stesso fondato, e che mandò addirittura il figlio a studiare in Israele. D’Aubuisson che si macchiò tra le altre cose dell’omicidio dell’Arcivescovo di San Salvador Oscar Romero.

Il guadagno per Israele in El Salvador fu notevole: dal 1975 ala 1979 l’83% delle commesse militari del Paese centroamericano erano infatti stipulate con Tel Aviv, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute. Va ricordato anche che Israele pagò il suo coinvolgimento nel conflitto salvadoregno con l’uccisione da parte della guerriglia del suo Console onorario, Ernesto Liebes.

Il quadro storico, dunque, è piuttosto pesante. Ma non si ferma qui, perché arriva ai giorni nostri e finisce per riguardare anche Chavez stesso. Come in occasione del fallito golpe dell’aprile 2002, quando Pedro Carmona tentò senza successo di prendere il potere a Caracas.

Al suo fianco, secondo diverse fonti, si muovevano personaggi non estranei ad addestramento militare israeliano, interessati a instaurare un regime amico in un Paese, il Venezuela, membro dell’Opec (organizzazione da sempre monopolizzata da stati arabi e musulmani e verso cui Israele nutre una storica diffidenza).

Il colpo di Stato, però, fallì, e da allora le relazioni israelo-venezuelane conobbero un rapido declino, a cominciare da un accordo militare bilaterale per la revisione e vendita congiunta alla Cina di jet F-16 di produzione statunitense, che fu fatto annullare proprio da… Washington, a cui evidentemente una mano troppo libera di Tel Aviv in America Latina non piace molto.

In seguito a questo episodio, le attenzioni israeliane iniziarono a distogliersi sempre più da Caracas e, fra una polemica e l’altra, si sono via via indirizzate alla vicina Colombia. La quale, per Israele, è da sempre un ottimo cliente sia ufficialmente che… ufficiosamente.

In quest’ultimo ambito rientra infatti l’appoggio logistico, l’addestramento e il rifornimento di armi di cui, sin dalla loro nascita, hanno goduto i tristemente noti paramilitari delle AUC (Autodefensas Unìdas de Colombia), tramite agenzie di sicurezza private come quella dell’ex colonnello di Tsahal Yair Klein (noto mercenario internazionale, implicato a suo tempo nella strage di Sabra e Chatila). Prova incontestabile di questo legame è addirittura un intero capitolo che Carlos Castano, fondatore delle AUC, dedica nella sua autobiografia alla sua formazione israeliana.

All’appoggio agli squadroni della morte si aggiunge, naturalmente, quello proficuo allo Stato colombiano: mitragliatrici Uzi, carichi di munizioni, ma anche materiale molto più sensibile e sofisticato, che dimostrano l’esistenza di un legame ideologico solido fra i due stati, prima ancora che semplici forniture belliche.

Infatti attraverso le sovvenzioni statunitensi del Plan Colombia (ufficialmente destinato a combattere il narcotraffico, secondo certi maliziosi istituito piuttosto per mantenerlo sotto controllo statale…) l’esercito colombiano è anche all’avanguardia per jet, droni senza pilota e sistemi di intelligence (l’ultima contratto in materia è stato assegnato alla compagnia israeliana Global CST per un totale di 10 milioni di dollari).

Nessuna sorpresa che un tale arsenale debba essere di tanto in tanto essere utilizzato sul campo, magari con la scusa dell’onnipresente terrorismo (in Colombia quello delle Farc e dell’Eln).

In realtà il più delle volte la vittima di questi armamenti finisce per essere la stessa popolazione civile colombiana, o addirittura uno stato confinante, proprio come accaduto l’1 marzo scorso con l’impunita violazione della sovranità del vicino Ecuador (anche lì, obiettivo dichiarato un campo oltre confine delle Farc, evidentemente la parola magica “terrorismo” legittima ormai qualsiasi cosa in ogni angolo del mondo).

E ancora, nessuna sorpresa che, in seguito a quello che era stato a tutti gli effetti un atto di guerra contro l’Ecuador, Chavez arrivò a schierare i carri armati sul confine con la Colombia, definendola “Israele dell’America Latina”. Il governo di Bogotà aveva evidentemente ben appreso la politica dell’aggressione a freddo, e delle scuse successive, a fatto compiuto, dai suoi maestri di Tel Aviv.

Per la storia dei rapporti fra Israele e regimi del Centro e Sud America, si consiglia il libro di Jon Lee Anderson “Loose Cannon: On the Trail of Israel’s Gunrunners in Central America”.


Quello che Bersani fa finta di non sapere di Hugo Chávez
di Gennaro Carotenuto - www.giannimina-latinoamerica.it - 10 Luglio 2010

Pierluigi Bersani dovrebbe spiegare cosa ha voluto dire sostenendo il 6 luglio che: «Non vorrei che dopo Berlusconi arrivasse Chávez; o il Parlamento riprende il suo ruolo o non c’è libertà per nessuno» e aggravando tale dichiarazione il 7 luglio affermando: «Quando ieri ho detto che dopo Berlusconi si rischia Chávez mettevo in guardia da questo meccanismo pericolosissimo perché o ribadiamo la democrazia parlamentare o prendiamo un'altra strada, un meccanismo populista incombente».

Vari commentatori, tra i quali Marco Travaglio, hanno avuto gioco facile nell’affermare che Berlusconi sarebbe da 16 anni ben peggiore del presidente bolivariano. Resta veramente triste che il segretario del Partito democratico (come se fosse un Capezzone qualsiasi) prenda Chávez come parametro battutaro dei suoi pregiudizi rispetto ad un’esperienza di governo, pur complicata, che invece farebbe bene a studiare.

Per esempio, in tempi di riforma Gelmini dell’Università, lo sa Bersani che in 10 anni in Venezuela la quota del PIL destinata alla ricerca scientifica è aumentata del 2.300%? Per un paese come l’Italia destinato a lasciare il mondo sviluppato per posizioni di retrovia, il Venezuela chavista sta puntando forte sulla ricerca moltiplicando per 23 gli investimenti.

Sa o non sa che, complici i medici cubani, la mortalità infantile in Venezuela in dieci anni è oggi di un terzo di quanto non fosse al tempo del fondomonetarismo assassino dei Moisés Naím e dei Carlos Andrés Pérez?

Sa o non sa che il Venezuela è il primo donatore umanitario del continente affiancando gli Stati Uniti laddove l’Italia è tra gli ultimi dell’OCSE e il più facilone nel non rispettare i patti? Cosa sa Bersani, un europeista convinto, della forza della politica integrazionista latinoamericana nella quale Hugo Chávez condivide i meriti con leader come Lula o Nestor Kirchner?

Sa o non sa che mentre in Italia la concentrazione mediatica è massima (solo colpa di Berlusconi o anche di chi non si è opposto con la dovuta durezza?) in Venezuela oggi parte del latifondo mediatico è stato redistribuito tra centinaia di media diversi (cosa che porta i monopolisti a denunciare la censura)?

Sa o non sa Bersani che mentre in Italia l’indice Gini che misura la povertà è in crescita in Venezuela i valori stanno da anni letteralmente crollando? Nel 1997 i venezuelani in povertà erano il 61% e quelli in estrema povertà il 29%. Oggi, dopo un decennio di democrazia partecipativa, siamo scesi a 26 e 7% rispettivamente. Le par poco?

Sarebbe facile continuare ricordando che quello che Bersani chiama “populismo” come fosse un marchio d’infamia, per centinaia di migliaia di giovani venezuelani significa per la prima volta nella storia delle loro famiglie la possibilità di accedere a studi universitari, o avere accesso all’acqua potabile, o per gli anziani ottenere una pensione sociale.

Certo con questi dati straordinariamente positivi non si possono negare gli enormi problemi che continuano a pesare sul Venezuela, dall’inflazione alla violenza, dalla sopravvalutazione del bolivar alla corruzione all’ancora lontanissima uscita dalla schiavitù della monocultura petrolifera.

Ma è sicuro Pierluigi Bersani di poter usare come parametro negativo il presidente Chávez per i suoi colpetti di fioretto contro quel politico, Silvio Berlusconi, che da 16 anni sta coprendo di vergogna l’Italia agli occhi di tutto il mondo?