venerdì 25 marzo 2011

Libia update

Una serie di analisi sulla guerra in Libia e le sue conseguenze a livello geopolitico.


La guerra scatenata da Sarkozy è illegittima
di Claudio Moffa - www.claudiomoffa.it - 23 Marzo 2011

I confini labili del diritto internazionale

L’intervento armato in Libia è stato autorizzato dalle Nazioni Unite; è dunque legittimo; l’Italia non è coinvolta in una guerra: questo strano sillogismo – anzi più che sillogismo per alcuni è un dogma - non solo non corrisponde a tutto quello che in questi giorni la gente ha potuto vedere a, ma inoltre non regge dal punto di vista dei principi del diritto internazionale.

Beninteso, il diritto internazionale è sempre stato basato da Grotius in poi su concreti rapporti di forza dai confini labili, e nello stesso tempo l’invenzione di una cosiddetta no fly zone ha alle spalle una consolidata tradizione operativa da parte delle Nazioni Unite che dura da un ventennio.

Eppure in frangenti cruciali come questo, che rischiano di ferire a morte il nostro paese dal punto di vista energetico e migratorio, e di scatenare una conflittualità sempre più estesa provocata da reazioni a catena dallo strappo libico, è opportuno riflettere su tutto quel che non quadra con il sopracitato sillogismo.

Il primo strappo di Sarkozy: via all’azione militare mentre la riunione di Parigi era in corso

Primo punto, l’avvio concreto dell’azione militare. Secondo la ricostruzione del TG1 di qualche giorno fa – e secondo le cronache in diretta nelle ore di svolgimento del vertice di Parigi – la no-fly zone ha preso il via concreto per iniziativa dell’aviazione francese, quando ancora la riunione convocata in tutta fretta da Sarkozy era in corso: mai visto in tutta la storia delle Nazioni Unite che uno Stato prendesse solitariamente una decisione operativa imponendo il fatto compiuto ai partners invitati per definire e implementare con un atto collegiale una risoluzione varata dal Consiglio di Sicurezza, e nel corso della riunione collegiale stessa.

E’ un atto di banditismo internazionale quello compiuto dal Presidente francese, che ha creato un precedente per una gestione successiva della stessa crisi sulla base del fatto compiuto, ultronea rispetto al dettato delle risoluzioni 1970 e 1973: tesa cioè, come da reiterate dichiarazioni di alcuni anche in Italia, a trasformare nei fatti la no fly zone in una guerra d’aggressione contro un paese sovrano, finalizzata non a proteggere i civili ma all’ annientamento del regime di Gheddafi, e chissà, “magari” di Gheddafi stesso.

La no fly zone libica e quella irachena del 1991

Secondo punto: questo spiega la dilagante ribellione al comportamento franco-anglo-americano di attori importanti della crisi, che pure si erano convinti ad accettare o a astenersi sul via libera del Consiglio di Sicurezza: dopo il no cruciale della Germania, l’ Unione africana – un intero continente – la Lega araba, la Russia (vedi la ritrovata uità di intenti tra Medvedev e Putin), e più in sordina la Cina; e poi la Norvegia e le riserve della Turchia membro della NATO e allo stesso tempo in buoni rapporti con altri paesi critici verso la guerra, come il Venezuela il Sudafrica lo Zimbabwe.

Questo fatto deve far riflettere sui limiti e le ambiguità della no fly zone. Quando nel 1991 venne per la prima volta istituita in Iraq, essa venne limitata alle peraltro ampie regioni sciita meridionale e curda settentrionale dove il gravoso dopoguerra aveva lasciato sacche di ribellioni antiSaddam.

Ovviamente nel clima di quei mesi, alimentato dai soliti mass media “finanziari” che ingigantivano e inventavano stragi e relativi numeri – esattamente come hanno fatto nei primi giorni della crisi libica - ci furono iniziative di bombardamento a terra da parte degli “Alleati”, ma in genere in risposta a spari delle contraeree irachene locali: mai dunque in modo massiccio come in questi giorni in Libia; mai contro la regione priva di insorgenze, quella sunnita di Bagdad, sede dell’allora governo, quello di Saddam Hussein; mai soprattutto a Bagdad, perché la guerra era stata dichiarata finita dopo che Bush senior aveva stoppato il generale Schwarkopf mentre marciava verso la capitale irachena con il suo esercito di terra.

In Libia, lo strappo parigino di Sarkozy ha aperto una catena di strappi ulteriori che rischiano di incendiare – fra missili, rischio terrorismo e immigrazione - tutta la prateria euro mediterranea: gli aerei franco-britannici non hanno pattugliato solo i cieli delle regioni sedi effettive di insorgenza, ma qui è là in tutto il paese, compresa Tripoli, compreso il compound di Gheddafi, conciostesso schierandosi militarmente a fianco dei ribelli in armi.

Il conflitto tra Bengasi e Tripoli è un affare interno della Libia

Questo fatto – ecco il terzo punto - è gravissimo. Il conflitto tra Bengasi e Tripoli è una crisi interna alla Libia, paese sovrano e unito al di là dei regimi che lo rappresentano alle Nazioni Unite.

Queste, per quasi mezzo secolo, dalla fondazione del 1945 fino alla fine del bipolarismo hanno sostanzialmente rispettato la teoria del “dominio riservato” degli Stati sovrani – l’interdizione cioè a Stati e enti stranieri di intervenire sul territorio di un altro Stato membro delle Nazioni Unite.

Si possono ritenere non esaustivi o corretti questi criteri e prassi, ma è quel che qui rileva è che prima della fine del bipolarismo, l’ONU - fatte salve le eccezioni “ampie” e consustanziali allo spirito stesso della Carta di san Francisco, delle Colonie e e dei regimi razzisti del Sudafrica e e della Rhodesia - non solo non ha mai preso parte a conflitti interni ai suoi Stati membri, ma anzi ha spesso preso esplicita posizione a favore del governo centrale: dal rifiuto di interferire nella guerra civile greca (1947), alla rigorosa neutralità sulla guerra del Kashmir tra India e Pakistan (1948), via via fino al sostegno al governo di Lagos di fronte al drammatico tentativo degli Ibo del Biafra di separarsi dalla Nigeria (1965) o alla condanna netta del “Fronte di liberazione della Guinea” che nel 1970 aveva cercato di rovesciare Sekou Touré (risoluzione 282/70 che “esige” “il ritiro immediato” dei ribelli.

Le Nazioni Unite insomma hanno sempre condiviso il principio contenuto nell’articolo 2 della sua Carta, di non ingerenza negli affari interni di un paese indipendente.

Eppure il mondo dei due blocchi Est Ovest era lo “stesso” di oggi, con scenari simili a quelli delle tante crisi mediorientali e africane dell’attuale secolo: corruzione, repressione di minoranze, regimi autoritari fino alla dittatura, guerre civili e/o tribali.

Ma la rigidità delle regole era necessaria: il problema era evitare la logica della “legge della giungla”. Forse il caso più emblematico da questo punto di vista è quello del Congo-Zaire, paese multietnico di un continente multietnico, dove i conflitti intestini sono sempre stati numerosi e spesso ad alta conflittualità reciproca: nella guerra civile degli anni Sessanta –ben più truce e drammatica di quella attuale libica – l’opzione delle Nazioni unite fu di contrarietà netta alle “azioni che possano minacciare l’integrità nazionale e l’indipendenza del Congo” (risoluzione 145/1960) e di rifiuto di intervento: “la Forza ONU nel Congo non sarà parte di alcun conflitto interno, costituzionale o di altro tipo, … essa non interverrà in alcun modo in tale conflitto, né sarà utilizzata per influenzarne l’esito” (ris. 146).[1]

Come dire, l’ONU può intervenire ai sensi del capitolo VII della sua Carta, ma non entro gli Stati, ma tra gli Stati. E la concezione classica del Diritto internazionale che si invera nei rapporti interstatuali ma non può riguardare quelli intrastatuali, gli Stati essendo intesi come bocce di biliardo impenetrabili secondo la nota immagine usata spesso dai giuristi internazionalisti.

I “nuovi” principi giuridici della svolta postbipolare

Si dirà, da un punto di vista più “pratico” che prettamente giuridico che la guerra attuale “non può” essere letta con criteri vetusti, che pure hanno avuto il merito di evitare per decenni derive belliche come quelle affermatesi nelle tante e gravissime guerre postbipolari degli ultimi vent’anni.

“Non si può” perché il mondo è cambiato, perché a partire dalle concomitanti crisi-guerre del 1991 in Irak e in Jugoslavia, il diritto internazionale nato con la Carta di San Francisco e consolidatosi per quasi mezzo secolo ha subito degli scossoni notevoli, registrati dalle scuole giuridico-internazionaliste o in forma altamente critica – in Italia Aranjo Ruiz, in Francia Monique Chemillier-Gendreau - o in forma positiva – è il caso di certe nuove tendenze teoriche negli USA, il cui diritto internazionale viene assunto come cangiante (ma che diritto è?) perché se ne accetta la quasi meccanica dipendenza dai nuovi rapporti di forza internazionali degli anni Novanta.

Sono gli anni della “scomparsa” non solo dell’URSS ma anche della Russia dallo scenario internazionale, gli anni della Mosca non più di Gorbaciov ma di Eltisn. Il Diritto internazionale si piega al monopolarismo, nel caso specifico: e non per demonizzazione aprioristica, USA.

Al di là di queste teorie, ecco comunque che nella pratica si affermano nuovi principi-categorie: come una nuova lettura del principio di autodecisione nazionale non più rigidamente ancorato come nella fase della decolonizzazione al solo mondo coloniale [2] , ma supporto “giuridico” di tante insorgenze secessioniste dagli anni Novanta ad oggi negli Stati sovranui membri delle Nazioni Unite: in primis la Jugoslavia, che si disgrega sotto i colpi di frettolose indipendenze apparentemente tali– in realtà gli staterelli post-titoisti contano assai meno nel consesso internazionale di quanto accadeva nella cornice unitaria panjugoslava : e non c’entra qui il carattere socialista del regime di Tito - e apparentemente liberatorie: ma in realtà foriere di massacri senza fine e dunque di odi interetnici destinati a durare per lungo tempo.

I problemi e le pericolose ambiguità del “diritto di ingerenza umanitaria”

O come il “diritto di ingerenza umanitaria”, chiave di volta per permettere a una comunità internazionale senza più equilibri veri, di sfondare le sovranità degli Stati esistenti, non tutti ma attraverso una selezione di fatto sempre e quegli Stati scomodi del mondo con cui peraltro l’Italia – nella scia della grande tradizione euro mediterranea e terzomondista (nel senso migliore di un termine giustamente usato per condannare certa superficialità “buonista” di sinistra o cattolica) di Mattei e dei suoi successori – ha avuto sempre buoni rapporti quanto meno commerciali: l’Iraq, la Jugoslavia, la Somalia e adesso la Libia.

Ovviamente i motivi umanitari possono ben esistere e alle volte esistono davvero, ma – con uno sguardo rivolto anche a quel pensano altri paesi che pesano ormai molto di più che negli anni Novanta: la Russia del discorso di Monaco di Putin del marzo 2008, i nuovi paesi emergenti del Medio Oriente, America Latina e Africa – bisogna fare su tale diritto, che piace anche a sinistra [3], quattro considerazioni:

1) La prima è che nei fatti e non per principio, il diritto di ingerenza umanitaria è è stato applicato a senso unico solo ai nemici di certo oltranzismo occidentale, che pure con le centinaia di migliaia di morti in Iraq o nel Congo occidentale occupato dal Ruanda di Kagame, è ben passibile di essere accusato di “crimini contro l’umanità “: per q uesta sua applicazione selettiva di fatto, è un principio sostanzialmente colonialista.

Contro la lettura buonista e superficiale del terzomondismo, che pensa che tutti gli oppositori al colonialismo erano “buoni”, anche il colonialismo – fenomeno complesso, che ha modernizzato sia pure con l’occhio rivolto ai propri interessi strategici, i paesi conquistati: ha costruite strade e ferrovie, ha introdotto nuove tecniche agricole – aveva i suoi motivi di ingerenza umanitaria: ne valga solo uno, la tratta degli schiavi in Africa orientale che perdurava anche dopo la sua bolizione sulla costa occidentale, gestita da trafficanti arabi criminali e senza scrupoli. Il Sudan di Comboni e di Gordon lo sa bene.

2) La seconda è che un diritto di ingerenza umanitaria negli Stati sovrani, vero e fondato in modo giuridicamente corretto, presuppone un “governo mondiale” effettivo dal punto di vista istituzionale, con regole precise: un governo mondiale esiste, ma è quello assolutamente incontrollato della grande finanza internazionale e delle sue associazioni “informali” (la più nota è la Commissione Trilaterale), che secondo alcuni starebbe dietro a tutte indistintamente le rivolte mediorientali.

Non certo corrisponde, il “governo mondiale”, alla “comunità internazionale” e al Consiglio di Sicurezza di una ONU di cui invano si perora da decenni ormai una riforma: una “comunità internazionale” che peraltro agisce quasi sempre sotto l’effetto del martellamento mediatico dei grandi pool editoriali lobbistici di estensione planetaria.

3) Il terzo punto è proprio questo: il ruolo dei mass media nel condizionare se non determinare di volta in volta scelte disastrose con invenzioni accurate di neologismi (dagli “Alleati” di antinazista memoria nella prima guerra contro l’Iraq fino all’incredibile e ridicolo – se non fosse tragico – “Volenterosi” della guerra contro la Libia), ma soprattutto con invenzioni e esagerazioni di fatti. Dalla Ruder & Finn ingaggiata in Jugoslavia per far passare sui grandi media l’equazione pietosa Milosevic = Hitler, alle stragi inesistenti dei primi giorni della rivolta (peraltro armata) libica, l’analisi e connesse dichiarazioni richiederebbero troppo tempo.

Si può solo dire telegraficamente questo: che, il ruolo del Mass media lobbisti nelle guerre e crisi postbipolari è stato ed è esattamente lo stesso del ruolo della stampa lobbista italiana nel colpo di stato di Tangentopoli dei primi anni Novanta.

Occorrerebbe reagire, al di là delle distinzioni di campo, in quanto ceto politico orgoglioso (sarò ingenuo, ma la speranza è l’ultima a morire) della propria indipendenza e autonomia.

Anche lasciando perdere il passato, la guerra di Sarkozy è illegittima

Quanto detto nel paragrafo precedente non riguarda però il “qui e ora” della illegittimità della guerra scatenata da Sarkozy quattro giorni fa.

Esso serve sì a riflettere che l’insistenza di Gheddafi a non accettare il cessate il fuoco al di là se gli convenga o no, non ha nulla di assurdo ma ha fondamento giuridico: nasce cioè dalla convinzione, che è nella lettera della Carta dell’ONU, che i bombardamenti dei Volenterosi e la sua azione bellica quanto meno terrestre, contro i rivoltosi, non sono atti equiparabili.

La (non) no fly zone, così come implementata e “guidata” da Sarkozy, è illegittima per quanto detto finora; la reazione gheddafista a un tentativo di rivolta armata è invece legittima, e rientra nei canoni classici delle Nazioni Unite, prassi compresa fino alla fine del bipolarismo.

La guerra di Libia inoltre, è sì una cartina di tornasole – come dimostrano le contraddizioni subito emerse nella coalizione, con lo sbando sul problema della direzione dell’azione diimplemenntazione della cosiddetta “no fly zone” – per una riflessione generale sulla crisi del Diritto internazionale postbipolare.

Ma in questi giorni drammatici, quel che conta ai fini di una denuncia dell’illegittimità dell’intera operazione Libia sono quattro elementi di cui abbiamo già parlato: 1) i testi delle due risoluzioni 1790, 1793; 2) l’avvio pratico della guerra attraverso un atto di banditismo internazionale di Sarkozy durante la riunione di Parigi; 3) le modalità successive di presunta applicazione dei dettami stessi delle due Risoluzioni da parte dei cosidetti Volenterosi; 4) il tutto preceduto da una lettura corretta, come fondamento di ogni decisione giuridico-internazionalista, degli avvenimenti in Libia, a cominciare dall’avvio della ribellione bengasina;

Quest’ultimo punto è essenziale per riportare ordine e correttezza – dopo le critiche della vasta schiera di paesi e Organismi regionali contro quel che sta accadendo in Libia, ben oltre le zone di insorgenza – dentro lo stesso Consiglio di Sicurezza: una risoluzione dell’ONU che si basi su quel che raccontano le grandi catene mediatiche lobbiste e i loro megafoni (ivi compresa la stupefacente Al jazira), è l’analogo di una richiesta di rinvio a giudizio sulla base di una ”indagine” su un assassinio in un piccolo paese, svolta da un Maigret cialtrone che come unico atto della sua inchiesta sia entrato nel bar della piazza principale e lì abbia raccolto i pettegolezzi della gente, ubriachi compresi.

Gheddafi ha ripetutamente chiesto ormai da settimane, che le Nazioni Unite inviino una missione di inchiesta in Libia, per verificare i fatti: come è nata la ribellione, fin da subito armata, quali sono i suoi veri obbiettivi, se per caso anche secessionisti al di là della bandiera prescelta e del suo apparente leader, l’ex ministro della giustizia libico Jalil; chi ha bombardato cosa; fino a che punto e attraverso quali canali i ribelli si sono armati; quante sono le vittime civili dei bombardamenti di Gheddafi (che ormai, purtroppo, esistono) e di quelle dei cosiddetti “volenterosi”, e così via.

L’inchiesta dovrebbe essere fatta al più presto per future, più corrette Risoluzioni. Ma fin da subito, di fronte al caos della situazione e fermo restando che la Francia di Sarkozy non ha nessun titolo, ma proprio nessuno, per “guidare” la “coalizione” (cioè, diciamolo pure, per fare quello che gli pare in Libia), il Consiglio di Sicurezza dovrebbe essere riunito d’urgenza, per evitare nuovi strappi nella deriva bellica ormai intrapresa da quattro giorni, e per bloccare in particolare la tragedia di un eventuale intervento via terra, che non solo costituirebbe un precedente gravissimo nel Mediterraneo, ma potrebbe portare a una soluzione alla Kosovo, con una Libia tripartita tra Fezzan “francese”, Tripolitania “inglese” e Tripoli “italiana”: come ai “bei tempi” del colonialismo di guerra degli anni Quaranta.

E’ questo che vuole l’Italia?

NOTE:

[1] Risoluzione del 9 agosto 1960, approvata con 2 astensioni (Francia e Italia).
[2] Come nella prassi dell’ONU sancita dalla storica Dichiarazione sulla concessione dell’Indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali”, ONU, 14 dicembre 1960
[3] Vedi Dominiqye Vidal di le monde diplomatique ai tempi della guerra di Jugoslavia.


Dove va la guerra di Libia?
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 25 Marzo 2011

E’ opinione diffusa, tra gli analisti di politica estera che non indossano l’elmetto, che questa contro la Libia è una di quelle guerre che è già difficile stabilire come siano cominciate, ancor più complicato è prevedere come andranno a finire.

Sono sostanzialmente due gli scenari macro che si propongono: quelli che vedono il regime di Gheddafi mantenere il potere e quelli che vedono invece lui e la sua famiglia abbandonare la Libia, vivi o morti che siano.

In realtà, ognuno di questi scenari ne prevede molti altri, ad aumentare ulteriormente l’incertezza. Proviamo quindi a prefigurarne alcuni, cominciando a leggere i curriculum dei protagonisti in campo.

A differenza delle altre rivolte che negli ultimi due mesi hanno scosso in profondità i regimi arabi, i rivoltosi libici non sono studenti e lavoratori esasperati dalla povertà e dalla mancanza di democrazia che, spontaneamente, prendono le piazze e decretano la fine politica di un regime. La vicenda libica non è questa.

Infatti, l’opposizione libica filo-monarchica non conta con un sostegno popolare diffuso in lungo e largo per il Paese. Li possiamo chiamare insorti, ma sono sostanzialmente la massa di manovra di un colpo di Stato pianificato da Londra e Parigi con il consenso di Washington.

I consiglieri militari di questi paesi, infatti, (aiutati dagli egiziani) hanno addestrato e armato alcune centinaia di persone legate alle famiglie senussite della Cirenaica, storica regione all’opposizione di Gheddafi non solo perché il colonnello caccìò il cirenaico Re Idriss, longa manus inglese in Libia, con il colpo di Stato del 1969, ma anche perché le tribù cirenaiche sono da sempre ostili a quelle della Sirte (da dove viene la tribù di Gheddafi), della Tripolitania e, in parte, del Fezzan.

Il Premier britannico Cameron, del resto, ha svelato tre giorni addietro che le SAS inglesi (reparti d’elite degli incursori di sua maestà) si trovavano in Cirenaica da più di due mesi per organizzare la rivolta.

Sarkozy non è stato altrettanto sincero, ma gli uomini dei suoi servizi d’intelligence hanno persino preceduto gli inglesi. Il che spiega abbastanza lo svolgersi delle operazioni sul campo nei primi giorni della rivolta, quando i rivoltosi sembravano inarrestabili e conquistavano città come in un war-games.

Il fatto che alla guida degli insorti ci siano personaggi con le mani grondanti sangue (come l’ex ministro degli Interni) e che i senussiti abbiano offerto centinaia di combattenti islamici all’Irak e all’Afghanistan, non turba più di tanto i sonni dei sinceri democratici.

Come già avvenne proprio per l’Afghanistan, dove la sconfitta dei sovietici evidentemente valeva l’armare e finanziare quelli che più tardi diventarono in parte i Talebani e in parte l’esercito di Al-queda, quando l’Occidente stabilisce che la convenienza immediata è irrinunciabile, non si preoccupa del futuro che ne verrà.

Combattenti islamici ed ex-militari del regime formano la struttura militare degli insorti. E del resto, a meno di non voler ritenere che in pochi giorni dei civili possano sconfiggere un esercito e spontaneamente combattere e percorrere quasi mille chilometri occupando città, armati di tutto punto, si può più ragionevolmente pensare che questo gli insorti siano truppe al servizio di un colpo di stato concepito a Parigi (precisamente nello scorso Ottobre) e che, per modalità operative, ha attecchito più dalle tecniche di guerriglia insurrezionale che non dalle teorie classiche della presa del potere tramite putch organizzata dai vertici dello stesso.

La rivolta contro Gheddafi ha quindi retroterra, motivazioni e modalità completamente diverse da quelle che ormai quasi ovunque, nel mondo arabo, disegnano la primavera democratica. D’altra parte, la DGSE francese, l’MI-5 e la CIA non distribuiscono armi e addestramento militare per beneficienza.

Già da ora gli insorti dichiarano riconoscenza eterna per chi li ha aiutati (Francia e GB) ed è facile immaginare come questa verrà erogata. Il fatto di prestarsi a divenire un paese occupato non è motivo d’imbarazzo: fino alla fine di re Idriss la Libia era un’estensione coloniale inglese.

La risoluzione, è ovvio ormai, è diventata infatti la coperta legale per chi ritiene di dover abbattere il regime di Gheddafi tramite una coalizione internazionale che elimini il rais e faccia della Libia il prossimo protettorato di Francia e Gran Bretagna.

Il petrolio libico, di ottima fattura perché meno solforoso e quindi meno necessario di alcuni processi di raffinazione, è l’obiettivo ormai nemmeno occulto delle smanie di Sarkozy e Cameron.

Quarantaquattro miliardi di barili di greggio e i nuovi giacimenti di gas nella Sirte valgono qualunque "effetto collaterale". E le royalties più alte per le compagnie straniere sono l'essenza di ciò che s'intende per "intervento umanitario".

Tutto quanto detto proprio per delineare un quadro meno propagandistico circa l’ansia di libertà e democrazia dei rivoltosi, pur senza nulla togliere all’odiosità di un regime dinastico che è stato tutto e il contrario di tutto, alleandosi con amici divenuti nemici, tradendo ed essendo a sua volta tradito dalle mille piroette che ha effettuato per mantenersi a galla nel corso degli ultimi 30 anni.

Sia chiaro: il fatto che la Libia abbia goduto di un sistema di distribuzione orizzontale dei proventi del petrolio, che abbia avuto il sistema di welfare più avanzato e la minore incidenza dell’integralismo islamico, è certamente un merito dell’esperimento politico del gheddafismo, ma non può nascondere un sistema di dominio imperniato su una persona e la sua famiglia che non ha esitato davanti a nulla per perpetrare il suo comando assoluto sul Paese.

E anche a livello internazionale non è andata meglio: dopo aver finanziato ogni leader occidentale, nel tentativo di accaparrarsene i favori (scelta non proprio lungimirante, si direbbe), le sue politiche di espansione in Ciad e il suo tentativo di rappresentare la guida politica dell’OUA sono stati fallimenti sonori, anche per il ruolo regionale che la megalomania di Gheddafi aveva immaginato.

Mentre invece, per quanto attiene al ruolo di “tappo” nei confronti dei flussi migratori verso l’Europa, il regime libico, con il trattamento riservato ai migranti, ha scritto le sue pagine peggiori in termini di diritti umani.

Questi i protagonisti interni al Paese. Ma se proviamo ad allungare lo sguardo in prospettiva, possiamo immaginare come la dinamica possibile nell’evoluzione del confronto militare sul campo preveda, appunto, due scenari.

Il primo vede un sostanziale stallo della situazione, dovuto ad una più misurata azione bellica della Nato causa proteste internazionali diffuse che chiedano l’applicazione corretta della Risoluzione Onu e non l’ennesima guerra coloniale per il riassetto degli equilibri energetici dell’area.

La stessa Russia - che, come la Cina e gli altri paesi astenutisi al Palazzo di Vetro - non avrebbe nulla in contrario a vedere la fine del rais libico, non potrebbe assistere silente davanti a una vera e propria conquista coloniale del gas e del petrolio libico che modificherebbe sensibilmente lo stoccaggio di risorse di Francia e Gran Bretagna, rendendo così meno strategico il flusso energetico russo.

E comunque, se nelle prossime settimane la Nato non avesse ragione del regime libico, le cose si complicherebbero notevolmente: le polemiche interne al blocco occidentale e la posizione di alcuni dei 28 paesi Nato (tra cui Germania, Turchia e Norvegia) renderebbero il quadro complicato.

Lo sforzo bellico e finanziario (cento milioni di euro a settimana) sarebbe ingente e in una situazione internazionale controversa non sarebbe semplice gestire gli eventi a medio-lungo termine. A oggi, almeno, non pare.

In questa situazione Gheddafi potrebbe tentare di rimanere in sella. A quale prezzo per l’Occidente, però? Diverrebbe l’icona del mondo arabo che lo vedrebbe come colui che ha sconfitto i nuovi crociati.

Insomma, tutto quello che il rais ha sempre sognato di essere senza aver mai potuto diventarlo. Sarebbe un colpo gravissimo persino per il ruolo della Nato e il suo proporsi come garante dell’ordine internazionale.

Beneficiari di questa soluzione sarebbero sostanzialmente Russia e Cina (e, in qualche misura, l’Iran), verso i quali, per inevitabile vendetta, Gheddafi potrebbe indirizzare forzieri e rubinetti, condotte del gas e finanze, con conseguente alterazione del quadro economico complessivo nell’area di riferimento.

Il secondo scenario vede invece la sconfitta del rais. E qui ci sono solo due vie d’uscita: la prima è quella che lo vede in esilio da qualche parte, il che gli cucirebbe addosso un’immagine devastante, peggiore di quella pur pessima di cui ha sempre goduto.

Alla prima ipotesi sembra che ci si stia lavorando con alcuni uomini dell’entourage del Colonnello, ma non può essere escluso che queste informazioni siano prodotto della propaganda di guerra.

Nel caso però fossero veritiere e si concretizzassero, per il rais libico sarebbe il cupio dissolvi. Altro che icona della resistenza: ridotto a vegetare in un esilio dorato, diverrebbe oggetto di barzellette in tutto il mondo arabo. Forse sarebbe peggio che morire.

Nel secondo caso, invece, può prevedersi la sua morte sul campo, raggiunto da un Tomawack che, comunque, lo eleverebbe al rango del capitano che muore sul ponte della nave, lasciando agli arabi l’ennesima icona di una resistenza sconfitta: un altro Saddam, insomma. Diverso sarebbe, per lui e l’immagine che ne passerà alla storia, se venisse eliminato direttamente dal suo stesso entourage.

Sempre nell’ambito delle ipotesi possibile per la fine di Gheddafi c’è poi un’altra possibilità, che è quella della sua cattura da parte di un reparto d’elite Nato che, esattamente come avvenne con Saddam, approfittò della taglia sulla sua testa che spinse alcuni suoi uomini di fiducia a tradirlo. In questo caso, un biglietto di sola andata per Washington non glielo toglierebbe nessuno.

La tappa successiva, dopo che la Cia se lo fosse lavorato a fondo, sarebbe l’Aja, per celebrare il trionfo ipocrita dell’Occidente democratico che processa i dittatori. Solo quelli che non gli servono però, gli altri se li tiene stretti. Questo epilogo rappresenterebbe un ottimo colpo propagandistico per l’Occidente e la discesa nell’indifferenza generale per Gheddafi.

E comunque nel caso, come che avvenga, dell’uscita di Gheddafi dalla Libia, certamente si apre una nuova era. Per la Libia, certo, e per l’Occidente. La Libia non sarà facile da governare: atteso che appare improbabile la presenza di un corpo d’occupazione (modello Kossovo) per “costruire le condizioni d’instaurazione della democrazia” (elegante eufemismo per dire che si saccheggia e si dirige dove e come si vuole il paese occupato), il Paese sarebbe spaccato in 3 o 4 parti, dal momento che la sua identità sociale più profonda - e quindi anche politica - è rappresentata dalle Tribù più importanti.

Dal momento che delle 140 tribù che vivono in Libia solo una parte accetterebbe la presenza internazionale occupante, è possibile che prenda vita un’opposizione che, in prospettiva, potrebbe prendere a modello quella algerina, che sconfisse le truppe francesi d’occupazione.

Ma anche senza arrivare alla prefigurazione di questo scenario, è possibile immaginare come la divisione del paese per regioni porterebbe la Libia ad assomigliare alla Somalia. Con la differenza che “i signori della guerra” somali qui sarebbero le tribù libiche.

In questo contesto, l’alleanza di Francia e Gran Bretagna con le tribù della Cirenaica, avrebbe due effetti: da un lato quello di rinforzare nel breve-medio periodo i senussiti; dall’altro quello di coagulare nel lungo periodo tutte le altre tribù della Tripolitania, Sirte e Fezzan contro i cirenaici.

Perché sebbene le principali tribù abbiano scaricato Gheddafi, questo non comporta minimamente che tra loro siano poi disposte a trovare un'accordo equilibrato. Secoli di inimicizia non si compongono per volere della Total o della BP.

E' chiaro che l’obiettivo di francesi e inglesi è quello di riuscire nel breve a volgere verso i loro interessi le risorse energetiche e finanziarie libiche, riducendo al minimo il ruolo dell’Italia e ridisegnando così la mappa di approvvigionamento energetico interno alla stessa Europa e ristabilendo anche una gerarchia politico-militare in ambito Nato e Ue.

Ma oltre alla necessità (non semplice da attuarsi) per Parigi e Londra di organizzarsi consensualmente la spartizione del bottino, appare difficile riproporre nel terzo millennio un protettorato stile Porto Rico sulle sponde del Mediterraneo.

Più probabilmente, le truppe anglo-francesi dovranno tentare di condizionare dall’esterno le nuove alleanze con il nuovo regime libico. Sempre che, naturalmente, riescano a formarlo.


Non siamo soli nell'universo
di Gianluca Freda - http://blogghete.altervista.org/ - 23 Marzo 2011

Fra tante brutte notizie, la guerra in Libia ci porta, di tanto in tanto, anche qualche piccola soddisfazione. Quest’oggi, tra le buone notizie reperite sul web che appendo in bella vista sulla mia bacheca nell’incessante ricerca di eventi gaudiosi per cui valga ancora la pena di vivere, c’è questo articolo del Daily Mail .

In esso veniamo informati come tra le prime vittime della guerra di Libia e delle pantegane che l’hanno organizzata nei minimi dettagli e poi scatenata, vi siano proprio i coglioni che l’hanno appoggiata con gioia, accogliendo i ratti di fogna con gran sventolìo di bandierine stellate e strisciate. Cito dal testo dell’articolo:

“Sei abitanti di un villaggio libico sono stati ricoverati in ospedale dopo essere stati colpiti con armi da fuoco da alcuni soldati americani intervenuti in soccorso di piloti americani il cui aereo si era schiantato in un campo vicino. L’elicottero di soccorso ha iniziato a sparare subito dopo essere atterrato in un campo a poca distanza da Bengasi, accanto all’aereo F-15E Eagle della US Air Force che aveva avuto problemi durante i bombardamenti della scorsa notte.

Un manipolo di abitanti del luogo, venuto a congratularsi con i piloti, è stato colpito dalle raffiche. Tra essi, un bambino cui dovranno probabilmente essere amputate le gambe a causa delle ferite provocate dai proiettili. Si tratta delle prime vittime accertate dell’operazione alleata. L’editore internazionale di Channel Four, Lindsey Hilsum, ha confermato le vittime civili.

L’equipaggio dell’aereo da combattimento era riuscito a salvarsi miracolosamente dopo un sospetto guasto meccanico verificatosi durante la terza notte di bombardamenti sulle postazioni militari del Col. Gheddafi. Secondo l’Evening Standard, uno dei piloti, vistosi circondato dai locali, ha sollevato le braccia gridando “okay, okay”.

Ma i libici, colmi di gratitudine, si sono messi in fila per ringraziarlo e offrirgli da bere. Younis Amruni racconta al giornale: “L’ho abbracciato e gli ho detto: ‘Non aver paura. Noi siamo grati a questi uomini che proteggono il cielo”. L’aereo, con base a Lakenheath nel Suffolk, era decollato da Aviano, in Italia, ma era poi precipitato mentre sorvolava Bu Mariem, circa 24 miglia a est di Bengasi.

I rottami dell’aereo verranno recuperati o distrutti dagli americani, per impedire che cadano nelle mani di Gheddafi, mentre i piloti sono stati visitati da un medico nella roccaforte ribelle, prima di essere trasportati su una nave americana. L’esercito americano ha confermato lo schianto di un Air Force F-15 Strike Eagle in Libia, ma afferma che esso non è stato abbattuto [no, no, e chi ha mai detto una cosa simile, NdT], mentre Vince Crawley, portavoce dell’Africa Command, ha detto che i piloti sono riusciti ad espellersi prima dello schianto, riportando solo ferite lievi. Dopo aver valutato le reazioni degli abitanti della zona, la Hilsum ha dichiarato: “I libici non sembrano risentiti, vogliono ancora che le forze della coalizione proseguano con le operazioni”.

Non so dire quanto di quest’ultima dichiarazione corrisponda ai reali sentimenti dei bifolchi del luogo e quanto di essa sia invece propaganda delle forze armate. Non mi meraviglierei se si trattasse della pura verità.

E’ noto – e io lo ripeto spesso – che non c’è verso di far rinsavire una collettività di idioti. Più l’ideologia d’accatto che ottenebra le loro menti li prende a cazzotti nel muso, più implorano nuove e più possenti batoste.

Torna alla memoria un film di Tim Burton di qualche anno fa, cinico e meravigliosamente educativo, Mars Attacks. In esso, i marziani invadono la Terra e i terrestri, anziché lanciargli addosso un centinaio di bombe atomiche, come la prudenza e la ragione consiglierebbero, li accolgono a braccia aperte facendo sfoggio di tutta la retorica, tutto il buonismo, tutta l’ideologia zuccherosa e melensa, tutta la vanvera sulla “democrazia” e sulla “fratellanza dei popoli” di cui la specie umana è capace quando gli dà davvero di volta il cervello.

I marziani, ovviamente, sghignazzano in faccia ai terrestri e li massacrano a grappoli, sbigottiti ed esilarati dinanzi a cotanta decerebrazione parolaia.

Alla fine, l’unica cosa in grado di distruggere gli extraterrestri sarà quella stessa melassa buonista portata ai suoi livelli più letali e insostenibili, sotto forma delle insopportabili canzonette d’amore di Slim Whitman.

L’Italia intera avrebbe molte cose da imparare dal film di Tim Burton. Ad esempio, tra poco più di un mese saremo costretti a celebrare il 66° anniversario di quella che chiamiamo la nostra “liberazione”.

Ora, a me vengono in mente molte nazioni che sono state sconfitte, distrutte e qualche volta umiliate dagli Stati Uniti d’America.

Ma non riesco a ricordarne nessuna ridotta a tali livelli di sguatteraggio da essere costretta addirittura a celebrare, con apposita festività nazionale, la propria sconfitta, rovinosa e umiliante; e a chiamarla pure “liberazione”, tra gli sghignazzi dei roditori alieni da cui è stata conquistata.

La reazione dei bifolchi di Bengasi di fronte ai “liberatori” che li prendono a mitragliate, in qualche modo mi conforta: è probabile che ben presto non saremo più soli in questa manifestazione grottesca di vergogna terminale.

Oppure: mi vengono in mente molte nazioni che, nel corso della storia, si sono avventurate in guerre rischiose, inseguendo litanìe ideologiche e slogan propagandistici di diversa imbecillità. Ma non avevo mai visto una nazione avviarsi, intonando i peana ideologici della “libertà” e della “democrazia”, in un conflitto il cui scopo dichiarato è quello di ledere i suoi interessi nazionali.

La fanteria italica della logorrea libertaria marcia spedita, sotto la frusta dei suoi capi, verso la devastazione dei suoi interessi energetici, verso l’ignominia diplomatica internazionale, verso la rinuncia alla sua area naturale d’interesse geostrategico.

E non – si badi bene – nell’interesse dei suoi despoti, verso i quali, com’è comprensibile, la resistenza potrebbe costare cara; bensì nell’interesse dei suoi concorrenti di zona, di altri sguatteri di pari livello che hanno avuto l’intelligenza di calare meno le brache, conquistandosi così, se non il rispetto, almeno la prima fila nelle razzie banditesche che seguiranno alla battaglia.

I capi puniscono severamente le ribellioni dei servi, ma disprezzano con altrettanta forza la loro mancanza di dignità.

Eppure le fanfare ideologiche dell’armata di lavapiatti risuonano squillanti, tra blàtere di “autodeterminazione dei popoli” e sputazzi di “dittatori da rovesciare”. Il morale della truppaglia è alto.

Forse perché essa si muove sulle note dell’aria che le è più congeniale, quella della pugnalata alle spalle ai danni di un vicino che le aveva garantito, nel tempo, appalti energetici vantaggiosi, commesse milionarie per le sue aziende piccole e grandi, contributi al pattugliamento delle sue coste contro l’immigrazione incontrollata.

Si fa fatica a comprendere il tripudio con cui quest’armata di lemming si dirige verso l’abisso che scruta esultante dinanzi a sé. Solo l’antico apologo esopico dello scorpione e della rana riesce a fornirci qualche illuminazione in merito.

Ricordo di aver letto da qualche parte che, durante il periodo della tratta degli schiavi, i negrieri statunitensi erano soliti tagliare i piedi ai prigionieri che tentavano di fuggire. Ma non avevo mai sentito parlare di negri che si tagliassero i piedi da soli per poi dividerne i resti, con pavida imparzialità, tra gli aguzzini e i compagni di deportazione.

Per quanto mi sforzi, non rammento culture sulla faccia di questo pianeta che abbiano mai praticato costumanze di simile, delirante squallore. Gli italiani non appartengono a questo mondo: sono extraterrestri. Ed è rincuorante apprendere, grazie alla dabbenaggine suicida dei bifolchi di Bengasi, che non siamo soli in questo universo.


Libia, come i servizi francesi prepararono la rivolta
di Miguel Martinez - http://kelebeklerblog.com - 23 Marzo 2011

L’attacco alla Libia ha probabilmente molte cause, che non conosceremo finché non potremo leggere le carte segrete; e quando potremo leggere le carte segrete, non gliene importerà più niente a nessuno, come avviene oggi con il Vietnam.

La nostra ipotesi – non la verità, la nostra ipotesi - è che l’attacco alla Libia sia in buona parte quello che la buonanima di Lenin avrebbe chiamato un conflitto inter-imperialista.

In sostanza – le grandi imprese italiane, fortemente appoggiate dal governo, hanno investito fortemente in Libia; e la Libia ha garantito l’energia che manda avanti la famosa Azienda Italia. Che poi è quella che permette al centrodestra di sopravvivere elettoralmente.

Per farlo, le aziende italiane hanno accettato condizioni molto favorevoli al governo libico, creando problemi seri alle aziende francesi. E queste ultime hanno un rapporto storico con uno Stato ben più serio di quello italiano.

Sia chiaro, se gli imprenditori francesi decidono di scippare quelli italiani, la cosa non ci fa soffrire particolarmente, e non tifiamo minimamente per i secondi. Però, più che tifare, a noi interessa capire.

Mentre l’Italia poteva permettersi il lusso di tifare per gli attacchi all’Iraq o all’Afghanistan, qui per la prima volta dovrà pagare un prezzo altissimo; e i primi a doverlo pagare saranno gli imprenditori italiani.

Da qui, una conseguenza assolutamente sorprendente. Certo, ci sono voci isolate di sinistra contro la guerra; ma la vera opposizione, dovuta a cause molto materiali, proviene dalla base del centrodestra, e viene cavalcata dalla Lega e dal quotidiano Libero.

Franco Bechis è un giornalista di Libero che fa da guardia del corpo mediatico di Silvio Berlusconi.

Lo fa però documentando le contraddizioni e le meschinità degli avversari del barzellettiere nazionale, e quindi presenta spesso materiali interessanti per chi, come noi, considera con lo stesso disprezzo gli esponenti di entrambe le fazioni.

Basandosi su documenti dei servizi francesi e su un articolo della newsletter (a pagamento) Maghreb Confidential, Bechis racconta la storia di Nouri Mesmari, capo del protocollo di Gheddafi, fuggito in Francia dove lavora con il Dsge - i servizi segreti francesi – alla preparazione di una curiosa spedizione mista di imprenditori e militari francesi a Benghasi. La delegazione incontra a Benghasi Abdallah Gehani, un colonnello dell’aeronautica che avrebbe poi preparato la rivolta libica.

Bechis racconta poi degli incontri tra Mesmari, il Dsge e i futuri dirigenti della rivolta…

Noi non crediamo, in genere, che una singola pista o una singola serie di incontri spieghi realtà enormi come una guerra.

Ma Franco Bechis presenta comunque un’interessante documentazione per una futura ricerca sulle vere cause di questa guerra: come sempre, noi ci troviamo già in guerra, prima ancora di sapere perché.


Sarkozy manora la rivolta libica

di Franco Bechis - www.libero-news.it - 23 Marzo 2011

Prima tappa del viaggio. Venti ottobre 2010, Tunisi. Qui è sceso con tutta la sua famiglia da un aereo della Lybian Airlines Nouri Mesmari (nella foto sopra), capo del protocollo della corte del colonnello Muammar El Gheddafi. È uno dei più alti papaveri del regime libico, da sempre a fianco del colonnello.

L`unico- per capirci- che insieme al ministro degli Esteri Mussa Koussa aveva accesso diretto alle residence del raìs senza bisogno di bussare.

L`unico a potere varcare la soglia della suite 204 del vecchio circolo ufficiale di Bengasi, dove il colonnello libico ha ospitato con grandi onori il premier italiano Silvio Berlusconi durante le visite ufficiali in Libia. Quello sbarco a Tunisi di Mesmari dura poche ore. Non si sa chi incontri nella capitale dove ancora la rivolta contro Ben Ali cova sotto le ceneri.

Ma è ormai certo che proprio in quelle ore e in quelle immediatamente successive Mesmari getti i ponti di quella che a metà febbraio sarebbe diventata la ribellione della Cirenaica.

E prepara la possibile spallata a Gheddafi cercando e ottenendo l`alleanza su due fronti: il primo è quello della dissidenza tunisina. Il secondo è quello della Francia di Nicholas Sarkozy.
Ed entrambe le alleanze gli riescono.

Lo testimoniano alcuni clamorosi documenti della Dgse (direzione generale della sicurezza estera), il servizio segreto francese e una clamorosa serie di notizie fatte circolare in ambienti diplomatici francesi da una news letter loro dedicata, Maghreb Confindential (di cui esiste una versione sintetica e accessibile a pagamento).

Mesmari arriva a Parigi il giorno successivo, 21 ottobre. E da lì non si muoverà più. In Libia non ha nascosto il suo viaggio in Francia, visto che si è portato dietro tutta la famiglia. La versione è che è a Parigi per delicate cure mediche e probabilmente per un`operazione. Ma di medici non ne vedrai mai nemmeno uno. Quel che vedrà invece ogni giorno sono funzionari del servizio segreto francese.

La riunione

Sicuramente ai primi di novembre sono visti entrare all`Hotel Concorde Lafayette di Parigi, dove Mesmari soggiorna, alcuni stretti collaboratori del presidente francese Sarkozy. Il 16 novembre c`è una fila di auto blu fuori dall`hotel. Nella suite di Mesmari si svolge una lunga e fitta riunione.

Due giorni dopo parte per Bengasi una strana e fitta delegazione commerciale francese. Ci sono funzionari del ministero dell`Agricoltura, dirigenti della France Export Cereales e della France Agrimer e manager della Soufflet, della Louis Dreyfus, della Glencore, della Cani Cereales, della Cargill e della Conagra.

Una spedizione commerciale, sulla carta, per cercare di ottenere proprio a Bengasi ricche commesse libiche. Ma nel gruppo sono mescolati anche militari della sicurezza francese, travestiti da business man.

A Bengasi incontreranno un colonnello dell`aereonautica libica indicato da Mesmari: Abdallah Gehani. È un insospettabile, ma l`ex capo del protocollo di Gheddafi ha rivelato che è disposto a disertare e che ha anche buoni contatti con la dissidenza tunisina.

L`operazione è condotta in gran segreto, ma qualcosa giunge agli uomini più vicini a Gheddafi. Il colonnello intuisce qualcosa. Il 28 novembre firma un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mesmari.

L`ordine viene trasmesso anche alla Francia attraverso i canali protocollari.

I francesi si allarmano, e decidono di eseguire formalmente l`arresto.

Quattro giorni dopo, il 12 dicembre, viene fatta filtrare la notizia proprio da Parigi. Non si indica il nome, ma si rivela che la polizia francese ha arrestato uno dei principali collaboratori di Gheddafi. La Libia si tranquillizza sulle prime. Poi viene a sapere che Mesmari è in realtà agli arresti domiciliari nella suite del Concorde Lafayette. E il raìs comincia ad agitarsi.

La furia del raìs Quando arriva la notizia che Mesmari ha chiesto ufficialmente alla Fancia asilo politico, Gheddafi si infuria fa ritirare il passaporto perfino al suo ministro degli Esteri, Mussa Kussa, accusato di responsabilità nella defezione e nel tradimento di Mesmari.

Poi prova a inviare suoi uomini a Parigi con messaggi per il traditore: "torna, sarai perdonato". Il 16 dicembre ci prova Abdallah Mansour, capo della redio-televisione libica. I francesi però lo fermano all`ingresso dell`Hotel. Il 23 dicembre arrivano altri libici a Parigi. Sono Farj Charrant, Fathi Boukhris e All Ounes Mansouri.

Li conosceremo meglio dopo il 17 febbraio: perché proprio loro insieme ad Al Hajji guideranno la rivolta di Bengasi contro i miliziani del colonnello.

I tre sono autorizzati dai francesi a uscire a pranzo con Mesmari in un elegante ristorante sugli Champs Elysèe. Ci sono anche funzionari dell`Eliseo e alcuni dirigenti del servizio segreto francese.

Tra Natale e Capodanno esce su Maghreb Confidential la notizia che Bengasi ribolle (in quel momento non lo sa nessuno nel mondo), e perfino l`indiscrezione su alcuni aiuti logistici e militari che sarebbero arrivati nella seconda città della Libia proprio dalla Francia.

Oramai è chiaro che Mesmari è diventato la levain mano a Sarkozy per fare saltare Gheddafi in Libia. La newsletter riservata su Maghreb comincia a fare trapelare i contenuti della sua collaborazione.

Mesmari viene soprannominato " Libyan Wikileak", perché uno dopo l`altro svela i segreti della difesa militare del colonnello e racconta ogni particolare sulle alleanze diplomatiche e finanziarie del regime, descrivendo pure la mappa del dissenso e le forze che sono in campo.

A metà gennaio la Francia ha in mano tutte le chiavi per tentare di ribaltare il colonnello. Ma qualcosa sfugge. Il 22 gennaio il capo dei servizi di intelligence della Cirenaica, un fedelissimo del colonnello, generale Aoudh Saaiti, arresta il colonnello dell`aeronautica Gehani, il referente segreto dei francesi fin dal 18 novembre.

Il 24 gennaio viene trasferito in un carcere di Tripoli, con l`accusa di avere creato una rete di social network in Cirenaica che inneggiava alla protesta tunisina contro Ben Ali. È troppo tardi però: Gehani con i francesi ha già preparato la rivolta di Bengasi.


Il possibile successore di Gheddafi

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 24 Marzo 2011

Dopo aver incontrato Sarkozy e la Clinton, Mahmoud Jibril è stato nominato ieri capo del governo provvisorio dei ribelli libici

Il Consiglio nazionale dei ribelli libici ha nominato ieri un governo di transizione guidato da Mahmoud Jibril, il distinto signore ricevuto con tutti gli onori da Sarkozy all'Eliseo lo scorso 10 marzo e incontratosi pochi giorni dopo con la Clinton.

Questo anonimo tecnocrate sessantenne, finora sconosciuto alle cronache, è stato per anni l'uomo chiave di Washington e Londra all'interno del regime del Colonnello Gheddafi.

In qualità di direttore dell'Ufficio nazionale per lo sviluppo economico (Nedb) del governo libico, Jibril lavorava per facilitare la penetrazione economica e politica angloamericana in Libia promuovendo un radicale processo di privatizzazione e liberalizzazione dell'economia nazionale.

Dopo aver studiato e insegnato per anni 'pianificazione strategica e processi decisionali' nell'università statunitense di Pittsburgh, Jibril ha trascorso la sua vita a predicare il vangelo neoliberista in tutti i paesi arabi, per poi dedicarsi al suo Paese natale alla guida del Nedb, organizzazione governativa creata nel 2007 su impulso di "aziende di consulenza internazionali, prevalentemente americane e britanniche".

Dai cablogrammi inviati a Washington dall'ambasciata Usa a Tripoli emerge il lavoro di lobbying che Jibril ha svolto negli ultimi quattro anni nel tentativo di convincere il regime di Tripoli - in particolare il figlio del colonnello, Said al-Islam - ad adottare radicali riforme economiche, a potenziare i rapporti economici con gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna), congelati da decenni, e a formare una nuova classe dirigente filo-occidentale. Un lavoro che all'inizio sembrava promettente, ma che alla fine è stato bloccato da Gheddafi.

Un cablo del novembre 2008 rende conto di come Jibril suggerisca agli Usa di stare attenti alla "crescente competizione" per le risorse petrolifere libiche da parte di Europa, Russia, Cina e India, osservando che nei prossimi anni la Libia diverrà ''più preziosa'' in ragione delle sue riserve petrolifere ancora non sfruttate.

Il capo del Nedb invita Washington ad approfittare delle future privatizzazioni libiche per investire anche in infrastrutture, sanità e istruzione, e a formare giovani libici nelle università Usa.

Non stupisce che, in un successivo cablo di fine 2009, l'ambasciata americana Usa a Tripoli descriva Jibril come "un interlocutore serio che sa cogliere la prospettiva Usa".


E se i buoni non fossero così buoni?
di Maurizio Matteuzzi - Il Manifesto - 24 Marzo 2011

Uno scenario troppo semplificato che può riservare sorprese

I buoni contro i cattivi, i nostri contro i loro, il 7° cavalleggeri contro gli indiani. Una semplificazione molto televisiva per un caso molto complicato. Il cattivo non può essere che Gheddafi.

Il suo ruolo se l'è guadagnato di diritto in 40 anni di potere assoluto, abusi ed eccessi, bizzarrie ed eccentricità (anche se non tutto quello che ha fatto è stato una schifezza).

I buoni sono i ribelli di Bengasi (ribellarsi è giusto), i «rivoluzionari del 17 febbraio» che hanno strappato a Gheddafi tutto l'est libico, l'indocile Cirenaica. Quelli che quasi tutti fin dall'inizio hanno chiamatio i «civili» (così da accreditare la guerra giusta dell'Onu).

«Civili», ma non come quelli del boulevard Bourghiba di Tunisi, della piazza Tahir del Cairo, della Piazza della perla di Manama. Dalle stesse immagini tv i «civili» di Bengasi sono miliziani armati di tutto punto, con tank e contraerea capaci di abbattere aerei governativi e pilotare jet da combattimento.

Sono loro che, una volta conclusa la guerra umanitaria dell'Occidente e liquidato finalmente Gheddafi, saranno la nuova Libia.

Ma chi sono «loro», i buoni del film? E come sarà la nuova Libia post-gheddafiana e quindi, presumibilmente, democratica, rispettosa delle libertà civili e dei diritti umani, etc, etc?

La Libia è un boccone troppo appetitoso e la fretta degli umanitari (guidati dal triste clown Napoleone Sarkozy) a correre in suo soccorso è un po' sospetta. E lo Yemen? Il Bahrein? E la Birmania, perché no la Birmania? E perché no la Palestina? (La Palestina perché no e basta, si capisce.)

La scommessa dell'Occidente umanitario è a scatola chiusa. E rischiosa. Perché i ribelli «civili» di Bengasi, ancorché (per ora) sconosciuti, hanno un documentato curriculum di fondamentalismo islamico, armato e militante (quindi anti-occidentale), o, al contrario, i volti più conosciuti, non sono quel che si dice una garanzia.

Dice Massimo Introvigne, rappresentante dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta contro razzismo, xenofobia e discriminazione: «Si conoscono alcuni nomi di capi di origine tribale che sembrano in posizioni di forza nel cosiddetto governo provvisorio di Bengasi, il Consiglio nazionale libico.

Si sa per esempio che il suo segretario è Mustafa Mohammed Abud al Jeleil, che fino al 21 febbraio era il ministro della giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty international nella lista dei più efferati responsabili di violazioni dei diritti umani del Nord-Africa».

L'altro uomo forte dei ribelli «civili» di Bengasi è «il generale Abdul Fatah Younis, già ministro dell'interno di Gheddafi e prima capo della famigerata polizia politica del regime»... Personaggi, conclude Introvigne, che «non sono "i sinceri democratici" dei discorsi di Obama, ma alcuni tra i peggiori arnesi del regime di Gheddafi, che aspirano a cacciare il colonnello per mettersi al suo posto».

Arnesi riciclati del gheddafismo che saranno spazzati via dai «giovani rivoluzionari» e dai vecchi democratici sopravissuti al gheddafismo? Forse. Speriamo.

Ma è un fatto che la Libia, e l'est della Libia, risultano essere il primo esportatore al mondo pro-capite (ovvero in rapporto alla popolazione) di cambattenti e «martiri» («suicide bomber», leggi kamikaze) in Iraq.

Di più di quelli venuti da qualsiasi altro paese arabo-islamico e anche dall'Arabia saudita, culla di Bin Laden e dei terroristi dell'11 settembre,

Questi dati non vengono da Gheddafi, che per sua comodità attribuisce la rivolta dell'est a al Qaeda, ma dal Combating Terrorism Center di West Point, dal data base del Pentagono e dai cablo diffusi (ieri) da Wikileaks.

I dati di West Point e del Pentagono si basano sui «Sinjar documents», trovati dalle forze Usa nell'ottobre 2007 in un raid in questa località al confine Iraq-Siria, e dipingono uno «scenario allarmante» sui ribelli libici di Bengasi e Derna.

Dei 700 jihadisti, la cui entrata in Iraq è stata «censita» (per nazionalità) fra il 2006 e 2007, il 19% veniva dalla Libia, in particolare da Derna (il 60%) e Bengasi (24%) che vantano molti «Afghan veterans» fra le loro fila.

Derna è la prima fonte di jihadisti in Iraq, 52 contro i 51 di Ryadh (ma la città della Cirenaica ha 80 mila abitanti, la capitale dell'Arabia saudita 4 milioni), seguite da Mecca e da Bengasi. Anche fra i kamikaze censiti i «martiri» libici sono i primi, 85% contro il 56% degli altri.

Stesso scenario dipinto dai cablo di Wikileaks: l'est libico come terreno fertile per il radicalismo islamico. E Vicent Cannistraro, ex capo della stazione Cia in Libia, sostiene che fra i ribelli ci sono molti «estremisti islamici capaci di creare problemi» e che sono «alte le probabilità che gli individui più pericolosi possano avere influenza nel caso dovesse cadere Gheddafi». Auguri.



La sinistra italiana e l'incomprensione dell'imperialismo
di Domenico Moro - L'ernesto - 25 Marzo 2011

Fino ad ora, il movimento per la pace è rimasto praticamente senza voce di fronte alla guerra contro la Libia. Anche la sinistra non è stata all’altezza.

Perché? La ragione principale sta nel fatto che chi ha scatenato la guerra, cioè gli Usa, la Gran Bretagna e la Francia, sono riusciti a mettere al centro dell’attenzione mondiale un uomo, il colonnello Gheddafi.

La “storia” che si è venduta all’opinione pubblica mondiale è quella di un dittatore, al potere da ben quaranta anni, e del suo popolo, che chiede democrazia e libertà, e che per questo viene massacrato. Si è persino parlato di genocidio. L’accettazione acritica di questa versione ha disarmato la sinistra o almeno ne ha indebolito le motivazioni.

Ed anche se i massacri di civili si sono rivelati, dopo un po’, perlomeno dubbi, a sinistra ci si è sentiti in imbarazzo a prendere le parti di un “dittatore”, scervellandosi su come contrastare la guerra e nello stesso tempo difendere la “rivoluzione democratica” libica.

Se la “storia” raccontata dai mass media occidentali è stata venduta così efficacemente è stato anche grazie al contesto in cui i fatti libici si sono inseriti, ovvero la cosiddetta rivoluzione democratica araba, che si sarebbe affermata in Tunisia e in Egitto. Su questo, però, bisogna fare chiarezza.

In Egitto e in Tunisia non si è verificata alcuna rivoluzione. In primo luogo, la rivoluzione non è il rovesciamento di un uomo, ma di un sistema di rapporti di potere, politici ed economici.

In secondo luogo, in Egitto si è solo iniziato un processo potenzialmente rivoluzionario, che corre il rischio di essere volto a favore di forze reazionarie. Come ha rilevato Samir Amin, in Egitto Mubarak è stata dimissionato dall’esercito egiziano e dagli Usa, che hanno mantenuto ben salda la loro presa sul paese africano.

Anzi, l’esercito, con l’avallo Usa, ha permesso ai Fratelli musulmani e all’ex partito di Mubarak di conseguire un grosso risultato tattico con la vittoria al referendum di modifica della Costituzione, che ha segnato invece la sconfitta di tutti quelli che erano per il no, i partiti della sinistra, il movimento democratico, quello operaio e la minoranza copta, fatta oggetto di veri e propri pogrom negli ultimi mesi.

La vittoria del sì apre la strada ad elezioni immediate, che la sinistra e il movimento democratico non sono in grado di affrontare, e quindi all’affermazione dell’ex partito di Mubarak e dei Fratelli musulmani.

Questi ultimi, che sono finanziati dall’Arabia Saudita, sono stati per l’occasione accreditati dagli Usa come moderati, ma moderati non sono come provano le vicende relative ai copti.

Sempre l’Arabia Saudita, dittatura familiare e retrograda nonché migliore alleato arabo degli Usa, ha invaso il Bahrein, reprimendone i moti popolari. Ma su questo massacro di civili la propaganda occidentale non ha avuto niente da eccepire, forse perché in Bahrein c’è la base della V flotta Usa.

Quanto accaduto in Libia nell’ultimo mese ha pochissimo a che spartire con il movimento democratico d’Egitto e Tunisia. Bocca ha affermato su “il manifesto” che i ribelli libici sono degli sconosciuti.

In effetti, se facciamo attenzione sono meno sconosciuti di quanto sembri. Innanzi tutto, in Libia non c’è un movimento democratico e tanto meno un movimento operaio e partiti e sindacati di sinistra.

La direzione del movimento anti Gheddafi è passata immediatamente alla rivolta armata, dando luogo ad una guerra civile. Inoltre, la dirigenza ribelle è quantomeno infarcita di elementi che hanno fatto la loro esperienza militare di combattenti jihadisti in Iraq ed in Afghanistan.

Basti leggere l’articolo del Sole24ore del 22 marzo, “Noi ribelli, islamici e tolleranti”, dove si intervista il comandante ribelle di Derna, catturato nel 2002 dagli americani a Peshawar mentre era in fuga dall’Afghanistan.

Solo con un grande sforzo di immaginazione si può pensare che la rivolta libica esprima valori democratici e di libertà, avendo invece radici nel separatismo tribale e nell’islamismo estremista tradizionali della Cirenaica.

Secondo un documento, circolato nelle ultime settimane a Whashington, tra i combattenti jihadisti in Afghanistan i libici della Cirenaica erano uno dei gruppi nazionali maggiormente rappresentati.

Non a caso alcuni settori della loro dirigenza – il segretario alla difesa Robert Gates al primo posto - sono stati scettici fin dall’inizio verso l’intervento militare.

Perché allora nonostante tutto gli Usa hanno premuto per intervenire in Libia? L’obiettivo in tutto il Medio Oriente è, in primo luogo, eliminare qualsiasi soggetto politico indipendente o potenzialmente pericoloso per la ridefinizione di un assetto di controllo Usa ed Europeo su di un’area che vale le maggiori riserve energetiche del mondo.

Se questo significa appoggiarsi ad elementi islamici, come i Fratelli musulmani e i ribelli libici, e dargli la patente di moderati, non importa. Del resto, dai talebani, usati contro l’URSS, in poi, gli Usa non si sono mai fatti scrupolo di usare l’estremismo islamico.

Ad ogni modo, i rischi di un intervento in Libia sono agli occhi statunitensi ampiamente compensati non solo dal petrolio e dal gas libico sui quali mettere le mani. Soprattutto, sono compensati dal fatto che la Libia è fondamentale da un punto di vista geostrategico, perché è la porta che mette in collegamento Mediterraneo e Africa sub-sahariana.

Qualcuno ricorda le guerre in Ciad degli anni ’80, nelle quali la Francia combatté contro il colonnello? Se la Francia è al primo posto nei bombardamenti è non solo perché spera di insediare le sue multinazionali petrolifere in Libia al posto dell’Eni, ma anche perché vuole rilanciare il suo ruolo nelle sue ex colonie dell’Africa sub-sahariana.

L’obiettivo strategico degli Usa è, quindi, il controllo dell’Africa, che da alcuni anni è l’ultima frontiera di una rinnovata competizione per le materie prime tra le vecchie potenze colonialistiche e gli Usa, da una parte, e la Cina e l’India dall’altra.

Non a caso in Africa, nel 2008, gli Usa hanno costituito il loro ultimo comando regionale, “AFRICOM”, che oggi dirige i bombardamenti sulla Libia. Obiettivo di questa guerra è eliminare il colonnello, ma solo perché è condizione necessaria per la distruzione della Libia come entità statuale indipendente.

La guerra di Libia, la sua prima guerra, è il capolavoro di Obama. Mentre Bush ha agito unilateralmente, Obama, gettando il sasso e nascondendo la mano, ha mandato avanti la Francia e la Gran Bretagna e ha ottenuto la risoluzione “storica” dell’Onu “a difesa dei civili libici”.

Una risoluzione votata nel giorno in cui un aereo senza pilota Usa uccideva quaranta civili in Pakistan, notizia praticamente ignorata dai media.

Del resto, al contrario di quanto promesso in campagna elettorale, Obama non ha chiuso Guantanamo, non si è ritirato dall’Iraq, nel quale mantiene 48mila soldati, ha triplicato il numero dei soldati in Afghanistan, ha bombardato 117 volte nel 2010 in territorio pakistano (815 vittime accertate) e 19 volte nel 2011 (104 morti). Ma forse bombardare i civili degli altri è permesso.

Il premio Nobel per la pace non solo non ha chiuso le guerre di Bush, ma ne ha aggiunta un’altra. Una bella dimostrazione del funzionamento della “democrazia” Usa, che mantiene una sostanziale continuità di linea politica senza il bisogno di affidarsi ad alcun “dittatore”.

Il fatto è che non c’è cambiamento di persona che tenga, se il sistema rimane quello che è, cioè un capitalismo finanziario decadente e pertanto sempre più fondato sulla forza militare.

Quella in atto in Libia è una guerra tipicamente imperialista, cioè una guerra per il saccheggio delle risorse mondiali. Ed è tipicamente imperialista anche perché è una guerra per la spartizione delle ricchezze mondiali tra gli imperialismi e le potenze mondiali.

Infatti, a farne le spese è l’imperialismo più debole, quello italiano, che rischia di essere estromesso dalla sua principale fonte di rifornimento energetico e che, con l’Eni, ha probabilmente commesso l’errore di flirtare troppo con la Russia e con Gazprom, cui stava aprendo la via del petrolio libico.

Ma debole, a proposito di imperialismo, non vuol dire meno aggressivo, come dimostra la fregola di partecipare ai bombardamenti per non farsi escludere dalla spartizione della torta.

Il punto vero col quale si scontra la capacità della sinistra di reagire correttamente a quanto avviene è la mancata comprensione dell’imperialismo come sistema economico, politico e militare, il cui obiettivo è il dominio e non la libertà.

E la mancata percezione che non c’è proporzionalità tra la dittatura esercitata dal “tiranno” di volta in volta nel mirino della macchina propagandistica occidentale e la dittatura esercitata dall’imperialismo col sistematico saccheggio delle risorse mondiali e con la sua immane potenza distruttiva.

Ne è dimostrazione evidente la tempesta di fuoco scaricata dalle navi e dagli aerei occidentali sulle città libiche, ben oltre il mandato dell’Onu e l’istituzione di qualunque no-flying-zone, tanto da sollevare le proteste anche della Lega Araba tutt’altro che favorevole a Gheddafi.

Del resto, il messaggio doveva essere chiaro a tutti, comprese Russia e Cina, che troppo tardi si sono accorte dell’errore dell’astensione in Consiglio di sicurezza dell’Onu. È grottesco che molti tra i “difensori della pace” nostrani non si rendano conto che in Libia i massicci bombardamenti occidentali uccidono più popolazione di quanto abbia fatto la guerra civile fino ad ora.

L’imperialismo Usa ed europeo in Medio Oriente ed in Nord Africa non sta aiutando alcun “risorgimento” arabo, al contrario sta cercando di affossarlo, dall’Egitto al Bahrein, schierandosi con i regimi e le forze sociali e politiche più retrive. La guerra in Libia si inserisce in tale tendenza ed è per questo che opporsi all’intervento è fondamentale.


Guerre bugie e videoclip
di Marcello Sordo - Megachip - 24 Marzo 2011

La guerra civile in Libia è stata anticipata e accompagnata da una mole di informazioni false o prive di riscontri, da creare molti interrogativi. Il ruolo dei Media mainstream e delle nuove tecnologie di comunicazione in geopolitica, nonché negli orientamenti sociali e culturali, ha assunto un rilievo tale da influenzare gli avvenimenti.

Per meglio comprendere il rapporto tra Media ed equilibri internazionali, è necessario ricercare le connessioni tra notizie ed eventi, quanto le prime siano influenzate dalle diplomazie e quanto, di conseguenza, influenzino l'opinione pubblica.

Pare di assistere, dagli anni '90, a copioni che si ripetono per rappresentare i conflitti. Alcune parole chiave sostengono il lessico giornalistico e generano paure collettive o scetticismo verso i mezzi d'informazione, per cui la vittima finale è il senso di veridicità della notizia, finalizzata più a evocare irrazionali emozioni che non a esporre i fatti.

L'articolo allegato, “Guerre, bugie e videoclip”, propone un'analisi comparata tra le guerre e le rivoluzioni degli ultimi venti anni e lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione: dalla Prima Guerra del Golfo alla strage sulla nave di aiuti umanitari Mari Marmara diretta a Gaza, dalle rivoluzioni colorate al risveglio dell'orgoglio arabo in Piazza Tahrir, dalle reti televisive embedded al web.

Scritto prima della risoluzione che autorizza la No fly zone, l’articolo prova a indagare l'attività mediatica dal “giorno della collera” in Libia. Per comprendere la genesi, prima del precipitare degli eventi, che ha contratto le possibilità di mediazione, portando l'Italia in guerra e gettando la Sinistra nello scompiglio, dalle pagine de «il manifesto» al Parlamento Europeo.

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GUERRE BUGIE E VIDEOCLIP


Corsa agli armamenti, la Russia (dopo la Libia) suona la carica
di Manlio Dinucci - il Manifesto - 25 Marzo 2011

Missili intercontinentali, balistici e da crociera, sottomarini nucleari: s'allunga la lista della spesa di Putin

Quella contro la Libia, che il presidente Napolitano definisce non una guerra ma un'operazione dell'Onu, sta già provocando un pericoloso «effetto collaterale».

Il primo ministro russo Vladimir Putin, premesso che quello libico non è un regime democratico e che la situazione è resa complessa dalle relazioni tribali, ha definito due giorni fa la risoluzione del Consiglio di sicurezza una sorta di chiamata medioevale a una crociata per giustificare un'aggressione dall'esterno, col pretesto di difendere i civili.

Ha quindi detto che - dopo gli attacchi aerei Usa contro Belgrado, poi contro l'Afghanistan e l'Iraq e ora contro la Libia - questa sta divenendo una «tendenza stabile nella politica statunitense». E ha concluso: «Ciò conferma che la Russia fa bene a rafforzare le sue capacità di difesa».

Alle parole sono seguiti subito i fatti. Ieri il ministero russo della difesa ha annunciato che doterà quest'anno le forze strategiche di altri missili intercontinentali, 36 balistici e 20 da crociera, e di altri due sottomarini nucleari.

Con uno stanziamento pari a 665 miliardi di dollari per il 2011-2020 saranno acquisiti: 5 veicoli spaziali, 21 sistemi di difesa missilistica, 35 bombardieri, 109 elicotteri da attacco, 3 sottomarini nucleari e una unità di superficie. Nel 2013 gli scienziati russi svilupperanno un nuovo missile balistico intercontinentale con base a terra e la produzione di missili sarà raddoppiata con un investimento pari a 2,6 miliardi di dollari.

Saranno in particolare sviluppati i missili balistici per i sottomarini d'attacco nucleare. Quest'anno verranno effettuati altri test del missile Bulava, che sarà installato sui nuovi sottomarini strategici della classe Borey.

Un singolo sottomarino può lanciare 16 missili nucleari, con gittata di 8-10mila km, ciascuno dei quali rilascia fino a 10 testate multiple indipendenti. Ha quindi una capacità distruttiva quasi pari a quella del sottomarino Usa della classe Ohio, armato di 24 missili Trident a testate multiple.

Il Bulava, come il missile balistico con base a terra da cui deriva, è progettato per forare lo «scudo anti-missili» che gli Usa stanno sviluppando a scopi offensivi (darebbe loro la capacità di neutralizzare la ritorsione dopo aver colpito per primi): con le navi da guerra contro la Libia hanno schierato nel Mediterraneo le prime unità della componente navale dello «scudo», le lanciamissili Monterey e Stout. Il Bulava può rilasciare false testate per evitare i missili intercettori.

La guerra contro la Libia sta dunque provocando una accelerazione nella corsa agli armamenti nucleari. Soprattutto perché essa viene usata dal Pentagono quale banco di prova per armamenti strategici, come i bombardieri stealth B-2 Spirit da attacco nucleare che, partendo dagli Stati uniti, vanno a colpire gli obiettivi in Libia con armi non-nucleari, esercitandosi così, in una azione bellica reale, a un eventuale impiego in una guerra nucleare. In tal modo il nuovo trattato Start tra Usa e Russia, appena ratificato, viene nei fatti vanificato.



All'Onu nasce l'asse dei Bric, nuovo avversario degli Usa
di Federico Rampini - La Repubblica - 25 Marzo 2011

Brasile, Russia, India e Cina guidano la pattuglia dei non interventisti. Per la prima volta i paesi emergenti si sono dati una linea comune sulla politica estera. E fanno proseliti

Brasilia-Mosca-Delhi-Pechino: è un quadrilatero del nuovo ordine mondiale, il club della "non-interferenza", la vera novità di questa prima settimana di intervento militare in Libia. Ieri al Consiglio di sicurezza dell'Onu le loro critiche alla no-fly zone hanno lanciato un messaggio al mondo arabo: esiste un'altra sponda, rispetto all'America e ai suoi alleati europei.

Considerato come il presidente dell'èra post-atlantica, dotato di una visione autenticamente globale anche per motivi biografici, Barack Obama ha già contribuito a disegnare una nuova realtà della politica internazionale.

Purtroppo per lui, è una realtà che nasce senza e contro gli Stati Uniti, come un'alternativa all'"ordine dell'Occidente". Sono i Bric: le iniziali di Brasile, Russia, India, Cina.

È una sigla nata da anni nel mondo dell'economia e della finanza, per designare le quattro maggiori potenze emergenti (oggi abbondantemente emerse). Per la prima volta, è sulla Libia che il club economico si è fatto alleanza diplomatica. Prefigura un'alternativa alla coalizione che faticosamente Obama ha messo insieme sotto il cappello della Nato.

Ad aprile si terrà un vertice dei Bric che sarà ospitato in Cina, nella città di Sanya. Per la prima volta a quel summit i quattro grandi non-occidentali parleranno non più soltanto di commercio e finanza, energia e valute, ma anche di politica estera. È una rottura gravida di conseguenze, se i Bric decidono di usare il proprio peso economico trasformandolo anche in leva diplomatica.

Tra loro siedono due potenze politico-militari "storiche" dotate del diritto di veto nel Consiglio di sicurezza Onu - Russia e Cina - ma anche due candidati a entrare come nuovi membri permanenti nel Consiglio quando passerà la riforma dell'Onu: India e Brasile. Delhi e Brasilia sono la prima e la quarta democrazia del mondo per popolazione.

Hanno evidenti affinità di valori con l'Occidente, come ha sottolineato Obama nel suo viaggio appena concluso in Brasile. La neopresidente Dilma Roussef, nell'accogliere Obama ha rivendicato orgogliosamente il diritto del suo paese a entrare nel Consiglio di sicurezza con lo status di Vip e il diritto di veto, ma non ha concesso un millimetro sulla no-fly zone.

Sulla Libia il club è stato compatto, senza distinguo. Tutti e quattro i nuovi big si sono astenuti sulla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza. E appena le operazioni militari sono iniziate, è partita una bordata di critiche. "Si rischia un disastro umanitario", è l'avvertimento dei cinesi. "Sento un linguaggio da nuova crociata", ha rincarato il premier russo Vladimir Putin.

Gli americani hanno tentato di minimizzare le critiche russo-cinesi. "Nulla di nuovo sotto il sole", è la prima reazione di Washington. Sulla posizione di Mosca si è fatto notare il bisticcio tra Putin e Medvedev, preludio di una campagna elettorale per la presidenza, dove Putin giocherà la carta del nazionalismo anti-occidentale mentre Medvedv incassa dagli Usa la promessa di un ingresso nel Wto.

In quanto alla Cina, gli americani hanno attribuito le sue denunce a "ipersensibilità interna sull'ingerenza nel rispetto dei diritti umani".

A Pechino - questa è l'analisi degli Usa - la classe dirigente vive con nervosismo l'onda delle rivoluzioni antiautoritarie nel mondo arabo, teme il contagio, perciò disapprova l'intervento Onu in favore dei popoli che si ribellano contro i propri regimi.

Tuttavia il linguaggio dei cinesi - "ecco la terza guerra dell'Occidente contro il mondo islamico, e un'altra guerra per il petrolio" - ha fatto breccia anche in Turchia, un membro della Nato, il cui premier all'inizio dell'intervento militare ha usato parole molto simili ai cinesi.

E poi c'è l'India, la grande democrazia visitata da Obama a novembre, quando il presidente americano appoggiò con forza la "promozione" di Delhi a membro permanente del Consiglio Onu.

"Nessuno può arrogarsi il diritto di cambiare i regimi di altri paesi", ha ammonito il ministro delle Finanze e presidente della Camera di Delhi. "Va rispettata la sovranità e l'integrità territoriale della Libia", gli ha fatto eco l'ambasciatore indiano all'Onu.

Il club dei Bric fa nuovi proseliti come il Sudafrica: che aveva appoggiato la no-fly zone ma ora si associa alle critiche sulla sua applicazione. La loro scommessa: nel nuovo assetto che emergerà dalle convulsioni del mondo islamico, c'è posto per un'alternativa all'abbraccio dell'Occidente.