mercoledì 9 marzo 2011

A crazy world

Una serie di articoli che evidenziano la totale follia che domina le menti di chi ha in mano le leve del potere, a qualsiasi livello, in questo XXI secolo.


Al-Qa’ida, si sgretola anche il "brand"
di Alessandro Cisilin - Il Fatto Quotidiano - 8 Marzo 2011

A denunciare l’“ombra di Al-Qa’ida” nelle situazioni di violenza e di insurrezione sono rimasti solamente il colonnello Gheddafi e il ministro Maroni, con l'eco di qualche reporter filogovernativo inchiodato alla “guerra al terrore” lanciata nel 2001.

Eppure sono passati ormai sette anni dal corposo documentario della Bbc (“The Power of Nightmares”, premiato anche a Cannes), che dimostrò l’insussistenza della rete terroristica aldilà di una cerchia risicata di uomini vicinissimi a Osama Bin Laden, ammesso che – dato tutt’altro che scontato stando anche a fonti di intelligence – egli stesso sia ancora in vita.

Allo scetticismo di allora fece seguito una progressiva e pressoché unanime presa di coscienza tra gli analisti circa la “crisi di Al-Qa’ida”, documentata dalla crescente disaffezione dell'opinione pubblica musulmana nei sondaggi di tutto il mondo, nonché dal calo degli attentati al di fuori dei contesti bellici in Afganistan e Iraq.

Chi insiste a mantenere in vita il mito fa leva sulla formula della “struttura decentralizzata”, non più solo in fase operativa, ma anche in quella decisionale. Una specie di “brand”, dunque, o poco più.

Le schedature ufficiali lo confermano.

Il Pentagono, nell'ultimo aggiornamento del novembre scorso, elenca quarantasette “organizzazioni terroristiche” nel mondo; tra queste, non una ma quattro porterebbero il nome di Al Qa’ida (quella “originaria” nell'Asia del Sud, “in Iraq”, “nella Penisola Arabica”, “nel Maghreb Islamico”), smentendone così la natura unitaria e la stessa architrave tracciata dai suoi ideologhi, ovvero l'orizzonte (inedito nella storia) di un “Califfato” unitario.

Quella scomposizione risulta poi territorialmente generosa, dato che ad esempio Al Qa’ida per il Maghreb agisce nella sola Algeria, sconfinando tuttalpiù nelle aree desertiche del Sud.

Ancor più fragile appare la geografia delineata dall'Unione Europea con un elenco, sostanzialmente inchiodato al 2002, che mette insieme centinaia di sigle di movimenti radicali (ma anche di società e call center, con tanto di indirizzi e numeri di telefono, in particolare tra Afganistan e Pakistan, Somalia e Dubai), associandoli tutti “ad Al Qa’ida e ai talebani”, nonostante le esplicite prese di distanza degli interessati.

Eloquente è proprio il caso del Libyan Islamic Fighting Group, ritenuto l'epicentro dell'estremismo islamico a Tripoli, nonché dei più efferati attentati nell'area incluso quello a Gheddafi nel '96.

Esserne membro implica dieci anni di reclusione nella legislazione antiterrorismo britannica, mentre la Libia, dopo averne incarcerati un centinaio, li ha quasi tutti rilasciati negli ultimi tre anni nel tentativo di placarne la minaccia eversiva.

La loro associazione al qa'idismo era stata desunta nelle cancellerie occidentali (e nella lista nera nell'Onu) dalle origini nell'attività antisovietica a fianco dei mujaheddin afgani.

Eppure, quando il braccio destro di Bin Laden al-Zawahiri ne dichiarò nel 2008 l'affiliazione, venne sommerso da una catena di smentite, inclusa quella di uno dei leader storici del movimento, Noman Benotman, che ha poi rigettato l'idea stessa della “jihad violenta”, ritenuta “contraria all'interpretazione sunnita dell'Islam” alla quale dice di ispirarsi Al Qa’ida.

Curiosamente, lo stesso Benotman, sospettato perfino di aver architettato la strage di Lockerbie nell'88, oggi lavora per l'antiterrorismo di Londra. E cosa rimane allora di Al Qa’ida? Da quel che risulta, alcune centinaia di uomini impegnati a fianco dei talebani nelle aree sud-asiatiche contese con l'Isaf.

Null'altro che una “base” militare, dunque, come indica l'etimo arabo, che semplicemente combatte dove c'è la guerra. Una base lontanissima, geograficamente e ideologicamente, dalle piazze del Nordafrica, oltre che dall'Islam.


Libia, le armi di Obama
di Christian Elia - Peacereporter - 7 Marzo 2011

Gli Usa chiedono aiuto all'Arabia Saudita per sostenere i ribelli

Quando il gioco si fa duro, una telefonata a Riad torna sempre buona. Questa almeno la tesi di Robert Fisk, l'inviato del quotidiano britannico The Independent, uno dei massimi conoscitori del grande gioco mediorientale.

Fisk lo scrive oggi: "Nel tentativo di evitare un coinvolgimento diretto in Libia, Washington ha chiesto all'Arabia Saudita di fornire armi ai ribelli per consentire loro di lottare ad armi pari contro il regime di Gheddafi". La risposta non dovrebbe essere negativa, visto che Riad dipende dagli Usa per la sua stessa sopravvivenza.

La famiglia reale saudita è in grande difficoltà. L'Iran le contende la supremazia regionale, con una lotta che non è solo politica ma anche religiosa. Preminenza sunnita, preminenza sciita, con le due potenze simbolo dell'una e dell'altra comunità musulmana a giocare sporco senza esclusione di colpi.

La minoranza sciita in Arabia Saudita è in fermento e, venerdì prossimo, sono previste nuove manifestazioni per chiedere riforme della monarchia saudita e maggior rispetto dei diritti della minoranza sciita (pari a circa il venti per cento della popolazione) e la liberazione di alcuni leader arrestati dalla polizia politica di Riad nei giorni scorsi.

Nonostante i problemi dinastici, nessuno teme in Arabia Saudita che la minoranza sciita abbia davvero qualche chance di rovesciare il regime, ma di destabilizzarlo si. Con il Bahrein in fiamme (proprio perché gli sciiti - che sono maggioranza - non tollerano più il regime della monarchia sunnita) e l'Iran alle porte, a Riad si armano fino ai denti.

Ecco perché, prendendo per buone le previsioni di Fisk, Riad non dirà no a Washington. Un rifiuto potrebbe comportare, in futuro, una rappresaglia diplomatica e di forniture militari ai sauditi, che non possono permetterselo. Sarebbe un sollievo per Washington, visto che l'amministrazione Obama è sempre più pressata dall'opinione pubblica interna e internazionale.

La no-fly zone, per impedire ai caccia del colonnello Gheddafi di bombardare i rivoltosi, è complicata. Ha ragione Robert Gates, che se ne intende. Per istituirla serve prima un bombardamento a tappeto che Obama e i suoi, all'insegna del nuovo corso in politica estera statunitense, vedono come fumo negli occhi.

Anche l'inazione, però, è mal digerita negli Usa. L'aiuto dei sauditi risolverebbe molti dubbi negli Usa, senza impelagare troppo gli statunitensi.

Non è, però, che un rimandare il problema. Il regime di Gheddafi, dopo lo sbandamento iniziale, sta dimostrando una capacità di tenuta notevole. Al punto che, negli ultimi due giorni, ha rilanciato la sua offensiva fuori Tripoli.

La rivolta, per ora, è in stallo e il fronte si sta solidificando a Sirte. Questo significa che, prima o poi, ci sarà la battaglia decisiva. E Obama non potrà chiedere ai sauditi di agire al posto di Washington in eterno.

Bisognerà, invece, aspettare la fine di tutto questo per saperne di più sulle armi che i ribelli hanno in mano fin dai primi giorni. La vulgata vuole che alcuni militari si siano, da subito, uniti ai rivoltosi garantendogli l'accesso ai depositi dell'esercito. Può essere, ma quella della rivolta in Libia è una storia tutta scrivere, a cominiciare dal finale.


Conti falsi sulle stragi, verso le stragi "umanitarie"
di Piero Pagliani - Megachip - 7 Marzo 2011

Avete letto che un diplomatico britannico è andato a negoziare con i ribelli libici e che questi non hanno capito e gli hanno arrestato la scorta militare? Può sembrare una comica, ma il significato è chiaro: in Libia sono già attivi militari delle potenze occidentali.

E che dire di quell'elicottero olandese militare con tre marines a bordo catturato dai governativi in Libia (è però ormai politicamente corretto chiamarli spregiativamente “miliziani”), con armi e, pare, soldi? Era lì per evacuare personale.

Carino: un elicottero armato olandese che pensa di aver diritto di entrare impunemente in un Paese sovrano senza permesso. Ma l’Olanda non è il Paese della Shell?

E che dire del fatto che fonti diplomatiche a Islamabad hanno rivelato da una settimana che in Libia sono già presenti centinaia di “consiglieri militari” di USA, Francia e UK?

E i 200 morti di ieri per la riconquista di Zawiya («strage nella folla» secondo il «Corriere della Sera»), che gli stessi portavoce dei ribelli riducono a 50 e che un medico libico del posto dice essere ancora meno, 30?

E la confusione aumenta se uno dei pochi giornalisti occidentali sul posto, un reporter di Sky News, dice “forse una decina”.

Dovrebbero essere più sicuri gli almeno trenta morti dovuti all’esplosione di un deposito di munizioni a Rajma, poco fuori Bengasi. I ribelli parlano di un bombardamento aereo, ma gli aerei non li ha visti nessuno.

Infine si rimane perplessi a vedere “fosse comuni” che sono fosse singole. C’è chi sostiene che si tratti proprio del cimitero di Tripoli. Io non lo so, ma anche se non mi fa un gran piacere pensarla come Carlo Giovanardi, ho comunque un’altra immagine delle fosse comuni.

Non so a voi, ma a me tutto ciò ricorda le balle sulle armi di distruzione di massa di Saddam. O più ancora le “fosse comuni” di Ceaucescu a Timişoara con migliaia di corpi appena ammazzati che poi una commissione d’inchiesta internazionale ha stabilito essere circa duecento cadaveri, precedenti la “rivoluzione” e ammassati lì da altre parti per far scena contro il tiranno romeno.

Che despota è stato veramente, ma che diavolo di rivoluzione popolare è mai quella che si conclude con la fucilazione del despota e della moglie da parte dei suoi stessi complici?

E come non ricordare «il più grande genocidio dopo Auschwitz», come sosteneva Walter Veltroni? I 200.000 civili albanesi uccisi dai cattivi Serbi, che una commissione OSCE ha poi ha stabilito essere 2.000, di cui molti soldati jugoslavi ammazzati dai tagliagole dell’UCK.

Il Veltroni che spingeva ad abboccare alle notizie false che ci trascinavano alla guerra del Kosovo è lo stesso solerte Veltroni che ora denuncia: «Perché nessuno - scrive - scende in piazza al fianco dei patrioti libici? Se non ora, quando?».

Di fronte al prepararsi della prossima guerra umanitaria, una guerra coloniale di Libia a cent’anni esatti dalla prima, di fronte alle menzogne spudorate che ci stanno ammorbando, non è possibile stare in silenzio.

La Marina da guerra statunitense si sta già posizionando nel Mediterraneo e centinaia di marines sono pronti ad imbarcarsi.

Sono preoccupati i presidenti dell’America Bolivariana e i loro alleati, da Hugo Chávez a Evo Morales. E lo è il vecchio Fidel Castro.

Ma lo siamo anche noi.

Siamo preoccupati di un possibile “intervento umanitario” di una potenza che esprime Segretari di Stato democratici che dicono in televisione che 500.000 bambini iracheni morti sono “un prezzo giusto”.

E siamo preoccupatissimi perché noi verremo trascinati in questo intervento.

Siamo allora preoccupati da una sinistra che si indigna per Ruby ma che non ha nulla da dire per le disperate madri irachene, forse perché anche le loro lagrime sono un prezzo giusto, e meno che meno per le centinaia e centinaia di migliaia di vedove irachene e afgane e ora anche pakistane grazie ai droni di sua santità il Nobel per la Pace, Barack Obama.

Una sinistra che sembra pronta ad appoggiare l’ennesima “guerra umanitaria”, contando sul fatto che martellati dalla propaganda gli Italiani rubricheranno a semplice peccato veniale il fatto che l’Italia sia stata seconda ai soli Stati Uniti nelle missioni aeree sulla Serbia. Un peccato che si può perdonare per gridare contro i presunti (e ormai smentiti) bombardamenti degli altri.

Che dire? La situazione fa quasi più ribrezzo che non paura.

Ma in poco tempo l’angoscia potrebbe sopravanzare tutto.

E’ ora di prevenire le guerre preventive di ogni tipo.


La deriva occidentale
di Eduardo Zarelli - Arianna Editrice - 8 Marzo 2011

La società dello spettacolo. Così Baurillard descriveva decadi fa lo scenario sociale, culturale e politico della tarda modernità occidentale. Le acrobazie dell’oggi sulle sponde del Mediterraneo, se non fossero di sostanza tragica, rimanderebbero più efficacemente all’arte circense, all'italica commedia dell'arte.

La transizione internazionale avviatasi nel 1989, dalla caduta del muro di Berlino, è sfaccettata, complessa e non terminata per definizione. Sul ruolo egemonico statunitense però non vi sono dubbi di sorta. Differenti sono solo i giudizi di valore in merito, spacciati per oggettività scientifica, in realtà pure asserzioni ideologiche.

Una ideologia non dichiarata, per questo unilaterale, pervasiva, trasversale che ha caratteri propagandistici e intolleranti in nulla difformi dai tentativi storici di omogeneizzare la società di massa in un pensiero unico, acritico, funzionale ai meccanismi sociali autoreferenziali del potere.

Mettendo in fila gli episodi che collegano la guerra alla Jugoslavia, le due guerre irachene e quella afghana ancora in corso, svolte dalla comunità internazionale sulla spinta della volontà d’affermazione planetaria occidentale, l’11 settembre 2001 appare come un semplice drammatico acceleratore di velocità degli avvenimenti, con un tale repertorio di falsità e strumentalizzazioni, che a destra come a sinistra è difficile distinguere al peggio. Dittature che all’occorrenza divengono amiche o nemiche.

Guerre preventive non dichiarate, poi ricomposte e metabolizzate in quel comitato d’affari che è l’Organizzazione delle Nazioni Unite, dove il diritto internazionale appare come la molla di una bilancia sbalestrata dai dieci pesi e le mille misure.

Dall’ossimoro della “guerra umanitaria” progressista, all’aggressività delle “guerre democratiche”, cioè di conquista dei “nuovi conservatori”, quello che accomuna il pensiero dominante è l’universalismo, il determinismo storico, l’etnocentrismo, il sentimento di superiorità materiale e quindi redenzione morale occidentale.

Pacificatori guerrafondai e pacifisti dell’ingerenza bombardiera, hanno retoriche diverse, ma entrambe perseguono un mondo a loro immagine e somiglianza.

Il pantagruelico libero mercato globale degli uni è l’altra faccia dell’individualismo apolide e impolitico dell’utopia cosmopolita degli altri.
In tale contesto l’utilizzo polemico dei termini “americanismo” e “antiamericanismo” è l’apice dell’ipocrisia argomentativi dei “pensatori” circensi.

Agli occhi dei sacerdoti del pensiero liberale, assumere una posizione critica della deriva unilaterale internazionale, significa appartenere ad una sulfurea conventicola ereticale, nemica della libertà, cioè l’antiamericanismo.

Poco importa ai fini dialettici, che la stucchevole filastrocca sulla “società aperta” faccia poi rientrare gli “eretici” nelle accoglienti braccia della “superiorità” delle istituzioni liberali.

Chiunque è onesto intellettualmente riconosce che nelle società complesse uguaglianza e libertà sono una a scapito dell’altra e non offrono parità di manifestazione delle idee, quanto relativismo, censura ed autocensura. Le democrazie liberali hanno caratteri d’esclusione sottile, che ne preservano la funzionalità legata ai poteri politici, economici e d’opinione che le condizionano.

In tal senso, l’espediente dell’“antiamericanismo”, è un capro espiatorio ad uso dialettico per delegittimare il contraddittore. Automaticamente, in ogni ambito culturale, gli Stati Uniti diventano un improbabile letto di Procuste storico e filosofico cui sottoporre qualsivoglia anticonformismo, in realtà per negare dignità concettuale e marginalizzare chiunque abbia opinioni difformi sul monismo ideologico della modernità.

Ma si può ridurre millenni di storia, civiltà e culture allo spirito di redenzione dei Padri pellegrini sbarcati nel Massachussets circa tre secoli fa? Ovviamente no, quindi si inverte la rotta e si fanno sbarcare i marines in ogni dove.

Quello che sta accadendo è lo spregiudicato utilizzo dei subalterni rapporti internazionali per affermare nella società italiana un liberalismo acefalo di massa. Non avendo quest’ultimo solide radici autonome, si sradicano le residuali identità popolari con una ennesima egemonia culturale fatta ad immagine e somiglianza di un mito edonista secolarizzante.

Ora, come non esiste un “partito antiamericano”, non crediamo esista in sé un “partito americano”, ma un soggetto culturale multiforme, con una certa aderenza sociale che nella fragilità delle posizioni di principio degenera in un difetto caratteriale dei tratti nazionali, il servilismo.

Il buon senso popolare stroncherebbe gergalmente tale mancanza di stile e grossolanità ideologica con il termine “americanata”, ma il farsesco assume i toni del tragico quando viene meno anche nei singoli individui il senso critico della realtà, disponendo in forme totalitarie il consenso democratico.

Si restringono le libertà con il pretesto della sicurezza. Per inibire le contraddizioni sociali, per distogliere le persone dal farsi domande, si creano dei nemici onnipresenti, demonizzabili a piacimento, si strumentalizzano i conflitti culturali con l’obiettivo di perpetuare il potere immunizzandolo da ogni presunta “minaccia”.

In tal modo la deriva oligopolista delle democrazie rappresentative, piuttosto che la dissoluzione del legame sociale, o la diffusione tumorale della corruttela morale e la diffidenza reciproca nelle società occidentali, è abilmente rimosso.

La crisi epocale del nichilismo tecnologico e il divario irreversibile tra cultura e natura causato dalla yubris industriale non ha patria nelle “felici sorti e progressive” della civilizzazione planetaria.

La consapevolezza della drammaticità degli eventi consiglierebbe ben altro spirito tragico alla commedia umana che stiamo recitando. Occorrerebbe opporsi a tutto ciò che, entro la “logica imperiale”, ha l'effetto di omologare, unire, sedare, “pacificare”, orientare verso una meta cosmopolitica e universalistica.

L’obiettivo dovrebbe essere quello di sottrarre consenso alla prospettiva di uno Stato mondiale e, nello stesso tempo, di operare perché alla gerarchia unipolare delle relazioni internazionali si sostituisca gradualmente un assetto multilaterale: un “pluriverso” di grandi aree di civiltà in interazione.

Un regionalismo multipolare, ad esempio, potrebbe essere capace di ridurre realisticamente l’asimmetria delle forze oggi in campo e inibire l’unilateralismo occidentale. Senza giri di parole necessita pensare l’attualità di una “secessione europea” dalla sua attuale lealtà e subalternità atlantica.

Si pensi come eponimo degli aggressivi interessi statunitensi al mai domo politologo statunitense Robert Kagan. A parere di quest’ultimo e di molti osservatori europei e statunitensi, stanno aumentando le ragioni di un “dissenso strategico” fra le due sponde atlantiche.

Stati Uniti ed Europa si dividono su un numero crescente di questioni, soprattutto su temi come il dissesto ecologico del pianeta, il rispetto del diritto internazionale, i rischi connessi alla guerra infinita contro i reprobi di turno, la nuova Corte penale internazionale (ICC).

Se il dissenso transatlantico si farà più acuto, minaccia Kagan con toni arroganti, gli Stati Uniti saranno costretti a svolgere la loro funzione di guardiano armato del mondo senza tenere in minimo conto le opinioni dei leader politici europei.

Bene, si prenda in parola la presunzione degli onnipotenti di turno. Una Europa affrancata dal soffocante abbraccio atlantico e cioè meno occidentale, e soprattutto più mediterranea, potrebbe manifestare una identità politica adatta ad un mutamento sostanziale degli equilibri nei rapporti di forza che sottendono la globalizzazione.

Una forte autonomia e identità europea potrebbe favorire una riduzione dell’uso arbitrario della forza internazionale e attualizzare il principio dell’autodeterminazione dei popoli.

Quanto alla forma politica capace di contrastare il “radicalismo liberale di massa”, si ragioni in termini di partecipazione di contro allo svuotamento procedurale oligarchico della rappresentanza, sulla base di comunità locali piuttosto che verso la “grande società”.

Oltre lo Stato e il Mercato, si può praticare un giusto mezzo tra libertà ed eguaglianza, oltre un modello di sviluppo "illimitato", poiché la mercificazione dissolve ogni forma di vita comune cui è legato.

Mirando a una politica conforme alle aspirazioni popolari, creando nuovi ambienti di espressione collettiva sulla base di una politica di prossimità orizzontale armonizzata dalla sussidiarietà verticale.

Opponendosi alle èlites politicomediatiche, manageriali e burocratiche, tecnocratiche, il comunitarismo è incompatibile con tutti i riduzionismi e meccanicismi autoritari. Uscire dal prometeismo occidentale per tornare in grembo alla civiltà europea, dove la democrazia significa partecipazione comunitaria (polis) e libertà ciò che ha in sé il principio dei suoi atti.


L'animale visionario. Intervista al filosofo Romano Màdera
Paolo Bartolini - Megachip - 8 Marzo 2011

Iniziamo con questa intervista al filosofo Romano Màdera una serie di microindagini sulle idee per la Transizione, piccole introduzioni a pensieri che potrebbero accompagnarci a lungo, ora che non vogliamo attardarci con gli schemi del XX secolo: la solita destra-sinistra, le isole culturali incomunicanti, gli scontri di civiltà, il mercato delle idee funzionale alle ideologie dell'accumulazione, sullo sfondo delle possibilità autodistruttive della nostra specie. Conosceremo invece menti creative, libri davvero originali, pensieri diversi. Forse conosceremo soluzioni ai problemi generati da un cambiamento difficile.

Romano Màdera, lei in un suo libro particolarmente apprezzato – L’animale visionario (1999) – descrive l’essere umano come l’unica specie capace di “immaginare altrimenti”, di produrre dunque alternative che modifichino l’esistente liberando la dimensione del Possibile. Ciò è vero perché l’uomo, grazie allo iato che la cultura produce fra stimoli biologici e risposte differite dell’organismo, si trova ad agire in un mondo aperto, instabile, nel quale tracciare indispensabili orizzonti di senso. Nell’epoca del pensiero unico neoliberista intravede ancora degli spiragli per immaginare altrimenti il futuro dell’umanità?

Credo che sia un’esagerazione pensare che il pensiero neoliberista sia davvero unico. E’ il pensiero egemone, solo questo. E un’egemonia sgangherata, perché l’egemonia americana, oggi, è ormai da tempo in declino. Non sappiamo se ci sarà, o quale sarà, la forza egemonica nel futuro prossimo, o se, invece, entreremo in un’epoca di confusa competizione fra diverse aree geopolitiche che incorporano grandi gruppi capitalistici.

Una delle possibili prospettive, relativamente nuova, è quella di una sovrapposizione di diverse sfere di giurisdizioni e d’influenza non più riconducibili a sfere istituzionali esclusive, come sono state quelle degli stati nazionali o dei blocchi internazionali.

Ma nella pancia del mondo ci sono anche milioni di piccoli esperimenti, come ben sapete, che moltiplicano le sfaccettature di un altro mondo possibile. Non cambieranno la sorte complessiva, a breve, ma sono laboratori di alternative di ogni genere, pronte a tornare utili nella lunga fase di transizione della crisi generale del nostro modello di vita.

Una crisi che riguarda, come si sa, fonti di energia, materie prime e risorse alimentari, distribuzione mondiale del lavoro e della popolazione per classi di età, divaricazione fra istruzione e mercato del lavoro, servizi alla persona, assenza di istituzioni sovranazionali forti e credibili.

Come esperto di pratiche filosofiche e psicoanalista junghiano lei è uno dei pochi, in Italia, a rivendicare per i percorsi terapeutici un esito trasformativo che non si fermi al benessere privato, ma inauguri piuttosto un’etica di “autorealizzazione solidale” non lontana dalla saggezza buddhista. Ci chiarirebbe meglio questo concetto?

Non lontana, direi, dalle linee comune delle diverse forme di saggezza, occidentali e orientali, che attraversano filosofie e spiritualità di tipo religioso e no. Il benessere privato, in senso stretto, è una povera illusione, di scarso respiro e di breve periodo. Ogni malessere psichico sta nell’interfaccia fra biologia e società, è una funzione di mediazione che non riesce più a trovare un senso per le sofferenze del corpo e delle relazioni con gli altri.

Questo non vuol dire che la soluzione stia nella società dell’avvenire e che, nel frattempo, si possa solo soffrire ed essere alienati. Al contrario, la prospettiva di senso della mia azione di oggi può offrire sufficiente soddisfazione, pienezza di vita, capacità di sopportare sconfitta, delusione e sofferenza.

Dunque si tratta di pensare e sentire la via dell’autorealizzazione come particella del tutto che la costituisce, anche intimamente. Senza la prospettiva della trascendenza del proprio interesse egoistico non c’è nessuna terapia che possa avere un minimo di stabilità. Diventa soltanto un rafforzamento, precario, delle difese narcisistiche della nostra cultura dominante.

Lei, professore, ha parlato di “civiltà dell’accumulazione” per descrivere la nostra epoca dominata dal processo di perpetuo autoaccrescimento del capitale. In che senso potremmo dire, come lei ha fatto, che il Denaro è il Dio del nostro tempo?

Prendendo la splendida definizione del teologo protestante Paul Tillich del divino come ultimate concern, quello che mi riguarda in ultima istanza, che struttura le mie finalità, i miei interesse profondi. Che il denaro che si accumula sia il dio del nostro tempo lo aveva già detto con chiarezza Karl Marx, peraltro, che aveva diagnosticato e prognosticato la religione feticistica della nostra vita quotidiana. C’è bisogno di dimostrarlo?

Si vendono organi da trapiantare, si specula sulle derrate agricole mentre milioni muoiono di fame o di denutrizione, si corrompono dirigenti e sottoposti in qualsiasi settore della vita associata e in tutti i paesi del mondo, si accumulano ricchezze spropositate giocando alla finanza spregiudicata, si producono armi di ogni genere per venderle al migliore acquirente, si trasforma la vita interiore e affettiva in una vetrina di sessualità immaginarie e deaffettivizzate, e via e via.

E’ persino puerile fare il gioco quasi infinito degli elenchi di orrori. Ma il dio ha anche i suoi lati gloriosi: non c’è quasi attività buona e giusta che non debba passare per un giudizio di fattibilità economica.

Questo non è solo male, anzi, forse è un modo indiretto, ancora imperfetto perché poco cosciente, di far valere l’importanza del giudizio sociale su ciò che ci si propone. Ma anche il dio del denaro che si accumula morirà, come tutti gli dei della storia.

La questione decisiva è sempre: quale dio lo sostituirà? Beninteso, non credo affatto ai filosofemi pseudo religiosi, di contraffatta e camuffata emozionalità, tipo l’heideggeriano roboante appello al “solo un dio ci può salvare”, estraneo alla nostra prassi. Il dio non è in potere delle costruzioni consapevoli dei singoli, ma non è neppure un’entità autonoma e sovraordinata, puramente misteriosa.

Piuttosto, il dio che verrà, sarà il risultato delle nostre interazioni, consapevoli e non. Dunque la sua venuta è anche, sottolineo anche, responsabilità di tutti e di ciascuno. Insomma, questo è un modo mitico-simbolico per parlare di un effetto sistemico delle interintrarelazioni che producono il senso complessivo della vita associata.

Nel suo Il nudo piacere di vivere (2006) lei sottolinea la necessità di recuperare il senso del limite e della misura per scardinare la logica dell’accumulazione infinita e i suoi effetti patologici sulla vita delle persone. Qual è la sua opinione sul tema della «Decrescita»? In che modo pensa che possa diffondersi una nuova cultura del limite capace di incidere sia sul versante degli stili di vita individuali che su quello della macroeconomia?

Milioni di microesperimenti in questa direzione, semplicemente perché in modo più o meno confuso l’assenza di limite è radicalmente insoddisfacente, radicalmente angosciante. E la sempre più acuta percezione che stiamo arrivando al capolinea dello sviluppo, uno sviluppo che, ormai è sempre più chiaro, non è conquista di maturazione umana.

Il disgusto crescerà insieme alla crisi. Il disagio psichico delle popolazioni sopra il livello di sussistenza si specchierà nel rovescio della disperazione dei poveri del mondo, scatenando ancora più depressione e rabbia espulsiva, ma anche preoccupazione e stimolo a convertire le nostre abitudini di vita.

Certo non basterà. Noi umani siamo testoni, ancora impariamo solo dalle catastrofi. Penso che ci saranno passaggi molto duri, tremendi, le convulsioni del vecchio mondo possono durare secoli, e non è detto che sorga poi il sole dell’avvenire.

Ma avere in mente una meta di patto di equilibrio e di pace può orientare le azioni e iscrivere la propria vita nella sensatezza. Serve la crescita consapevole di una nuova avanguardia.

Non di un nuovo partito, ma di una avanguardia spirituale, capace di sperimentare su di sé una disciplina spirituale (con spirituale intendo l’unità dello psichico, del corporeo e della cultura sociale di un dato tempo), una cultura della cooperazione e della competizione non distruttiva e non espulsiva.

La cellula virale capace di iniettare la possibilità di un esito positivo alla grande crisi di civiltà che stiamo attraversando. Sperimentare su di sé e con gli altri forme di comunicazione e di cooperazione solidale, esercitarsi quotidianamente per rendersi capaci e degni di questo compito, utilizzando in modo eclettico, sincretico ed ecumenico – sulla base della propria esperienza biografica di vita – lo sconfinato patrimonio di saggezza che ci è stato consegnato da filosofie, religioni, spiritualità e arti di tutte le culture.

Confesso però che il termine di Decrescita – non l’idea che condivido nella sua ispirazione di fondo – mi suona, comunicativamente, troppo legata a una negazione, ancora troppo polemica.

Preferisco parlare di “patto dell’equilibrio e della pace”. Equilibrio e pace nel rapporto con la casa comune che è costituita dagli altri, dal lavoro di tutti e dalla natura. Voglio dire, ovviamente, che il punto non è in sé crescere o decrescere, ma come, rispetto a che cosa.

So che questo è ben presente nella teoria, ma lo slogan che la traduce non mi convince e rischia di dare un’immagine falsata di quello che si propone. Bisogna dire che vogliamo che crescano, crescano immensamente, attività sensate, consumi attenti, tempi di riflessione, di contemplazione, di gioco, di cura…

Infine, chi volesse superare la dicotomia fra destra e sinistra per produrre un’alternativa credibile all’attuale totalitarismo capitalistico, quali forze simboliche dovrebbe mettere in campo per riconquistare i cuori dei delusi dalla politica?

Le forze simboliche non si inventano, si raccolgono e si re-inventano sulla base di una memoria capace di creazione, come sempre è in realtà la memoria. Abbiamo possibilità meravigliose: possiamo mettere in sintonia e in sincronia la concordia di tutto ciò che di saggio, di buono e di bello hanno creato le culture della storia del mondo. Il criterio può appunto essere ciò che contribuisce a costruire un patto di equilibrio e di pace fra i popoli e nell’interiorità di ciascuno.

Ma non serve neppure basarsi soltanto su ciò che forma la grande concordia della saggezza universale, sui punti di coincidenza che pure sarebbero più che sufficienti e di stupefacente capacità trasformativa.

Con un metodo adeguato di comunicazione che rispetti la singolarità biografica e la faccia vivere nella fecondità dello scambio comunitario, possiamo, senza urtarci, far tesoro delle più fini diversità, senza pretendere di imporle. Uno dei milioni di microesperimenti è anche quello che conduciamo in piccoli gruppi di pratiche filosofiche da quindici anni, pratiche fra le quali, appunto, c’è anche la sperimentazione di regole di comunicazione biografico-solidali.

Questo per dire cosa tento di fare personalmente. Facciamo invece un esempio in grande: prendiamo uno dei temi più scottanti di scontro e di incomprensione di universi simbolici, usati spesso a rinforzo di politiche fondamentaliste, contrappositive, sostanzialmente succubi, peraltro, agli interessi della civiltà dell’accumulazione.

Quali tesori simbolici sono da snidare nelle convergenze fra le religioni del Libro – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – quali forze simboliche possono essere evocate a vantaggio della fratellanza e della cooperazione, della trasformazione interiore e della condivisione sociale e materiale, quali spinte generose verso la comunità universale dell’umano!

Certo, bisogna impegnarsi in un processo di purificazione, di vera e propria catarsi, liberando le religioni – queste e tutte le altre – dalle loro incrostazioni complici di mentalità oggi inaccettabili: bisogna liberarle dall’etnicismo, dal classismo, dal sessismo, dall’autoritarismo, farle passare da questo setaccio, trattenendo solo le perle che vincono il tempo.


Prezzi alimentari alle stelle, a febbraio un'impennata
di Andrea Bertaglio - www.ilcambiamento.it - 8 Marzo 2011

I prezzi delle derrate alimentari mondiali hanno subìto nel mese di febbraio una vera e propria impennata. Lo ha reso noto la Fao, secondo la quale fra le molteplici cause spicca ancora una volta la speculazione internazionale. Come già due anni fa, centrale in questo processo è l’accoppiata cibo-petrolio.

Nel mese di febbraio l'indice dei prezzi alimentari ha subìto un incremento del 2,2%, se paragonato a gennaio. È stato il punto più alto registrato dal 1990, anno in cui l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (Fao) ha iniziato a monitorarlo: “I prezzi alimentari mondiali sono ancora saliti in febbraio, per l'ottavo mese consecutivo, con quelli di tutte le derrate monitorate, tranne lo zucchero”, hanno affermato fonti ufficiali.

È quanto riferito in questi giorni dalla stessa Organizzazione che, una volta di più, ha messo in guardia sul ritorno della speculazione sugli alimenti. La causa? L’impennata dei prezzi del petrolio.

Le prime avvisaglie si sono avute già lo scorso mese, quando l'Indice Fao dei prezzi cerealicoli è aumentato del 3,7%, 254 punti: un livello che, guarda caso, non si vedeva dal luglio del 2008. “I prezzi internazionali dei cereali sono aumentati bruscamente, con i prezzi all'esportazione dei cereali saliti di almeno un 70% rispetto al febbraio dello scorso anno”, ha ribadito l’Organizzazione internazionale. E questo nonostante la produzione globale di grano nel 2011 aumenterà del 3% circa.

Ma il problema non riguarda solo grano e cereali. Quasi lo stesso discorso vale infatti per i prodotti caseari che, arrivati a 230 punti, hanno visto un aumento dei prezzi del 4%; e della carne, il cui costo è aumentato del 2% rispetto a gennaio. L’unico a costare di meno rispetto a gennaio è stato lo zucchero (418 punti di media). Restando però al 16% in più rispetto a febbraio del 2010.


Le succitate previsioni di un aumento della produzione mondiale di grano per il prossimo anno non bastano a far ben sperare. Anzi, sempre secondo la Fao, si scorge già un irrigidimento dell'equilibrio di domanda e offerta cerealicole globali: “A fronte di un'accresciuta domanda e di un calo della produzione cerealicola mondiale nel 2010, quest'anno si prevede che le scorte cerealicole globali diminuiranno bruscamente, a causa del calo delle giacenze di grano e di cereali secondari”.

A cosa è dovuto un aumento dei prezzi nonostante la produzione sia addirittura destinata ad aumentare? Per la Food and Agriculture Organization non ci sono dubbi: la causa è da ricercare nella speculazione internazionale, che ancora una volta riesce ad accomunare petrolio e cibo, sfruttando ogni possibile occasione per gonfiare i prezzi sia del cibo che dei carburanti. Lo conferma David Hallam, direttore della divisione Fao commercio e mercati: “L'improvviso picco del prezzo del petrolio potrebbe esacerbare ulteriormente la situazione già molto precaria dei mercati alimentari. Questo aggiunge ulteriore incertezza all'andamento dei prezzi, proprio quando sta per avere inizio la semina in alcune delle principali regioni produttrici”.

Sembra quindi stia tornando lo spettro della speculazione, che solo due anni fa rovinò intere nazioni e ridusse alla fame centinaia di migliaia di persone. Come nell’ambito finanziario, il cambio di paradigma e la necessaria ristrutturazione del sistema economico globale sembrano ancora lontani.

Non lo sono però le allarmanti possibilità che si verifichino sempre più rivolte (e non solo nei Paesi arabi), e la serie di crisi economiche, sociali ed appunto alimentari che ne conseguono. Anzi, queste tragedie possono essere un notevole vantaggio per il business as usual.

Chissà, quindi, forse l’autoproduzione di una parte dei propri alimenti può effettivamente dimostrarsi una risposta concreta alle crisi ed ai problemi di un mondo sempre più globalizzato.

Andando oltre, anche nell’immaginario collettivo, al ritratto di hobby per nostalgici pensionati o ingenui sognatori. Ed affermandosi come il desiderio di attrezzarsi per rendersi almeno un minimo emancipati dalle speculazioni dei mercati alimentari.


Povertà mondiale, sommosse per il cibo e crisi economica
di Michel Chossudovski - www.globalresearch.ca - 25 Gennaio 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Michela Salani

Estratto da: “The Global Economic Crisis: The Great Depression of the XXI Century” (“La crisi economica mondiale: la grande depressione del XXI secolo”).

Mentre il governo tunisino è crollato sotto le proteste dei cittadini, fomentate in parte dal prezzo del cibo aumentato drammaticamente, con proteste che si diffondono in altre regioni del paese e nel mondo, questo estratto dell'ultima pubblicazione di Global Research, The Global Economic Crisis: The Great Depression of the XXI Century (“La crisi economica mondiale: la grande depressione del XXI secolo”), contribuisce a una messa a fuoco della crisi attuale:

Le pallottole ricoperte di zucchero del “libero mercato” stanno uccidendo i nostri figli. L'atto dell'uccidere è orchestrato, con fare distaccato, attraverso il commercio di programmi per il computer nelle Borse Merci di New York e Chicago, dove vengono stabiliti i prezzi mondiali del riso, del frumento e del granturco.

Persone di paesi diversi vengono simultaneamente impoverite a causa del meccanismo del mercato mondiale. Una piccola parte di istituzioni finanziarie e società per azioni mondiali ha la capacità di determinare i prezzi degli alimenti base quotati sulle Borse Merci, con ripercussioni dirette sul tenore di vita di milioni di persone in tutto il mondo.

I prezzi del cibo in vertiginosa ascesa sono in gran parte la conseguenza di manipolazioni di mercato. Sono perlopiù imputabili al commercio speculativo del mercato delle materie prime. I prezzi del grano vengono intenzionalmente incrementati tramite operazioni speculative di larga scala nelle Borse Merci di New York e Chicago.

Di seguito un estratto del capitolo di Michel Chossudovsky incentrato sulla manipolazione del prezzo mondiale del cibo.

La rapida diffusione della carestia

Le pallottole ricoperte di zucchero del “libero mercato” stanno uccidendo i nostri figli. L'atto dell'uccidere è orchestrato, con fare distaccato, attraverso il commercio di programmi per il computer nelle Borse Merci di New York e Chicago, dove vengono stabiliti i prezzi mondiali del riso, del frumento e del granturco.

Persone di paesi diversi vengono simultaneamente impoverite a causa del meccanismo del mercato mondiale. Una piccola parte di istituzioni finanziarie e società per azioni mondiali ha la capacità di determinare i prezzi degli alimenti base quotati nelle Borse Merci, con ripercussioni dirette sul tenore di vita di milioni di persone in tutto il mondo.

Questo processo di impoverimento mondiale ha raggiunto la massima svolta, portando alla diffusione simultanea di carestie nelle principali regioni in via di sviluppo.

La carestia è la conseguenza di un processo di ristrutturazione del “libero mercato” dell'economia mondiale, che trova le radici nella crisi del debito pubblico dei primi anni Ottanta del secolo scorso. Non si tratta di un fenomeno recente collegato alla crisi economica del 2008-2009, come suggerito da numerosi analisti occidentali.

La povertà e la denutrizione cronica erano condizioni già esistenti. Le impennate drammatiche nel prezzo del cibo e del carburante, che hanno preceduto il crollo finanziario del 2008-2009, hanno contribuito all'inasprimento e all'aggravamento della crisi del cibo.

Queste impennate nei prezzi, che raggiunsero un picco nel luglio 2008, hanno colpito il mercato degli alimenti base, inclusi i prezzi al dettaglio nazionali, in tutte le regioni del mondo.

Movimenti di protesta rivolti contro le impennate dei prezzi del cibo e della benzina sono scoppiati simultaneamente in diverse regioni del mondo. La situazione è particolarmente critica ad Haiti, in Nicaragua, Guatemala, India e Bangladesh:

Ad Haiti i prezzi del cibo sono saliti di una media del 40 percento in meno di un anno, con prodotti di base, come il riso, il cui costo è raddoppiato... In Bangladesh [verso la fine dell'aprile 2008] circa 20.000 operai tessili sono scesi in strada per denunciare i prezzi del cibo alle stelle e richiedere salari più alti. Il prezzo del riso nel paese è raddoppiato negli ultimi anni [2007-2008], minacciando di fame gli operai, che guadagnano uno stipendio mensile di soli $25. In Egitto, le proteste dei lavoratori per il prezzo del cibo hanno fatto tremare il centro tessile di Mahalla al-Kobra a nord del Cairo [aprile 2008], con due persone uccise dalle forze di sicurezza. Centinaia sono stati arrestati e il governo ha inviato la polizia in borghese nelle fabbriche per obbligare gli operai a lavorare. I prezzi del cibo in Egitto sono saliti del 40 percento nell'ultimo anno [2007-2008]... Nella Costa d'Avorio, prima di questo mese [aprile 2008], in migliaia hanno marciato verso la casa del presidente Laurent Gbagbo, scandendo “abbiamo fame” e “la vita è troppo cara, ci ucciderete”.

Manifestazioni simili, scioperi e scontri si sono verificati in Bolivia, Perù, Messico, Indonesia, nelle Filippine, Pakistan, Uzbekistan, Thailandia, Yemen, Etiopia e nella maggior parte dell'Africa sub-sahariana.[1]

In Somalia, nel 2008, la vertiginosa ascesa dei prezzi del cibo e del carburante ha contribuito al precipitare di un'intera nazione in una situazione di inedia di massa, accompagnata da una grave penuria d'acqua. Una situazione simile ed egualmente difficile sta emergendo in Etiopia.

Ma adesso, con i prezzi che aumentano vertiginosamente, ormai fuori portata, e il bestiame di cui le persone si nutrono che cade improvvisamente morto sulla sabbia, gli abitanti dei villaggi di questo paesaggio inaridito dal sole dicono che centinaia di persone stanno morendo di fame e di sete:

Molti somali stanno cercando di contenere l'inedia con una farina sottile cotta nell'acqua, prodotta da rami schiacciati di biancospino, chiamata jerrin. Qualche anziano del villaggio diceva che i bambini si masticavano le labbra e le lingue perché non avevano altro da mangiare. Il tempo era stato inclemente – giornate di caldo intenso, seguite da notti crudelmente limpide.
[2]

Questa è una catastrofe in divenire; c'è il tempo di agire prima che diventi una realtà. In alcune parti [in Somalia e nella regione di Afar in Etiopia] il costo del cibo è aumentato del 500 percento... Le persone stanno diventando sempre più disperate... Si teme che il peggio possa ancora venire, mentre la crisi si aggrava in tutto l'est dell'Africa. [3]

Altri paesi che nel 2007-2008 si ritrovano afflitti da prezzi in vertiginosa ascesa, includono l'Indonesia, le Filippine, la Liberia, l'Egitto, il Sudan, Mozambico, lo Zimbabwe, il Kenya e l'Eritrea, una lunga lista di paesi ridotti in miseria, per non citare quelli sotto l'occupazione militare straniera come l'Iraq, l'Afghanistan e la Palestina.

Mentre il prezzo dei prodotti alimentari di base diminuisce considerevolmente sulla scia del crollo finanziario del 2008, i meccanismi basilari della manipolazione dei prezzi mondiali di tali prodotti, per i forti interessi collettivi e per gli speculatori istituzionali, sono rimasti intatti sotto un punto di vista funzionale. Non si può escludere una nuova ondata di commercio speculativo negli alimenti di base e nel carburante.

Cibo, carburante e acqua: un requisito indispensabile per la sopravvivenza umana.

Regolari provviste di cibo, carburante e acqua sono un requisito per la sopravvivenza della specie umana. Costituiscono le fondamenta economiche e ambientali per lo sviluppo di una società civilizzata.

Negli ultimi anni, sia prima che in corsa verso il tracollo finanziario del 2008-2009, il prezzo di alimenti base come il grano, inclusi il riso, i cereali e il frumento, benzina e acqua, sono drammaticamente aumentati a livello mondiale con devastanti conseguenze economiche e sociali.

Senza precedenti nella storia dell'umanità, questi tre prodotti di base o beni essenziali, che in un certo senso determinano la riproduzione della vita economica e sociale sul pianeta Terra, sono sotto il controllo di un ristretto numero di società per azioni e istituzioni finanziarie mondiali. Il destino di milioni di esseri viene deciso dietro le porte chiuse delle sale di consiglio d'amministrazione delle società, come parte di un'agenda guidata esclusivamente dal profitto.

Organizzazioni governative o intergovernative sono complici di questi sviluppi. Le politiche economiche e finanziarie dello stato sono controllate da interessi societari privati. Il commercio speculativo non è oggetto di politiche regolatrici, è anzi valido il contrario: la cornice del mercato speculativo nelle Borse Merci è protetta dallo stato.

Per di più, le forniture di cibo, acqua e carburante non sono più soggette alla regolamentazione o all'intervento governativo o intergovernativo con lo scopo di alleviare la povertà o evitare la rapida diffusione di carestie.

Ampiamente offuscata dai rapporti ufficiali e da quelli dei media, sia la “crisi del cibo” che la “crisi del petrolio” sono il risultato di una manipolazione speculativa delle valute di mercato da parte dei potenti attori dell'economia.

E proprio perché questi potenti attori dell'economia agiscono tramite un meccanismo di mercato apparentemente neutro e “invisibile”, che l'impatto sociale devastante delle impennate organizzate nel prezzo del cibo, del carburante e dell'acqua vengono disinvoltamente accantonate come il risultato di considerazioni tra domanda e offerta.

Non ci si sta occupando di “crisi” del cibo, carburante o acqua, distinte e separate, ma di un processo mondiale di ristrutturazione economica e sociale. L'impennata drammatica dei prezzi di queste tre materie prime non è un caso.

Tutte e tre le variabili, compresi i prezzi degli alimenti di base, dell'acqua per la produzione e il consumo, e del carburante, sono oggetto di un processo di manipolazione del mercato deliberata e simultanea.

Nel pieno degli anni 2005-2008 la crisi del cibo fu un crescendo di prezzi degli alimenti di base, associata a un drammatico incremento nel prezzo del carburante. Allo stesso momento, il prezzo dell’acqua, indispensabile risorsa per la produzione agricola e industriale, per l'infrastruttura sociale, la sanità pubblica e il consumo domestico, è incrementato bruscamente come risultato di un movimento di privatizzazione delle risorse d’acqua su scala mondiale.

Stiamo affrontando il più importante sconvolgimento economico e sociale, e una crisi globale senza precedenti, caratterizzata dalla relazione triangolare tra acqua, cibo e carburante – tre variabili fondamentali che insieme si ripercuotono sugli stessi mezzi di sopravvivenza umana.

In termini molto concreti, queste impennate nei prezzi impoveriscono e distruggono le vite delle persone. Per di più, il collasso mondiale nel tenore di vita si sta verificando in un periodo di guerra. È strettamente correlato al programma militare. Le guerre nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale stringono una relazione diretta con il controllo del petrolio e delle riserve d’acqua.

Sebbene l’acqua non sia al momento una materia prima venduta a livello internazionale come può valere per il petrolio e gli alimenti di base, è anche oggetto della manipolazione del mercato attraverso la sua privatizzazione. L’acqua è una risorsa naturale oggetto sia di acquisto che di vendita. La tendenza punta verso la sua commercializzazione.

Sia lo stato, così come la serie di organizzazioni internazionali – a cui spesso ci si riferisce come “comunità internazionale” –, sono al servizio degli interessi spregiudicati del capitalismo mondiale.

I principali organi intergovernativi, incluse le Nazioni Unite, le istituzioni della Bretton Woods, e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), hanno sottoscritto il Nuovo Ordine Mondiale (New World Order) a favore dei loro finanziatori societari.

I governi sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo hanno abbandonato il loro ruolo storico di regolatori delle variabili economiche chiave, così come quello di garanti dei mezzi di sussistenza minimi del loro popolo.

L’ impennata speculativa sul prezzo del grano

I media hanno sviato con noncuranza l’opinione pubblica in merito alle cause dell’impennata dei prezzi del 2005-2008, concentrandosi quasi esclusivamente su questioni come i costi di produzione, il clima e altri fattori che derivano da rifornimenti ridotti che potrebbero contribuire all'innalzamento nel prezzo degli alimenti di base.

Sebbene questi fattori possano entrare in gioco, hanno uno scarso rilievo nel giustificare l'impressionante e drammatica impennata del prezzo delle materie prime.

I prezzi del cibo in vertiginosa ascesa sono in gran parte la conseguenza di manipolazioni di mercato. Sono perlopiù imputabili al commercio speculativo del mercato delle materie prime. I prezzi del grano vengono intenzionalmente incrementati tramite operazioni speculative di larga scala nelle Borse Merci di New York e Chicago.

Non significa niente il fatto che nel 2007 il Chicago Board of Trade (CBOT) si sia accorpato al Chicago Mercantile Exchange (CME), costituendo la più grande entità mondiale che si occupa del commercio delle materie prime, inclusa una vasta gamma di strumenti speculativi (premi, premi sui futures, fondi comuni d'investimento indicizzato, e così via).

Il commercio speculativo del frumento, riso o cereali può verificarsi in assenza di una transazione vera delle materie prime. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nell'effettiva vendita o consegna del grano stesso.

Le transazioni possono utilizzare i fondi comuni d'investimento indicizzato delle materie prime, ovvero scommesse sul generale movimento di rialzo o ribasso dei prezzi di queste materie.

Una “vendita a premio” è una scommessa sul calo del prezzo, un “di cui” è una scommessa sul suo aumento. Attraverso manipolazioni interessate, speculatori istituzionali e istituzioni finanziarie fanno crescere il prezzo e poi piazzano le loro scommesse su un movimento in rialzo nel prezzo di una particolare materia prima.

La speculazione dà vita alla volatilità del mercato. A sua volta, l'instabilità che ne deriva incoraggia ulteriori attività speculative. Gli utili si ottengono quando il prezzo cresce. Al contrario, se lo speculatore vende allo scoperto, se ne trarranno guadagni quando il prezzo crolla.

Il resto del capitolo sopra estratto è contenuto in “La crisi economica mondiale: la grande depressione del XXI secolo”.

NOTE

[1] Bill Van Auken, “Amid Mounting Food Crisis, Governments fear Revolution of the Hungry”, Global Research, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8846, 30 aprile 2008.

[2] Jeffrey Gettleman, “Famine Looms as Wars Rend Horn of Africa”, New York Times, http://www.nytimes.com/2008/05/17/world/africa /17somalia.html, 17 maggio 2008.

[3] Rob McNeil di Oxfam, citato in Barry Mason, “Famine in East Africa: Catastrophe threatens as food prices rise”, World Socialist Website, http://www.wsws.org/articles/2008/aug2008/east-a06.shtml, 6 agosto 2008.

Recensioni del libro “La crisi economica mondiale: la grande depressione del XXI secolo
La recessione economica si è radicata in tutte le maggiori regioni del mondo, provocata dalla disoccupazione di massa, il fallimento dei programmi sociali dello stato e l’impoverimento di milioni di persone.

Il tracollo dei mercati finanziari è stato il risultato di frodi istituzionalizzate e manipolazione finanziaria. La crisi economica è accompagnata da un processo di militarizzazione a livello mondiale, una “guerra senza confini” guidata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati della NATO.

Questo libro conduce il lettore tra i corridoi della Federal Reserve, nelle sfarzose sale del consiglio d'amministrazione delle società a Wall Street, dove transazioni finanziarie di vasta portata vengono intraprese regolarmente.

In questa felice raccolta, entrambi gli autori scavano sotto la superficie dorata per rivelare una complessa rete di raggiri e distorsioni mediatiche che servono a nascondere il funzionamento del sistema economico mondiale e il suo impatto devastante sulla vita delle persone.

Michel Chossudovsky è un autore premiato, professore di Economia (emerito) presso l’Università di Ottawa e direttore del CRG, Centre for Research on Globalization a Montreal. È autore di The Globalization of Poverty and The New World Order del 2003 (trad. it. La globalizzazione della povertà.

L'impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale, ed. EGA - Edizioni Gruppo Abele, 2003) e di America’s “War on Terrorism” (2005). È anche un collaboratore dell’Encyclopaedia Britannica. La sue opere sono state tradotte in più di venti lingue.

Andrew Gavin Marshall è uno scrittore indipendente sia nelle strutture contemporanee del capitalismo che nella storia dell’economia politica mondiale. È membro di ricerca presso il CRG, Centre for Research on Globalization.

“Questa raccolta importante offre al lettore un'analisi più ampia delle varie sfaccettature – in particolare le implicazioni finanziarie, sociali e militari – da una lista eccellente di pensatori sociali di livello mondiale.” –Mario Seccareccia, professore di Economia presso l'Università di Ottawa

“Indagini approfondite sul funzionamento interno della plutocrazia in crisi, presentate da alcuni dei nostri migliori analisti politico-economici. Questo libro dovrebbe aiutare a mettere fine alle allucinazioni dell’ideologia del ‘libero mercato’.” –Michael Parenti, autore di God and His Demons and Contrary Notions

“Fornisce una denuncia, che si fa ben leggere, di un sistema economico mondiale manipolato da un pugno di attori dell'economia estremamente potenti che servono i propri benefici con lo scopo di arricchire pochi a scapito di una maggioranza sempre crescente.” –David Ray Griffin, autore di The New Pearl Harbor Revisited

Le cause complesse così come le conseguenze devastanti della crisi economica sono attentamente esaminate con il contributo di Ellen Brown, Tom Burghardt, Michel Chossudovsky, Richard C. Cook, Shamus Cooke, John Bellamy Foster, Michael Hudson, Tanya Cariina Hsu, Fred Magdoff, Andrew Gavin Marshall, James Petras, Peter Phillips, Peter Dale Scott, Bill Van Auken, Claudia von Werlhof e Mike Whitney.

Nonostante l'eterogeneità dei punti di vista e delle prospettive presentate all’interno di questo volume, tutti i collaboratori giungono alla fine alla stessa conclusione: l’umanità è al bivio della più seria crisi economica e sociale nella storia moderna.

“Quest'opera meticolosa, fondamentale, felice e accessibile svela la storia di un mostro dalle teste di Idra: militari, mass media e attività politica culminano in un'“umanità al bivio”; la crisi economica e sociale senza precedenti in corso… Dalla prima pagina della prefazione di The Global Economic Crisis (La Crisi Economica Globale), le ragioni del tutto vengono svelate con una chiarezza irresistibile. Questo libro fornisce le risposte a coloro che si domandano 'perché?'” –Felicity Arbuthnot, autrice e giornalista premiata, residente a Londra.

“La crisi economica in corso, le sue cause e, come auspicabile, la sua soluzione sono state un mistero per la maggior parte delle persone. Vedo con favore un'esposizione leggibile delle dimensioni mondiali della crisi e auspico una qualche chiarezza su come gestire al meglio, in futuro, il denaro a livello locale e internazionale.” –Dr. Rosalie Bertell, scienziata rinomata, poetessa laureata Premio Nobel Alternativo e membro del consiglio d'amministrazione, medico internazionale per la Medicina Umanitaria a Ginevra

“Quest'opera è molto più di un'analisi pionieristica e profondamente storica degli attori e delle istituzioni, è un’affermazione della convinzione degli autori che un mondo migliore è possibile e che può essere ottenuto tramite azioni collettive organizzate e la fiducia nella sostenibilità di un ordine democratico.” – Frederick Clairmonte, analista insigne dell’economia politica mondiale e autore del classico degli anni Sessanta, The Rise and Fall of Economic Liberalism: The Making of the Economic Gulag

“Decenni di politiche economiche dissolute di denaro pubblico e interventi militari indiscriminati hanno raggiunto una massa critica, esplodendo nel 2008 in un collasso della globalizzazione. Oggi, il collasso economico sta di nuovo configurando tutto – società mondiale, economia e cultura. Questo libro sta organizzando una rivoluzione tramite l’introduzione di un'innovativa teoria mondiale di economia.” –Michael Carmichael, autore e storico di prim'ordine, presidente del Planetary Movement


Due magliette all'Oviesse
di Beppe Grillo - www.beppegrillo.it - 6 Marzo 2011

"Avevo rubato due magliette all'Oviesse e mi hanno scoperta. Non so neppure perché l'ho fatto, la mia vita è un disastro, senza soldi né lavoro e con una bambina da mantenere". Così inizia il racconto della ragazza madre che ha denunciato lo stupro di gruppo in una caserma dei carabinieri.

Questa ragazza è stata incarcerata d'urgenza per aver cercato di rubare due fottutissime magliette. Quanto valevano quelle magliette? 20 euro? 30 euro? E si sbatte in galera una persona per un furto del genere?

Non era possibile denunciarla a piede libero? Metterla ai domiciliari? E il direttore del supermercato, una volta recuperata la refurtiva (che grande refurtiva...), non poteva ritirare la denuncia?

No! Spietati con i morti di fame, con gli ultimi, a rigor di legge mentre per Nicola Cosentino è stata respinta dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera l'esecuzione della custodia cautelare per il reato di concorso esterno in associazione camorristica.

Camorra
, non due magliette del cazzo. Ti rifugi in Parlamento e sei in salvo, come Alberto Tedesco rinviato a giudizio per la sanità in Puglia.
Ci sono i sommersi e i salvati in questo girone infernale che si chiama Italia, riprendendo la metafora di Primo Levi.

Esistono zone grigie di potere in cui tutto può succedere, ma solo ai più deboli come a una donna senza famiglia con una figlia da mantenere. Cosa racconterà alla sua bambina dopo l'arresto e lo stupro?

Ogni giorno si commettono reati gravissimi sotto i nostri occhi e chi li commette non farà mai un giorno di carcere, protetto dai suoi soldi, dagli avvocati, dalla casta a cui appartiene, sia essa politica, economica, criminale. Noi assistiamo, ci indigniamo e poi passiamo al caffè.

Intanto, i sommersi, i ladri di polli, gli ultimi, finiscono in carcere, alcuni ci muoiono in carcere, c'è chi si suicida per la vergogna. Altri sono stuprati.

E questa è giustizia? E questa è la legge? Summum ius, summa iniuria. La giustizia è cieca, ma solo da un occhio. Per i poveracci ci vede benissimo.