lunedì 28 marzo 2011

"Rivoluzioni" update

Alcuni articoli sugli sviluppi delle cosiddette "rivoluzioni" in Nord Africa e Medio Oriente.


Libia, petrolio al sicuro
di Christian Elia - Peacereporter - 28 Marzo 2011

Dopo la presa di Ras Lanuf i ribelli hanno ripreso i pozzi, adesso la coalizione lavora alla soluzione diplomatica

Il regime di Tripoli ha promesso per Sirte una nuova Stalingrado. La città natale del rais, a questo punto, diventa il confine psicologico della Tripolitania. L'avanzata dei ribelli, nelle ultime ore, è tornata a essere inarrestabile. Ajdabiya, Brega, Ras Lanuf. Il petrolio, in parole povere.

Il puzzle, sempre più, trova la sua completezza. I ribelli, alle porte di Tripoli, sono stati abbandonati a loro stessi nei giorni scorsi. Il regime ha ripreso l'iniziativa, arrivando alla periferia di Bengasi.

Solo allora si è mossa la comunità internazionale, con la no fly zone estensiva, visto che non si è limitata a impedire all'aviazione di Gheddafi di attaccare, ma ha anche bombardato le colonne dell'esercito libico, rovesciando l'esito della guerra.

Grazie anche alle armi nuove di zecca che sono arrivate, alla fine, nelle mani degli insorti permettendo loro di avere ragione nel corpo a corpo con i blindati dell'esercito che rinculano verso Sirte e Tripoli, mentre a Misurata si combatte casa per casa.

Questo è il bollettino di guerra, ma come ogni conflitto c'è un'agenda politica che va di pari passo. La Francia e l'Inghilterra assieme, l'Italia e la Germania divise, si apprestano domani a Londra a produrre proposte diplomatiche per uscire dalla crisi libica.

Adesso che il petrolio è messo in sicurezza, nelle mani del governo transitorio, si può ragionare a mente fredda. Perché i rischi erano tanti.

Da un lato non si poteva lasciare un tale tesoro nelle mani di un'armata brancaleone (motivo probabile del tardivo riconoscimento da parte dell'Occidente dei nuovi padroni di Bengasi), dall'altro lato non si poteva tornare a trattare con Gheddafi dopo tutto quello che era accaduto.

Ora si può: i ribelli devono tutto all'appoggio militare della coalizione e di sicuro saranno interlocutori malleabili. Il regime, da parte sua, è in un vicolo cieco e sarà più facile metterlo alle corde.

Qualche numero, aiuta. Con 46,5 miliardi di barili di riserve accertate, la Libia è la più grande economia petrolifera del continente africano. Non solo. L'oro nero libico ha una caratteristica tecnica molto importante.

Gli esperti lo chiamano sweet, a basso contenuto di zolfo. Quando viene estratto ha costi di raffinazione di molto inferiori a quelli, ad esempio, del petrolio saudita, detto sour (alta presenza di zolfo). Margini di profitto, dunque, enormi.

Anche perché negli anni dell'embargo alla Libia la produzione ha risentito dei ritardi tecnologici accumulati. Questo significa tante cose, in primis scarse rilevazioni per monitorare nuovi giacimenti di petrolio e di gas.

C'era chi lo diceva già nel 2005. Matthew Simmons, un banchiere texano, pubblica un libro choc intitolato Il Crepuscolo nel deserto. Per Simmons e per le sue fonti, l'Arabia Saudita sopravvalutava di proposito le proprie riserve di petrolio. La produzione saudita - per Simmons - ha raggiunto il suo massimo e il continuo sfruttamento rischia di esaurire presto le riserve di greggio.

Nel 2008 arriva il rapporto del World Energy Outlook (Weo) dell'International Energy Agency (Iea). Secondo gli analisti, la domanda di energia (sospinta dalle economie emergenti) crescerà del 45 percento tra il 2006 e il 2030.

Una bocca famelica, difficile da sfamare, nonostante un Iraq ormai accomodante. L'analisi dell'Iea si chiudeva con una metafora: servirebbero quattro produttori tipo l'Arabia Saudita.

Il 7 luglio 2010, dopo una visita a Washington , il re saudita Abdallah ha annunciato che l'Arabia Saudita ha smesso di cercare nuovi pozzi. Una notizia che ha gelato i mercati europei e nord americani, anche perché la Cina controlla una percentuale sempre maggiore delle riserve mondiali. Il barile crolla a meno di 80 dollari, le raffinerie sono in vendita ma nessuno le compra.

''Cosa possiamo fare di più? E' un problema di qualità'', annuncia rassegnato - sempre nel 2008 - il generale Mohammed Barkindo, segretario generale dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec).

Il petrolio senza zolfo, ecco cosa serve. E serve tenerlo lontano dalla mani cinesi. La Libia è un'ottima risposta a tutte queste domande e da oggi (con il barile ben oltre i cento dollari) è molto più facile immaginare una sponda meridionale del Mediterraneo più affidabile dal punto di vista delle nostre economie.


Il "fronte delle immagini" e i bombardamenti su Bengasi
da www.michelcollon.info - 22 Marzo 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Alessandra Pontecorvo

Ogni sera, ascoltiamo nei nostri telegiornali che quella con Gheddafi è anche una guerra a suon di comunicati. Questo per farci comprendere che il governo libico mente ai giornalisti internazionali per poter manipolare l’opinione pubblica. Ma è solo il dittatore ad essere un bugiardo?

Un esempio, domenica 20 marzo, tutta la stampa estera è stata accompagnata dal proprio hotel al cimitero per assistere ai funerali delle prime vittime cadute sotto i bombardamenti della coalizione. Ma il tutto sembrava tanto una messa in scena. Al suo arrivo il convoglio è stato accolto da una folla di “simpatizzanti pro-Gheddafi”.

Malgrado l’ambientazione triste di un cimitero, i tripolitani non stavano piangendo, e mostravano più ritratti del leader che delle vittime. Nessuna sepoltura, ma solo delle fosse vuote pronte ad accogliere dei cadaveri che non sarebbero mai arrivati. I giornalisti non si sono lasciati prendere e sono rimasti critici. Un plauso alla loro professionalità.

Ma sono sempre così lucidi? Durante le guerre precedenti, diversi fatti, dapprima ritenuti veritieri si sono poi rivelati delle menzogne destinate a ingannare l’opinione pubblica e preparare le coscienze ad accettare la guerra. I media non hanno mai messo in discussione le affermazioni venute dall’esterno che contribuivano a giustificare queste guerre per scopi umanitari o di difesa della civiltà.

Durante la prima guerra del Golfo, una menzogna su tutte si riassume con il caso delle incubatrici. Una giovane ragazza kuwaitiana aveva denunciato, in lacrime sugli schermi, che i soldati di Saddam Hussein toglievano i bambini dalle incubatrici per gettarli per terra e ucciderli.

Questa dichiarazione era stata sostenuta da un diplomatico dello stesso paese che era arrivato finanche a dire che lui stesso avevo sepolto quattordici neonati. Che orrore! La notizia ha fatto il giro del mondo. L’attacco poteva essere lanciato.

L’ONU affermerà, molto più tardi, dopo un’inchiesta, che tutto ciò non era mai successo. La giovane ragazza era figlia di un ambasciatore del Kuwait e aveva recitato la commedia.

Nella seconda guerra “per la democrazia” in Iraq, hanno giocato la carta delle famose armi di distruzione di massa (ADM). L’Iraq era un pericolo. Era necessario disarmare Saddam e liberare il suo popolo. Tony Blair ha recentemente riconosciuto che queste ADM non sono mai esistite.

In questa nuova guerra dell’Occidente contro la Libia è ancora difficile provare quali siano le media-menzogne utilizzate per convincere i cittadini ad accettare questo attacco. Ma ci si pone già una serie di domande.

Per esempio, ci sono davvero dei bombardamenti intensi su Bengasi? Almeno, sono stati visti?

Claire Chazal, sembrerebbe averli visti e ce li presenta nella sua edizione del 18 marzo, due giorni dopo la risoluzione dell’ONU. Inizia il suo TG annunciando “gli intensi bombardamenti hanno provocato un primo esodo”. Senza utilizzare il condizionale e sottintendendo che altri esodi avranno luogo. E continua seguendo questa logica “il cessate il fuoco non è dunque apparentemente stato osservato e gli occidentali preparano il loro intervento”

Immediatamente, le prove in immagini. Sul posto, l’inviato speciale ripete in apertura l’espressione “violazione del cessate il fuoco” mentre si vede un caccia cadere. E aggiunge: “una piccola vittoria per gli oppositori” con il sottofondo “di spari e grida di gioia” magistralmente mixati dal tecnico del suono a Parigi. Sullo schermo, una decina di civili. Dunque, “la battaglia si fa violenta, le forze di Gheddafi sono entrate a Bengasi” il tutto “secondo gli insorti”.

Va tutto veloce su TF1 [canale della tv francese n.d.t.] visto che tutt’a un tratto, ci ritroviamo a Tripoli dove, secondo il giornalista, il portavoce del regime “nega assolutamente di aver violato il cessate il fuoco imposto dalle nazioni unite”. Il ministro degli affari esteri chiede di far arrivare degli osservatori internazionali per costatarlo loro stessi.

Ma non ci si rifà a questo corrispondente di guerra: egli prova il contrario con le immagini amatoriali di un cellulare. Secondo lui, si possono vedere i bombardamenti. Ma se si riguarda più volte la scena si vedrà solo una fumata bianca che assomiglia più a quella di un fumogeno da stadio di calcio che a quella di un missile di grande portata.

Con questi pochi secondi di immagini da fonte sconosciuta, egli sostiene quindi che il ministro mente. Mai dei bombardamenti intensivi sulle immagini, ma egli giunge alla stessa conclusione di Claire Chazal: “il regime di Tripoli è più che mai sotto la minaccia di attacchi aerei”. Senza bisogno di osservatori dunque, si possono muovere dei missili per salvare il popolo libico.

Quindi, se il telespettatore non si fosse ancora convinto dopo questi due piccoli minuti, ci si mette un ulteriore sostegno con un altro inviato speciale. Ma, poiché egli non ha una telecamera, si riciclano le immagini già mostrate all’inizio del TG. Ancora questo aereo che cade ed emana una fumata nera.

Questo Mig cade tre volte in meno di un minuto. Questa fumata, vista da differenti angoli della città, dà, in effetti, l’impressione che ci siano numerosi focolai d’incendio a Bengasi. Il corrispondente d’assalto dice timidamente che ci sono delle “eco di bombe” , che gli hanno parlato di cecchini, ma… “impossibile verificare”.

Non un’immagine, nonostante il materiale che si può procurare il canale francese come quegli apparecchi fotografici connessi sempre con la redazione per inviare le immagini in tempo reale. Niente, al loro posto, ci viene mostrata una foto sfocata di…ancora questo aereo che cade. E con questa fanno cinque volte. Ma, c’era realmente qualcosa da fotografare?

Con questa fanno due settimane che ci sarebbero “bombardamenti intensi” e Bengasi ha l’aria intatta. L’immagine più violenta è stata ripulita più volte ed è apparsa su tutti i quotidiani come prova della menzogna di Gheddafi sul cessate il fuoco e come giustificazione dell’attacco che avverrà 24 ore più tardi.

È difficile affermare che non ci sia stato alcun bombardamento poiché tutti i media lo ripetono. Perciò noi non vogliamo mettere in dubbio la professionalità di questi giornalisti che non si lasciano facilmente abbindolare
Eppure…

La Russia che ha dei satelliti d’osservazione più potenti di un iPhone afferma di non aver visto attacchi massivi come dichiara la coalizione. TF1 non sembra averne sentito parlare.

D’altro canto, Claire Chezal ha ragione quando dichiara: “in battaglia si combatte anche sul fronte delle immagini”


Link ai tre minuti di Claire Chezal (desolata per la pubblicità)



Siria. La guerra dei media
di Simone Santini - www.clarissa.it - 27 Marzo 2011

Latakia è una grande città portuale della Siria che si affaccia sul Mediterraneo. Da lì viene il clan degli Assad, che da quarant'anni governa il paese, prima col capostipite Hafez, "il leone di Damasco", ed ora, dal 2000, con suo figlio Bashar.

Latakia è anche la culla degli Alauiti, una minoranza confessionale islamica da cui provengono praticamente tutti i comandanti delle Forze armate siriane. Hanno destato dunque non poco clamore le notizie di questi giorni che indicavano in Latakia, la roccaforte degli Assad e degli Alauiti, come uno degli epicentri delle proteste anti-regime che stanno scuotendo paese. L'onda lunga della ribellione nel mondo arabo ha investito anche la Siria.

I primi moti sono avvenuti a Daraa, un centro agricolo nell'estremo sud, al confine con la Giordania. Da lì le proteste, dopo aver infranto il "muro del terrore", si sarebbero propagate ben presto a tutto il resto della nazione, coinvolgendo le maggiori città.

Questo almeno secondo i servizi dei telegiornali italiani e della maggiore stampa nostrana, che nella migliore delle ipotesi riportano sostanzialmente le notizie delle agenzie internazionali o le corrispondenze di Al-Jazeera, in altri casi fanno da cassa di risonanza a voci incontrollabili.

Un esempio. «Gli scontri più duri di ieri sono stati però a Latakia, sulla costa, la città-porto vicina alle montagne Alauite. "Le Guardie repubblicane, i loro sgherri e i cecchini, al comando del cugino di Bashar, Nmer, hanno attaccato cinque quartieri sunniti, ucciso venti persone - dice un attivista che non vuole essere citato - Il loro piano è creare tensioni confessionali e provocare un attacco sunnita contro gli Alauiti che sarebbe un'ottima scusa per nuove repressioni. Si dice poi che il regime stia preparando un attentato da attribuire ai rivoltosi".

In serata, fonti indipendenti segnalavano l'arrivo dell'esercito a circondare e poi entrare a Latakia» (Cecilia Zecchinelli, "Siria, assalto ai palazzi del potere - L'esercito dispiegato nelle città", Corriere della Sera, 27 marzo 2011).

L'agenzia di stampa ufficiale siriana, SANA, riporta le stesse notizie con un'ottica completamente diversa, anzi, opposta. «Una fonte ufficiale ha dichiarato che le aggressioni innescate da elementi armati contro i cittadini e i quartieri della città di Latakia, durante questi ultimi due giorni, hanno provocato dieci vittime tra le forze di sicurezza e la gente, e la morte di due elementi armati che avevano percorso le strade e occupato i tetti di alcuni edifici.

La fonte riferisce ancora che circa duecento persone, in gran parte membri delle forze armate, sono rimaste ferite, sottolineando che gli elementi armati hanno aggredito installazioni e luoghi pubblici, stazioni di servizio e negozi, preso d'assalto alcune abitazioni e terrorizzato la cittadinanza.

Gli elementi armati hanno inoltre attaccato l'ospedale nazionale, le ambulanze, e aggredito il personale medico che si trovava a bordo» (Raghda Bittar, "Dieci martiri tra forze di sicurezza e cittadini, bilancio dell'aggressione di elementi armati contro Latakia", SANA, 27 marzo 2011).

A qualunque delle due versioni si voglia prestare maggiormente fede, una cosa è certa. A Latakia non è accaduto nulla che assomigli a manifestazioni e proteste della cittadinanza contro il regime, nulla a che vedere con il vento della democrazia che secondo i media nostrani sta invadendo anche la Siria.

Si è trattato con tutta chiarezza di un episodio di classica strategia della tensione. Resta solo da comprendere chi ha sparato contro chi, e perché, con quali profonde motivazioni politiche.

Secondo i dissidenti è il regime che agisce per provocare una reazione su cui scatenare la repressione; secondo il governo, come rilanciato dalla portavoce del presidente Assad, la signora Bouthayna Chaabane, si tratta di infiltrazioni "dall'esterno" che tentano di sabotare la convivenza tra le componenti confessionali/tribali e provocarne la fitna, la divisione.

Un'altra cosa è certa. Finché i corrispondenti dei nostri media non si troveranno sul posto per verificare le notizie, o quantomeno sentire gli umori e le sensazioni della popolazione, non sarà facile per loro riportare una versione che non sia stereotipata, addomesticata, nel solco della vulgata dominante.

Basti pensare che le prime corrispondenze dei telegiornali Rai sono state realizzate - si noti bene: da Gerusalemme - da Claudio Pagliara (il giornalista che impugna il microfono come un Uzi) e dal valente Marc Innaro, ma da Il Cairo.

Si fossero trovati in Siria, forse avrebbero potuto dare conto delle interviste trasmesse dalla tv siriana agli agenti feriti sui loro letti di ospedale e che ricostruivano gli attacchi, o chiedere di intervistare i responsabili dei nosocomi di Lakatia che hanno dichiarato aver ricoverato rispettivamente, 150 feriti (Ospedale nazionale), di cui in maggioranza agenti, e 60 feriti (Ospedale universitario), di cui 50 appartenenti alle forze di sicurezza.

Dati gonfiati? Molto probabile. Ma non lo si può certo sostenere da Gerusalemme (la fonte dei dati è sempre l'agenzia SANA del 26 marzo).

Altri esempi. Ancora Cecilia Zecchinelli sul Corriere. «Ovunque la rabbia contro la dittatura è esplosa come mai era accaduto da anni. Impossibile il conto dei morti in un Paese blindato da una collaudata censura, ma le testimonianze che filtrano ne segnalano decine, moltissimi i feriti, tanti gli arresti. Tutti tra la popolazione civile. [...] Cambiare un regime non è cosa da poco. Ma è vero che se ieri sono successe cose mai viste - l'aver dato alle fiamme la statua di bronzo di Hafez nel centro di Deraa o l'attacco delle forze speciali contro i manifestanti dentro la sala della preghiera nella storica moschea degli Omaiadi nella capitale - è anche un fatto che per la prima volta il mondo preme adesso esplicitamente su Damasco perché conceda democrazia» (Cecilia Zecchinelli, "Siria, spari sulla folla in numerose città - I morti sono decine", Corriere della Sera, 26 marzo 2011).

Di converso, la collega Antonella Appiano, tra i pochi giornalisti italiani che, a quanto ne sappiamo, si trovi effettivamente a Damasco, riferisce, quanto meno nella capitale in questi giorni, di un clima piuttosto diverso (maggiori info su www.conbagaglioleggero.com).

Tra i blog e le note su facebook possiamo leggere: "Sentita l'insalata mista delle informazioni sulle tv italiane, vorrei ribadire che qui ogni informazione è venduta in doppia versione. [...] Quanto a Damasco ho assistito solo alla coda di una manifestazione (mi hanno detto circa 200 dimostranti) dispersa dalle forze di polizia ma senza spari. Almeno quando sono arrivata io. [...] A Damasco si respira un'aria tranquilla. Ieri, weekend, sole splendido, quanti ragazzi a spasso, mano nella mano, quante risate e musica... e allegria".


La Siria vuole dire tutti gli equilibri del Levante

di Antonio De Martini - http://corrieredellacollera.com - 28 Marzo 2011

La signora Busseina Chaabane, portavoce del governo siriano ha parlato alla stampa di un piano per seminare la discordia tra i siriani. “L’obbiettivo è colpire l’unità del paese perché questo resiste e si oppone a Israele”.

La signora ha poi rincarato la dose accusando i media di “ raccontare solo verità parziali e non tutta la verità”. Questa è, però, anche la prima parziale ammissione siriana che qualcosa sta succedendo. A Deraa i media parlano di cento morti. Probabilmente saranno trenta.

I morti di Latakia sono quasi certamente da addebitare a cecchini dell’opposizione, perché è una zona Alaoutita come lo è il regime e pertanto ogni persona di buon senso non può che nutrire dubbi sul fatto che gli alaoutiti sparino ai correligionari o che questi non capiscano che alla caduta del regime avranno problemi anche ad aprire un chiosco di granite.

E’ più verosimile che servissero un po’ di morti delocalizzati rispetto alla solita Deraa per dare respiro nazionale alla operazione.

Alla manovalanza contribuiscono certamente i fratelli mussulmani ( “già alleati democratici e progressisti” in Egitto) ansiosi di vendicarsi della strage di Hama del 1982 fatta da Assad padre, che rase al suolo la città di dodicimila abitanti e tra le più antiche dell’area.

Nel caso della Libia, ricorderemo come Obama in persona annunziò che gli USA non avrebbero attaccato. Nel caso della Siria questa dichiarazione l’ha fatta la segretaria di Stato Clinton, per evidenti ragioni di perduta credibilità del Presidente.

Ma con effetti nulli, data la duplicità mostrata verso Mubarak e Ben Alì. Se hanno fregato dei vecchi alleati, nessuno pensa che vorranno essere leali con il nemico più detestato. Delle dichiarazioni dell’ambasciatore USA Robert Ford, nessun cenno.

Una destabilizzazione dell’area giordana e siriana, non può non riguardare Israele che con re Abdallah II perderebbe l’unico alleato “sicuro” rimasto dopo la dipartita di Mubarak.

Che Israele sia al corrente di tutto, ormai non può essere dubbio, visto che dopo un minimo tentennamento iniziale e ufficioso, ha taciuto e continua a tacere evitando accuratamente di farsi coinvolgere, anche solo a parole, come fece nel 1991 a richiesta di Bush padre, incassando stoicamente una gragnuola di missili Irakeni a medio raggio, senza un lamento.

Se Israele entra in ballo, il mondo arabo reagisce compattandosi. Se la Siria cade o cede, Hamas e Hezbollah avrebbero le ore contate lontane come sono dall’Iran. Questo sarebbe un indubbio vantaggio politico e strategico per Benjamin Netanyahu e per Israele, che varrebbe ogni silenzio.

Ma se la Siria venisse attaccata, i suoi satelliti si scatenerebbero per difendere la loro linea di rifornimento, non certo in una battaglia navale con gli USA. Attaccherebbero Israele all’interno e destabilizzerebbero sia l’Egitto che l’alleanza coi fratelli mussulmani pazientemente tessuta dagli inglesi. Inoltre la probabilità di attentati in occidente aumenterebbe esponenzialmente.

Nel 91 la situazione era chiara: l’Irak aveva assalito il Kuwait e c’era una coalizione ben guidata, ampia (partecipò anche la Siria di Assad padre con un battaglione), chiara e non rissosa.

Oggi il diritto internazionale è, paradossalmente dalla parte dei vari dittatori che si vedono assaliti in casa e c’ é mezzo mondo che non ne vuole sapere di usare la forza. I ribelli, appoggiati dall’aeronautica alleata, non parlano più di libertà, ma di petrolio.

La Siria crea una problematica aggiuntiva: dopo l’eventuale sostituzione della setta alaouita al potere, ci sarà giocoforza un regime maggioritario ( 80%) sunnita, che prima o poi cercherà di aiutare i “fratelli sunniti” irakeni defenestrati dagli sciiti – che in Irak sono il 70% – con l’appoggio degli americani. Gli USA si sentono così sicuri dei loro alleati sunniti nell’area? Bloccherebbero la solidarietà sunnita sul nascere?

Un secondo paese destabilizzabile in pochi minuti se la Siria venisse attaccata, sarebbe il vicino Libano dove la TV di Hezbollah, Al Manar (il faro) ha fino ad oggi ignorato tutte le notizie dell’“unrest” siriano ed enfatizzato quelle di Bahrain (dove i rivoltosi sono sciiti come loro e filo iraniani).

Una forma di coinvolgimento libanese è già evidenziata dal fatto che i rivoltosi hanno dato alle fiamme la sede della compagnia telefonica di proprietà di Mikati (il premier libanese designato) e del cugino di Assad.

Altro coinvolgimento: voci raccolte a Beirut dicono che la repressione a Deraa è stata affidata ad elementi dell’ Hezbollah libanese, per evitare disobbedienze spiacevoli. Evidentemente i miliziani Hezbollah, se ci sono andati, sono filati sotto il naso degli italiani del nostro contingente che sorvegliano il confine con la Siria….

Ma il dubbio più grande che plana in tutto il Mondo arabo e specialmente nei suk di Damasco e di Aleppo è: si limiteranno gli USA alla lezione impartita a Gheddafi o vorranno dare una “mazziata” anche ad Assad?

E cosa garantisce ai sauditi che gli americani non decidano di risolvere il problema una volta per tutte aiutando anche chi vuole far saltare la dinastia Wahabita-saudita, magari rimettendo come custode della Mecca il discendente di Maometto Abdallah II, discendente anche di quel Faisal che aiutò gli inglesi nella prima guerra mondiale ( Lawrence, remember?) e che si vide togliere il trono dai wahabiti nel 1928?

Con un ragionamento tutto levantino, i suk siriani suggeriscono che defenestrata la dinastia, gli USA non avrebbero difficoltà a impadronirsi della lampada di Aladino costituita dai ricavi di 36 anni di royalties petrolifere gonfiate dalle crisi petrolifere ricorrenti che possiamo stimare (anche grazie agli interessi sugli investimenti) in un milione di miliardi di dollari. Di che rifarsi degli ultimi esborsi della crisi.

Tra meno di un’ora è annunziato un discorso di Bashar Assad al popolo. Bashar dal momento in cui successe al padre ha cercato di innovare e democratizzare, bloccato in questo dal partito Baas e minacciato da destra dallo zio (esiliato in Svizzera dal fratello) che ha sottolineato ogni gesto di “debolezza” proponendosi indirettamente per la successione.

Avant’ieri Bashar Assad ha fatto sequestrare il giornale di un cugino che esortava alla resistenza contro i ribelli con toni barricaderi. Potrebbe serbare sorprese.

Intanto il momento è scelto bene: la Siria stava aumentando il PIL significativamente da anni, attirava investimenti stranieri oltre ai capitali del vicino Irak e il regime stava liberalizzandosi in maniera riluttante, ma costante. Bashar, non voleva governare e molti ritengono che potrebbe riuscire con un discorso ben calibrato ad ottenere un’apertura di credito popolare, a meno che la rivolta non sia eterodiretta e ormai inarrestabile.

Prova ne sia che l’intervista TV data a un giornalista inglese e che ho messo in onda su questo blog due settimane fa ( “la Siria questa sconosciuta”), è stata tolta da You tube tre ore dopo che l’avevo messa on line.


Yemen, l'ora della trattativa

di Carlo Musilli - Altrenotizie - 28 Marzo 2011

Ha detto di essere pronto a lasciare il potere, ma vuole farlo "con dignità". Ali Abdullah Saleh, presidente dello Yemen da 32 anni, sa benissimo che il suo regime è arrivato al capolinea. Ma l'uscita di scena va pianificata con cura.

C'è da tenere conto degli alleati di sempre, Stati Uniti e Arabia Saudita, spaventati dalla transizione ai vertici del potere yemenita. Saleh vuole soprattutto garanzie sul futuro che attenderà lui e la sua famiglia. Pretende l'immunità: non ha nessuna intenzione di fare la fine di Mubarak, attualmente indagato per corruzione.

Intanto, l'opposizione continua a premere. I manifestanti non accettano di dover attendere la fine di un negoziato, pretendono che il despota se ne vada prima possibile, senza alcuna condizione.

Secondo un'usanza ormai collaudata, venerdì scorso, dopo la tradizionale preghiera, migliaia di persone si sono ritrovate in piazza del Cambiamento, nella capitale Sana'a, per urlare la propria rabbia contro il regime.

Dopo il massacro della settimana scorsa, quando le forze lealiste uccisero 52 manifestanti sparando sulla folla, stavolta gli scontri sono stati contenuti. E non era davvero scontato, visto che a poca distanza dalla protesta, vicino al palazzo presidenziale, erano scesi in piazza anche i sostenitori di Saleh. La polizia si è limitata a sparare dei colpi in aria per evitare che i due fiumi di persone si affrontassero.

Proprio davanti ai suoi fedeli ammassati in strada, Saleh ha detto di voler abbandonare la guida del Paese "per evitare un bagno di sangue". Ma vuole anche essere sicuro che lo Yemen sia affidato "a mani sicure".

E' evidente che tutti questi scrupoli hanno l'unico scopo di guadagnare tempo. Giovedì scorso, per calmare la situazione, il presidente è arrivato a proporre elezioni anticipate entro tre mesi, il cambiamento di statuto e la formazione di un governo d'unità nazionale con l'opposizione.

Non è bastato: "Parole vuote - ha commentato Yassin Noman, leader della coalizione anti-regime - ormai non più possibile alcun dialogo".

Mentre migliaia di persone si agitano in piazza, le trattative vanno avanti. Nella notte fra giovedì e venerdì, secondo alcune indiscrezioni pubblicate dal Times, l'abbandono di Saleh sembrava imminente.

Il presidente, nella residenza del suo vice, Abd Rabbo Mansour, ha incontrato il generale Ali Mohsen al Ahma, il capo carismatico dell'esercito passato lunedì scorso dalla parte dei manifestanti.

L'incontro si è concluso senza un vero accordo sul futuro del Paese, ma sembra che i due abbiano stabilito di lasciare il potere nello stesso momento. Quando, ancora non è dato saperlo.

Nel fine settimana ci sono stati degli incontri fra il partito di regime e il cartello delle opposizioni per trattare l'uscita di scena di Saleh. Il ministro degli Esteri, Abu Baqr al Qirbi, ha rivelato alla Reuters che l'intesa potrebbe essere vicina, ma Noman ha sottolineato che il divario fra le due posizioni "continua ad essere grande".

Saleh chiede che il futuro governo di transizione sia guidato da persone a lui vicine, come Mansour o il primo ministro Abd al Qadir Bajamal. E' questo il punto più delicato dell'intera trattativa.

L'unico aspetto su cui i due fronti sembrano d'accordo è la necessità di evitare che nello Yemen si ripeta quanto accaduto in Egitto. Il potere non deve passare direttamente nelle mani dei militari.

L'ipotesi più probabile sembra quella di un consiglio presidenziale ad interim costituito da cinque membri, il cui compito sarebbe quello di traghettare il Paese verso le sue prime elezioni democratiche. Ma l'intesa su chi guiderà questo esecutivo di transizione appare ancora lontana.

Dall'opposizione, com'è ovvio, l'unico nome che arriva è quello dell'agguerrito Yaseen Noman. Oltre ai vertici del governo, rimane poi da affrontare il nodo relativo alla rappresentanza dei gruppi tribali, che hanno un ruolo decisivo nel sistema politico, religioso e sociale dello Yemen.

Secondo la stampa americana, in queste ore una delle preoccupazioni principali di Saleh sarebbe il destino dei suoi familiari alla guida delle unità antiterroristiche. Un argomento che angoscia non poco anche gli Stati Uniti, allarmati dallo spazio di manovra che il vuoto di potere concederà agli uomini di Al Qaeda.

L'organizzazione terroristica islamica ha nello Yemen la sua rete più ampia e potrebbe sfruttare il momento di crisi per espandersi ulteriormente. Il regime di Saleh per anni è stato l'alleato più importante degli Usa su questo fronte.

Alcuni reparti dell'esercito, come quelli comandati dal figlio e da due nipoti del presidente yemenita, erano finanziati ed addestrati direttamente dagli Stati Uniti.

Comunque vada a finire, la tensione a Washington rimarrà alta. Anche nel caso improbabile di una transizione rapida e indolore ai vertici del potere, gli americani dovranno far fronte a un cambiamento rischioso. Come Saleh, anche loro hanno capito che è arrivato il momento di trattare.


Tahrir: la Vittoria benedetta dei Salafiti

di Sherif El Sebaye - http://salamelik.blogspot.com - 26 Marzo 2011

Lasciamo da parte, per un attimo, il caos libico e torniamo a ciò che rischia di diventare il caos egiziano.

L'altro giorno vi ho riferito che un influente Imam salafita ha fatto una predica molto eloquente che ha conquistato le prime pagine di tutti i media egiziani e arabi, in cui ha invitato chi non era d'accordo con l'intromissione della religione nella vita pubblica ad andarsene altrove.

Il riferimento a "coloro che hanno i visti per l'America e il Canada" e che quindi possono facilmente "cambiare paese" era specificatamente rivolto, come ben intepretato anche da Aljazeera, ai cittadini copti.

E proprio l'altro giorno, un gruppo di Salafiti ha tagliato le orecchie di un copto a Qena, nell'Alto Egitto, in applicazione delle "pene coraniche" previste per gli atti di immoralità: un episodio che ha suscitato grande clamore sui quotidiani egiziani e la riprovazione di tutte le forze religiose e politiche in un momento che vede la distensione dei rapporti fra Chiesa Copta e Fratelli Musulmani.

Ma chi sono i Salafiti? Sono i concorrenti intrasigenti dei Fratelli Musulmani, da loro definiti "fallimentari" (per un'analisi dettagliata, leggere questo editoriale de Le Monde Diplomatique).

I Salafiti, per tutto il regno di Mubarak, si erano saggiamente definiti "apolitici" e tenuti lontano dai riflettori ma ora molti di loro sono usciti dalle prigioni e sono risaliti sui pulpiti benedetti da cui erano banditi e si apprestano a scendere democraticamente in campo.

Infatti l'altro giorno un imponente gruppo di salafiti ha attaccato ad Alessandria, perché diretti verso una moschea locale, 5000 giovani manifestanti appartenenti al gruppo denominato "25 gennaio" - uno dei motori della rivoluzione di Piazza Tahrir - impartendo loro una lezione che non dimenticheranno presto.

Su Al Masri Al Yaum, uno dei giornali di riferimento dell'opposizione laica, un giovane studente protesta: “Eravamo uniti fino a poco tempo fa ma adesso il movimento salafita sta imponendo il suo modo di pensare contro di noi”.

Ebbene, se vi ricordate quello che scrissi mentre era ancora in corso la manifestazione di Piazza Tahrir, dissi chiaramente che era molto pericoloso presentare Piazza Tahrir come "una piazza unita".

Non lo era, nonostante le apparenze, e non lo sarà mai più. Perché ora che l'obiettivo finale, la cacciata di Mubarak, è stato raggiunto, emergeranno in tutta la loro drammaticità tutte le divisioni che prima sembravano inesistenti, facendo entusiasmare qualche rivoluzionario col culo al caldo.

Ricordatevi ciò che scrissi quando i manifestanti erano ancora in piazza: "in questo frangente, spesso e volentieri gli antidemocratici sembrano essere proprio i laici, anche se non se ne rendono conto: a più riprese giovani manifestanti hanno dichiarato che "non accetteremo di essere governati da una corrente islamista". E se a volerla fosse il Popolo? Leggo su La Stampa che un gruppo di manifestanti che intonava "L'islam è la soluzione" è stato accerchiato e costretto a scandire lo slogan "Musulmani e cristiani per l'Egitto". Non so voi, ma a me non sembra tanto democratico, tecnicamente parlando: obbligare la gente a gridare ciò che tranquillizza l'occidente e i laici egiziani non è democrazia e maschera quella che potrebbe essere la volontà del popolo. Se la vuoi davvero, la democrazia, devi essere diposto ad accettare anche ciò che non ti piace".

Aveva quindi ragione l'Imam salafita, quando ha dichiarato a voce alta: "Tra noi e loro ci sono le urne. E le urne hanno detto che abbiamo vinto. Ora la gente della fede sa quanto vale e loro sanno quanto valgono".

Infatti l'invito ad andarsene era chiaramente rivolto anche a tutti coloro che avevano votato "No" al referendum per le modifiche costituzionali e che quindi si erano schierati dalla parte della miscredenza.

L'esito del referendum sulle modifiche costituzionali, un 77% di "Si" contro un 22% del "No" a favore del quale avevano combattutto proprio i giovani laici, è stato la pietra tombale sulle loro aspettative.

Su un altro quotidiano egiziano, un giovane rivoluzionario, appartenente al gruppo 6 aprile, dà sfogo alla sua delusione, sentimento che invece io avevo correttamente anticipato quando erano ancora in piazza e le "esperte" Aljazeera-dipendenti tambureggiavano senza capirci niente.

I laici dovevano organizzarsi meglio se volevano che il loro successo, la loro rivoluzione avesse successo anche nel dopo Mubarak perché loro non rappresentavano affatto la maggioranza degli egiziani. Ma quando la affermavo io, questa ovvietà, qualcuno diceva che provava "disgusto" per le mie posizioni.

Ora andate a dirlo ai ragazzi di Tahrir che affermano testualmente che: "Purtroppo i cervelli di quelli che erano in fila per votare erano pieni di idee che non erano le loro, e l'aspetto più pericoloso era che erano idee pericolosissime. E' forse corretto votare "Si" perché sono musulmano e "No" perché sono cristiano? Purtroppo questo è stato il risultato deludente del referendum. La nostra felicità per l'affluenza alle urne è proporzionale alla nostra tristezza per coloro che hanno consegnato i propri cervelli ai predicatori delle moschee. Ciò che è successo conferma che l'Egitto ha bisogno di un dialogo continuo da cui la gente semplice possa imparare come esercitare la democrazia perché ciò che verrà potrebbe essere molto pericoloso".

Eh no, caro mio giovanotto: non puoi ricomporre le uova a frittata fatta.

L'Imam salafita aveva ragione da vendere: "Non è questa la democrazia che volevate?".


Cosa resterà dopo le rivolte arabe. Dietro i dittatori, piccoli leader crescono
di Renzo Guolo - La Repubblica - 27 Marzo 2011

Dal ruolo dei militari all’ascesa dei Fratelli musulmani, i nuovi capi dovranno muoversi in contesti più simili a regimi pluralisti che alle odiate autocrazie

Chi governerà i paesi della Mezzaluna dopo le cadute degli autocrati? Previsioni assai difficili: l´inverno dello scontento arabo è un´onda lunga che travolge assetti e certezze consolidate.

Ma, qui come altrove, la lettura deve partire dalle strutture di continuità del potere e dalle forze che più saranno capaci di adattarsi al vento impetuoso della transizione.

Un ruolo chiave lo giocherà comunque l´ambiente militare vero fattore unificante di società assai diverse, dall´Algeria all´Egitto.

In Siria più che il Baath svuotato di funzioni dirigenti come già in Iraq, conta l´appartenenza alle nuove asabiya, le solidarietà che forgiano rapporti fondati su antiche ma anche nuove relazioni. Prima ancora che alawiti, i siriani che contano si sono formati alla Scuola di artiglieria di Aleppo.

Dunque, come in Egitto, in Siria l´esercito pesa. Ma se cadesse Bashar Assad e la maggioranza sunnita prendesse il potere, un ruolo decisivo lo avrebbero i Fratelli musulmani, che qui hanno posizioni più radicali dei loro confratelli egiziani.

Soprattutto dopo che Assad padre annientò buona parte dell´organizzazione facendo tirare a alzo zero contro Hama, città in cui la Fratellanza era insorta. Le vittime furono decine di migliaia. Almeno sino a questi caldi giorni le "regole di Hama" erano un terribile monito per i nemici del regime.

Anche in Egitto l´esercito è un fattore chiave e non è detto che alcuni membri dell´organismo che guida la transizione non diventi il fiduciario di questa potente struttura che garantisce al tempo stesso coesione nazionale e il sistema di alleanze internazionali.

Ma all´ombra delle Piramidi contano anche i Fratelli musulmani, che hanno una forza radicata nella società e si disputeranno il consenso con laici come El Baradei, che potrebbe coagulare attorno a sè i ceti modernizzanti, con il segretario della Lega araba Abu Moussa o con Nour, il capo del partito centrista e laico Ghad.

In Tunisia contano uomini legati al passato regime come Sebsi e Morjane ma anche il capo dell´opposizione Chebbi, oltre che il leader del partito En Nahda Gannouchi, movimento di matrice islamista che guarda ormai più all´esperienza dell´Akp turco che alla Fratellanza musulmana, dalla quale pure deriva.

Situazione inversa a quella siriana è quella del Bahrein, dove la maggioranza sciita è governata da una dinastia sunnita sorretta da Riad. Qui l´appartenenza religiosa diventa discriminante per capire come andranno le cose.

In Libia si guarda agli uomini del Consiglio nazionale provvisorio, nel quale vi sono membri della società civile come Tarbel, leader della protesta a Bengasi, ma anche ex membri del regime come Jalil e Yunis.

Anche nello Yemen, dove vacilla il lungo potere di Saleh, sono alcuni ex a giocare un ruolo rilevante come i già ministri al Ahmar e al Iryani o il rappresentate alla Lega araba Mansour.

Come si vede, il futuro dei paesi arabi non ha solo un volto nuovo. Del resto, le sommosse sono state innescate da giovani che non avevano esperienza politica e dunque il dopo presenta evidenti fattori di continuità, almeno nei leader.

Le rivolte non sono necessariamente rivoluzioni, anche se è evidente che i nuovi leader dovranno muoversi in contesti più simili a regimi pluralisti che alle odiate autocrazie.


Il crimine organizzato, la spina dorsale del Nuovo Ordine Mondiale

di Konstantin Goordeev - www.strategic-culture.org - 26 Marzo 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Negli ultimi dodici anni, dall'aggressione della NATO all'ex-Yugoslavia, non è la prima volta che siamo testimoni di un intervento internazionale che ha come obbiettivo uno stato sovrano, sotto l'egida nelle Nazioni Unite e con le parole d'ordine 'democrazia' e 'diritti umani'.

Il controllo del caos non è una strategia recente e le leggi internazionali sono oramai defunte da lungo tempo. Nel marzo del 1999, la NATO bombardò Belgrado, Pristina e altre città della ex-Jugoslavia, il paese che per primo ha sperimentato i test del nuovo corso degli eventi durante gli anni '90.

In effetti, il concetto di caos dei sistemi dinamici è vecchio di circa quarant' anni.
Deriva dagli studi matematici, ma è poi trapelato persino negli scritti di Z. Brzezinski che videro la luce del giugno negli anni '70 e definirono la direzione da intraprendere per la costruzione del nuovo ordine mondiale per i decenni a venire.

Le motivazioni pragmatiche costituiscono la struttura delle applicazioni della teoria del caso, all'interno dei sistemi deterministici in almeno il 90% dei casi, anche non considerando il fatto che questa è in realtà una reincarnazione della strategia del divide et impera, che ha lo scopo di minare la sovranità nazionale, di prendere il controllo delle risorse naturali (in primo luogo, quelle energetiche ma anche le competenze tecnologiche) dei paesi indipendenti, e di dare supporto agli architetti del nuovo ordine mondiale per rafforzare le loro posizioni, usando il potenziale delle regioni poste sotto il loro controllo.

Le quattro missioni NATO di 'peace-keeping' nel periodo di tempio iniziato nel 1999, quelle in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia, ci forniscono abbastanza materiale per comprendere cosa hanno in comune queste offensive nei termini delle implicazioni politiche internazionali.

Per prima cosa, tutte le campagne simili hanno lo scopo di dare alla NATO il controllo sui territori e sulle risorse naturali, con l'appoggio dello schieramento dei media.

Le vittime delle aggressioni sono demonizzate e ritratte come nemici della civilizzazione e dell'umanità mentre, al contrario, le aggressioni sono spacciate all'opinione pubblica - la cui stretta visuale è limitata dagli schermi televisivi e dai monitor dei computer - come atti di giustizia.

In secondo luogo, le provocazioni dei gruppi estremisti o separatisti e quella dei cartelli della droga aiutano a costruire le basi della narrazione per le campagne di propaganda.

La connessione tra il crimine organizzato legato al traffico degli stupefacenti e le aggressioni della NATO può sembrare paradossale, ma molti dei paesi che sono stati vittima di attacchi da parte della NATO sono tutti attraversati da importanti rotte di smercio, o sono conosciuti per essere tra le centrali di traffico della droga.

Ad esempio, l'Afghanistan e l' Iraq erano annoverati tra i maggiori produttori al mondo di hashish, marijuana e eroina, e il Kosovo albanese come entità etnica esisteva in larga parte grazie a un enorme clan mafioso, il cui leader H. Thaci, un 'signore della droga' convertitosi in primo ministro di uno stato che si è auto-proclamato, era la figura-chiave nel business degli stupefacenti in Europa.

La connessione tra i presunti combattenti per la libertà etnico-religiosa e i membri dei cartelli della droga, anche se spesso si tratta delle stesse persone, è un segreto di Pulcinella.

V. Ivanov, il capo dell'agenzia per il contrasto alla droga in Russia, ha sottolineato, durante un incontro con i media avuto a Roma il 2 marzo del 2011, che oltre a minare la salute e l'ordine pubblico, il traffico di droga contribuisce anche alla destabilizzazione politica e comporta quindi una tutta una serie di conseguenze alle rispettive società.

Ha anche aggiunto che ci sono informazioni sul fatto che il traffico di droga sia la causa principale di proliferazione del crimine organizzato e di rivolta in Nigeria, Costa d'Avorio, Algeria, Tunisia, Libia e Egitto.

Seguendo V. Ivanov, la recente rivoluzione, in alcuni dei summenzionati paesi, si deve di fatto attribuire al crimine organizzato legato agli stupefacenti.

In terzo luogo, la tendenza va nella direzione di costruire giustificazioni ai miti diffusi dai media, e i servizi di intelligence, strumenti della governance globale, pubblicano con prontezza relazioni di supporto per l'attacco ai regimi non allineati.

Dopo di che, i paesi intenzionati a sostenere il nuovo ordine mondiale – confidando nella loro assoluta superiorità militare e quindi senza alcun rischio – sono liberi di devastare le infrastrutture militari e civili dei paesi-vittima.

Nel processo, la conta delle morti dei civili supera di molto quella dei membri dei gruppi criminali, che fanno mostra di sé quali combattenti per la libertà. In quarto luogo, i paesi costretti a capitolare diventano quasi sempre preda dei 'cartelli' del traffico della droga.

I rappresentanti dei trafficanti e dei gruppi separatisti, che fin dall'inizio scatenano la tensione, o le persone legate a gruppi di pressione esteri vengono così supportati nei paesi sconfitti per imporre nuovi standard apparentemente democratici, dove poi ricopriranno incarichi nella burocrazia post-bellica in modo che le loro risorse tecnologiche e naturali vengano così cedute alle corporation multinazionali.

Le popolazioni degli stati in precedenza sovrani si trovano privati di tutte le fonti di sviluppo socioeconomico e si convertono in materiale umano pronto per essere usato dalle mafie.

Con la supervisione della NATO, i paesi prendono le sembianze di stati in mano ai gangster, dove la popolazione è divisa tra scagnozzi dei gruppi criminali e servi, vittime e schiavi della criminalità organizzata.

La situazione nei regimi instaurati dalla NATO, con leader fantoccio, guerre di mafia oltre al totale disprezzo dei diritti umani, è simile a quelle già vista nelle colonie.

Diffondendo una versione edulcorata, i media hanno comunque fornito una vasta testimonianza a riguardo: le forze USA hanno, secondo quanto riferito, umiliato gli iracheni e gli afgani, i velivoli NATO hanno deliberatamente bombardato i villaggi locali nelle zone di combattimento, i prigionieri hanno dovuto affrontare molestie sessuali e il centro diretto da Thaci per l'estrazione forzata degli organi da mettere in vendita in Europa e negli USA è stato realizzato nel mezzo dell'Europa stessa.

Questi processi aiutano gli architetti del nuovo ordine mondiale nell'accumulare valore e a mettere in atto i programmi di riduzione della popolazione, ma questi scopi sono ancora marginali alle loro strategie.

Ovviamente, la reale priorità è quella di allargare le zone soggette al 'controllo del caos' per coinvolgere tutto il mondo globalizzato. Nel lungo termine, questo caos dovrebbe condurre a una ridistribuzione del mondo in linea con un modello socioeconomico dalla concezione astratta.

Le rivoluzioni che hanno sconvolto il Nord Africa e il Medio Oriente nel gennaio-marzo del 2011 dovevano avere lo scopo di creare una cintura di caos perenne che si spandesse dall'Afghanistan al Marocco (per il momento, la Libia, che mette resistenza all'aggressione della NATO, e l'Iran, un paese che non svenderà la propria sovranità nazionale, stanno contrastando la realizzazione del piano).

In aggiunta a questi manifesti obbiettivi geopolitici, quali la formazione di una testa di ponte strategica dalla quale l'intera Eurasia e il Nord Africa avranno la pistola puntata così come la formazione di un monopolio per la formazione dei prezzi dell'energia, capace di provocare arbitrariamente o di far cessare crisi globali, il proposito di questo disegno geopolitico era quello di disseminare il caos, principalmente nei paesi europei, indirizzando verso di loro un sempre maggiore flusso di migranti e di droga.

E' improbabile che la miscela risultante raggiungerà una concentrazione esplosiva nel futuro prossimo, ma le tensioni etniche che stanno montando in Germania e in Francia e le sue conseguenze socioeconomiche promettono già un collasso generalizzato.

Senza ombra di dubbio, l'ora del regolamento dei conti nella vecchia Europa arriverà un giorno o l'altro, anche se, al momento, gli architetti si stanno preoccupando di paesi più vulnerabili, quali la Siria, l'Iran e il Venezuela.

L'Iran è il primo obbiettivo scelto per essere il candidato di rivolte preventive guidate dal caos, essendo anche lo stato che ha osato esprimere la propria opposizione alla politica israeliana, oltre ad costituire un'interruzione nella zona soggetta al crimine che si estende dall'Afghanistan al Marocco e a combattere in modo deciso il traffico di stupefacenti.

In Iran, una guerra con i propositi dell'esportazione della democrazia è imminente.

La ragione in parte risiede nel fatto che le recenti rivoluzioni nel mondo arabo hanno lasciato Teheran a corto di alleati e hanno rafforzato la posizione di Israele, ma va anche considerato che la guerra contro l'Iran nel mondo virtuale è già stata scatenata e, nei piani della NATO, questo paese è il prossimo della lista dopo la Libia (o dopo Libia e Siria).

La domanda finale è: come il banditismo si può evolvere nella colonna portante del presente geopolitico e come può il crimine organizzato, con i suoi gruppi armati, emergere come lo strumento preminente del nuovo ordine mondiale?

La risposta è semplice: la misinterpretazione di un modello preso a prestito dai matematici, e applicato con successo come fondamento per una valutazione socioeconomica, è servito a trasformare una parte dell'umanità in un'organizzazione diffusa che è strutturalmente analoga alla mafia tradizionale.

Le similitudini nella struttura stessa fanno da contraltare alla comunanza di forme, principi, metodi e algoritmi. Le implicazioni per il mondo intero non sono difficili da comprendere.