martedì 22 marzo 2011

Il troiaio italo-libico

Mentre continuano i bombardamenti della cosiddetta "coalizione dei volenterosi", sempre pù divisa e nel caos sulla catena di comando delle operazioni militari, la Gran Bretagna - per voce di Nick Harvey, sottosegretario del Ministero della Difesa inglese - non esclude un intervento di terra delle truppe britanniche in Libia.

Violando così la Risoluzione Onu 1973 che esclude l'invasione militare del territorio libico.

Ma a proposito di violazioni/tradimenti andiamo a vedere cosa ha firmato Berlusconi nel "Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione tra la Repubblica Italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista" del 2008.

Questa è la trascrizione integrale dell'articolo 4 del Trattato:

Articolo 4 – Non ingerenza negli affari interni.

1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.

2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.


Letto? Ok...e ora riflettiamo...

P.S. Berlusconi ha dichiarato oggi "Sono addolorato per Gheddafi e mi dispiace. Quello che accade in Libia mi colpisce personalmente".
"Certamente", direbbe il petomane di Ciprì&Maresco...


Non possiamo accettarlo
di Franco Cardini - www.francocardini.net - 21 Marzo 2011

Naturalmente, faranno anche questa. Ormai l’arroganza e l’orgia del potere incontrollato non hanno più limiti: la democrazia non è più nemmeno ridotta a un guscio formale; il rispetto di norme e convenzioni non regge davanti a un’incuranza e a un’ignoranza che non conoscono più limiti; le opinioni pubbliche non esistono più, annegate nel marasma del bla-bla televisivo e mediatico dove tutti gridano, nessuno sta a sentire e nessuno incide sulla realtà che è invece gestita da una banda di gangsters e dai loro gregari.

Il mondo arabo è in fiamme, ma le notizie arrivano frammentate e quasi casuali. Lo Yemen è sull’orlo di una guerra civile; gli Emirati Arabi Uniti (gli stessi che collaborano alla missione “Odissea all’alba” sui cieli della Libia) usano le loro spietate polizie per soffocare nei loro paesi le richieste di libertà; la Tunisia è lasciata a se stessa, e la gente di là può solo scappare sulle carrette natanti verso Pantelleria.

Gheddafi uccide. Non è la prima volta. Lo faceva anche quando era nostro amico e nostro complice; anche quando distribuiva libretti verdi ad alcune puttanelle e accettava i baciamano dei suoi soci in affari e colleghi di quel che le convenzioni obbligano ancora a definire “di governo”.

Anche altrove si ammazza, si reprime, si tortura, s’imprigiona. Ma il punto, per il democratico Occidente, non è intervenire dove più difficili sono le situazioni e più dura si fa la ferocia degli assassini.

No. Il punto è scegliere secondo convenienza e al tempo stesso mostrare i muscoli. Dopo l’esportazione della democrazia di buona irakena memoria, siamo alle “ragioni umanitarie”: e lo stesso presidente della repubblica finge di crederci: e recita la commedia del “questa-non-è-una-guerra”.

Mentre qualcuno, da destra e da sinistra – contano, ormai, le distinzioni? -, si chiede se in fondo non sarebbe meglio far maggior attenzione a chi stiamo appoggiando, e che i ribelli di Bengasi potrebbero esser peggio dei lealisti di Tripoli, potrebbero addirittura essere, orrore!, dei “fondamentalisti”… e quindi “terroristi”.

Come a dire che qui quel che conta non è intervenire a tutela dei più deboli, una balla in cui non crede nessuno, bensì colpire chi si ritiene più pericoloso per i propri interessi.

Chi è peggiore, allora? Il rais che doveva essere richiamato all’ordine in quanto minacciava d’introdurre nel business del petrolio libico dei partners non graditi agli occidentali, o i “ribelli” che magari sognano un tipo di assetto che domani potrebbe avanzare qualche pretesa compromettente, ad esempio circa l’assetto del Mediterraneo o del Vicino Oriente?

Intanto, noi scivoliamo sempre più nel ridicolo: abbiamo un ministro della Difesa che, reduce da un raid aereo dannunziano sull’Afghanistan, ora cita il D’Annunzio della guerra di Libia della quale, guarda caso, ricorre il centenario (lo facciamo un bel Colony Day, signor ministro, con tanto di caschi coloniali di sughero da distribuire alle scuole?).

Abbiamo un ministro degli Esteri che ora minaccia di uscire dalla coalizione, se i francesi non la smetteranno di giocar al capofila: ci vuole la NATO, che diamine, vista anche la bella figura che sta facendo in Afghanistan…

No, diciamolo chiaro. Noi non contiamo nulla e non possiamo far nulla. Da Grosseto, si alzano i caccia che bruciando i nostri soldi vanno ad ammazzar gente in Libia per difendere le popolazioni civili e le “ragioni umanitarie”, insieme con i caccia degli Emirati Arabi Uniti (retti com’è noto da celebri governi umanitari) e i danesi e i canadesi, che sono interessatissimi alla faccenda poiché, com’è noto, Canada e Danimarca bagnano le loro coste nel nostro Mediterraneo (per tacer d’inglesi e d’americani).

L’ONU ha dato l’ennesima riprova della sua ignavia e incapacità: ma la risoluzione del suo Consiglio di Sicurezza che autorizza non si sa chi a ”tutte le misure necessarie” è stata immediatamente onorata, più o meno come quelle contro Saddam: e alla buon’ora, dal momento che, come tutti sanno, vi sono numerose risoluzioni che invece sono state più volte adottate e vengono pervicacemente ignorate dalla comunità internazionale.

L’operazione militare “Odissea all’alba”, che nelle intenzioni proclamate dai suoi promotori – in primis il presidente francese Nicolas Sarkozy – avrebbe il solo scopo d’impedire pesanti ritorsioni aree delle truppe del rais Gheddafi sulla popolazione civile delle aree del paese libico per ora nelle mani dei “ribelli”, è scattata in modo inatteso sabato 19 marzo 2011: il presidente francese ha sorpreso “di contropiede” la comunità internazionale trascinandola in un’avventura che l’ONU ha provveduto a tempestivamente legittimare, pur non potendo celare l’imbarazzo.

Una mossa avviata in modo maldestro, che ha dato luogo a una coalizione “equivoca”, nella quale gli Stati Uniti hanno dato l’impressione di essere entrati di malavoglia e solo per non cedere ai francesi il primato dell’iniziativa.

Gli “alleati” che, per dirla col ministro degli esteri italiano Frattini, “non potevano essere assenti” dall’azione – un parere, questo, a dire il vero piuttosto debole e sembra tiepidamente condiviso dallo stesso Presidente del Consiglio – hanno l’aria di costituire un insieme alquanto eterogeneo, che va dalla Spagna alla Danimarca al Qatar. Non è né ONU, né Unione Europea, né NATO.

Tutto ciò, in barba e in spregio a due princìpi che dovrebbero essere chiari.

Primo, quello dell’autodeterminazione dei popoli: di tutti i popoli, non solo di quelli che qualcuno a Washington o a Parigi ritiene virtuosi. È un principio-base della convivenza e del diritto internazionale. Serve a evitar di cadere in una jungla dove valga solo la legge del più forte. Da vent’anni, cioè dai tempi del Kosovo e della prima guerra del Golfo, se ne fa strame. Non possiamo più tollerarlo.

Secondo, quello dell’iniziativa comunitaria. Gli interventi umanitari da parte della comunità internazionale debbono esser decisi primariamente ed esclusivamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite: che non può andar a rimorchio di nessuno, contrariamente a quel che fece nel 2003 con gli USA a proposito dell’Iraq e a quel che ha fatto adesso a rimorchio della Francia.

Sarebbe ormai ora che i paesi membri dell’Unione Europea, dopo aver dato tante e tanto squallide prove di sé, cominciassero ad agire di comune accordo fra loro - e senza aspettare il placet americano o farsi travolgere dei fulmini di guerra degli emuli del Bonaparte - e a tracciare insieme un abbozzo di comune politica di difesa.

Infine, l’Italia avrebbe avuto tutti i titoli storici e geopolitica per avanzare una seria ed energica proposta mediatrice tra Gheddafi e gli insorti: avrebbe dovuto farlo energicamente e tempestivamente, e a tal fine avrebbe dovuto chiedere con forza un mandato internazionale.

Ma, per fare cose come queste, ci vuole un governo. Non una “loggia coperta”, o un’organizzazione volta a organizzare profitti e festini, o un’organizzazione a delinquere.



L'esprit de l'escalier
di Gianluca Freda - http://blogghete.altervista.org - 21 Marzo 2011

I commenti odierni di Putin relativi all’attacco della coalizione USA-UE contro la Libia sono stati di una durezza che non ricordo di avere più ascoltato dai tempi della Guerra Fredda. Qualcosa inizia forse a diventare più chiaro sulla strategia perseguita dai russi nel contesto di questa crisi.

Una strategia piuttosto cinica, in verità, e di incerta efficacia. Putin ha lasciato che l’ONU emanasse la sua risoluzione sulla no-fly-zone, ben sapendo che – come al solito – le stragi di civili non si sarebbero fatte attendere, come sempre avviene quando c’è di mezzo la barbarie dei bombardamenti americani.

Putin sta sfruttando adesso l’emozione suscitata a livello internazionale da queste stragi per diversi obiettivi. Sul piano interno, pare che intenda sistemare una volta per tutte i conti con Medvedev, il quale è oggi apparso in forte difficoltà (in un’intervista rilasciata a Russia Today) nel sostenere le proprie posizioni.

Sul piano dei rapporti internazionali, pare voler incastrare gli USA in una situazione senza via d’uscita: se non portano a termine gli obiettivi delle operazioni in Libia (eliminare il regime di Gheddafi), perdono la faccia; ma se insistono a portarle a termine, rischiano d’impantanarsi in un un nuovo conflitto che li esporrà alle critiche dell’opinione pubblica interna e alla deplorazione internazionale di fronte ad ogni nuova strage di civili.

Ed è difficile pensare che una perdurante situazione di stallo, con la conseguente necessità di un intervento di terra, con tutti i rischi e le vittime civili che da esso scaturirebbero, gioverebbe alla compattezza e al sostegno internazionale della coalizione.

Putin, appoggiato dalla sempre più atterrita Lega Araba, ha già chiesto una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per valutare la situazione libica alla luce dei recenti sviluppi, che hanno visto gli USA in posizione di attori predominanti del conflitto, anziché di semplici coordinatori (beata ingenuità).

Russia Today sta dedicando ampio spazio al conflitto libico, facendo ascoltare ai suoi spettatori opinioni dissenzienti e drasticamente antitetiche al trionfalismo legittimista dei media occidentali.

Per sostenere la sua linea, pare che la Russia si sia dotata di una copertura mediatica internazionale in lingua inglese che, una volta tanto, ci consente di sentire una campana completamente diversa da quella consueta.



Qualche risultato è stato già ottenuto in tempi assai rapidi, visti i dubbi che iniziano a serpeggiare tra la Lega Araba e tra gli stessi alleati della coalizione.

Proprio oggi, gli sguatteri del governo italiano, per bocca di Frattini, hanno minacciato di ritirare la concessione dell’uso delle basi militari italiane se il comando delle operazioni non verrà affidato alla Nato (cosa che sposterebbe a Napoli-Capodichino il centro di coordinazione dell’azione bellica), suscitando la risentita reazione della Francia.

I mal di pancia all’interno della coalizione degli aggressori iniziano in effetti a farsi sentire, proprio come Putin aveva probabilmente sperato, conferendo a tutta l’operazione un profilo sempre più incerto.

Non è detto, comunque, che questi bizantinismi diplomatici giovino alla posizione di Putin o a quella della Russia; la quale è ora costretta a prodursi anch’essa in dichiarazioni sempre più minacciose e tracotanti che rischiano, se non troveranno un seguito in azioni di sostegno concreto alla Libia, di apparire come un rigurgito tardivo, l’esprit de l’escalier di una nazione impotente.


Libia, dove si spellavano i gatti
di Debora Billi - Il Fatto Quotidiano - 21 Marzo 2011

Sovente, e ahinoi ultimamente sempre, si sospetta che dietro una guerra ci sia il petrolio. Ma le guerre non si fanno per prendersi il petrolio” tout court: quasi sempre si può ottenerlo comodamente firmando un accordo e con una stretta di mano. Chi ha il petrolio ha infatti bisogno di venderlo.

Certo, l’aumento della domanda e la diminuzione della risorsa hanno condotto a un mercato del venditore, anziché del compratore, ma l’obiettivo di entrambi resta il medesimo.

Il problema quindi non è “prendersi i pozzi”, ma ottenere accordi molto favorevoli.

Il che non sempre è possibile, specialmente quando il Paese produttore ha una forte compagnia nazionale oppure delle leggi che non consentono a compagnie straniere di fare il bello e il cattivo tempo.

Alcuni esempi? L’Iraq di Saddam, a cui dopo la guerra fu imposta la molto discussa legge per il petrolio, che in pratica toglieva al popolo iracheno la sovranità sul proprio sottosuolo; il Venezuela di Chávez, o la Libia di Gheddafi.

Quest’ultima, attraverso la compagnia nazionale Noc, ha un sistema di accordi diverso da quelli in uso nel resto del mondo.

L’accordo Epsa
, che molte compagnie stipulano in Libia, non prevede royalties, divisione delle spese operative, tasse: nulla di tutto ciò. Più semplicemente, il governo prende la sua parte dalla produzione lorda. Le compagnie operano a proprie spese, non pagano tasse né diritti, e dividono con la Libia la produzione. Ma non pensate che si tratti di un fifty-fifty, neanche per sogno.

E proprio a fagiolo casca l’Eni, che se ne sta a trivellare in Libia da prima di Gheddafi e che ha sempre rappresentato un po’ la pietra dello scandalo. E forse anche la goccia che ha fatto traboccare il vaso, pensando agli eventi odierni. Per capire com’è andata questa questione in Libia ci viene in aiuto Wikileaks, con alcuni documenti classificati.

17-06-2008:Esteso l’accordo per gas e petrolio con l’Eni, le altre compagnie si preoccupano che i termini dell’accordo stabiliscano uno sfavorevole precedente”. Forse lo ricorderete, se ne parlò molto: succede, nel 2008, che la Libia estende per altri 25 anni i diritti di sfruttamento Eni.

“Con il nuovo contratto, Epsa IV, l’Eni riduce la sua percentuale di produzione al 12% per il petrolio (dal precedente 35-50%) e al 40% per il gas”.
Continua il cablo Wikileaks: “L’impatto potenziale di questo accordo Eni è significativo. Osservatori locali si aspettano che il successo della Noc nell’assicurarsi termini così favorevoli la convincerà a rinegoziare i contratti esistenti con le altre compagnie internazionali.

Il succo è: lamentano che l’Eni operi in Libia per un tozzo di pane. Facendo concorrenza alle altre compagnie che saranno costrette anch’esse, dalla potente compagnia libica, a lavorare con compensi da cinesi.

E infatti, ecco che la Noc prende per il collo anche le altre compagnie.
23-07-2008: Con il nuovo accordo, lo share di produzione per il consorzio europeo (quello che sviluppa il bacino di Marzuq, ndr) sarà ridotto dal 25% al 13%. Repsol, Omv, Total e Saga Petroleum hanno seguito altri maggiori attori in Libia nel cedere alle pressioni Noc verso il nuovo accordo Epsa IV, che prevede significative riduzioni di share per le compagnie internazionali.

E se qualcuno dubita, ecco pronto un cablo in cui ci si lamenta proprio della della rigidità della Noc, e specialmente della gestione autocratica del responsabile Shukri Ghanem. Il quale, appena lo scorso anno, ha annunciato di voler estendere il fatidico accordo Epsa IV anche alle compagnie che finora hanno goduto di concessioni tradizionali. “Ci sono molti modi di spellare un gatto, ha osservato.

Più che gli accordi-capestro, allora, è questa metafora che non deve essere proprio andata giù alle compagnie internazionali. Con le conseguenze del caso.


Libia, "chi dice umanità" - intervista a Danilo Zolo
di Francesca Borri - Peacereporter - 22 Marzo 2011

L'Onu è un'istituzione autocratica e la missione internazionale in Libia avviene in spregio al tanto citato articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite. L'opinione del filosofo del diritto

La guerra civile e la guerra portata dai caccia, la diplomazia internazionale e la repressione del Colonnello Muhammar Gheddafi. Danilo Zolo, filosofo del Diritto, professore con alle spalle docenze in università tra le più prestigiose al mondo, fornisce il suo punto di vista, codici alla mano, sull'intervento internazionale in Libia.

In Libia la comunità internazionale, per una volta, ha agito rapida e unita.

L'espressione "comunità internazionale" è totalmente priva di senso. Le Nazioni Unite non esprimono le aspettative di alcuna "comunità", poiché sono un'istituzione autocratica, che non rappresenta in alcun modo le popolazioni del mondo e che attribuisce il potere politico e militare alle cinque potenze che hanno vinto la Seconda Guerra mondiale.

Oggi, di fatto, il potere di decidere all'interno del "Consiglio di Sicurezza" è un privilegio degli Stati Uniti d'America, che utilizzano costantemente il loro "diritto di veto" per fare valere i propri interessi.

Quanto alla risoluzione 1973 del 17 marzo che ha deciso l'intervento militare contro la Libia, essa è stata voluta, oltre che dagli Stati Uniti, da due paesi occidentali loro alleati, Francia e Gran Bretagna, mentre Germania, Russia, India, Cina e Brasile si sono astenuti e hanno deprecato, sia pure tardivamente, l'aggressione sanguinaria che Francia, Inghilterra e Stati Uniti hanno scatenato contro la popolazione libica in nome della tutela dei diritti umani. Una autentica impostura, tardiva e criminale nello stesso tempo, della quale si è ovviamente macchiato anche il governo italiano.

Ma il Consiglio di Sicurezza ha comunque titolo per intervenire. Ha la responsabilità principale, dice lo Statuto delle Nazioni Unite, del mantenimento della pace e della sicurezza.

Questo è un punto centrale e delicatissimo. Occorre tenere presente che il comma 7 dell'articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che "nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato".

È dunque indiscutibile che la guerra civile di competenza interna alla Libia non era un evento di cui poteva occuparsi militarmente il Consiglio di Sicurezza. Oltre a questo, l'articolo 39 della Carta delle Nazioni Unite prevede che il Consiglio di Sicurezza può autorizzare l'uso della forza militare soltanto dopo avere accertato l'esistenza di una minaccia internazionale alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione (da parte di uno Stato contro un altro Stato).

Questa è dunque una seconda ragione che rende illegale la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza, visto che nessuno può pensare che la guerra civile in atto in Libia possa essere una minaccia internazionale contro la pace.

Però i tempi cambiano. Questo è un intervento a sostegno di chi si batte per libertà e democrazia. I diritti umani non possono più essere considerati come una questione interna dei singoli stati.

Certo, i tempi cambiano e dovrebbe cambiare anche lo Statuto delle Nazioni Unite e attribuire all'Assemblea Generale, al Consiglio di Sicurezza e alla Corte internazionale di Giustizia ben altre funzioni, molto più prossime ai valori che si pretende di fare valere, come ad esempio la libertà, la democrazia e l'eguaglianza. Ma è chiaro che le grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, non hanno il minimo interesse - è perciò nessuna intenzione - a rinunciare ai privilegi di cui oggi usufruiscono.

Da circa un ventennio gli Stati Uniti usano il loro diritto di veto contro qualsiasi proposta che venga avanzata nel Consiglio di Sicurezza e che considerino minimamente svantaggiosa. Ed è chiaro che non accetteranno mai una riforma delle Nazioni Unite che diminuisca anche in quantità minimissima i loro privilegi.

Quanto ai diritti umani, non è chiaro in cosa consistano concretamente, visto che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 è ormai un pezzo di carta straccia, senza la minima efficacia normativa. Ma anche se fosse del tutto chiaro in cosa consistono i "diritti dell'uomo", l'attribuzione a un organismo unitario e centralizzato del compito di difenderli e di promuoverli darebbe vita a una struttura cosmopolita assolutamente ingovernabile se non con la violenza.

Ma Gheddafi è colpevole di crimini contro l'umanità. Finirà davanti al Tribunale Penale Internazionale.

Gheddafi non è colpevole di crimini contro l'umanità, almeno alla luce degli statuti dei Tribunali penali internazionali ad hoc e della stessa Corte Penale Internazionale. Molto probabilmente è responsabile di una gestione autoritaria, antidemocratica e violenta della Libia, ma questo può valere per la grande maggioranza degli stati che sono parte delle Nazioni Unite, a cominciare dagli Stati Uniti: basti pensare ai crimini infami che hanno commesso ad Abu Graib, a Bagram, a Guantánamo e continuano a commettere in Afghanistan.

Il procuratore della Corte Penale Internazionale, Moreno Ocampo, è un imbelle agli ordini delle grandi potenze: forse potrà organizzare un processo a carico di Gheddafi se Gheddafi non verrà ucciso prima. Ma si tratterà comunque di una messa in scena risibile. E d'altra parte deve essere chiaro che non esiste concetto più vago e sfuggente della stessa nozione di "crimini contro l'umanità".

I pacifisti come lei, però, criticano: ma non sono mai capaci di proporre alternative.

Che io sia un pacifista incapace di proporre alternative è una sua opinione personale che può avere anche qualche fondamento, ma che comunque lei dovrebbe in qualche modo documentare. Una cosa è certa: è assai più semplice usare la violenza delle armi che impegnarsi nell'arduo tentativo di rispettare il diritto alla vita delle persone e di fare in modo che tutti gli uomini riescano a vivere e a vivere decorosamente.

Personalmente ho un grande rispetto per la figura di un pacifista come Gandhi mentre disprezzo con tutto me stesso un presidente degli Stati Uniti come George Bush Junior che ha le mani impregnate del sangue delle migliaia di persone delle quali ha di fatto voluto la morte.

L'alternativa alla guerra non è la pace assoluta, ma il tentativo arduo e coraggioso di ridurre il più possibile l'uso delle armi, in particolare di quelle che nelle mani delle grandi potenze fanno strage in poche ore di migliaia di persone innocenti, come, per fare due esempi recenti, le stragi di Fallujah, in Iraq e di Gaza, in Palestina.


Libia. Evviva i “buoni”!
di Alberto B. Mariantoni - www.mirorenzaglia.org - 21 Marzo 2011

Ci risiamo… Tuh, tuh, tuh tuuuh… Qui Londra, vi parla Ruggero Orlando: I “buoni”, parlano ai “buoni”. Stiamo arrivando a “liberarvi”!

Ed ancora una volta, come in uno scenario di film a moviola che si ripete instancabilmente all’infinito, i soliti “buoni” dell’Occidente (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti)[1] – con addirittura, questa volta, il supporto politico[2], militare[3] e logistico[4] degli abituali “struzzi-meharisti”, sempre ben colonizzati ed obbedienti, dell’Italia del 150° Anniversario… – sono volati in “soccorso” delle “povere”, angariate e tormentate “popolazioni” libiche in rivolta, per salvarle, in extremis, dalle ire furenti e vendicative del Colonnello di Tripoli ed offrire loro una sicura chance, di “libertà” e di “democrazia” (sic!)!

A partire, dunque, dalle 17:45 di Sabato 19 Marzo 2011, i “buoni di cui sopra, in questa occasione con il nome d’arte di “Coalizione dei volenterosi” – nascondendosi furbescamente dietro l’occasionale ed ipocrita “dito” delle Risoluzioni, “1970” (26 Febbraio 2011) e “1973”[5], del 17 Marzo 2011 (approvata, quest’ultima, con soli 10 voti favorevoli, su 15, e 5 astenuti) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – hanno incominciato a sferrare, con le loro rispettive forze aeree militari, i loro sanguinosi e sproporzionati attacchi, contro le installazioni militari (e civili…) del “cattivo” di turno: la Libia del Colonnello Gheddafi.

Contro la Libia, naturalmente, e non contro lo Yemen o il Bahrein, dove – nonostante il triste computo dei morti civili sia abbastanza comparabile e la repressione dei contestatori altrettanto violenta e brutale – esistono regimi arabi (“moderati”…) che sono strettamente infeudati ai “buoni” di cui sopra.

Meno ancora contro Israele, dove – da almeno 63 anni – avvengono più gravi e sistematiche stragi di civili, senza contare le abominevoli e reiterate violazioni dei Diritti dell’Uomo, a danno dell’annosamente martirizzata ed indifesa popolazione palestinese.

Ancora meno, contro uno qualsiasi della decina di Paesi nell’Africa nera, dove da all’incirca 30 anni, continuano regolarmente a svolgersi sanguinosissime e poco mediatizzate guerre civili, sistematicamente alimentate (sottobanco…) – in armi, munizioni e tecnici – dal discreto, affaristico e solerte impegno “democratico” degli apparati militaro-industriali dei succitati Paesi “buoni.

Questo, nel momento in cui, le forze militari e paramilitari del Colonnello Gheddafi erano riuscite, abbastanza rapidamente e con molti sacrifici, a riconquistare un certo numero di località del Centro-Nord, del Centro-Nord-Est e del Nord-Ovest del Paese, fino ad allora, in mano ai “ribelli”.

In particolare: all’Est di Tripoli – sul litorale mediterraneo o adiacenti a quest’ultimo – i gheddafiani avevano rioccupato: Ras Lanouf, Al Uqalia, Al Bicher, Brega, Misratah/Misurata, Syrte/Sirte, Ajdabiya/Agedabia, fino alle porte di Benghazi; all’Ovest di Tripoli, invece, sempre sulla costa, avevano facilmente ripreso il controllo delle città di As Zawiyyah (nell’omonimo distretto) e di Zuwara/Zuara (distretto di An Niqat Al Khams), nonché del territorio della località di Mellitah (dove esistono importanti impianti ed installazioni che – oltre a far convergere e recepire gas, petrolio e condensati, sia dai pozzi di Bahr Es-Salam, nel Mediterraneo, che da quelli di Wafa, nel deserto, ai confini con la Tunisia – congiungono direttamente, in uscita, il Nord-Ovest della Libia con Capo Passero/Gela, in Sicilia, attraversogli all’incica 520 km. del gasodotto Greenstream).

Allora, per tentare di accertare il “chi”, “dove”, “come”, ”quando” e “perché” di quella che i Media mainstream dell’Occidente continuano a chiamare l’intera popolazione libica in rivolta[6], prendiamoci pazientemente il tempo di andarci a fare un “giretto” da quelle parti.

Intendiamoci: non per fare il “distinguo”, come i “liberatori” di cui sopra, tra chi sono i buoni e chi sono i cattivi dell’attuale guerra, ma semplicemente, per cercare di non morire ignoranti!

Ecco, allora, senza nessun commento, l’effettivo quadro della situazione, nel campo dei cosiddetti “ribelli”:

a. Cirenaica:

- un buon 30% della grande Tribù (in arabo: qabila) arabizzata[7] degli Az-Zuwayya o Zuwayya o Zawiya che è situata all’Est di Benghazi ed all’interno della porzione di territorio che è formata dalle città di Ajdabia o Agedabia, Jalu e Marsa al Burayqa, con alcune propagini (per ora, rimaste neutrali nell’attuale conflitto) che sono dislocate: da un lato, attorno alla città di Tazirbu o Tazerbu ed all’Oasi di Kufra; dall’altro, nelle vicinanze della città di Sehba, nel Fezzan, essendo legate con una parte della grande Tribù berbera degli Al Asauna[8];

- alcuni Clan della Tribû arabizzata degli Al Abaydat o Abdiyat o Beidat – all’interno della quale confluiscono all’incirca 15 Clan distinti – che è, in maggioranza, posizionata sulla regione costiera mediterranea, tra la città di Darnah o Darneh e quella di Bardiya o Bardia, con forti presenze individuali, sia a Tobruk che a Benghazi;

- all’incirca il 30% degli effettivi della grande Tribù arabizzata degli Al Barasa (a cui, tra l’altro, appartiene la seconda moglie del Colonnello, Safia, figlia di un alto dignitario dei Firkeche[9], un Clan molto influente all’interno di questa tribù) che, in parte, è situata a Benghazi e dintorni e, l’altra parte, all’interno del Sud delle regioni di Al Fatih, Al Bayda e Darnah;

- alcuni elementi della modesta Tribù arabizzata dei Drasa che è insediata nella regione che è compresa tra le città costiere di Tûkrah, Al Bayda e Susah, oltre che a Benghazi;

- alcuni gruppi della modesta Tribù arabizzata degli Arafah che è situata tra i territori della Tribù dei Darsa e quella degli Al Barasa;

- alcuni membri della Tribù arabizzata degli Al Awaqir o Awagir (storicamente conosciuta per la sua accanita resistenza contro la colonizzazione italiana) che è insediata nella regione di Barqa o Barkah;

- diversi membri della Tribù arabizzata dei Mesratha (da non confondersi con gli abitanti della città di Misratah o Misurata, in Tripolitania) che è impiantata, oltre che a Benghazi ed a Darnah o Darneh, parimenti nei loro circondari limitrofi;

- un buon 20% dei componenti della Tribù arabizzata degli Al Fawakhir che è insediata nella regione cirenaica di Murzuq (all’Est della regione di Ajdabiya o Agedabia), come pure sulle colline di Qārat al Fawākhir e le zone di Qalb Thamad `Ulaywah, Bayādat ash Shajarah, Qarārat Umm Uthaylah, `Unqūd al Yāsirāt, Thamad `Ulaywah, etc.;

- alcuni membri della Tribù arabizzata dei Tawajeer o Tawaglir che è impiantata, tra Bardiyah o Bardia e l’Oasi di Al Jaghbub o Giarabub;

- qualche gruppo delle Tribù arabizzate dei Kawar (regione di Kawar o Kauar) e dei Kargala che è insediata, tra il Gebel Akhdar (o Jebell-el-Akhdarr o al-jabal al-ʾaḫḍar o ‘Montagna verde’), l’Oasi di Yégabibs o Yegabob ed il deserto cirenaico;

- diversi componenti delle Tribù arabizzare dei Ramla, dei Masamir o Masameer e degli Awajilah (tribù, queste ultime, tradizionalmente ubicate a ridosso del confine cirenaico-egiziano);

- qualche Clan del ramo cirenaico della Tribù araba ed arabizzata degli Al Majabrah[10] o Magiabra (che è insediata nella regione di Jalo o Gialo, a Sud-Est della città di Ajdabia o Agedabia; mentre, la maggioranza – rimasta neutrale o fedele al regime di Gheddafi – è stanziata tradizionalmente al Sud-Ovest di Tripoli e sulle montagne dell’Ovest della Tripolitania);

b. Syrte o Sirte e Golfo di Sidra (Khalij Syrt):

- alcuni Clan della Tribù arabizzata degli Al Farjan che è fissata nella città di Sirte, con una sua forte presenza nella regione di Zliten o Zlitan (all’Ovest del Paese, in Tripolitania): un’area costiera, quest’ultima, che è praticamente a sandwich, tra la città di Al Kums o Al Khoms (distretto di Al Murgub) e quella di Misratah o Misurata, del distretto omonimo;

- un’esigua minoranza della Tribù arabizzata degli Al Magharba che è impiantata al Nord-Est di questa regione, tra le località di As Sidrah e quella di Marsa al Burayqah;

c. Tripolitania:

- all’incirca il 3-4% della Tribù araba[11] degli Orfella o Warfalla o Werfella (la più numerosa della Libia, con i suoi 52 Clan ed all’incirca 1 milione di effettivi): quella frazione della medesima tricù, cioè, che, nel caso particolare, è insediata all’interno del distretto montagnoso di Bani Walid (125 km. al Sud di Tripoli)[12]; mentre la quasi totalità degli Orfella o Warfalla o Werfella (che, fino ad ora, sembra, siano rimasti neutrali o fedeli al regime di Gheddafi) è insediata nel distretto di Misratah o Misurata ed, in parte, in quello di Sawfajjn;

- una parte della Tribù arabizzata degli Az Zintan o Zentan che è allogata a circa 150 km. al Sud-Ovest di Tripoli, a mezza costa, sui rilievi montagnosi occidentali, in un territorio idealmente delimitato dalle città berbere di Kabaw, Jado, Yefren e Nalut;

- alcuni Clan della Tribù berbera (leggermente arabizzata) degli Awlad Busayf che è stabilita sulla regione costiera di Az Zawiyah;

- alcuni gruppi dissidenti della Tribù berbera degli Ait Willul che sono impiantati, sempre sul litorale, tra le città di Zuwarah o Zuara, di Al Mangub e la località di Ras Jedir o Gedir, sul confine libico-tunisino.

Insomma, come abbiamo potuto constatare, quella che, fino ad oggi – con la flagrante ed inaccettabile complicità dei Media embedded dell’Occidente – ci è stata definita e “venduta” come la rivolta generalizzata dell’intera popolazione libica, contro il regime del Colonnello Gheddafi”, ha piuttosto l’aria di essere un’ordinaria o straordinaria insurrezione di alcune frazioni di Tribù del Paese, contro quelle – senz’altro molto più numerose (almeno il 60%, su all’incirca 140 tribù che conta la Libia) – che continuano ad appoggiare e sostenere il medesimo regime.

Ecco, ora, dunque, per cercare di capire meglio la situazione, il “filo conduttore” ideologico (democratico?) della rivolta in questione…

La Senussiya

Chi ha un minimo di dimestichezza con la Libia, sa perfettamente[13] che il principale ed indissolubile “legame” (generalmente invisibile o inavvertibile, ai non “addetti ai lavori”…) che, da almeno due secoli, tende a mettere in relazione ed a tenere unite – e molto di più, nell’attuale situazione di Guerra civile, collettivamente solidali e cobelligeranti – le suddette, diverse, variegate e parziali realtà geo-etnico-politico-tribali (attualmente in aperta ribellione armata contro il regime di Mu’ammar Gheddafi), non può essere nient’altro che il loro specifico, caratteristico e comune credo religioso.

Nel caso particolare, una fede – non soltanto nei principi e nei valori, nei dogmi e nella tradizione, dell’Islam sunnita[14] di “scuola” malikita[15] (confessione e rito, nei quali la maggioranza dei maghrebini musulmani – ed a maggior ragione libici – ha solitamente tendenza a riconoscersi), ma addirittura – in una specifica ed esclusiva “lettura” ed interpretazione del sunnismo-malikita: quella, per l’appunto, che è ordinariamente rivendicata, espressa, professata, propagandata e diffusa dai membri di una singolare e poco nota (in Occidente) Setta (in arabo: firqa) o Confraternita (tariqa) mistico-missionaria-militante dell’Islam sunnita che esiste ed opera in Libia ed in alcuni Paesi dell’Africa sahariana e centrale, e che risponde all’appellativo o alla denominazione di Senussiya.

Questa Confraternita, infatti, a differenza di molte altre dello stesso genere o filone, non preconizza solamente – come, ad esempio, i Wahhâbiti[16] o (forse) gli Zaiditi[17]il ritorno dei fedeli, al Corano (al-Qur’ân)[18] ed alla Sunna (la tradizione che si riferisce alla vita ed all’insegnamento del Profeta Muhammad).

Essa annuncia, proclama e pretende altresì – aggiuntivamente – il rifiuto della semplice imitazione (taqlid)[19] delle vie tracciate dai principali e tradizionali Saggi dell’Islam, e la sistematica e puntuale riapertura dellaporta dell’ijtihâd” (lo “sforzo di riflessione”)[20] che, secondo la maggior parte degli storici delle consuetudini e della prassi di questa religione, sarebbe stata definitivamente chiusa nel IV secolo dell’Egira (il nostro X secolo).

Va da sé, dunque, che questo suo modo di concepire e vivere l’Islam – a causa delle sue “innovazioni” (bid’a) dottrinali – ha generalmente tendenza ad essere contestato e condannato (o quanto meno, biasimato, respinto o censurato…), sia dalla maggioranza dei teologi delle “scuole” hanafita, shafita e hanabalita che da quelli della “scuola” malikita[21].

Altro, dunque, che “anelito di libertà” e di “democrazia” di “tutto un popolo” che ci viene enfaticamente sottolineato dalla maggior parte dei “nostri” politici e ripappagallato, parola per parola, fino alla noia, dall’insieme dei Media meanstream dell’Occidente!

La Setta Senussita, infatti – che perfino il grande Jules Verne (1828-1905), nel suo romanzo, intitolato Mathias Sandorf[22], non aveva affatto esitato, già nel suo tempo, a definire o ad acquarellare, come semplicemente delirante ed estremamente aggressiva– venne fondata nel 1837, sul monte Abû Qubais (nella Penisola arabica, a prossimità della città di Mecca), da un berbero della Tribù algerina (secondo le diverse fonti) dei Walad Sidi Abdallah o dei Medjaher e del Clan degli Ulad o Ulad Sidi Jusuf (Clan insediato, all’epoca, nella regione di Hillil o al-Wasita, a prossimità delle città di Relizane e di Mostaganem), di nome Sayyed o Sidi Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi[23] (1787-1859 o 1792-1859): un personaggio, bonariamente soprannominato Ben Al-Attzoc, e la cui famiglia pretendeva[24] di discendere dal Profeta dell’Islam, via sua figlia Fatima, e, di conseguenza, aveva tendenza ad auto-fregiari del titolo di Sharîf dell’Islam.

Questa particolare tariqa (o Confraternita) incominciò ad impiantarsi ed a funzionare, in Libia, nel 1843. Inizialmente, per puro caso: quando, cioè, il medesimo Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi (il suo fondatore) – essendo di passaggio in questo Paese, nel corso di un suo ordinario viaggio di trasferimento dall’Egitto all’Algeria – decise di realizzare a Baida (nei pressi dell’antica città di Cirene), un suo primo centro religioso (zâwiya).

E, qualche anno dopo, nel 1856, quando, il medesimo personaggio, ritenne opportuno prendere di nuovo l’iniziativa di istituire una seconda e più importante zâwiya (divenuta, poi, in seguito, la sede principale di questa Confraternita) nell’Oasi di Jaghbub o Giarabub[25]: una località situata a circa 300 km. dalla costa mediterranea, ed al crocevia di una serie di piste carovaniere che conducono a Bir Tengeder ed a Bir El-Gobi, nonché alle oasi di Jalo o Gialo e di Augila (sempre in Libia) e di Siwa, in Egitto.

Negli anni successivi, dopo il successo ottenuto da quei primi Centri religiosi, incominceranno a fiorire numerose altre zâwiya: ad esempio, quella di Misratah o Misurata (nella regione della Sirte), di Bani Walid e di Homs (in Tripolitania), di Benghazi e di Derna (in Cirenaica), di Amamra, di Mezdha (situata al Sud di Gharian), di Ghadames, di Matrès (all’Est di Ghadames), di Murzuk e di Zuila (nel Fezzan), etc.

Questo, fino a coprire, con la presenza e l’attività di proselitismo dei suoi numerosi ed intraprendenti missionari, non soltanto la maggior parte delle città e distretti amministrativi della Libia, ma ugualmente numerose regioni (vilâyet) fuori da quest’ultima, come alcune località del Sahara, del Nord del Ciad e del Niger, e parimenti dell’Ovest dell’Egitto e del Sudan, nonché del Sud della Tunisia e dell’Algeria.

Sin dall’inizio della sua attività in Libia, la conduzione politico-culturale-religiosa di questa Setta ebbe ad assumere un carattere prettamente dinastico e gerarchico. Caratteristica che sarà successivamente ed invariabilmente confermata da tutti i naturali discendenti del primo fondatore[26]: vale a dire, da Sayyed o Sidi Muhammad bin ‘Ali al-Sanûsi o al-Senussi (1843-1859); da Sayyed o Sidi Muhammad al-Mahdi bin Sayed Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi (1859-1902); da Sayyed o Sidi Ahmad al-Sharîf bin Sayyed Muhammad al-Sharîf al-Sanûsi o al-Senussi (1902-1916) e, dulcis in fundo, da Sayyed o Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1916-1969).

Personaggio, quest’ultimo, che il 24 Dicembre del 1951, diventerà – grazie alla volontà ed agli inconfessabili interessi degli Inglesi e degli Americani che allora occupavano militarmente il Paese – il Primo re di Libia, con il nome di Idris I. E’, dunque, questo re, ed allora capo pro-tempore della Senussiya, che venne militarmente spodestato da Gheddafi e dagli Ufficiali nasseriani, il 1 Settembre 1969.

L’organizzazione gerarchica di questa Setta, ancora oggi (anche se segretamente, in quanto, il Libia, dagli anni ’70, è chiaramente proibita!), è immutabilmente così composta…

A suo vertice, c’è lo Sheikh Supremo (o Sceicco detentore della “Santa Barakah”[27]). Carica e responsabilità che sono attualmente rivestite e personificate dall’ultimo rampollo, in ordine di tempo, della famiglia del solito primo fondatore: cioè, in questo caso, da Sayyed o Sidi Muhammad bin Sayyed Hasan ar-Rida al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1992-fino ad oggi) che, con molta discrezione e diplomazia, dal suo confidenziale e dorato esilio di Londra, continua a dirigere (per conto terzi?) questa Confraternita.

Subito dopo, nell’immediato sott’ordine, troviamo tre principali alti dignitari: il Gran Khalifa (o Vicario dello Sceicco Supremo); l’Ukil o l’Uqil (o Amministratore/Tesoriere); ed il Responsabile centrale dell’insieme dei tolba[28] (gli studenti coranici) delle zâwiya della Setta.

In una porzione di grado leggermente inferiore, troviamo una serie di Sheikh el-zâwiya che altro non sono che dei responsabili ufficiali e qualificati dei diversi Centri religiosi regionali della Confraternita. Seguono a ruota, e praticamente a “pioggia” verso il basso, una miriade di medi e piccoli Mokkaddem (direttori o soprintendenti) che, generalmente, sono permanentemente impiantati nelle diverse regioni e province di maggiore interesse di questa Congregazione, oppure hanno l’incarico speciale – in nome e per conto di quest’ultima – di svolgere la particolare, delicata ed aggregante mansione di missionari itineranti.

L’insieme dei succitati dignitari – per potere rivestire le cariche che rivestono ed esercitare gli incarichi che esercitano – hanno l’assoluta e indispensabile necessità di potere prioritariamente vantare il possesso di quello che viene chiamato il “diploma mistico(Ijéza o Igéza). E per riuscire a poterlo conseguire – in uno qualsiasi dei diversi “gradi” previsti (un po’ come all’Università) dall’ordinamento interno della Setta – debbono ugualmente e preventivamente avere frequentato e superato le lunghe, esigenti ed intransigenti trafile ideologico-teologico-religiose all’interno delle principali madaariss (al singolare: madrassa = “scuola coranica”) della loro Congregazione.

In fine, al più basso “gradino” del medesimo ordine gerarchico interno, troviamo l’insieme degli affiliati a questa Confraternita. I quali, a loro volta, sono ugualmente ed individualmente distinti e differenziati (secondo la loro personale sensibilità, il livello di convinzione e/o la loro specifica preparazione spirituale) in, Responsabili di cellula, militanti e semplici aderenti e simpatizzanti.

Insomma, l’immagine che tende ad emergere o ad evidenziarsi da un qualsiasi approfondimento del modo di essere, di esistere e di agire di questa peculiare Comunità di fedeli, è quella di una particolare organizzazione di iniziati ideologico-teologico-religiosi (khuan) che è estremamente e particolarmente ordinata, affiatata e strutturata.

Una specie di organismo “para-militare”, cioè, che lascia a sua volta intuire o dedurre che, al suo interno, i singoli membri della Setta, non siano soltanto dei convinti, mansueti e subordinati adepti che accettano semplicemente ed attivamente di frequentare le prescritte riunioni religiose collettive (hadrah) di ogni Venerdì di preghiera.

Ma bensì, un vero e proprio corpus gerarchico che è disciplinatamente predisposto, sia ad obbedire ciecamente all’insieme dei dettami dei suoi diretti superiori che a difendere, contro chiunque e con qualsiasi mezzo, la particolare dottrina dell’Islam nella quale ognuno di loro tende ordinariamente a riconoscersi e ad identificarsi, nonché a cercare di materializzare l’insieme degli scopi che sono comunemente perseguiti dalla loro Confraternita.

A maggior ragione, in una situazione di aperta rivolta contro le istituzioni del regime del Colonnello Gheddafi, come quella a cui stiamo assistendo dal 17 Febbraio ad oggi.

E’ questa Setta politico-religiosa, in ogni caso, per intenderci, che è la famosa al-Qaida di cui continua sistematicamente a parlare il Colonnello libico, nei suoi ormai quasi quotidiani ed accalorati speech televisivi.

E contro la quale, sin dall’inizio della rivolta, minacciandola di drastiche e sanguinose rappresaglie, ha cercato di mettere in guardia quelli che, fino al giorno prima, lui aveva ingenuamente creduto che fossero davvero diventati i suoi “amici” dell’Occidente!

Ora, se per pura ipotesi – dopo aver tenuto in seria e ponderata considerazione la natura e la portata di questa Confraternita – si potesse ugualmente accertare che dei particolari interessi economici esterni o estranei alla Libia, per degli scopi che ancora non conosciamo (sottrarre, ad esempio, all’Italia[29] la sua invidiata ed ambita manna petrolifera e gasiera di cui, fino a prima della crisi, stava godendo, in maniera privilegiata?), siano riusciti – in questa occasione – a corrompere o a manipolare i principali responsabili della suddetta Setta, si potrebbe altresì ed analogamente comprendere tutta una serie di altri aspetti della “guerra civile” in questione.

Tra i tanti, uno in particolare: la facilità, cioè, con la quale, i dirigenti della Confraternita in questione, sono stati capaci, da un giorno all’altro, di mobilitare, da un lato, l’insieme dei loro adepti (che – come abbiamo visto – sono disparatamente ed irregolarmente disseminati all’interno delle diverse e variegate tribù e regioni del Paese) e, dall’altro, di farli simultaneamente e collettivamente insorgere in armi (con tanto di “consiglieri” di “specialisti miltari” fatti espressamente giungere dall’Afghanistan…) e con flagrante ed indiscutibile sincronia militare, contro le istituzioni della Jamahiriya libica.

La “prova del nove” di questa mia “scorretta” e sicuramente “disturbante” ipotesi, essendo che la pretesa “insurrezione popolare” è stata solo ed unicamente registrata – guarda caso… – in quelle località della Libia, dove la Senussiya è sempre stata e continua ad essere maggiormente presente ed influente.

Insomma, per concludere, mi pongo e pongo al lettore questa domanda: dopo aver constatato ciò che finora abbiamo avuto la possibilità di constatare, non incominciano ad apparire, ai nostri occhi, come un po’ strane e sospette, sia l’improvvisa e generalizzata “rivolta delle popolazioni libiche” che la successiva, aggressiva e sproporzionata solerzia con la quale, la Francia (Total-Fina) in primis, ed i soliti “liberatori” di sempre, Stati Uniti (ExxonMobil + Chevron + Occidental Petroleum) e Gran Bretagna (British Petrleum + Shell), hanno preso la frettolosa e drastica iniziativa di intervenire militarmente, come delle vere e proprie parti in causa, nella “guerra civile” (o tentativo di Colpo di Stato?) che sta vivendo la Libia, dal mese di Febbraio scorso?

Alberto B. Mariantoni ©


[1] Sul “diritto”, i “principi” e la “morale” invocati dai suddetti “buoni”, vedere: http://www.abmariantoni.altervista.org/internazionale/Crisi_libica_o_attacco_a_Italia_1.pdf – per le aggressioni militari dei soli Stati Uniti, vedere: http://www.youtube.com/watch?v=5aEOm1lRLD0&feature=related

[2] Le stolte ed affrettate dichiarazioni di “circostanza” dell’insieme– salvo Bossi e la Lega – della classe politica italiana, tradizionalmente asservita ai voleri ed ai ricatti dei “Padroni del mondo”.

[3] Alcuni Tornado che continuano incessantemente a decollare dall’aeroporto militare di Trapani-Birgi, in Sicilia.

[4] Per potersene sincerarsene: http://www.youtube.com/watch?v=zta5359CHhA

[5] Per il testo integrale di questa Risoluzione, vedere: http://www.ticinolive.ch/esteri/no-fly-zone-il-testo-della-risoluzione-del-consiglio-di-sicurezza-dellonu-13858.html

[6] Un’ “intera popolazione” che – secondo le immagini che ci sono state fino ad ora trasmesse – si riduce, in realtà, a qualche centinaio di manifestanti nelle strade di Benghazi e di Misurata, e qualche decina di insorti in armi che in posa, davanti alle telecamere, mentre agitano i loro mitra o manovrano due o tre gipponi Mazda o uno o due vecchi carri armati ex-sovietici, illegalmente sottratti alla Forze armate del Paese.

[7] Le uniche tribù arabe della Libia, infatti, sono esclusivamente i discendenti dei Bani Salim o Salem che – insieme ai Bani Hilal (i cui discendenti, in maggioranza, secondo la tradizione, sarebbero, oggi, i membri della Tribù degli Orfella o Warfalla o Werfella, in Tripolitania) – penetrarono in questo Paese e vi si stanziarono (i primi, in Cirenaica; i secondi, in Tripolitania), in provenienza dalla Penisola arabica, al seguito dell’espansione militare verso il Maghreb e la Spagna (El-Andalus), dei regni Fatimidi d’Egitto, nell’XI secolo.

[8] Tribù, in maggioranza, rimasta fedele, per ora, alla Jamahiriya libica, essendo legata, sia alla maggioranza della Tribù degli Orfella o Werfella o Werfalla della Tripolitania che alla Tribù degli Awlah Soleiman o Soluiman (per il momento, rimasta neutrale) del Fezzan.

[9] Clan rimasto fedele al Colonnello di Tripoli.

[10] A cui appartiene il Comandante in capo delle Forze Armate libiche (chiamate: Es.Shaâb El Mussalah o “popolo armato”), il Generale Abu-Baker Yunis Jaber o Giaber (uno dei 12 Ufficiali che, con Gheddafi, realizzarono il Colpo di Stato nasseriano del 1 Settembre 1969).

[11] Come ho già precisato, la tradizione li considera discendenti diretti dell’antica Tribù Araba, di confessione Musulmana-Fatimida, dei Bani Hilal, giunti in Libia, nell’XI secolo, assieme ai Bani Salim o Banu Salem (in tutto, all’epoca, qualche migliaio).

[12] Località che ospita ugualmente i membri della Tribù arabizzata degli Al Riaina o Rayaina che, per ragioni di rivalità clanistica, si è invece completamente schierata con il Colonnello Gheddafi.

[13] Strano, insomma, che lo sappia io, e non i più alti responsabili del Ministero degli Esteri e del Governo italiano!

[14] Designati variabilmente ed indistintamente con il nome arabo diahl al-sunna wa ‘l-giama’a (letteralmente, le ‘genti della tradizione e dell’assemblea’), di ahl al-Kitab wa ‘l-sunna (le ‘genti del Libro e della tradizione’), di ahl al-giama’a (le ‘genti dell’assemblea o della comunità’), di ahl al-hadith (les ‘genti delle fonti imitative’) o di ahl al-igtima (le ‘genti del consenso’), i Sunniti corrispondono generalmente ad una visione particolare dell’Islam. Quella per l’appunto, che scaturisce da una concezione generalmente maggioritaria e conformista di questa religione, ed allo stesso tempo moderata e realista. Senza essere ‘ortodossi’ – poiché l’Islam non conosce nessun magistero capace di definire una tale norma – i rappresentanti di questa dottrina si presentano come i ‘portavoce qualificati del pensiero di Muhammad (come d’altronde lo farebbe qualunque Setta o Fazione di questa religione) e tendono ad esplicitare il loro pensiero attraverso una catena ininterrotta di garanti, depositari ed interpreti fedeli dell’insegnamento del Profeta.

[15] Vale a dire, quella “scuola” che tende a riconoscersi negli insegnamenti religiosi del teologo Malik inb Anas (m. 795). Le altre “scuole” di rito sunnita, essendo: quella hanafita, del teologo arabo-persiano Abu Hanifa (m. 767); quella shafita, del teologo ash-Shafii (m. 820); quella hanabalita, del teologo Ibn Hanbal (m. 855).

[16] Il Wahhâbismo è una dottrina che è nata in seno alla “scuola” hanabalita. E’ stato fondato (1745) e guidato inizialmente da Mohammed ibn Abd el-Wahhâb (1703 -1792), uno sceicco arabo della tribù dei Banû Tamim, e futuro alleato del principe Mohammed ben Saoud ben Mohammed, detto ibn Saoud (1710 -1765), il capostipite dell’attuale monarchia saudita. Da cui, il fatto che il Wahhâbismo è stato, e continua ad essere, la tendenza religiosa ufficiale dell’attuale Arabia Saudita.

[17] “Seguaci di Zaid ibn ‘Ali (riformatore religioso musulmano dell’VIII secolo, nipote di Husayn – uno dei figli del quarto Califfo ‘Ali e, dunque, parente del Profeta Muhammad) e costituenti una delle più importanti correnti Shi’ite” (http://www.sapere.it/enciclopedia/Zaiditi.html). Gli affiliati a questa Confraternita continuano a possedere alcuni centri di influenza politico-religiosa sulle montagne a Sud del Caspio e nello Yemen, con qualche propaggine in Africa.

[18] Dalla radice QaRa’A che significa recitare, recitare salmodiando, declamare, leggere, leggere attentamente, studiare. Chiamato ugualmente El–tenzît (“la Rivelazione”) o Kitâb-Allah (“il Libro di Dio”) o El-Kitâb (“il Libro”), l’intero Corano comprende 114 Sure (o Capitoli); ogni Sura è composta da un numero variabile di Ayat o āyyāt (versetti), per un totale di all’incirca 6.236 versetti e 77.250 parole.

[19] Seguire, cioè, senza discuterle, le decisioni dell’Autorità religiosa, nei vari campi abbordati, senza dovere necessariamente esaminare, criticare o rimettere in discussione le interpretazioni verbali o scritte che hanno inizialmente giustificato quella decisione.

[20] Lo sforzo, cioè, che originariamente fu compiuto dai primi ‘Ulemā (Teologi), dai primi Mufti (Responsabili che sono in grado dare delle risposte decisive su delle controversie o di fare conoscere la verità attraverso una risposta giuridica) e dai primi Fuqahā (Giuristi) musulmani, per cercare di interpretare il più oggettivamente possibile i testi fondatori dell’Islam e poterne dedurre la Sha’ria (il “Diritto musulmano”). Questo, al solo fine di potere correttamente informare i fedeli di questa religione, a proposito di ciò che, per loro, è lecito, illecito o disapprovato/vietato.

[21] “Pretesa che fu condannata a Cairo, già nel 1843, da un malikita, le Sheik ‘Alaish, l’avversario di Jamâl al-Din al-Afghani” (Henri Laoust, Les schismes de l’Islam, Payot, Paris, 1983, pag. 355).

[22] Romanzo scaricabile su questo sito: http://www.livres-et-ebooks.fr/ebooks/Mathias_Sandorf-4608/

[23] Per esteso: Sheikh Sidi Muhammad ben Ali ben El Senussi el Khettabi el Hassani el Idrissi el Mehajiri.

[24] Dico “pretendeva”, in quanto, essendo di origine berbera, difficilmente, a mio giudizio, avrebbe potuto discendere da Abu al-Qâsim Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn ‘Abd al-Muttalib ibn Hâshim (in chiaro: Muhammad, figlio di Abdallah e di Aamina, appartenente al Clan degli Hâshim ed alla Tribù araba dei Quraysh), Messaggero di Allah (Rassul-Allâh), Vicario (Khalifa) e Sigillo dei Profeti (Khatam-al-Nabíyín). In altre parole, il nostro Maometto.

[25] Luogo abbastanza conosciuto, in Italia, poiché li – tra il 9 Febbraio ed il 21 Marzo del 1941 – si svolse la celebre ed eroica resistenza ad oltranza del presidio militare italo-libico comandato dal Colonnello Salvatore Castagna, che era stato accerchiato da preponderanti forze britanniche ed australiane, nel corso della Seconda guerra mondiale (per saperne di più sull’argomento, vedere: Salvatore Castagna, «La difesa di Giarabub», Ed. Longanesi & C., Milano, 1958).

[26] Che è considerato, dai fedeli di questa Confraternita, il Mahdi (Imam nascosto) o il Sahib al-waqt (o Maestro dell’ora) della fine dei tempi, che un giorno ritornerà sulla Terra, per ristabilire la pace e la giustizia.

[27] Saggezza o Benedizione (inviata da Allah).

[28] In arabo: taleb o t’aleb = studente; tolba o t’olba = studenti. Da cui, l’appellativo forzatamente occidentalizzato di “talebani” che è stato diffuso, dai Media, nel contesto di un altro scenario di “guerra per la pace”: quello che conosciamo dal 2001, da quando è iniziata la Guerra in Afghanistan.

[29] Per farsene un’idea e cercare di capire, vedere: http://salvatoretamburro.blogspot.com/2011/03/libia-colpo-di-stato-usa-nato-in-atto.html