domenica 27 marzo 2011

Libia: ipocrisia e disinformazione

L'ipocrisia dei governi e la manipolazione dell'informazione sono caratteristiche tipiche di ogni guerra, o "intervento umanitario" che dir si voglia.

E anche la guerra in Libia non ne è esente. Ovviamente...


La coalizione degli ipocriti
di Mario Braconi - Altrenotizie - 27 Marzo 2011

A costo di scontentare gli “esportatori di democrazia” (quelli di vecchia data e quelli di recente conversione), occorre chiarire che le operazioni militari orchestrate dalla cosiddetta “coalizione dei volenterosi” 2011 hanno poco a che vedere con la protezione dei civili e tutto rappresentano fuorché il contributo delle democrazie occidentali al vento di libertà che da qualche mese sta portando scompiglio nei Paesi Arabi.

Seunas Milne, editorialista del Guardian noto per le sue posizioni di estrema sinistra, spiega perché in un suo vibrante articolo pubblicato il 23 marzo sulle colonne del quotidiano: l’intervento militare degli Alleati in Libia preoccupa ed irrita non solo in quanto esempio di applicazione di un doppio standard morale da parte dei “liberatori”, ma anche perché esso è politicamente devastante, dal momento che tarpa le ali a qualsiasi ipotesi di un sistema di protezione dei diritti umani internazionalmente riconosciuto; un tema ancora aperto e sul quale occorrerebbe invece una seria discussione.

Se davvero gli occidentali fossero così interessati alla protezione dei civili, infatti, non si capisce perché non abbiano fatto sentire la propria voce di fronte agli scempi che si stanno consumando, ad esempio, in Bahrein e in Yemen, dove decine di civili che manifestavano pacificamente contro i regimi autoritari al potere sono stati uccisi o feriti dalle forze speciali locali, addestrate, armate e supportate in ogni modo dai paesi occidentali.

Il tutto senza voler considerare il desolante track record delle truppe alleate in materia di danni collaterali (leggi: uccisioni di civili) in Iraq e in Afghanistan e Pakistan.

In sintesi, “gli interventi umanitari à-la-carte, come quello attuale in Libia” - scrive Milne - non sono sicuramente studiati facendo riferimento alla loro fattibilità o alla gravità delle sofferenze o della repressione provocate alla popolazione civile, quanto sulla loro maggiore o minore affidabilità dei regimi.”

E’ da rigettare, insomma, l’argomento per cui la “lezione” data a Gheddafi costituirebbe un deterrente per altri tiranni dell’area: lo sanno bene quelli che spadroneggiano in Arabia Saudita, che possono dormire sonni tranquilli almeno fino al giorno in cui i loro regimi cominceranno a vacillare sotto i colpi della rabbia popolare, divenendo pertanto meno utili agli interessi strategici dei paesi occidentali.

Ed in effetti lascia parecchio a desiderare il modo in cui l’interesse degli Alleati ad assicurarsi un posto in prima fila tra i futuri amici della Libia è stato “vestito” per renderlo politicamente più digeribile, complice - forse - anche l’improvvisa fretta a mostrare i muscoli.

Inoltre, l’organizzazione strategica delle operazioni è talmente caotica e grottesca che avrebbe potuto ispirare lo Stanley Kubrick del “Dottor Stranamore”.

Viviamo in effetti in queste ore l’incredibile paradosso di una missione che prevede il bombardamento di un paese straniero (arabo) senza che sia ben chiaro, né ai cittadini né alle stesse forze alleate in campo, chi sia effettivamente al comando delle operazioni né chi lo assumerà una volta terminati i raid.

L’aspetto nuovo di questa guerra per le risorse, in effetti, è lo spettacolo desolante dei rappresentanti dei 28 paesi membri della NATO che, in modo non troppo dissimile a una banda di litigiosi monelli impegnati in un gioco da cortile, da tre giorni discutono a Bruxelles su chi dirigerà la missione, senza peraltro venirne a capo.

Da un lato gli Stati Uniti, combattuti tra il loro riflesso condizionato a metter bocca ovunque si possano riscontrare anche vaghi interessi nazionali (ovvero in tutto il mondo conosciuto) e l’ansia di passare al più presto il cerino acceso a qualche altro; due guerre non particolarmente brevi e di successo contro due paesi arabi possono bastare, Obama lo sa.

Dall’altro la Francia che, contraria ad un coinvolgimento NATO, vista la scarsa popolarità di quel “brand” nel mondo arabo, per motivi non chiari (interesse specifico, calcolo elettorale?) stupisce il mondo con una sconcertante fuga in avanti verso la guerra; cosa che non ha mancato di infastidire gli americani, comprensibilmente stupiti e irritati per essere arrivati secondi al momento di menare le mani.

In ogni caso, Parigi resta convinta della necessità di condurre all’interno della coalizione dei volenterosi qualche paese arabo, uno qualsiasi, sia pur strategicamente irrilevante, per ovvie finalità di marketing bellico.

Per la cronaca, da quel versante fino ad ora si è visto ben poco: i quattro aerei del Qatar, generiche disponibilità dell’Arabia Saudita e qualche promessa di cooperazione logistica da Kuwait e Giordania, giunte peraltro per bocca del premier britannico Cameron. Non si può certo dire che l’operazione abbia scaldato i cuori delle dittature arabe...

Problematica anche la questione della Turchia, desiderosa di ritagliarsi un ruolo nella Libia del post-Gheddafi anche grazie alle sue importanti relazioni commerciali con quel paese: favorevole ad un intervento sotto il cappello NATO, ma solo dopo la fine dei bombardamenti, ovvero dopo che qualcun altro abbia portato a termine il lavoro sporco. Sullo sfondo, ad inasprire ulteriormente i contrasti con la Francia, il veto di quest’ultima all’ingresso di Ankara nella Unione Europea.

Secondo l'agenzia Reuters, a valle di una serie di riunioni a tre (Francia, Gran Bretagna, USA), la posizione di Sarkozy sembra si vada ammorbidendo e che un accordo sia prossimo. E intanto nei paesi arabi stabili, dove si riesce ancora a fare business senza grandi difficoltà, gli innocenti continuano a morire.


Bahrein, la rivolta diversa

di Nicola Sessa - Peacereporter - 24 Marzo 2011

L'Occidente ha plaudito alle rivolte in Medioriente, ha preso le armi contro il tiranno in Gheddafi, ma in Bahrein l'atteggiamento è del tutto diverso

Quando tutto è cominciato, il 17 febbraio, ci chiedevamo come sarebbe finita la rivolta della Rotonda delle Perle a Manama, in Bahrein. Una cosa era prevedibile: la sete di diritti e l'aspirazione alla libertà fiorite in gran parte del Medioriente non avrebbero trovato lo stesso entusiastico supporto delle democrazie occidentali.

La centralità strategica dell'arcipelago nel Golfo Persico - dove staziona la Quinta Flotta degli Stati Uniti -, e l'interesse dell'Arabia Saudita a tener lontana la minaccia iraniana sono due ragioni sufficienti a svilire le richieste della maggioranza sciita sottoposta al dominio sunnita della dinastia al-Khalifa. Quelle stesse richieste avanzate in Egitto, Tunisia e soprattutto in Libia non hanno la stessa legittimità in Bahrein.

Il 14 marzo scorso - previa autorizzazione degli Stati Uniti e (impropriamente) in virtù di un Trattato di difesa congiunta siglato dai paesi del Golfo nel 1984 (Peninsula Shield Force) - il re saudita Abdullah ha inviato nel vicino regno del Bahrein mille soldati per alleggerire le forze di sicurezza di re al-Khalifa.

Il 16 marzo, un mese dopo l'inizio della rivolta, la polizia ha represso nel sangue la protesta: almeno quattro i morti e più di duecento i feriti.

L'accampamento di tende è stato smantellato e lo stesso monumento al centro della rotonda è stato demolito. Anche il simbolo della piazza, il simbolo della protesta, andava cancellato.

Dati alla mano - divulgati dal partito d'opposizione sciita al-Wifaq - in un mese di proteste ci sono stati almeno quindici morti a cui si aggiungono quattro poliziotti e tre cittadini stranieri.

Dal momento della repressione della rivolta, molti sciiti non sono tornati al lavoro: troppi check point e troppo alto il rischio di essere arrestati (in maniera anche indiscriminata) dalle forze di sicurezza che presidiano gran parte dei villaggi sciiti.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon non è andato oltre un monito per l'uso eccessivo delle forza. Anche Washington ha invitato alla prudenza il suo alleato al-Khalifa per evitare che un massacro della popolazione sciita possa dare forza alle accuse di Teheran.

Sul fronte del mondo arabo, i paesi del Golfo - impauriti dalle ambizioni sciite dell'Iran nell'area - si sono stretti tutti intorno all'Arabia Saudita.

Il re Abdullah, per evitare che il virus della rivolta si espanda anche in Arabia Saudita, ha stretto la morsa intorno alla minoranza sciita (il dieci per cento della popolazione): nel fine settimana appena trascorso sono stati arrestati più di cento sciiti che manifestavano per chiedere più diritti e maggiore libertà.

Mentre l'Iran denuncia il maltrattamento degli sciiti e soprattutto "l'invasione del Bahrein" da parte dei soldati sauditi, la Siria - il più stretto alleato di Teheran - ha dichiarato come legittima la repressione e l'uso della forza contro i manifestanti (ma questo si spiega con il fatto che in queste ore Damasco si trova alle prese con il germoglio della protesta e avallando l'operato di Manama si è creata il presupposto per agire nello stesso modo).

L'Occidente ha bisogno del sostegno dei Paesi del Golfo che detengono quasi il 50 per cento delle risorse petrolifere mondiali. Le aspirazioni di alcune centinaia di migliaia di sciiti, dopo tutto, possono passare in secondo piano.

Nessuno stupore dunque se anche l'Europa, schierata in prima linea al fianco dei ribelli di Bengasi, giustifica la repressione violenta: come ha detto Robert Cooper, primo consigliere della responsabile Ue degli Esteri Catherine Ashton, "forse la polizia (ndr, del Bahrein) non si era mai trovata ad affrontare questioni di ordine pubblico [...] e qualche incidente può anche verificarsi".


Libia e Bahrein: interventi umanitari selettivi
di Christian Elia - Peacereporter - 25 Marzo 2011

Gli Emirati, dopo il Qatar, si uniscono alla coalizione ma chiedono il silenzio occidentale sul massacro a Manama

Dodici aerei da combattimento. Quanto valgono? Poco, da un punto di vista militare. Troppo da un punto di vista economico. Tanto da un punto di vista politico, se arrivano dagli Emirati Arabi Uniti.

Sei Mirage di produzione francese, sei F16 di produzione statunitense. I sette emirati del Golfo Persico, dal 25 marzo 2011, li hanno messi a disposizione della missione in Libia che, da lunedì, passerà sotto il comando Nato e con la benedizione del Consiglio di Sicurezza Onu. Mancava un tassello, però. Anzi due.

Da un lato l'Unione Africana che si è chiamata fuori dal primo minuto ma che, pare su iniziativa italiana, potrebbe rientrare nella dimensione diplomatica della crisi libica, magari offrendo al Colonnello Gheddafi un posto dove andare in esilio. L'altro tassello mancante è il mondo arabo. In fiamme e quindi scosso, in difficoltà.

La Lega Araba, che più passano gli anni più non si capisce bene chi rappresenti, per bocca del suo segretario generale Amr Moussa approva la no fly zone, poi si rimangia tutto e parla di eccesso di zelo francese nel bombardamento. Di nuovo, in poche ore, ricambia idea e sostiene la protezione dei civili libici.

Una voce univoca, però, non c'è. Yemen, Siria, Giordania e tanti altri paesi hanno il loro bel da fare, ma soprattutto il Golfo Persico è in bilico. Ecco perché una presenza araba nella coalizione ha un peso politico enorme, ma ha anche un prezzo.

Prezzo che hanno fissato Dubai e Riad. Quando tutto sembrava pronto, il giorno prima, per l'annuncio dell'arrivo della flottiglia emiratina, che i governi occidentali aspettavano come una rivelazione per tirare fuori la coalizione dal rischio della 'crociata', ecco l'inatteso passo indietro. Khalid Al Bu Ainain, ex capo di Stato maggiore dell'aviazione degli Emirati, ha chiarito il mistero: "Il mancato invio ha ragioni tutte politiche, non militari''.

Quali? Presto detto. ''Europa e Usa hanno criticato il modo in cui le forze di sicurezza del Bahrein, potenziate da mille militari sauditi e 500 poliziotti emiratini, hanno soppresso la protesta Manama'', ha spiegato Ainain.

Allora oggi la conseguenza appare chiara: Usa e alleati hanno fatto presente che non si spenderanno più, né con le dichiarazioni né in modo pratico, per salvare la pelle agli sciiti del Bahrein.

La situazione è nota. In Bahrein gli sciiti sono il settanta percento della popolazione, da sempre emarginata dal potere e dal benessere economico in Bahrein, dove tutto è nelle mani dell'emiro al-Khalifa e del suo clan sunnita.

Nel corso della protesta, che ha comunque saputo coinvolgere anche settori progressisti dei sunniti, l'emiro ha reagito con una violenza cieca.

Alla repressione, quando sembrava che il trono vacillasse, si sono uniti sauditi ed emiratini. Un massacro, senza che Francia, Usa e Gran Bretagna sentissero l'anelito umanitario che li ha condotti a bombardare la Libia.

Non solo, li ha spinti a impegnarsi a non dire una parola e a non muovere un dito, cosa anche più grave dell'indifferenza. Il tutto in cambio dell'appoggio di dodici caccia, ma soprattutto dell'icona politica di mostrare al mondo che gli arabi sono con noi.

Ma sono arabi anche quelli massacrati in piazza, solo che sono sciiti. Quindi vicini all'Iran, quindi nemici delle corrotte petro monarchie del Golfo, alleate chiave dell'Occidente. Tutti gli arabi sono uguali, pare, ma qualcuno è più uguale degli altri.


Libia, rivoluzione telecomandata

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 25 Marzo 2011

Rivelazioni sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi nella pianificazione delle rivolte anti-Gheddafi e sulla presenza in Cirenaica di forze speciali angloamericane fin dalle prime fasi della ribellione, se non da prima

Se non fosse per l'aspro scontro diplomatico in atto tra Italia e Francia sulla Libia, difficilmente saremmo venuti a conoscenza degli imbarazzanti retroscena della 'rivoluzione libica' pubblicati ieri dalla stampa berlusconiana, che dimostrano come la rivolta popolare contro Gheddafi sia sta orchestrata da Parigi fin dallo scorso ottobre.

Il quotidiano Libero, citando documenti riservati dell'intelligence francese (ottenuti dai servizi italiani) e basandosi su notizie pubblicate dalla newsletter diplomatica Maghreb Confidential, racconta come l'uomo più fidato del Colonnello, il suo responsabile del protocollo Nouri Masmari, lo abbia tradito rifugiandosi a Parigi lo scorso 21 ottobre.

Lì, nel lussuoso hotel Concorde Lafayette, questo inquietante personaggio ha ripetutamente incontrato i vertici dei servizi francesi, fornendo loro informazioni politiche e militari utili per rovesciare il regime libico e contatti libici fidati per organizzare una rivoluzione.

In base a queste indicazioni, il 18 novembre agenti francesi al seguito di una missione commerciale a Bengasi hanno incontrato il colonnello dell'aeronautica Abdallah Gehani, pronto a disertare. Gheddafi scopre qualcosa e dieci giorni dopo chiede alla Francia di arrestare Mesmari, ma lui chiede asilo politico e continua a tessere le sue trame.

Il 23 dicembre arrivano a Parigi altri tre libici: Faraj Charrant, Fathi Boukhris e Ali Ounes Mansouri, ovvero al futura leadership della rivoluzione libica. Mesmari, sempre sorvegliato/protetto dai servizi francesi, si incontra con loro in un lussuoso ristorante degli Champs Elysèe.
Subito dopo Natale arrivano a Bengasi i primi ''aiuti logisitici e militari'' francesi.

A gennaio Mesmari, soprannominato dagli 007 francesi 'Wikileak' per tutte le informazioni che rivela, aiuta Parigi a predisporre i piani della rivolta assieme al colonnello Gehani. Ma i servizi segreti libici scoprono le intenzioni di quest'ultimo e lo arrestano il 22 gennaio.

Qui finiscono le rivelazioni di Libero, ma cominciano quelle sull'arrivo di commando di forze speciali britanniche e statunitensi a Bengasi.

Tra il 2 e il 3 febbraio, secondo ''informazioni raccolte in ambienti ben informati'' dal blog Corriere della Collera (del massone Antonio De Martini, ex responsabile del movimento repubblicano di destra 'Nuova Repubblica'), uomini delle Sas e delle Delta Force sarebbero giunti in Cirenaica per inquadrare e addestrare i futuri ribelli.

Il 17 febbraio scoppia la rivolta in Cirenaica.

Secondo fonti di stampa vicine ai servizi segreti israeliani e pachistani, una settimana dopo, nelle notti del 23 e 24 febbraio, sbarcano a Bengasi e a Tobruk centinaia di soldati delle forze speciali britanniche, statunitensi e anche francesi per aiutare i rivoltosi a sostenere la dura reazione militare del regime di Gheddafi: i gruppi ribelli vengono organizzati in unità paramilitari e addestrati all'uso delle armi pesanti catturate dai depositi governativi.

La consistente presenza di forze militari inglesi in Cirenaica fin dalle prime fasi della rivolta anti-Gheddafi (almeno da fine febbraio) verrà successivamente confermata dal giornale britannico Sunday Mirror.

I primi di marzo, secondo il settimanale satirico francese Le Canard enchainé, i servizi segreti francesi della Dgse hanno fornito ai ribelli libici un carico di cannoni da 105 millimetri e batterie antiaeree camuffato come aiuto umanitario e accompagnato da addesratori militari.

I mesi di pianificazione portata avanti dall'intelligence francese e il tempestivo, se non preventivo, sostegno militare anglo-americano-francese sul terreno, gettano nuova luce sulla natura della 'rivoluzione libica'.


Cercansi sepolcri imbiancati al cubo

di Giulietto Chiesa - Megachip - 25 Marzo 2011

Leggo un editoriale imperiale di «Le Monde» (24/3/2011) dal titolo: “Il mandato dell'ONU, né più né meno”.

Non sono passati due giorni ed è già carta straccia. Succede tutti i giorni ai giornali, diventare carta straccia il giorno dopo, ma in questo caso è carta igienica. Domanda: quale mandato? Se si tratta della risoluzione 1973, essa – per chi voglia ricordare cosa dice la Carta delle Nazioni Unite – viola il Capitolo VII in modo plateale.

Perché là vi è scritto che un intervento contro uno Stato sovrano può essere deciso, e legalmente attuato, solo se questo stato minaccia la pace e la sicurezza internazionale.

In secondo luogo la risoluzione 1973 autorizza l'istituzione di una “no-fly zone”, ma non affida il mandato a nessuno in particolare. Tant'è che, per cinque giorni consecutivi, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia e altri assortiti soggetti internazionali hanno agito di propria iniziativa, senza avere ricevuto alcuna specifica autorizzazione.

E solo il 24 sera a Bruxelles, dopo defatiganti e confusi negoziati, la NATO si è presa il comando. Non senza dover registrare dissensi molto acuti al suo interno: la Germania non muove un dito, la Turchia pattuglia e basta. Una finzione per salvare la faccia.

Peggio: i tre banditi imperiali hanno interpretato la risoluzione 1973 includendo tra le “misure necessarie” a proteggere la popolazione civile (autorizzate in violazione della Carta, non bisogna stancarsi di rilevarlo) il bombardamento delle colonne militari dell'esercito regolare di un paese ancora sovrano, cioè ben oltre ogni criterio di “no-fly zone”.

Tutto questo non lo dico io ma lo dice il ministro degli esteri del più importante paese NATO dopo gli Stati Uniti, cioè la Germania.

Dunque, riassumendo: ipocrita la risoluzione, sepolcri imbiancati gli esecutori non autorizzati. Sepolcri imbiancati al quadrato (li chiameremo per brevità S.I.2) i servi dei primi (come «Le Monde, ma anche come quasi tutti i giornali del mainstream imperiale, «la Repubblica» e il «Corriere» in primis).

Il giornale francese scrive, insieme a tutti gli altri, che «l'aviazione e l'artiglieria pesante di Gheddafi sono colpite perché minacciano popolazioni che si sono sollevate pacificamente prima di prendere le armi».

Ma i fatti dicono che queste “popolazioni pacifiche” hanno ora un esercito, mezzi, armi, comandanti in capo, denaro ecc.

Dunque bombardare l'esercito di Gheddafi significa aiutare uno dei due eserciti che si fronteggiano sul terreno. Cioè intervenire a favore dell'uno contro l'altro.

Vero è che questo “esercito ribelle” - che i S.I.2 hanno propagandisticamente gonfiato come una pallone - e il suo governo provvisorio, sono troppo evanescenti per essere credibili. Infatti non riescono a fare un passo avanti verso Tripoli neppure dopo violentissimi bombardamenti che hanno impedito ogni azione offensiva dell'esercito di Gheddafi.

«Le Monde» pubblicava ieri una foto dove si vedono i miliziani ribelli che giocano a pallone mentre aspettano l'arrivo della squadriglia di turno di bombardieri francesi e inglesi, pronti ad alzare al cielo inni di “Allah è grande”, ad ogni bomba che cade sul nemico.

Ma questo peggiora le cose: significa che l'Occidente (comunque la si giri, proprio così penseranno grandi masse di gioventù araba) sta aiutando una parte contro l'altra. E allora che senso ha dire che nessuno «evoca in alcun momento un cambiamento di regime»?

E che «non si tratta di lasciare al potere, o no, il colonnello Gheddafi»? A volte i S.I.2 fanno tenerezza quando si arrampicano sugli specchi.

Il fatto è che, in violazione, l'ennesima, della Carta dell'ONU, l'intervento esterno persegue esattamente questo obiettivo. Anche se non riesce a ottenerlo. Da qui il marasma degli aggressori.

Ma che pasticcio è questo, in cui i S.I.2 ripetono che «il mandato internazionale deve essere rispettato alla lettera (sic!) senza stravaganze verbali né appelli guerrieri al rovesciamento del regime»? Vadano a dirlo a Hillary Clinton, che ripete instancabilmente proprio questo mantra.

E se il regime non cede? Allora bisognerà mandare i marines, o la Legione Straniera, sul terreno. Ma allora ci vorrà – per coprire di fango, definitivamente, l'ONU – la risoluzione 1974.

Che, però, non potrà più giovarsi delle astensioni di cui si è vantata la 1973, perché i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) hanno già tirato il freno a mano.

Davvero un pasticcio sesquipedale. Per coprire il quale cercansi sepolcri imbiancati al cubo: S.I.3.