mercoledì 23 marzo 2011

Libia, Giappone: tra guerra e radiazioni...

Alcuni articoli su due temi che sembrano avere niente in comune.

E invece il fil rouge c'è, eccome...


Perché dalla guerra noi abbiamo soltanto da perdere
di Giancarlo Perna - Il Giornale - 23 Marzo 2011

Ci assicurano che Gheddafi non ha missili per colpirci e che perciò possiamo stare tranquilli. Bè, a me non basta per accettare l`idea di fargli la guerra. Ho letto le ragioni invocate per la campagna militare: i motivi umanitari, la crudeltà del rais, il futuro della gioventù araba, ecc.

Egualmente, da cittadino comune, non capisco perché l`Occidente si creda in diritto di attaccare la Libia e meno che mai mi rallegro che l`Italia guidata da Berlusconi si sia allineata alla decisione.

Gheddafi è un comune tiranno arabo come tanti nella regione. Lo è da 41 anni, è stato mandante della strage di Lockerbie e nella discoteca tedesca.

Da diversi anni ha però scelto la legalità internazionale e i suoi uomini siedono nel consigli di amministrazione dell’Occidente. Dunque, dargli del terrorista oggi che non lo è più, è un controsenso e non giustifica la guerra.

Quella libica è una tirannia? Non lo è anche quella siriana, iraniana, sudanese, solo per stare negli immediati dintorni. Che si fa, si bombarda tutti? Si dice: il rais sta combattendo i suoi stessi connazionali.

Ma che deve fare uno Stato se un gruppo di cittadini si ribella, non con manifestazioni di piazza come in Tunisia e in Egitto, ma con bombardamenti e cannonate come in Cirenaica? Non ha forse il diritto - e l’obbligo morale verso il Paese – di riportare l’ordine?

Si chiamano guerre civili e ci sono passati tutti. In primis, europei e americani che oggi in Libia si ingeriscono, come se l’avvenimento fosse inaudito, in nome dell’emergenza umanitaria. Per tacere dei morti che la «pacificazione» porterà con sé.

Ma poi su che basi il galletto francese e gli altri Rambo scelgono di appoggiare i ribelli anziché i seguaci del leader libico? Secondo quale criterio gli uni sono i buoni e gli altri i cattivi? Se parliamo di numeri, tutto fa pensare che i sostenitori del rais siano la maggioranza del Paese e allora con quale raziocinio noi stranieri dovremmo appoggiare una minoranza?

Perché si è rivoltata contro Gheddafi che a noi non piace? Ma a tanti libici piace. Oppure perché ci siamo fitti in capo che sono giovani, navigano su internet e sognano una democrazia all’occidentale?

E’ quello che ha detto con ciglio bagnato Napolitano parlando di un «nuovo risorgimento del mondo arabo» che va protetto come una primula dal gelo. Chissà a quali fonti esclusive si è abbeverato il presidente, visto che l`intera vicenda libica è dominata dalla disinformazione.

Noi, meno privilegiati di lui, ci limitiamo a ricordare che, appena conquistata la loro fetta di sabbia, gli insorti hanno proclamato un Califfato vattelappesca. Il che, con buona pace di Napolitano e Sarkozy, la dice lunga sulla china delle cose. Gheddafi è tacciato di inaudita crudeltà.

Quello cui l’Onu aveva affidato la commissione sui diritti umani - e che ora vuole morto - è da qualche settimana il «sanguinario» dittatore. Lo dicono gli inviati tv sul posto che, scomposti ed eccitati, hanno cercato di convincerci che in Cirenaica sia in corso la conta finale tra Bene e Male. Dunque, giusto abbatterlo.

Che il rais sia un poco di buono non ci piove. Ma se il criterio è quello delle mani grondanti, che dire allora del suo vicino, il despota sudanese Al Bashir? E’ quello del decennale genocidio dei suoi compatrioti nel Darfur: 300mila morti, 2,5 milioni di profughi.

Se è lo spirito umanitario a guidare Sarkozy & co. in Libia, perché non spingersi fino a Khartum e dare una lezione anche a quel tirannello islamico? Perché solo Gheddafi? Petrolio e vite da salvare ci sono anche altrove. Ma loro, chissà perché, puntano a Tripoli.

L’errore del rais è stato privilegiare Silvio Berlusconi. Il Cav lo ha tanto imbambolato che quello ci ha riempito di idrocarburi e annessi. Può darsi che al fondo dell`eccitazione bellica del galletto parigino ci sia l’invidia per quei trafficoni di italiani.

Ciò che è certo, è che la guerra alla Libia è un attacco all`Italia e ai suoi interessi. Noi a Tripoli ci stavamo benissimo. Eravamo i primi partner commerciali, dopo avere sepolto il passato con un trattato di imperitura amicizia tra ex colonizzatori e colonizzati. Con la guerra, abbiamo perso tutti i vantaggi e si riparte da zero.

Prima di bastonare il rais, i franco-anglo-americani hanno dunque randellato noi. Sa perciò di beffa l’attuale alleanza con chi ci ha turlupinato.

Il governo spiega che è necessario partecipare alla guerra - aldilà delle fanfaluche umanitarie - per sedere al tavolo della pace e spartire il bottino. Ma, in ogni caso, sarà meno di ciò che già avevamo.

Non sarebbe stato meglio mediare tra Occidente e Libia, fare capire che non si entra in casa altrui a capriccio solo perché si ha la bomba più grossa? Magari andando incontro a qualche attrito con Obama e il galletto ma facendoci rispettare.

Certo, i palestrati avrebbero egualmente fatto di testa loro, ma sapendo che gli stavamo col fiato sul collo. Tanto più che eravamo in ottima compagnia con la Germania che all’Onu si è astenuta. Potevamo dichiararci neutrali anche noi, in coerenza con i nostri sentimenti e con gli interessi calpestati.

Insomma, mettere almeno il broncio. Invece, ci siamo precipitati a sospendere il trattato di amicizia col rais, in vigore da pochi mesi, rinfocolando la nomea dell’Italia voltagabbana e inaffidabile. Per poi infilarci l’elmetto, fingendoci entusiasti, e offrire sette - dico sette - basi militari per portare le bombe in Libia e rivendicando come un onore il coordinamento delle operazioni.

Per me, è intrappolarsi da soli.

La guerra l’hanno voluta insieme maggioranza e opposizione (con un’astensione per parte, Lega e Idv), ma sotto schiaffo è solo il Cav. Se va storto pagherà lui. A naso, direi che il grosso degli elettori di centrodestra è contraria.

Berlusconi fa sapere di essere stato trascinato dagli eventi.

Non è una scusa da statista.

Vero è che la mosca cocchiera è stata Napolitano. Con un profluvio di dichiarazioni si è detto per la guerra con Obama e il premier anziché metterlo a tacere - «governo io!» - si è fatto prendere la mano.

Cav, mi consenta: non ascolti mai gli ex comunisti quando ci sono di mezzo gli Usa. Ricorda come D’Alema si mise sull’attenti davanti a Clinton ficcandoci nella guerra serba? È un riflesso condizionato.

Per farsi perdonare il servilismo con Mosca, oggi sono proni a Washington. Abituati a obbedire, hanno spento il cervello. Non li segua su questa strada che a ogni ora si lastrica di nuovi morti.


Rossanda di vergogna
di Gianni Petrosillo - Conflitti e strategie - 23 Marzo 2011

La sinistra, quella istituzionale, quella pacifista, quella extraparlamentare, quella ultrasensoriale, nemica della violenza di classe, di razza, di genere, amica del povero, dell’oppresso e del depresso, è letteralmente esplosa di fronte alla guerra.

Questa volta, contrariamente ai conflitti in Afghanistan e in Iraq, nessun tentennamento, nessun senso di colpa, nessuna riprovazione morale, nessuna divisione, nessun dubbio sull’intervento militare nei confronti di una nazione sovrana.

La bomba può tingersi di rosso popolare e diventare la liberatrice degli angariati dalla tirannia e dal giogo della dittatura.

Quando c’è un democratico insignito di un nobel per la pace alla Casa Bianca il bene si inerpica per strade poco battute ma ovunque esso vada, con qualsiasi mezzo si esprima, cerca solo di realizzare se stesso. Obama è il profeta di questo secolo di benevolenza, con lui Venere s’incrocia con Marte e tra amore e guerra non v’è più differenza.

Se i libici non moriranno sotto i bombardamenti, li asfissieremo con i gas esilaranti della nostra bontà occidentale. Qualcuno, per la verità, ha tentato ancora di distinguersi dal coro unanime dei sinistri guerrafondai dei nostri giorni che si battono il petto per la democrazia mondiale.

Valentino Parlato sul Manifesto è intervenuto con la sobrietà intellettuale che richiede la trattazione di argomenti come quelli di cui parliamo e con la giusta dose di realpolitik che permette ancora di mostrarsi lucidi contro le certezze del clima ideologico dominante.

Ma l’ex direttore del quotidiano comunista si è trovato sulla strada un’altra pasionaria che nella sua vita non ne ha azzeccata una. Rossana Rossanda è entrata in polemica col suo giornale perché, secondo lei, occorre offrire a questo popolo un aiuto. La Rossanda dà per scontato, evitando di fare qualsiasi sforzo logico, che la gente stia dalla parte degli insorti.

Eppure le menzogne con le quali la coalizione ha costruito questo conflitto sono venute lentamente a galla, dalle finte fosse comuni ai falsi raid sui civili da parte del regime libico.

Ma se non c’è più sordo di chi non vuol sentire non c’è più cieco di chi non vuol vedere. E lei pur non vedendo interpreta, pur non pensando consiglia, pur non capendo raccomanda.

Si sente solidale con le forze che cercano di liberarsi da Gheddafi, cioè con le tribù ed i monarchici che sventolano le bandiere di Re Idris. Da comunista a lealista, un bel salto di qualità verso la modernità e l’emancipazione sociale.

Ma la signora non è nuova a queste intuizioni geniali, è la stessa che condivise idealmente le barricate dove salì lo smantellatore sindacale polacco Lech Wałęsa, definito da costei il nuovo Lenin e la sua rivoluzione antisovietica un altro ’17. E poi stessa valutazione con Gorbaciov, glasnost e perestrojka.

Non finì proprio come la scrittrice prevedeva, Walesa si dimostrò un burattino nelle mani degli americani e Gorbaciov toccò il culmine della sua carriera quando si prestò alla sponsorizzazione della Pizza Hut.

Oggi la donna engagé continua dall’alto della sua esperienza a spiegarci come va il mondo nonostante le sue brutte figure non si contino più. Ci vorrebbe più pudore, cara Rossana di vergogna.



Sinistra guerriera, Destra pacifista. Ecco perchè
di Marcello Foa - http://blog.ilgiornale.it/foa - 22 Marzo 2011

Queste riflessioni inizialmente erano per il blog, poi sono diventate un articolo pubblicato oggi su Il Giornale, ma per … diritto di primogenitura le propongo anche sul Il Cuore del Mondo. Cari saluti a tutti

Impossibile negarlo: al popolo di destra questa guerra non piace. E non è necessario attendere i sondaggi per averne conferme, è sufficiente leggere i commenti lasciati dai nostri lettori su ilgiornale.it o i tanti blog di area: è un diluvio di opinioni contrarie. Ma anche a sinistra le cose non vanno come al solito.

Sono tutti allineati: il Pd, Repubblica, l’Unità, persino Di Pietro. Ma a favore della guerra, nonostante anche sui blog progressisti emergano molti dissensi. Gli eroi pacifisti di altre guerre – come Gino Strada – questa volta faticano a trovare spazio.

D’altronde non sono annunciate le consuete manifestazioni del popolo Arcobaleno, che lascia le bandiere ripiegate nell’armadio e che difficilmente, nei prossimi giorni, le srotolerà.

Sorpresa, noi giornalisti ci interroghiamo: forse non sappiamo più capire l’Italia? Lo sconcerto è comprensibile eppure questo ribaltamento di ruoli è tutt’altro che inspiegabile. A condizione di conoscere i meccanismi che regolano l’opinione pubblica e inducono la gente a maturare giudizi su fatti di attualità.

È tutta una questione di frame, ovvero di un parametro incorniciato nella coscienza collettiva, che funziona come un filtro mentale. Le notizie che confortano e riaffermano il giudizio già maturato nella nostra mente vengono accettate e enfatizzate, quelle discordanti minimizzate o scartate.

Il frame vale per ogni evento, ma è fondamentale in occasione delle guerre che, per essere accettate, e soprattutto spiegate in termini. A lungo, insistentemente.

La prima guerra e la seconda guerra in Irak, persino quella in Afghanistan – sebbene fosse stata decisa sull’onda impetuosa dell’11 settembre – sono state preparate per settimane, durante le quali i governi occidentali hanno convinto la maggioranza della popolazione a sostenere l’intervento.

In nome della sicurezza, della libertà, per difendersi da una minaccia suprema. In questi casi l’opinione pubblica di destra appoggia convinta, quella di sinistra rifiuta ma resta minoritaria. È il tempo la variabile decisiva.

Ma il tempo in Libia è mancato. Per colpa di Sarkozy, che ha forzato la mano a tutti. Fino a giovedì faceva notizia solo l’incubo nucleare giapponese.

Poi in serata, improvvisamente, l’Onu ha dato il via libera all’intervento, sabato si è svolto il summit a Parigi e subito dopo sono iniziati i bombardamenti. Nessun governo ha avuto il tempo di riflettere, di spiegare, di motivare né con il cuore, né con la mente.

E allora è prevalso un altro frame ovvero il giudizio che la gente ha maturato sulla Libia negli ultimi mesi.

Al pubblico di destra, Gheddafi non piace, ma, temendo il fondamentalismo islamico, vede in lui il minore dei mali e, soprattutto, gli riconosce il merito di aver fermato i clandestini.

L’intellighenzia di sinistra, invece, è poco sensibile all’immigrazione, ma permeata da una cultura internazionalista, che la porta da sempre a solidarizzare con i popoli oppressi o che considera tali.

Ricordate il Vietnam o il Nicaragua? «El pueblo unido…». Il mondo è cambiato, il contesto in Libia è diverso, ma il riflesso implacabile.

E ancora: l’uomo di destra è pragmatico, diffida dell’instabilità e preferisce Gheddafi, per quanto matto, a una Libia che rischia di finire in mano agli integralisti o dilaniata da una guerra tra clan, come avvenuto nell’Irak post-Saddam.

Gli elettori conservatori intuiscono che l’attivismo di Sarkozy non è solo umanitario, nè idealista, ma dettato da interessi economici, politici e geostrategici, in contrasto con quelli dell’Italia che rischia di perdere i benefici costruiti con la Libia. Ovvero gas, petrolio, appalti, sicurezza. Il loro no, per quanto istintivo, è motivato.

Il sì della sinistra, invece, segue l’onda e, come sempre è conformista. Guardate come si sono comportati al governo D’Alema, Prodi e Amato: quando c’era da scegliere tra gli interessi italiani e certe pressioni straniere, sono sempre caduti da quella parte.

Anche oggi, nella speranza, nemmeno inconfessata, che la crisi possa far vacillare il Cav. Insomma, a ben vedere, la solita sinistra…


La guerra del club Med

di Pepe Escobar - www.atimes.com - 19 Marzo 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Elfons

Sarebbe davvero incoraggiante immaginare che la risoluzione 1973 [1] di giovedi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fosse stata votata esclusivamente per sostenere il movimento anti-Gheddafi sotto assedio con una no-fly zone, con logistica, alimenti, aiuti umanitari e armi.

Questa sarebbe la prova che la "comunità internazionale" veramente "sta con il popolo libico nella loro ricerca di conseguire diritti umani universali", citando l'ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite Susan Rice.

Eppure, forse c'è qualcosa in più di questa giusta (morale) causa. La storia può registrare che il vero punto di svolta è avvenuto martedì scorso, quando, in un'intervista alla televisione tedesca, il re dei re africani ha fatto in modo che le società occidentali – ad esclusione della Germania (perché il paese era contro la no-fly zone) - possano dire addio all'abbondanza energetica della Libia.

Gheddafi ha detto esplicitamente, "Non ci fidiamo delle loro aziende, hanno cospirato contro di noi ... I nostri contratti petroliferi stanno andando verso le aziende russe, cinesi e indiana". In altre parole: i paesi membri del BRICS.

E 'molto interessante il fatto che la risoluzione ONU 1973 abbia ricevuto 10 voti a favore, zero contrari e cinque astensioni. Queste sono arrivate proprio dai quattro paesi del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), più la Germania. Brasile e Germania avevano già da giorni espresso il loro profondo scetticismo a proposito di un'azione militare , preferendo una soluzione diplomatica, ma nel caso della Russia, India e Cina, altre (energia) motivazioni possono essere state in gioco.

I quattro membri BRICS (l'altro è il Sud Africa, che ha votato per la risoluzione e si unisce ufficialmente al gruppo allargato nel mese di aprile) tendono a condividere il voto in ogni decisione importante.

Fammi volare fino al petrolio


Così i cinici hanno tutto il diritto di invocare l'ultra-testato mantra: è il petrolio, stupido.

La Libia è la più grande economia petrolifera in Africa, sopra alla Nigeria e all'Algeria. Detiene almeno 46,5 miliardi di barili di riserve accertate di petrolio (10 volte quelle dell'Egitto). Ossia il 3,5% del totale mondiale.

La Libia produce tra 1,4 e 1,7 milioni di barili di petrolio al giorno, ma vuole raggiungere i 3 milioni di barili. Il suo petrolio è molto pregiato, soprattutto con un costo ultra-basso di produzione che ammonta a circa 1 dollaro al barile.

Quando Gheddafi minacciò le multinazionali petrolifere occidentali, egli intendeva dire che i giochi sarebbe presto finiti per la francese Total, l'italiana l'ENI, la British Petroleum (BP), la spagnola Repsol, ExxonMobil, Chevron, Occidental Petroleum, Hess e Conoco Phillips - ma non per la China National Petroleum Corp (CNPC).

La Cina ritiene essenziale il ruolo della Libia per la propria sicurezza energetica. La Cina riceve l'11% delle esportazioni di petrolio della Libia. CNPC ha tranquillamente rimpatriato non meno di 30.000 lavoratori cinesi (rispetto ai 40 al lavoro per BP).

Dal canto suo il colosso energetico italiano Eni produce oltre 240.000 barili di petrolio al giorno - quasi il 25% delle esportazioni totali della Libia. Non meno dell'85% del petrolio della Libia è venduto a Unione europea (UE).

Quindi in un elenco di chi trarrebbe profitto – in teoria - dall'operazione militare in Libia, oltre l'ONU, gli sanzionanti Stati Uniti/ la North Atlantic Treaty Organization (NATO) / la Lega Araba, bisogna aggiungere l'Unione europea e le grandi multinazionali del petrolio anglo-americane.

Per non parlare di Wall Street - pensate a quei miliardi di dollari di attività finanziarie libiche depositati nelle banche occidentali, e ora confiscate, e certamente i produttori di armi USA/UE.

A seconda di come verrà implementata, e per quanto tempo resisterà Gheddafi, la risoluzione Onu 1973 sarà intimamente legata alla grave perturbazione che subirà l'approvvigionamento di petrolio verso l'UE, soprattutto verso Italia, Francia e Germania, e questo implicherà tutta una serie di aspetti geopolitici, a partire dalla relazione tra gli Stati Uniti e l'UE. Tutti vogliono essere ben posizionati nella questione energetica del dopo-Gheddafi.

Il punto chiave della risoluzione Onu 1973 è il punto quattro – ossia nel "prendere tutte le misure necessarie per proteggere i civili ... e le aree civili popolate sotto la minaccia di un attacco nella Giamahiria Araba Libica (come i libici chiamano la nazione Libica ndt), includendo Bengasi, ma escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma su qualsiasi parte del territorio libico ".

E 'essenziale sottolineare che "prendere tutte le misure necessarie" va ben al di là di una zona no-fly, pur bloccando l'idea di un'invasione via terra. Fondamentalmente, include attacchi aerei o missilistici verso i carri armati di Gheddafi sulla strada per Bengasi, per esempio.

Ma si può anche includere il bombardamento di installazioni del regime di Gheddafi a Tripoli - anche il suo quartier generale. Con la volontà di Gheddafi di combattere fino alla morte è giusto aspettarsi di assumere il mandato solo con il cambio di regime.

Ma che dire del Bahrain?

E' il momento per l'Allerta Ipocrita numero 1. E 'stato un piacere vedere tornare Alain Juppé alla carica di ministro francese degli Affari Esteri – predicando sui valori umanitari – in sostituzione dell'icona Chanel Michele Alliot-Marie, che trascorse una vacanza in Tunisia nel bel mezzo della battaglia popolare per sbarazzarsi del tirannico Zine Ali el-Abidine Ben. La posizione dell'amministrazione di Barack Obama - almeno pubblicamente - è stata divisa tra il Segretario di Stato Hillary Clinton (a favore del no-fly), e Robert Gates del Pentagono (contro di esso).

Il presidente Obama non ha mai rivelato le sue carte fino all'ultimo minuto (a parte affermare che Gheddafi devesse andarsene). Agendo in tal modo ha spinto l'Onu a prendere l'iniziativa, con il duo anglo-francese a lavorare insieme in un paese arabo, il Libano, per stilare un abbozzo di piano.


Ciò che i più rigorosi critici avevano visto come un'imprudenza del presidente che minava la sua credibilità sulla linea, e la sua "incapacità di agire con decisione a sostegno della libertà", forse dovrebbe essere visto come un astuto trabocchetto, dando così l'impressione che le Nazioni Unite legittimassero un'altra - il brutto termine è inevitabilmente - "coalizione internazionale di volenterosi", e non un intervento occidentale: umanitari anti-imperialisti, c'è qualcuno?

Ora tutto dipende da come la NATO opererà con le basi militari francesi lungo il Mediterraneo e la forza aerea italiana e le basi navali in Sicilia, al costo di 300 milioni di dollari alla settimana.

Dal Pentagono Gates ha già ricollocato la flotta navale statunitense presso le coste libiche. E Obama ha assicurato che il Pentagono sarebbe in grado - come non potrebbe? - di aprire un terzo fronte di guerra.


E' arrivato il momento dell'Allerta Ipocrita numero 2. L'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e la Giordania potrebbero essere tutti collaboratori della forza USA/NATO anti-Gheddafi.

Tre di questi sono membri del Gulf Cooperation Council (GCC). Come parte della Lega Araba hanno tutti votato la scorsa settimana a favore di una no-fly zone.

Che ironia cosmica è vedere queste quattro autocrazie a sostegno di una operazione militare a beneficio della stesso tipo di manifestanti che chiedono giustizia, dignità e democrazia nel loro stesso cortile di casa.


Il provvisorio governo militare egiziano, mostrando più sensibilità, ha già affermato che non prenderà parte alle operazioni militari. D'altro canto, i militari egiziani stanno spedendo fucili d'assalto e munizioni oltre il confine a est della Libia - con l'approvazione di Washington.


Quindi la domanda è inevitabile. Le Nazioni Unite voterebbero con lo stesso zelo l'imposizione di una zona no-drive in Arabia Saudita - per evitare l'invio di carri armati e truppe attraverso il ponte per reprimere le persone in Bahrain, un paese che di fatto ha già invaso?


E' arrivato il momento dell'Allerta Ipocrita numero 3.

Washington, secondo il nuovo marchio dottrinale dell'amministrazione Obama, si candida come "US outreach" ("nazione che corre in aiuto dei diseredati" ndt) nei confronti dei ribelli quando si tratta di combattere "malvagi dittatori "come Gheddafi.

I ribelli alla fine otterranno il pieno supporto delle Nazioni Unite. Poi Washington predica "una modifica al regime" quando si tratta dei "nostri "bastardi, come al-Khalifas e la Casa di Saud in Bahrain.

I dittatori la fanno franca con l'omicidio.
La palla (di fuoco) nel Med è ora nel cortile di Gheddafi. Il suo ministro della difesa ha già avvertito che tutto il traffico aereo e navale nel Mediterraneo è a rischio - e ogni obiettivo civile e militare è parte del gioco.

Gheddafi da parte sua ha dichiarato al canale televisivo portoghese RTP che "se il mondo diventa pazzo con noi, anche noi impazziremo. Risponderemo. Renderemo la loro vita un inferno, perché stanno facendo così con la nostra. Non avranno mai pace".


Quindi occhio. La grande rivolta araba del 2011 sta per impazzire. Questa guerra del Club Med potrebbe diventare un violenta e furiosa carneficina.


Note

Questi sono i punti chiave della risoluzione che autorizza l'azione per proteggere i civili Libici da Muammar Gheddafi:

- Si esprime la grave preoccupazione delle Nazioni Unite a riguardo del deterioramento della situazione, l'escalation di violenza, e le pesanti perdite civili, condanna le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture ed esecuzioni sommarie e dichiara che gli attacchi contro civili possono costituire crimini contro l'umanità e costituiscono una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. -

Una zona no-fly è un elemento importante per la protezione dei civili, nonché per la sicurezza della fornitura di assistenza umanitaria ed un passo decisivo per la cessazione delle ostilità in Libia, così dice.

- Si chiede l'immediato cessate-il-fuoco e la totale fine delle violenze e di tutti gli attacchi e gli abusi ai civili e che le autorità libiche rispettino i propri obblighi di diritto internazionale ... e di prendere tutte le misure per proteggere i civili e soddisfare i loro bisogni basilari, e di garantire il passaggio rapido e senza ostacoli dell'assistenza umanitaria.

- Si autorizzano gli Stati membri dell'ONU a prendere tutte le misure necessarie, mantenendo l'embargo di armi già esistente, al fine di proteggere i civili e le aree civili popolate sotto la minaccia di un attacco aereo della Giamahiria Araba Libica, includendo Bengasi, pur escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi tipo su qualsiasi parte del territorio libico.


# Si richiede la collaborazione degli Stati membri della Lega Araba.

# Si decide di istituire un divieto per tutti i voli nello spazio aereo della Giamahiria Araba Libica, al fine di contribuire a proteggere i civili organizzando voli umanitari e si autorizzano gli Stati membri e le nazioni della Lega Araba ad agire a livello nazionale o tramite organizzazioni o accordi regionali, per adottare tutte le misure necessarie al rispetto del divieto di volo.

# Si invitano gli Stati membri ad intercettare navi ed aeromobili che si ritiene possano trasportare armi e altri oggetti vietati dalla embargo delle Nazioni Unite includendo in detta categoria il personale armato mercenario – si invitano gli stati membri a rispettare rigorosamente i loro obblighi ... per evitare che la fornitura di personale armato mercenario giunga nella Giamahiria Araba Libica.

- Gli Stati membri devono garantire la vigilanza delle imprese nazionali quando fanno affari con soggetti costituiti in Libia se gli Stati dispongono di informazioni che offrono fondati motivi di ritenere che tale attività possa contribuire alla violenza e all'uso della forza contro i civili.
Richieste che il Segretario Generale dell'ONU crei un gruppo, composto fino a otto esperti, per sorvegliare sull'applicazione della risoluzione.



La prossima Nagasaki - i timori nucleari perseguono il mondo
di Yoichi Shimatsu (ex direttore del Japan Times Weekly) - www.globalresearch.ca
Traduzione per www.comedonchisciottte.org a cuar di Ettore Mario Berni

Minaccia per il pubblico americano

Una seconda Hiroshima sta accadendo con le fusioni parziali dei reattori nucleari di Fukushima 1. Possiamo solo sperare che l'eventuale pedaggio in vite umane non arrivi in nessun modo vicino a quello della prima catastrofe atomica del mondo.

La comunità internazionale si sta chiedendo: dove sarà la prossima Nagasaki?

Negli Stati Uniti con i suoi 23 vecchi reattori di design o modello identico ai reattori General Electric Mark 1 di Fukushima, insieme a un'altra dozzina di design leggermente modificato?

In Francia, il Paese nel mondo più dipendente dal nucleare?

Probabilmente non in Germania o in Venezuela, che stanno riducendo i loro programmi nucleari, né in Gran Bretagna, leader mondiale nella conversione di energia nell'eolico offshore. E neanche in Cina, ora un esempio di ridimensionamento dei piani per nuove centrali nucleari a favore dell'energia solare.

Molte persone si stanno anche chiedendo: come può l'unica nazione che abbia mai sperimentato bombardamenti atomici diventare così fiduciosa nel settore dell'energia nucleare? La risposta è semplice e complicata insieme. Nell'economia moderna, l'energia per far funzionare le macchine si intreccia con la sicurezza nazionale, la politica estera e la guerra.

Progressi a base di uranio

La seconda Guerra Mondiale fu, in sostanza, una contesa per la conquista dei combustibili fossili. Un Giappone affamato di energia invase la Cina per il suo carbone e l'Indonesia per le riserve di petrolio. La guerra lampo della Germania nazista era diretta verso i giacimenti petroliferi in Romania, in Libia e nella regione del Mar Caspio.

Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno combattuto le potenze dell'Asse per conservare il proprio controllo sui combustibili fossili del mondo, e stanno ancora facendo lo stesso in conflitto con i paesi OPEC per il controllo dell'Asia centrale e della piattaforma continentale dell'Asia orientale.

Per evitare il ripetersi di un'altra guerra nel Pacifico, Washington ha cercato di progettare un Giappone del dopoguerra libero dalla dipendenza da carbone e petrolio. Dopo che l'industria giapponese si riprese al momento del Olimpiadi di Tokyo del 1964, gli Stati Uniti spinsero il Giappone ad adottare l'energia "pulita e sicura" del futuro - l'energia nucleare.

La General Electric e la Westinghouse furono presto incaricate di installare una rete di centrali nucleari in tutto il Paese insulare, mentre Tokyo fu inserita nell'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica (AIEA) varata dagli USAo e nel Trattato di non proliferazione.

A differenza delle risorse energetiche più anziane, il nucleare è stato l'unico con diritto di proprietà degli Stati Uniti, che non solo hanno dominato l'estrazione dell'uranio, ma anche la produzione di boro, il minerale assorbente i neutroni necessari per la reazione controllata. I laboratori nucleari americani, tra cui Los Alamos, Lawrence Livermore e Oakridge sono le scuole di specializzazione per i fisici nucleari del mondo.

Nello stesso periodo di infatuazione tecnologica inebriante, la Fiera mondiale di New York del 1964-1965 è stata una bolla iniziatica per un futuro "universale" più luminoso sulla base della scissione dell'atomo.

Il padiglione General Electric fu chiamato "Progressland" con uno spettacolo multimediale, dotato di una "esplosione di plasma" dalla fusione del plutonio per i visitatori più impressionabili.

Il Giappone è servito come modello di cittadinanza e cooperazione dell'energia nucleare sotto l'egida americana. L'impianto nucleare di Fukushima progettato da GE è stato completato nel 1971.

Il mito moderno dell'energia nucleare sicura è stata alternativamente contrastato e accettato a malincuore da parte del pubblico giapponese. In anni più recenti, la percezione una volta negativa nei confronti del provider nucleare, la società Tokyo Electric Power, ha subito un cambiamento.

Un giovane designer di computer-grafica a Tokyo mi ha detto che la sua generazione è cresciuta pensando "TEPCO ha un aura divina di infallibilità e di potenza maggiore del governo".

La mia esperienza come redattore all'interno della stampa giapponese rivela come la sua immagine aziendale è stata abilmente promossa con spot sostenenti falsamente virtù ecologiche di compatibilità ambientale con pesanti entrate pubblicitarie per i media televisivi e la stampa.

L'energia atomica nella guerra fredda

Il Giappone non era estraneo all'energia atomica. Durante la seconda guerra mondiale, gli alleati e l'Asse furono in competizione per una nuova fonte originale di energia, l'uranio.

Mentre il progetto Manhattan segretamente preparava la bomba atomica nel Nuovo Messico, il Giappone apriva miniere di uranio a Konan, nella Corea del Nord, che ora sono la fonte del programma nucleare di Pyongyang.

In seguito alla vittoria degli alleati, l'Unione Sovietica mirava a rompere il monopolio nucleare americano, istituendo nella Cina nord-occidentale un protettorato chiamato la Repubblica del Turkestan orientale, nella provincia dello Xinjiang.

I ricchi giacimenti di uranio nei pressi di Burjin, ai piedi dei monti Altai, fornirono il materiale fissile per lo sviluppo della capacità nucleare sovietica.

La miniere sovietiche scavate in fretta hanno lasciato la maledizione delle malattie da radiazione agli abitanti kazaki prevalentemente di etnia uigura, nonché alle comunità a valle, nella parte orientale del Kazakistan.

Gli scienziati cinesi e kazaki hanno eseguito dopo progetti di bonifica dei terreni, utilizzando alberi assorbi-isotopi per purificare la terra irradiata.

Per evitare che i sovietici accumulassero un arsenale nucleare, l'amministrazione Truman avviò un programma top-secret per il controllo di fornitura di uranio in tutto il mondo. L'operazione Murray Hill era incentrata sul sabotaggio delle operazioni di estrazione dell miniere di Altai.

Douglas MacKiernan, che operava sotto la copertura di vice console degli Stati Uniti in Urumchi, organizzò una squadra segreta di russi anticomunisti e guerriglieri kazaki per bombardare gli impianti di estrazione sovietici.

Costretto a fuggire verso Lhasa, MacKiernan fu ucciso per un errore di identificazione da una guardia di confine tibetana ed è onorato come primo agente della CIA ucciso in azione.

Le attività globali sotto copertura dell'operazione Murray Hill sono svolte oggi dall'ufficio anti-proliferazione della CIA. Uno sguardo alle sue operazioni clandestine è fornito in "Fair Game", il libro e film su Valerie Plame, l'agente “bruciata” sotto l'amministrazione Bush.

Battaglie palesi e segrete contro avversari nucleari sono state combattute in campi lontani come Pakistan, Egitto, Libia, Argentina, Indonesia, Myanmar e Iraq e contro i soliti sospetti l'Iran e la Corea del Nord.

Minaccia per il pubblico americano

I crolli parziali di Fukushima 1 stanno mettendo Washington di fronte ad un dilemma. Se questi rilasci di radiazioni si fossero verificati in Corea del Nord o in Iran, Washington avrebbe potuto convocare le sessioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU, chiedere ispezioni dell'AIEA e imporre dure sanzioni con la possibilità, eventualmente, di un intervento militare.

I crolli, tuttavia, sono di reattori americani progettati nell'ambito di protocolli operativi creati dagli Stati Uniti.

L'amministrazione Obama ha, quindi, minimizzato la gravità dell'attuale dramma nucleare che scuote la sicurezza del suo alleato Giappone. In un tono di difesa poco convincente, il presidente americano ha sostenuto l'energia nucleare come parte del "mix energetico" a supporto dell'economia statunitense.

La sua posizione pro-nucleare è irrazionale ed irresponsabile, quando paesi alleati più piccoli tra cui Gran Bretagna, Paesi Bassi e Germania stanno facendo ingenti investimenti in impianti eolici offshore nel Mare del Nord per porre fine alla loro dipendenza dai combustibili fossili e nucleari.

La comunità internazionale è ben consapevole della doppia morale in politica. Gli Stati Uniti hanno tranquillamente applaudito attacchi aerei israeliani contro l'impianto nucleare Osirak di Saddam Hussein nel 1981 e da allora ha chiesto sanzioni sempre più severe contro Teheran e Pyongyang.

Eppure, Washington si rifiuta di dare l'esempio, facendo spallucce alle petizioni del movimento anti-nucleare per fermare i piani per nuovi reattori e scansando le richieste da parte dei cittadini di Hiroshima e Nagasaki per un disarmo nucleare totale.

La campagna americana per un monopolio atomico, o almeno predominio nucleare, sta conducendo potenze più piccole ad ottenere una capacità di deterrenza. Queste nazioni non sono certo un "asse del male": stanno solo giocando al gioco di sopravvivenza con le regole - non le parole - fissate da Washington.

Nei giorni e nei mesi a venire, i cittadini americani saranno sotto la minaccia dal temuto arrivo del fallout radioattivo. Il terrorismo è oggi praticamente dimenticato visto che una minaccia molto più ampia potrebbe presto coprire i cieli americani "da costa a costa".

A meno che Washington non si sposti rapidamente verso il ripudio della sua dipendenza nucleare, lo spettro di un altra Nagasaki stenderà la sua ombra sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi.


Nucleare, tre italiani su quattro dicono "no" alle nuove centrali
di Valerio Gualerzi - Movimento per la Decrescita felice - 23 Marzo 2011

Il campione intervistato dalla Gnresearch mostra una forte ostilità ai progetti del governo e si dice pronto a votare di conseguenza al referendum. Largo consenso alle rinnovabili, anche a costi più alti.

E' un bollettino carico di pessime notizie per il governo il sondaggio sul sentimento degli italiani rispetto al nucleare realizzato dalla Gnresearch. I risultati delle risposte fornite dal campione di mille cittadini rappresentativi dell'intera popolazione nazionale alla società internazionale di ricerche di mercato pubblicati in anteprima su Repubblica.it fotografano infatti un quadro decisamente negativo non solo per le aspirazioni di un ritorno all'energia atomica, ma anche per le ricadute sul consenso nei confronti della maggioranza.

Circa tre italiani su quattro non vogliono infatti la realizzazione di nuovi impianti nucleari, giudicano negativamente le politiche del governo nei confronti delle energie rinnovabili e si dicono pronti ad andare a votare all'imminente referendum per bloccare i piani dell'esecutivo.

Entrando nel dettaglio del sondaggio il dissenso popolare per le scelte energetiche di Palazzo Chigi appare poi ancora più evidente e strutturato. Il 59% degli intervistati si dice "molto contrario" alla costruzione di nuove centrali.

A questa opposizione va poi aggiunta quella del 17% che si definisce "abbastanza contrario", per un totale di oltre il 75%. A preoccupare gli italiani non sono tanto gli eventi "straordinari" come il terremoto giapponese, ma piuttosto l'ordinaria amministrazione.

"L'impatto negativo sull'ambiente e sulla salute dei cittadini, anche in assenza di incidenti o errori umani" è temuto dal 45%, lo "smaltimento delle scorie radioattive" dal 29%, il "rischio di incidenti dovuti ad errori umani" dal 15% e il "rischio di incidenti dovuti ad eventi naturali" dall'11%.

Temi che evidentemente condizionano anche i fautori dell'atomo. Circa il 20% di questi ultimi, malgrado il loro consenso al nucleare, si dice infatti "abbastanza" o "molto contrario" all'eventuale costruzione di una centrale nella sua regione.

Se ben il 90% degli italiani ha comunque ben presente che la nostra dipendenza energetica da altri paesi è un tema "molto" (59%) o "abbastanza" importante (30%), una schiacciante maggioranza del 69% ritiene che la soluzione per risolvere il problema sia il ricorso "esclusivamente alle energie rinnovabili".

Una scelta per la quale il 37% degli italiani sarebbe "certamente" disposto a pagare un qualcosa in più in bolletta e un altro 39% lo sarebbe "probabilmente".

A fronte di questa predisposizione non meraviglia quindi che il 43% giudichi "molto negativamente" i provvedimenti del governo sulle rinnovabili 2 (leggi decreto Romani) e un altro 29% li ritenga "abbastanza negativi".

Per far valere queste opinioni gli italiani si dicono quindi in larga maggioranza (70%) pronti a recarsi alle urne in occasione del prossimo referendum sul nucleare mentre un altro 71%, alla domanda "cosa voterebbe nel caso decidesse di andare a votare" risponde "contro il ritorno delle centrali atomiche".

Davanti a questo quadro davvero pesante non sembrerebbero aver sortito effetti positivi per l'immagine dell'esecutivo neppure le repentine frenate 3 annunciate da diversi esponenti del governo.

Per ben il 56% degli intervistati la pausa di riflessione auspicata dai ministri Romani e Prestigiacomo altro non è che "una scelta di convenienza per non perdere consensi", mentre solo il 39% pensa che la motivazione vada ricercata in una "concreta preoccupazione per la salute e la sicurezza dei cittadini".

Valutazioni che pesano sul giudizio complessivo dato all'operato dei due ministri. Né il responsabile dell'Ambiente né tantomeno quello dello Sviluppo economico superano infatti il 4,5 in pagella.


L'Apocalisse è già qui
di Guido Viale - Il Manifesto - 19 Marzo 2011

Apocalisse significa rivelazione. Che cosa ci rivela l'apocalisse scatenata dal maremoto che ha colpito la costa nordorientale del Giappone?

Non o non solo - come sostengono più o meno tutti i media ufficiali - che la sicurezza (totale) non è mai raggiungibile e che anche la tecnologia, l'infrastruttura e l'organizzazione di un paese moderno ed efficiente non bastano a contenere i danni provocati dall'infinita potenza di una natura che si risveglia.

Il fatto è, invece, che tecnologia, infrastrutture e organizzazione a volte - e per lo più - moltiplicano quei danni, com'è successo in Giappone, dove la cattiva gestione di una, o molte, centrali nucleari si è andata ad aggiungere ai danni dello tsunami.

Non è stato lo tsunami a frustrare anche le migliori intenzioni di governanti, manager, amministratori e comunicatori: l'apocalisse li ha trovati intenti a mentire spudoratamente su tutto, di ora in ora; cercando di nascondere a pezzi e bocconi un disastro che di ora in ora la realtà si incarica di svelare.

È un'intera classe dirigente, non solo del nostro paese, ma dell'Europa, del Giappone, del mondo, che l'apocalisse coglie in flagrante mendacio, insegnandoci a non fidarci mai di nessuno di loro.

Solo per fare un esempio, e il più "leggero": Angela Merkel corre ai ripari fermando tre, poi sette, poi forse nove centrali nucleari che solo fino a tre giorni fa aveva imposto di mantenere in funzione per altri vent'anni. Ma non erano nelle stesse condizioni di oggi anche tre giorni fa? E dunque: c'era da fidarsi allora? E c'è da fidarsi adesso?

Per chi non ha la possibilità o la voglia di sviluppare un pensiero critico e si lascia educare dai media, sono gli scienziati e i tecnici a poterci e doverci guidare lungo la frontiera dello sviluppo. I risultati di quella guida sono ora lì davanti ai nostri occhi.

L'apocalisse ci rivela invece che sono gli artisti, con la loro sensibilità e il loro disinteresse, a instradarci verso la scoperta del futuro.

Leggete Terra bruciata di James Ballard o, meglio ancora, La strada di Cormac McCarthy; o andate a vedere il film tratto da questo romanzo. Vi ritroverete immediatamente immersi in panorami che oggi le riprese televisive della costa nordorientale del Giappone ci mettono davanti agli occhi.

E con McCarthy potrete rivivere anche il senso di abbandono, di terrore, di sconforto, di inanità che solo una irriducibile voglia di sopravvivere a qualunque costo e il fuoco di un legame affettivo indissolubile riesce a sconfiggere.

L'apocalisse ci rivela che la normalità - quella che ha contraddistinto la vita di molti di noi per molti degli anni passati, ma che non è stata certo vissuta dai miliardi di esseri umani che hanno fatto le spese del nostro "sviluppo" e del nostro finto "benessere" - è finita o sta per finire per sempre.

È finita per il Giappone - e non solo per le popolazioni sommerse dallo tsunami - che ora deve fermare le sue fabbriche, sospendere le sue esportazioni, far viaggiare a singhiozzo i suoi treni, chiudere le pompe di benzina, spegnere le luci, bloccare tutti o quasi i suoi reattori nucleari; senza sapere con che cosa sostituirli e senza sapere se e quando potrà riprendersi da un colpo del genere (un destino simile a quello che potrebbe far piombare di colpo la Francia nelle condizioni di un paese "sottosviluppato" se solo le accadesse un incidente analogo).

I tanti programmi di «rinascita del nucleare» varati negli ultimi anni - che sono la risposta più irresponsabile e criminale alla crisi economica mondiale - si rivelano una truffa: il tentativo di far credere che con l'atomo consumi, sviluppo ed "emersione" di paesi che annoverano miliardi di abitanti possano riprendere e continuare a crescere come prima.

Tant'è che quei programmi stavano andando avanti - e forse verranno mantenuti ancora per un po' - soltanto nei paesi senza nemmeno la parvenza della democrazia (tra cui l'Italia). Ma adesso tutti, o quasi, si dovranno fermare.

Ma non saranno rose e fiori neanche per i paesi che viaggiano a petrolio, metano e carbone, come il nostro. Il Medio Oriente è in fiamme e se - o meglio, quando - crollerà il regno saudita, anche il petrolio arriverà con il contagocce.

Soprattutto in Italia; ma anche in Europa. E allora addio sogni di gloria per l'industria automobilistica: non solo quelli di Marchionne (che sono un mero imbroglio), ma anche per quelli di tutta l'Europa.

Per non parlare degli Stati Uniti: a giugno dovranno rinnovare una parte del loro debito, che è ben più serio e in bilico di quelli di tutti i paesi dell'Unione europea messi insieme; ma forse nessuno lo vorrà più comprare. Il che significa che un nuovo crack planetario è alle porte.

Insomma, niente sarà più come prima. Era già stato detto all'indomani dell'11 settembre; ma poi ciascuno ha continuato a fare quello che faceva prima. Comprese le guerre; compresa le speculazioni finanziarie e la reiterazione della crisi che essa si porta dietro; e che è stata invece trattata come «un incidente di percorso», da cui riprendere al più presto la strada di prima, discettando sui decimali di Pil che da un momento all'altro potrebbero invece precipitare di un quinto o di un terzo.

Quello che l'apocalisse dello tsunami in Giappone ci rivela è la "normalità" di domani. L'apocalisse è già tra noi, in quello che facciamo tutti i giorni e soprattutto in quello che non facciamo.

Dobbiamo imparare ad attraversare e a vivere dentro un panorama devastato, dove niente o quasi funziona più: non solo per il crollo o il degrado delle sue strutture fisiche; o per l'intasamento della loro "capacità di carico"; ma anche e soprattutto per la manomissione delle linee di comando, per la paralisi delle strutture organizzate, per la dissoluzione dello spirito pubblico calpestato dalle menzogne e dall'ipocrisia di chi comanda.

Volenti o nolenti saremo obbligati a cambiare il nostro modo di pensare e dovremo studiare come riorganizzare le nostre vite in termini di una maggiore sobrietà; e in modo che non dipendano più dai grandi impianti, dalle grandi strutture, dalle grandi reti, dai grandi capitali, dalle grandi corporation che li controllano e dalle organizzazioni statali e sovrastatali che ne sono controllate: tutte cose che possono venir meno, o cambiare improvvisamente aspetto dall'oggi al domani.

Dobbiamo adoperarci per mettere a punto strumenti di autogoverno a livello territoriale, in un raggio di azione che sia alla portata di ciascuno, in modo da avvicinare le risorse fisiche alle sedi della loro trasformazione e queste ai mercati del loro consumo e alle vie del loro recupero: perché solo di lì si può partire per costruire delle reti sufficientemente ampie e flessibili che siano in grado di far fronte a una improvvisa crisi energetica, alle molte facce della crisi ambientale, a una nuova crisi finanziaria che è alle porte, al disfacimento del tessuto economico e alla crisi occupazionale che si aggrava di giorno in giorno; e persino a una crisi alimentare che potrebbe farsi improvvisamente sentire anche in un paese del "prospero" Occidente.

Le fonti rinnovabili, l'efficienza e il risparmio energetici, il riciclo totale dei nostri scarti, un'agricoltura a chilometri zero, la salvaguardia e il riassetto del nostro territorio, ma soprattutto uno stile di vita più sobrio e restituito alla socievolezza sono i cardini e la base materiale di una svolta del genere. Va bene tutto ciò che va in questa direzione; anche le piccole cose. Va male tutto ciò che vi si oppone: soprattutto la rinuncia a un pensiero radicale.