domenica 14 settembre 2008

America Latina: l’ex giardino di casa degli USA

Ormai gli USA, pur con tutta la “buona volonta’” a loro disposizione, non possono piu’ considerare il continente latinoamericano come il proprio giardino di casa. E’ solo un ricordo del passato, la festa e’ finita.

Tutto il continente sembra fermamente disposto a fare fronte comune contro le solite disgustose ingerenze di Washington.
Dopo la cacciata dell’ambasciatore USA in Bolivia - accusato di intromettersi nella vita politica del Paese e “di volerlo dividere” – Hugo Chavez, in solidarieta’ con Evo Morales, ha cacciato l’ambasciatore USA a Caracas.
Naturalmente il Dipartimento di Stato Usa ha replicato disponendo l'espulsione dal Paese dell'ambasciatore venezuelano a Washington, Bernardo Alvarez.

La crisi dunque fra Venezuela, Bolivia e Stati Uniti, a questo punto è aperta. Nel gioco, che ricorda tanto la guerra fredda degli anni Ottanta, potrebbe entrare anche la Russia di cui il Venezuela è stretto alleato – ha infatti anche appena accolto in una sua base alcuni bombardieri russi.

Da sottoscrivere in pieno le parole che Chavez ha pronunciato un paio di giorni fa “Gli Usa devono portare rispetto ai paesi latinoamericani. Questo chiediamo, che sia portato rispetto. E fino a quando non cambierà il governo Usa l'ambasciatore non potrà rientrare [..] Questo è troppo, ritengo gli Usa responsabili di tutte le cospirazioni contro Venezuela e Bolivia. Andate all'inferno yankee di merda”.

Piu’ chiaro di cosi’…


L’America Latina offre lezioni a Bush
di Fabrizio Casari – Altrenotizie – 14 Settembre 2008

La tensione tra Venezuela e Bolivia da un lato e Stati Uniti dall’altro non pare destinata a ridursi. All’espulsione degli ambasciatori statunitensi da La Paz e Caracas, Washington ha risposto con eguali misure nei confronti dei diplomatici dei due paesi latinoamericani, con ciò riaffermando un meccanismo scontato nella prassi diplomatica. Ma il meccanismo azione-reazione, se ha una sua logica nella fisica, non sempre ce l’ha in politica e, meno ancora, nelle relazioni internazionali. Quella in corso non è una diatriba diplomatica, ma uno scontro politico di dimensioni ampie, che ha origine nell’ingerenza pesante del governo statunitense negli affari interni di tutti i paesi latinoamericani in generale, di quelli con governi progressisti in particolare.

Nel caso specifico della Bolivia, l’ambasciatore statunitense, Philip Goldberg, ha promosso, diretto e finanziato la rivolta delle elites bianche nelle regioni ricche del Paese, ostili alla presidenza di Evo Morales. L’ostilità, ad essere precisi, andrebbe declinata con un termine forse non più di moda, ma non per questo meno esplicativo: odio di classe. Solo negli ultimi tre giorni di scontri, sono nove i contadini uccisi dalle armi dei sostenitori dei governatori locali, che attaccano persino i reparti di polizia a difesa delle sedi istituzionali. Evo Morales, presidente reduce da una vittoria referendaria risultata più che altro una riconferma trionfale al suo operato, ha dichiarato lo stato d’assedio nelle province ribelli, ma non sembra disposto ad inviare l’esercito per ripristinare l’ordine. Ma non poteva più tollerare l’atteggiamento ed il comportamento da proconsole dell’impero con cui Goldberg esercitava le sue funzioni.

Più che alla convenzione di Vienna sembrava rifarsi alla Dottrina Monroe, il diplomatico a stelle e strisce già attivissimo in Kosovo durante la secessione da Belgrado. Proprio per i suoi trascorsi kosovari, del resto, era stato inviato in Bolivia e proprio con lo stesso modus operandi pensava di replicare nelle Ande quanto già avvenuto nei Balcani. Aveva fatto male i conti, soprattutto confondendo lo spirito dialogante di Evo con una sua presunta debolezza politica.

Per quanto riguarda il Venezuela, pur con uno spartito diverso da quello boliviano, la musica è la stessa. L’ambasciatore Patrick Daddy è infatti accusato dalle autorità venezuelane di aver collaborato all’intento golpista recentemente scoperto dai servizi segreti di Caracas e che ha portato, tra gli altri, all’arresto di un Generale di Brigata e di un Maggiore delle Forze Armate venezuelane. Niente di cui stupirsi, dal momento che Washington non ha mai smesso di cospirare – d’accordo con la Confindustria locale e alcuni governatori – contro il governo di Hugo Chavez, cercando di alzare la tensione interna per condurre il Venezuela verso una guerra civile, esattamente come in Bolivia e come in Nicaragua, quest’ultimo anch’esso vittima di una escalation di aggressioni mediatiche e politiche contro il Presidente Daniel Ortega.

Identici schemi per identiche politiche: appoggiare in ogni modo, finanziando e organizzando dall’esterno e dall’interno, le braccia mercenarie delle elites locali al fine di alzare il livello dello scontro fino alla soglia della guerra civile, in attesa che la risposta del governo per ripristinare l’ordine interno possa far gridare alla repressione e quindi, sostenuti dalla grancassa mediatica, tentare d’intervenire direttamente a ripristinare le oligarchie sulle poltrone da dove il voto democratico li aveva cacciati.Ma le difficoltà di Washington in America Latina sono molto maggiori di quanto non lo fossero precedentemente.

La stagione della riscossa democratica del continente, iniziata con la vittoria di Lula in Brasile e di Kirschner in Argentina, proseguita con quelle di Chavez in Venezuela, Tabarè Vasquez in Uruguay, Ortega in Nicaragua, Torrijos a Panama, Morales in Bolivia, Bachelet in Cile e Correa in Ecuador e conclusasi con Lugo in Paraguay, disegna con nettezza un’America latina progressista e affrancata dal Washington consensus con il quale gli Usa avevano pensato di poter continuare a dominare il continente a seguito della fine della stagione delle dittature militari fasciste con le quali il gigante del Nord aveva tenuto sotto il suo tallone le americhe.

Lunedi, a seguito della crisi diplomatica con gli Usa, è stato convocato un vertice dei paesi latinoamericani, fatto inedito e gravido di considerazioni positive in ordine alla sovranità continentale dell’ormai ex “giardino di casa”.

Non si tratta dunque, come suggeriscono i media italiani, sempre pronti a non capire, occupati come sono ad obbedire, di una crisi di leadership statunitense determinata dalla virata dell’attenzione militare e politica verso Iraq e Afghanistan. Perché è il nuovo assetto latinoamericano, prima che il mutato interesse geopolitico di Washington ad aver cambiato le regole del gioco.

Se addirittura l’Honduras, storicamente considerato una portaerei Usa in Centroamerica, prima aderisce all’Alba e ora congela le relazioni diplomatiche con Washington in solidarietà con Bolivia e Venezuela, è chiaro che il dominio statunitense nel continente è progressivamente scemato. Ciononostante, il dispiegamento della Sesta flotta statunitense – smantellata nel 1950 e ora riproposta con scopi “umanitari, pacifici ed ecologici”, così come il rifinanziamento del Plan Colombia, indicano che gli Usa provano a tenere e riconquistare posizioni.

D’altro canto, Brasile e Argentina provano a proporre una moneta unica latinoamericana, il Venezuela si dice pronto ad ospitare navi da guerra russe per manovre nei Caraibi e il Nicaragua riconosce le repubbliche di Abkazia e Ossezia. Chiunque da gennaio s’insedierà alla Casa Bianca, almeno in America latina non avrà vita facile.


Va in onda il golpe mancato
di Alessandro Grandi – Peacereporter – 12 Settembre 2008

L'espulsione dell'ambasciatore Usa dal Venezuela, voluta da Chavez come segno di solidarietà verso la Bolivia (che accusava Washington di interferire nelle questioni politiche interne al Paese), l'arrivo dei caccia bombardieri russi a Caracas per le esercitazioni militari di novembre, le manovre stesse insieme all'esercito di Mosca hanno fatto passare in secondo piano una notizia da prima pagina: alcune intercettazioni telefoniche trasmesse dalla tv venezuelana dimostrerebbero l'esistenza di un piano di alcuni militari per eliminare Chavez e compiere un colpo di Stato.

I fatti. Alcuni ufficiali delle forze armate avrebbero voluto, con l'aiuto di un caccia F-16 attaccare l'aereo presidenziale e prendere il controllo di Palazzo Miraflores, sede del governo del Venezuela, e delle televisioni nazionali, mettendo a segno un nuovo colpo di Stato dopo quello semi fallito del 2002.

Le intercettazioni sono state trasmesse dalla tv e l'audio è molto nitido. Protagonisti negativi della vicenda il vice ammiraglio Carlos Millan Millan, l'ex capo di Stato Maggiore della Guardia Nacional, Wilfredo Barroso Herrera, e il generale Eduardo Baez Torrealba, ex comandante logistico dell'aeronautica. Lo stesso Torrealba, che smise di comandare truppe militari dopo il colpo di stato e che fu accusato di far parte del gruppo di traditori durante le intercettazioni, è quello che maggiormente si preoccupa degli uomini a disposizione.
Ma anche Barroso Herrera ha avuto nelle telefonate intercettate un ruolo molto importante. Dai nastri si capisce chiaramente quello che dice: “L'obiettivo deve essere uno e solo uno: dobbiamo andare a prendere il palazzo Miraflores. Lo sforzo deve essere rivolto esclusivamente alla presa di Chavez”.

Le accuse. Secondo gli uomini del governo, dietro il tentativo di colpo di stato ci sarebbe l'ex ministro della Difesa Raul Isaias Baduel. Di sicuro ci sarebbero alcuni suoi stretti collaboratori, come Millan Millan, intercettato mentre discuteva del piano. Nel frattempo Chavez ha già fatto sapere che sarà aperta un'inchiesta sull'accaduto e sostiene che dietro il piano per eliminarlo ci siano gli Stati Uniti e il loro progetto “di assalto imperialista”.