martedì 16 settembre 2008

Le diverse realta’ irachene

Nel giorno in cui il generale USA Ray Odierno diventa il nuovo comandante delle forze multinazionali in Iraq, in sostituzione di David Petraeus, qui di seguito una serie di articoli che affrontano le diverse sfaccettature della realta’ quotidiana di un Paese che continua a soffrire pesantemente e che e’ ancora ben lontano da una pacificazione e soprattutto dalla liberazione del proprio territorio dai vari eserciti occupanti, milizie settarie e contractors stranieri inclusi.

Una striscia dell’Iraq 'sull’orlo dell’esplosione'
di Amit R. Paley – Washington Post – 13 Settembre 2008
(Traduzione di Ornella Sangiovanni per http://www.osservatorioiraq.it/)

JALAWLA, Iraq – I leader kurdi hanno esteso la loro autorità su una fascia di territorio lunga circa 480 km oltre i confini della loro regione autonoma nel nord Iraq, posizionando migliaia di soldati in zone etnicamente miste, in quella che gli arabi iracheni considerano una invasione dei loro territori di origine.

L’affermazione di un maggiore controllo kurdo, che ha preso piede gradualmente da quando è iniziata la guerra e fatto sì che decine di migliaia di arabi fuggissero dalle loro case, è vista dagli arabi iracheni e dai funzionari Usa come una azione provocatoria e potenzialmente destabilizzante."Entrare rapidamente queste zone per cercare di cambiarne la popolazione, e sventolare le bandiere kurde in zone che adesso non sono specificamente sotto il controllo del KRG – è controproducente e aumenta le tensioni", dice il generale Mark P. Hertling, comandante delle forze Usa nel nord dell’Iraq, riferendosi al Governo regionale del Kurdistan, che amministra la regione autonoma.

Il sogno a lungo accarezzato di molti dei 25 milioni di kurdi è uno Stato indipendente, che comprenda parti dell’Iran, Iraq, Siria, e Turchia: tutti Paesi, tranne l’Iraq, che si oppongono categoricamente all’autonomia kurda, ancor più a uno Stato kurdo. I kurdi iracheni continuano a insistere che non vogliono l’indipendenza, anche mentre espandono in modo unilaterale il territorio sotto il loro controllo in Iraq.

Nelle ultime settimane, il governo a maggioranza araba del Primo Ministro Nuri al-Maliki ha inviato l’esercito iracheno per cacciare le forze kurde da alcuni dei territori, ordinando ai soldati kurdi, noti come Peshmerga, di ritirarsi a nord del limite della regione autonoma kurda.Lo scontro fra l’esercito iracheno e i Peshmerga ha alimentato timori di un conflitto fra arabi e kurdi, proprio mentre gli iracheni iniziano a riprendersi da anni di violenza confessionale fra sciiti e sunniti.

Un viaggio di una settimana attraverso quattro province che confinano con il limite sud della regione autonoma ha mostrato chiaramente quanto sia diventata pervasiva la presenza kurda. Si sono visti combattenti Peshmerga presidiare 34 checkpoint, per la maggior parte sventolando con orgoglio la bandiera kurda, alcuni 120 km a sud del confine regionale. I kurdi dicono di avere rivendicazioni storiche verso il territorio, citando l’utilizzo della violenza e della coercizione da parte dell’allora presidente Saddam Hussein per cacciare i kurdi dalle loro terre negli anni ‘70.

Anche se i funzionari a Washington e a Baghdad si sono concentrati sul conflitto fra arabi e kurdi a Kirkuk, la città etnicamente mista, e ricca di petrolio, dove quest’anno sono state uccise più di 100 persone in violenze di tipo politico, le animosità fra i due gruppi etnici si inaspriscono in ogni parte delle province di Ninive, Ta’amim, Salahuddin,e Diyala. Arabi e kurdi in varie zone spesso hanno lamentele specifiche, il che confonde i tentativi di arrivare a una soluzione onnicomprensiva.

I leader kurdi hanno mantenuto rapporti calorosi con i funzionari Usa, che hanno visto i kurdi come alleati nel tentativo di promuovere la democrazia e la stabilità in Iraq. La regione kurda, in confronto ad altre parti del Paese, è una zona di relativa pace e prosperità. A Jalawla, una cittadina a maggioranza araba della provincia di Diyala, circa 12 km a sud del limite regionale kurdo, le autorità kurde hanno gradualmente esteso il loro ruolo nell’ultimo anno. I Peshmerga, la polizia kurda, e l’Asayesh, il servizio segreto kurdo, pattugliano tutti la regione.

Il governo kurdo fornisce una quota del budget annuale della zona - 15 milioni di dollari - maggiore di quella fornita dal governo iracheno, secondo il sindaco kurdo della cittadina, che vive a nord del limite regionale kurdo perché è più sicuro."Chi potrebbe sostenere che non abbiamo già reso questa zona parte del Governo regionale kurdo?", chiede Nihad Ali, comandante facente funzione di un distaccamento kurdo di 150 uomini attualmente di base a Jalawla, in un quartier generale che espone la bandiera kurda accanto alla forza locale di polizia araba che sta muovendo i primi passi. "Chi ha speso tutti i soldi qui? Di chi sono i martiri che hanno versato il loro sangue qui? Queste persone si affidano totalmente ai kurdi. Non possiamo abbandonarli".

Ma i residenti arabi di questa cittadina di 70.000 abitanti hanno iniziato a irritarsi per quella che hanno definito una campagna per cacciarli via dalle loro terre. Ahmed Saleh Hennawi al-Nuaimi, un leader tribale arabo di Jalawla, ed ex ufficiale dell’esercito sotto il presidente Saddam Hussein, dice che di recente i kurdi hanno incarcerato, sequestrato, e ucciso più di 40 arabi, nel tentativo di promuovere una "kurdificazione" – accuse che i funzionari kurdi respingono."Ora siamo soggetti a due occupazioni: una da parte degli americani e una da parte dei kurdi", dice Nuaimi, che sostiene che la zona è dall’ 85 al 90 per cento araba, anche se secondo le stime dei kurdi la cifra è più vicina al 50 o 60 per cento. "Quella kurda è di gran lunga peggiore, e sta spingendo le persone a diventare terroristi. Ora questa zona è sul punto di esplodere".

Dietro sollecitazione di arabi arrabbiati come Nuaimi, il mese scorso l’esercito iracheno ha ordinato alla 34a Brigata dei Peshmerga di ritirarsi entro 24 ore da Jalawla e dalla zona circostante.All’inizio i kurdi hanno rifiutato: i funzionari kurdi dicevano che uccidevano solo gli insorti, ed erano nella zona per proteggere i civili, non per occupare il territorio. Ma dopo negoziati politici ad alto livello, la brigata composta da 4.000 uomini si è ritirata nella città prevalentemente kurda di Khanaqin, circa 25 km a sud del confine kurdo. Due settimane dopo, un kamikaze che aveva come obiettivo le reclute arabe della polizia a Jalawla ha ucciso almeno 28 persone - un attacco per il quale i kurdi hanno attribuito la responsabilità agli insorti sunniti, e gli arabi ai kurdi.

La settimana scorsa, i funzionari kurdi hanno accettato anche di ritirare i Peshmerga da Khanaqin, purché l’esercito iracheno acconsentisse a non entrare."Non possiamo starcene in disparte con le mani in mano e non fare nulla nelle zone contese mentre i kurdi vengono uccisi", dice Jafar Mustafa Ali, il ministro di Stato per gli affari dei Peshmerga del Governo regionale kurdo. "Interverremo in non appena il governo iracheno se ne andrà".

Il sindaco di Khanaqin, Mohammed Mullah Hassan, dice che la città rimarrà sotto controllo kurdo anche se tutti i soldati se ne andranno. "Adesso siamo tutti Peshmerga", dice.A Khanaqin, quasi tutti i cartelli con i nomi delle strade e le conversazioni sono in kurdo. Gli edifici governativi espongono la bandiera kurda invece di quella irachena, e il ritratto di Mas’ud Barzani, il presidente del Governo regionale kurdo, invece di quello di Maliki. Ad alcuni arabi è stato detto che devono procurarsi carte di identità rilasciate dai kurdi per entrare in città."Non stiamo cercando di controllare la zona – controlliamo già la zona", dice Fuad Hussein, il capo di gabinetto di Barzani. "Adesso nelle zone contese in tutto l’Iraq esiste una realtà che non può essere ignorata".

Hussein accusa Maliki di cercare di impadronirsi di terra che appartiene ai kurdi. "Abbiamo la sensazione che qui ci sia un piano segreto", dice. "Vogliono cacciarci dalla zona. Alcuni di loro vogliono cacciare i kurdi via da tutto l’Iraq".

I leader kurdi hanno accettato di ritirare le forze dei Peshmerga da zone come Jalawla e Khanaqin per impedire qualunque erosione del controllo che esercitano su una fascia di terra grande quanto il Maryland che costituisce circa il 7 % del territorio dell’Iraq.Da una parte all’altra di quella zona, kurdi e arabi dicono che è sotto l’autorità dei kurdi, anche in quei posti in cui non c’è una forte presenza dei Peshmerga. Nonostante il destino finale di Kirkuk sia incerto, entrambe le parti riconoscono che è gestita dai kurdi: il governatore è un kurdo, la maggioranza del consiglio provinciale è kurda, i capi militari delle unità dell’esercito iracheno nella zona sono kurdi, e - a detta di entrambe le parti - il reticente Asayesh ha le migliori informazioni in città.

Molti arabi e kurdi in queste zone iniziano le conversazioni con una litania delle rispettive storie di sofferenza e oppressione. Per i kurdi, il malvagio numero uno nella loro storia recente è Saddam Hussein, la cui campagna di "arabizzazione" cacciò decine di migliaia di kurdi dalle proprie terre di origine, sostituendoli con arabi. In queste zone gli arabi iracheni adesso accusano i kurdi di impiegare tattiche simili.

Quella di dove tracciare il limite preciso della regione autonoma kurda è una delle questioni politicamente più esplosive in Iraq. La Costituzione irachena aveva chiesto una composizione finale delle diverse rivendicazioni, che includeva un censimento e un referendum. Ma la scadenza del 2007 stabilita per il referendum è passata, e adesso non è chiaro cosa accadrà. I funzionari Usa e quelli di altri Paesi occidentali, temendo che la questione potesse mettere a repentaglio i progressi nel campo della sicurezza fatti nell’ultimo anno, hanno cercato di convincere entrambe le parti ad appoggiare un processo delle Nazioni Unite per presentare dei rapporti su Kirkuk e altre zone contese come parte di una strategia per "disinnescare e impedire il referendum", dice Staffan de Mistura, capo della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Iraq. Kirkuk, alla quale i kurdi si riferiscono come "la nostra Gerusalemme" a causa del loro attaccamento emotivo e storico alla città, presenta una difficoltà particolare perché si trova – dicono le stime – sopra il 7 % delle riserve mondiali di petrolio."Diventerò uno degli uomini più ricchi del mondo", dice Ahmed Hamid al-Obaidi, Segretario Generale del blocco delle forze arabe a Kirkuk. "Non permetterei mai ai kurdi di rubare questi soldi rendendo la città parte della loro regione".

I funzionari occidentali credono sempre più che un referendum nel quale gli abitanti delle singole zone decidano se unirsi alla regione autonoma scatenerà solo un maggiore conflitto. De Mistura dice che ora l’approccio è fare in modo che i leader di ogni gruppo arrivino a un compromesso sostenibile, che venga magari in seguito confermato attraverso un referendum secco – del tipo “sì o no”.
"In ultima analisi, ciò di cui abbiamo bisogno è un accordo complessivo, non un approccio a spizzichi", dice de Mistura.

Tuttavia, i compromessi di ampio respiro sembrano remoti da luoghi come Sinjar, una cittadina malandata al confine con la Siria, che è circondata da villaggi arabi ma controllata dai kurdi. Dopo che un attentato coordinato lo scorso anno ha ucciso centinaia di Yazidi, una minoranza religiosa che alcuni considerano kurda [i Yazidi sono etnicamente kurdi NdR], le forze dei Peshmerga hanno rafforzato il loro controllo della zona, a detta degli abitanti arabi e cristiani.

Abdullah Ajil al-Yawar, un capo tribù arabo che vive vicino Sinjar, una mattina di poco tempo fa ha radunato decine di arabi della zona nella sua abitazione. Essi hanno raccontato come le forze kurde li avevano cacciati dalle loro case, arrestati, e torturati in carceri nella regione kurda, impedendogli di lanciare il loro partito politico."Sono come la Gestapo", diceYawar. "Il modo in cui trattano la gente è lo stesso di quello che usava Saddam Hussein".

Sarbest Terwaneshy, il leader del Partito democratico del Kurdistan a Sinjar, che i funzionari Usa e quelli delle Nazioni Unite definiscono la figura più potente della regione, nega le accuse contro i Peshmerga, e dice che i combattenti sono nella zona solo per provvedere alla sicurezza."Se i Peshmerga se ne andranno, tutti se ne andranno in un enorme esodo", dice. "Senza i kurdi, il massacro dello scorso anno verrebbe ripetuto decine di volte".


La croce e il Kalashnikov
di Naoki Tomasini – Peacereporter – 15 Settembre 2008

Le violenze settarie che hanno insanguinato l'Iraq negli ultimi tre anni hanno cambiato la faccia del paese e hanno spinto le diverse comunità a raccogliersi per trovare protezione. Alcune, sull'esmpio dei consigli del Risveglio, le milizie tribali sunnite che oggi sono alleate con gli Usa nella lotta contro Al Qaeda in Mesopotamia, hanno organizzato dei piccoli gruppi di autodifesa cittadina o di quartiere. Accade anche nel piccolo villaggio di Tel Asquf, nella provincia settentrionale di Niniveh, dove la sicurezza dei cittadini è protetta dalla prima milizia composta da cristiani.

Non lontano dalla città di Mosul, Tel Aqsuf è un villaggio abitato in maggioranza da caldei e cattolici, che per questo motivo è stato più volte oggetto di attacchi da parte di milizie, sia sunnite che sciite. Le violenze contro i cristiani sono un fenomeno in crescita nell'Iraq di oggi, in parte perchè vengono visti come alleati degli invasori, ma anche perchè i loro costumi, che ad esempio legittimano uso e vendita di alcolici, sono considerati oltraggiosi nel clima di crescente radicalismo islamico che si respira nel paese. L'abitato è circondato da cumuli di sabbia costruiti dai residenti per contrastare le autobombe, mentre le strade sono pattugliate dalla milizia locale, senza divisa e con in braccio il consueto kalashnikov. “I terroristi vogliono ucciderci perché siamo cristiani – ha raccontato il capo della milizia, Abu Nataq, all'Afp – se non ci difendiamo da soli chi lo farà per noi?”.

Abu Nataq racconta che in passato gli abitanti del villaggio pagavano una somma alle milizie sunnite, per non essere colpiti da attentati. Non potevano chiedere aiuto alla capitale provinciale perché a Mosul la popolazione è in maggioranza sunnita, e del resto anche lì la situazione della sicurezza è ben lungi dall'essere sotto il controllo delle autorità. Così decisero di rivolgersi al governo di Erbil, città abitata in maggioranza da curdi. Da allora la situazione nel villaggio è decisamente migliorata. Oggi i peshmerga, la milizia curda, forniscono kalashnikov e radio a 200 di loro, li pagano 200 dollari al mese per proteggere gli ottomila abitanti del villlaggio. Pattigliano le strade del centro e gli obbiettivi sensibili, come la cattedrale cattolica e caldea di San Giorgio. Tuttavia, da quando è stata istituita la milizia, dieci mesi fa, i miliziani con la croce al collo non hanno ancora sparato un colpo. Il merito è di nuovo delle forze peshmerga, che si occupano della difesa del perimetro esterno del centro abitato.

Prima dell'invasione del 2003, i cristiani in Iraq, in maggioranza caldei, erano circa 300mila. Oggi non ci sono cifre aggiornate, ma è certo che una larga fetta di quelli ha lasciato il paese o sono diventati Idp, sfollati interni. Anche gli attacchi contro di loro non si fermano: lo scorso gennaio a Mosul, diverse chiese vennero colpite da bombe durante le celebrazioni dell'epifania, e marzo, sempre a Mosul, venne ucciso l'arcivescovo Paulos Faraj Rahho. L'ultimo episodio è avvenuto lo scorso 5 settembre, quando due cristiani furono rapiti e poi uccisi. In uno dei due casi, quando l'ostaggio fu ucciso, la famiglia aveva già pagato il riscatto. Secondo i dati del ministero iracheno per i Diritti Umani, i cristiani uccisi in Iraq dal 2003 al 2007 sono stati 172 e attualmente gli sfollati interni sarebbero circa 9mila.


I muralisti di Baghdad resistono alle pressioni verso temi settari
di Brian Murphy – Peacereporter – 13 Settembre 2008
Traduzione di Domenico Polito

E’ l’arte che abbellisce la vita: murali di paesaggi rassicuranti e di eroi storici sulle mura anti-bomba che al momento sono parte del paesaggio cittadino di Baghdad, insieme alle palme e alla polvere del deserto.

L’idea decollò lo scorso anno quando gruppi di volontariato iracheni cercarono di dare lavoro ai giovani artisti, e offrirono un po’ di speranza e una macchia di colore a una città il cui tratto distintivo è il marrone chiaro. Ma superare completamente i sospetti settari in Iraq si è rivelato una sfida. Molti membri del gruppo fondatore di artisti stanno abbassando i pennelli per protestare contro le richieste dei consigli locali di dipingere temi settari con un valore politico, come i santuari sunniti nei distretti sunniti o i santi sciiti nelle aree sciite. “Preferiamo rifiutare piuttosto che fare quel lavoro” afferma Ali Saleem Badran, componente del gruppo originario di muralisti del Jamaat al-Jidaar, detto anche Gruppo del Muro. “Non è quello il messaggio che dovrebbe trasmettere questo lavoro”. Ma questo non è altro che un esempio di ciò che è diventata Baghdad: un manto di enclavi sunnite e sciite dopo anni di omicidi religiosi e di minacce. Mentre alcune famiglie di sfollati stanno attraversando le linee e ritornano ai loro vecchi quartieri man mano che la violenza declina, la capitale non potrà mai riconquistare quel suo ruolo di terra di vera mescolanza per i gruppi etnici e religiosi dell’Iraq.

Il progetto dei murali ebbe inizio nel 2007 quando gruppi civici iracheni avvicinarono aspiranti artisti e studenti, tra cui Badran che era al suo ultimo anno di scuola dell’arte. Centinaia di lastre di cemento - ognuna circa 3 metri e mezzo di altezza per 1 metro e 80 di larghezza, con la funzione di proteggere da autobombe e altre minacce - venivano gradualmente trasformate in gallerie d’arte a cielo aperto con lo scopo di risollevare l’umore e di accendere l’ottimismo. E’ un po’ la versione di Baghdad di altri episodi simili dell’arte contro l’avversità, proprio come era successo con i muarali del New Deal durante la grande Depressione o con il groviglio di messaggi e figure sul lato occidentale del muro di Berlino. Ma i malumori sono iniziati pochi mesi fa, racconta Badran, quando il programma fu trasferito dalla debole sorveglianza del governo ai consigli locali che cominciarono a suggerire immagini settarie. Molti degli artisti originari si sono rifiutati di partecipare. Dilettanti locali hanno spesso ripreso il lavoro con meno raffinati -ma ancora potenti- riferimenti alle radici sia sunnite sia sciite. Vogliono impossessarsi di un’idea che era nata per unire la città per sottolineare le cose che ci dividono” dice Badran, che adesso insegna all’Accademia di Belle Arti nella zona nord di Baghdad.

Gli ufficiali della città hanno cercato di sopprimere i palesi simboli religiosi, ma dando uno sguardo ai kilometri di mura anti-bomba questo tentativo appare impossibile. La cosa migliore che possono fare è quella di lanciare appelli di riconciliazione. “Questo è l’anno della ricostruzione. Questo è l’anno della costruzione”, dice Tahseen al-Sheikhly, portavoce civile per le operazioni di sicurezza a Baghdad. Al momento, la maggior parte dei dipinti sulle mura anti-bomba sono apolitici, e ritraggono temi sul passato della regione come la Mesopotamia, la cultura sumera e assira, e temi che fanno di Baghdad il cuore intellettuale del mondo medioevale islamico. Altri riportano i leggendari Giardini Pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico, o gli ziggurat, torri di templi piramidali che una volta costellavano la valle Mesopotamica. Altri ancora dipingono scene stilizzate dei miti e della letteratura araba- i racconti di Scheherazade sono il soggetto favorito- o la natura selvaggia come cavalli arabi al galoppo o navi nel fiume Tigri.
Sorprendentemente, nessun murale sembra aver subito atti vandalici significativi, come anche gli altri graffiti visti sulle mura spoglie, quali slogan scribacchiati e scritte pubblicitarie nascoste dietro le barriere di cemento. Un barbiere cercò di attirare clienti con una canzoncina che in arabo fa rima: “Salta e mi troverai.”
L’aura di inattività intorno ai murali potrebbe essere dovuta al timore delle pattuglie di sicurezza irachene o della sorveglianza aerea irachena. A Badran piace pensare che è rispetto. “La gente sa che questi murali rappresentano una specie di speranza”, racconta. “ Perché mai dovrebbero rovinarli? Significherebbe che non vogliono che le cose migliorino.” Qasim Sabti, che gestisce una delle più conosciute gallerie d’arte di Baghdad, dice di aver incoraggiato circa venti giovani artisti ad unirsi al progetto dei murali nelle sue prime fasi, e denuncia il tentativo di una spinta verso immagini settarie. “Queste pressioni sono inaccettabili per ogni artista che si rispetti,” dice Sabti. “Noi, in quanto comunità di artisti, non possiamo che rifiutarle.”


Moqtada si rifà il trucco
di Naoki Tomasini – Peacereporter – 27 Agosto 2008

Aveva poco più di trent'anni Moqtada al Sadr, quando gli Stati Uniti invasero l'Iraq nel 2003. Era un giovane religioso di un'importante famiglia sciita di Najaf e, in pochi anni, sarebbe diventato il leader della più potente e temuta milizia sciita del paese, l'esercito del Mahdi. Da alcuni mesi però, il suo controllo sulle milizie è andato scemando, ma lui sembra avere altri progetti, sia per quelle che per sé stesso. Al Sadr potrebbe aver deciso che il suo futuro stia nella politica piuttosto che nella violenza e le sue ultime scelte sembrerebbero confermare questa tendenza. Tuttavia, c'è anche chi pensa che non avesse alternative. Lo scorso 20 agosto il portavoce di Sadr, Salah al Ubaydi, annunciava: “Le cellule speciali saranno il solo corpo (dell'esercito del Mahdi) autorizzato a portare armi. Per tutti gli altri gruppi del movimento è proibito occuparsi di azioni militari”.

L'annuncio è doppio, da un lato l'esercito del Mahdi diventa una specie di associazione culturale, dall'altro, vengono creati dei corpi speciali scelti dallo stesso Sadr, che si occuperanno in esclusiva della resistenza all'occupazione Usa. Da mesi Sadr ammetteva infiltrazioni nella sua milizia da parte di personaggi criminali o al soldo di Iran e Usa i quali, a suon di violenze e abusi, avevano alienato il sostegno popolare all'esercito del Mahdi, un tempo acclamato dai civili attorno a Baghdad e nel sud del Paese. “I distruttori della reputazione del Mahdi” chiamava i dissidenti. Così, per ristabilire il buon nome del suo movimento e ribadire il diritto alla resistenza finché il paese sarà occupato, Sadr ha deciso di trasformare le sue armate negli Al Mumahhidun (coloro che preparano la via per la ricomparsa del 12mo imam, il Mahdi). Questi gruppi si occuperanno di progetti sociali e culturali, non di politica. È un progetto nato nel 2006, quando il movimento sadrista promosse una campagna contro l'analfabetismo, ma sarà allargato a milioni di persone che, per i motivi più disparati, non hanno potuto completare gli studi. Una delle immediate conseguenze del congelamento delle milizie è che molti degli elementi fuori controllo probabilmente lascerano il Mahdi per unirsi a gruppi più attivi.

Il portavoce di Sadr ci tiene a ricordarlo: non si insegnerà solo religione. La visione politica che verrà trasmessa non sarà quella di uno stato islamico iracheno, “spingeremo la gente a pensare a un Iraq unito - spiega al Ubaydi – indipendentemente da ogni ideologia settaria, religiosa o nazionalistica”. Il portavoce di Sadr critica le istituzioni culturali vicine al goveno di Baghdad e agli Usa perché in quelle, a suo dire, si insegna che la responsabile delle violenze di questi anni sia stata la religione, che ha poi creato il conflitto settario. La posizione del movimento sciita, invece, è che in Iraq non ci sia stato alcun conflitto settario, ma solo “atti terroristici commessi da terroristi”. Un motivo in più per limitare le armi in circolazione e stringere le briglie delle proprie milizie, decine di migliaia di uomini, coinvolgendole in una resistenza culturale su scala nazionale. I progetti, annuncia il portavoce di Sadr, saranno gestiti dal centro culturale Baqiyyatallah e dall'Alta Commissione per la Cultura. Quanto ai finanziameni, le spese saranno sostenute con gli stessi investimenti finanziari dell'esercito del Mahdi e, sostengono, nulla è stato chiesto alle autorità religiose.

Come anticipato, le cellule speciali saranno corpi scelti dallo stesso Sadr che avranno il solo scopo di combattere l'occupazione. La loro formazione, però, è stata rimandata a dopo l'incontro di venerdì 22, tra il segreterio di Stato Usa Condoleezza Rice e il premier iracheno Al Maliki, che hanno discusso del futuro delle truppe Usa nel paese. Il giorno successivo, alcune migliaia di sostenitori di Sadr marciavano per le strade di Kufa gridando il proprio sdegno per un accordo “di cui gli iracheni non sanno nulla” e che “apre la strada a una colonizzazione permanente dell'Iraq”. É forse un segnale che le cellule della resistenza del Mahdi stanno per entrare in azione sotto la guida di Sadr? Forse no, visto che il 23 agosto un suo stretto collaboratore, rimasto anonimo, annunciava che il 35enne capo del Mahdi si starebbe per trasferire in Iran, per almeno cinque anni. L'aveva già annunciata da tempo, Sadr, la decisione di trasferirsi a Qom per continuare gli studi religiosi e diventare Ayatollah, una carica che gli darebbe l'autorità necessaria per guidare un movimento politico sciita in Iraq e contrastare la voce di Ali Al Sistani, la massima autorità sciita irachena, da anni gravemente malato.

La svolta di Sadr e la decisione di cambiare il volto del suo movimento segue le dure sconfitte che l'esercito del Mahdi ha subito per mano delle forze Usa e Irachene, durante le offensive degli utlimi mesi a Baghdad, Bassora e Amarah. Una coincidenza che ha fatto nascere il dubbio che, più che di una svolta, si tratti di un ripiego. Secondo lo studioso statunitense del mondo sciita Vali Nasr, la scelta di rimanere in Iran sarebbe “un modo per salvare la faccia”, mentre in realtà il religioso non sarebbe libero di andarsene: “è ospite del governo iraniano che lo controllerà - ha spiegato Nasr – fino a quando non gli avranno completamente alienato il controllo dell'esercito del Mahdi”.